Abstract
Viene analizzato il tema dei diritti sindacali nei luoghi di lavoro, di cui ai titoli II e III della l. 20.5.1970, n.300, cercando di indagare, in via generale, le problematiche inerenti alla natura ed alla titolarità degli stessi, nonché, le specifiche discipline e criticità proprie di ciascun diritto di derivazione statutaria. Si cerca, inoltre, di dare conto dei diritti sindacali di informazione e controllo di origine contrattual collettiva e legislativa, al di fuori delle norme della l. n.300/1970.
L’accoglimento nel nostro ordinamento del principio di libertà sindacale di cui al co. 1 dell’art. 39 Cost. quale norma immediatamente precettiva e, dunque, direttamente operativa nei rapporti tra privati, ha consentito che la stessa libertà si evolvesse da principio astratto a “diritto sindacale” interno all’impresa.
L’operazione è avvenuta, nel periodo di passaggio dal cd. astensionismo legislativo alla legislazione di sostegno in materia sindacale, da un lato, con il riconoscimento nei confronti di qualsivoglia organizzazione sindacale, ad opera della l. 30.5.1970, n. 300 (meglio nota come Statuto dei Lavoratori) di una generale garanzia di libertà ed attività sindacale in azienda (art. 14) accompagnata da una disciplina relativa agli atti ed ai trattamenti economici collettivi discriminatori (artt. 15 e 16), nonché al divieto di costituzione di sindacati di comodo (art. 17). Dall’altro lato, allo scopo di garantire un effettivo contropotere sindacale in azienda, funzionale alla tutela degli interessi dei lavoratori e foriero di diritti normativamente tipizzati, il legislatore dello Statuto ha previsto, nel titolo III, tutele tipiche aggiuntive rispetto alle garanzie generali di cui sopra. Tutele che, comprimendo e condizionando il potere organizzativo e direttivo dell’imprenditore, possono essere accordate soltanto a sindacati particolarmente qualificati e, cioè, ai sindacati rappresentativi che a norma dell’art. 19 della stessa l. n. 300/1970 possono costituire rappresentanze sindacali aziendali (e/o rappresentanze sindacali unitarie, v. anche Accordo Interconfederale del 20.12.1993, nonché, da ultimo, Testo Unico sulla rappresentanza sindacale del 10.1.2014).
Le disposizioni statutarie non esauriscono, però, il novero dei diritti sindacali che ricomprendono anche, in virtù di disposizioni normative e/o di previsioni contrattual collettive, i cd. diritti di informazione, consultazione e controllo in relazione alle scelte organizzative ed industriali dell’impresa.
Se, dunque, il legislatore statutario con il titolo II della l. n. 300/1970 intende riaffermare la garanzia della libertà sindacale nei luoghi di lavoro, sancendo il diritto per tutti i lavoratori di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, assicurandone l’effettività con la previsione di norme antidiscriminatorie e di ostacolo al fenomeno dei sindacati di comodo, con il titolo III della stessa legge realizza un quid pluris, mettendo a disposizione di organismi sindacali qualificati situazioni soggettive attive in grado di comprimere i poteri direttivi ed organizzativi del datore di lavoro. Il datore di lavoro, infatti, a fronte della prefigurazione di situazioni attive, viene posto in una condizione di obbligo e di soggezione che si concretizza nel dover consentire la realizzazione di specifiche attività con la correlativa sottrazione di energie lavorative al processo produttivo (ad es. indizione svolgimento dell’assemblea), nell’imposizione di un’attività collaborativa (ad es. concessione di spazi per le affissioni) od ancora nella limitazione all’esercizio di poteri datoriali tipici (ad es. nell’ipotesi di trasferimento di dirigente di RSA).
Ne discende che i diritti sindacali garantiti dal titolo III della l. n. 300/1970, proprio per la loro natura, non possano essere accordati a qualsiasi organizzazione sindacale, come avviene per la libertà di cui all’art.14 l. n. 300/1970, ma soltanto ad organizzazioni sindacali responsabili ed affidabili, selezionate dal legislatore, proprio a partire dallo Statuto dei lavoratori, alla stregua di un genuino criterio rappresentativo nell’ambito del quale siano costituite nei luoghi di lavoro rappresentanze sindacali aziendali (art.19 l. n. 300/1970) e/o rappresentanze sindacali unitarie (Accordo Interconfederale del 20.12.1993 e Protocollo del 23.7.1993).
Sotto questo profilo, pertanto, il tema della titolarità dei diritti sindacali richiama il più ampio e complesso tema della rappresentanza e della rappresentatività sindacale nell’impiego privato che, di recente si è arricchito di nuovi spunti di criticità e di dibattito in virtù della sentenza della Corte costituzionale, 23.7.2013, n. 231, degli Accordi interconfederali del 28.6.2011, 31.5.2013 e 10.1.2014 in tema di RSA ed RSU, nonché delle recenti proposte di legge in materia.
Come in precedenza accennato, il titolo II della l. n. 300/1970 costituisce la concretizzazione a livello aziendale del principio costituzionale di libertà dell’organizzazione sindacale, garantendo, rispettivamente, all’art. 14 il diritto per tutti i lavoratori di costituire associazioni sindacali e di svolgere attività sindacale nei luoghi di lavoro, agli artt.15 e 16 il divieto di atti o trattamenti collettivi discriminatori ed all’art.17 il divieto di istituzione di sindacati di comodo.
D’altro canto, la garanzia della libertà sindacale di cui all’art. 14, pur costituendo l’affermazione del diritto dei singoli ad associarsi sindacalmente nei luoghi di lavoro, nonché rappresentando la tutela del pluralismo e del dissenso sindacale (permettendo l’operatività di organismi sindacali al di fuori dell’art.19 e di organizzazioni collettive spontanee di carattere transitorio), a differenza delle tutele tipiche di cui al titolo III, incontra il pregnante limite, insito nei rapporti di forza tra le parti del rapporto di lavoro, della salvaguardia del normale svolgimento dell’attività aziendale, comprimibile solo in caso di sciopero e nelle ipotesi espressamente previste dalla legge (titolo III l. n. 300/1970).
Peraltro, il riconoscimento della libertà sindacale nei luoghi di lavoro trova un efficace corollario nel divieto di atti e trattamenti discriminatori degli artt.15 e 16.
L’art. 15, sancisce il divieto di atti discriminatori del datore di lavoro che colpiscano il lavoratore sia al momento dell’assunzione (co. 1, lett. a) sia in corso di rapporto (co. 1, lett. b), prevedendo la nullità di qualsiasi patto o atto diretto a pregiudicare il lavoratore «a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero» o per motivi politici e religiosi. La norma, inoltre, è considerata strutturalmente aperta e solo teleologicamente determinata, nonché non tassativa sotto il profilo dei motivi di discriminazione vietata.
L’art. 16 vieta l’erogazione da parte del datore di lavoro di trattamenti economici collettivi discriminatori, tesi a favorire l’appartenenza o l’astensione dall’azione sindacale, prevedendo non solo la cessazione del comportamento lesivo su richiesta dei sindacati lesi, ex art. 28 l. n. 300/1970, ma anche la condanna del datore di lavoro al pagamento di una somma pari all’importo dei trattamenti di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno al Fondo pensioni dell’Inps, su richiesta dei singoli lavoratori discriminati o dei sindacati loro mandatari (co. 2).
Il medesimo fine di salvaguardia delle dinamiche sindacali aziendali viene perseguito con la disposizione dell’art.17 che vieta ai datori di lavori od alle loro associazioni di «costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori», colpendo così il cd. fenomeno dei sindacati di comodo o sindacati gialli. Anche in questa ipotesi si potrà utilizzare lo strumento dell’art. 28 l. n. 300/1970 per richiedere la cessazione del comportamento illegittimo, cessazione che non potrà però spingersi sino allo scioglimento del sindacato di comodo, comunque tutelato dalla previsione della libertà di associazione di cui all’art.18 Cost.
La riaffermazione del principio di libertà sindacale in azienda con le previsioni di cui al titolo II della l. n. 300/1970 non sarebbe di certo stata dirompente se non avesse comportato l’attivazione di ulteriori situazioni strumentali di sostegno alla presenza ed all’attività sindacale nei luoghi di lavoro, posta la soggezione di quella libertà ai rapporti di forza tra lavoratori ed imprenditore con l’incombenza del potere organizzativo del datore di lavoro, sorretto dalle ragioni di produttività ed efficienza dell’impresa. Così i diritti sindacali garantiti dal titolo III della l. n. 300/1970 attribuiscono a soggetti collettivi ed a singoli diritti per il cui esercizio è consentita una naturale interferenza e compressione della sfera di attività datoriale, condizionando e limitando l’utilizzo del personale, nonché sospendendo l’attività aziendale.
Da qui, la previsione, non soltanto di una limitazione selettiva nella titolarità di quei diritti alle sole RSA (ed ora anche alla RSU, secondo gli accordi istitutivi), ma anche la disposizione di limiti funzionali e/o quantitativi nell’esercizio del diritto (v. ad es. per il diritto di assemblea il limite funzionale delle materie oggetto della stessa assemblea o il limite quantitativo sulle ore di fruizione del diritto).
Peraltro, il disegno legislativo di sostegno e promozione del fenomeno sindacale in azienda, comprensivo, dunque, del diritto alla costituzione delle RSA, risulta limitato come ambito di applicazione alle sole imprese, rimanendone escluso il fenomeno dei datori di lavoro non imprenditori, e all’interno delle stesse imprese a ciascuna unità produttiva (o ambito comunale con più unità produttive) che abbia più di 15 dipendenti, per le imprese industriali o commerciali, ovvero più di 5 dipendenti per le imprese agricole (art. 35, co. 1-2, l. n. 300/1970). L’esclusione delle imprese di piccole dimensione sarebbe giustificata dall’esigenza di evitare in ambienti lavorativi ristretti logiche eccessivamente conflittuali nei rapporti tra datore di lavoro e lavoratori, mentre quella dei datori di lavoro non imprenditori (sindacati, partiti) dipenderebbe dalla finalità non economica e sociale della loro costituzione.
Gli strumenti dell’assemblea e del referendum, rispettivamente disciplinati agli artt. 20 e 21 della l. n. 300/1970, hanno quale funzione precipua quella di consentire a tutti i lavoratori di partecipare alle politiche contrattuali e sindacali. Così il co. 1 dell’art. 20 attribuisce a tutti i lavoratori occupati nell’unità produttiva, compresi quelli il cui rapporto di lavoro è sospeso (scioperanti, collocati in cassa integrazione guadagni), il diritto di riunirsi in assemblea durante l’orario di lavoro, nel limite di dieci ore annue retribuite, o fuori dall’orario di lavoro senza limiti di tempo. Secondo la Cassazione (Cass., 30.8.2010, n. 18838; Cass., 22.7.2010, n. 17217; Cass., 21.7.2009, n. 16936) il limite delle dieci ore annue retribuite va riferito alla collettività per la quale l’assemblea è indetta e non ai singoli lavoratori, divenendo, quindi, un limite per la convocazione dell’assemblea da parte delle RSA. Del resto, il potere di convocare l’assemblea spetta a norma del co. 2 dell’art. 20, alle RSA, congiuntamente o singolarmente (secondo l’ordine di convocazione comunicato al datore di lavoro) ed ora anche alla RSU, secondo gli accordi istitutivi. Inoltre, ricordiamo come, ai sensi dell’art. 4, co. 5, dell’Accordo interconfederale del 20.12.1993 istitutivo proprio delle RSU (articolo ripreso dal recente Accordo Interconfederale del 10.1.2014, noto come Testo Unico sulla rappresentanza) tre delle dieci ore di assemblea retribuite sono attribuite alle organizzazioni sindacali aderenti alle associazioni firmatarie del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva.
L’oggetto dell’assemblea, deve riguardare «materie di interesse sindacale e del lavoro», da indicarsi nell’ordine del giorno; la convocazione dell’assemblea deve, poi, essere preventivamente comunicata al datore di lavoro per consentirgli di predisporre le misure organizzative atte a fronteggiare la sospensione dell’attività lavorativa da parte dei partecipanti all’assemblea, nonché per permettergli la predisposizione di locali idonei allo svolgimento dell’assemblea stessa. All’assemblea potranno partecipare «previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la RSA» (co. 3, art. 20), mentre, risulta pacifico, pur nel silenzio della legge, che il datore di lavoro, né i suoi dirigenti, quali alter ego dell’imprenditore, possano parteciparvi.
L’altro strumento diretto alla partecipazione di tutti i lavoratori alle decisioni ed alle politiche contrattuali e sindacali è il referendum (Referendum nei luoghi di lavoro), disciplinato dall’art. 21 della l. n. 300/1970. Anche in questa ipotesi il diritto di indizione è assegnato alle RSA, che potranno però esercitarlo solo congiuntamente (ovvero dalla RSU se esistente). Il referendum che potrà avere oggetto generale, riferibile cioè all’intero personale dell’unità produttiva, o particolare, essendo riferito ad una sola categoria di prestatori di lavoro, dovrà svolgersi fuori dall’orario di lavoro e dovrà riguardare «materie inerenti all’attività sindacale». Il datore di lavoro dovrà consentire lo svolgimento del referendum «nell’ambito aziendale» rendendo disponibili e accessibili i locali predisposti per il suo svolgimento.
Il ricorso allo strumento non è stato frequente nella nostra esperienza sindacale, anche perché la giurisprudenza si è mostrata concorde nell’accordare all’esito referendario una mera efficacia interna e, dunque, squisitamente politica nei rapporti tra rappresentanza sindacale e lavoratori (Cass., 28.11.1994, n. 10119). Ad oggi la situazione sembra evolversi in virtù della stipulazione dell’Accordo Interconfederale del 28.6.2011 che ha attribuito nuova valenza all’istituto referendario in relazione al tema dell’efficacia della contrattazione collettiva aziendale, nonché dall’emanazione dell’art. 8 del d.l. 13.11.2011, n. 138, convertito dalla l. 14.9.2011, n. 148.
Il sostegno e la promozione dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro si concretizza anche attraverso la garanzia alle RSA (e/o RSU) della disponibilità di spazi per la comunicazione attraverso affissione e di idonei locali per riunirsi.
L’art. 25 della l. n. 300/1970 garantisce alle RSA il diritto di affiggere, in appositi spazi, «pubblicazioni, testi e comunicati» inerenti «a notizie di interesse sindacale e del lavoro», con il conseguente obbligo, gravante sul datore di lavoro, di concedere all’interno dell’unità produttiva tali spazi «in luoghi accessibili a tutti i lavoratori», dovendosi, peraltro, astenere da qualsiasi ingerenza sui contenuti del materiale affisso. Del resto, la Cassazione ha precisato come «la qualificazione del materiale come inerente a materie di interesse sindacale e del lavoro» dipenda dalla scelta compiuta dall’organizzazione sindacale che nella stessa assunzione di un argomento quale oggetto della propria azione lo rende qualificabile come di interesse sindacale (Cass., 23.3.1994, n. 2808). Il diritto ad un proprio spazio di affissione deve essere riconosciuto a ciascuna RSA (Cass., 3.2.2000, n. 1199) ed, una volta ottenuto il proprio spazio, la stessa rappresentanza avrà diritto a tutelare il bene contro eventuali aggressioni di terzi.
In aggiunta a spazi idonei ove affiggere documentazione sindacale, le RSA, in virtù dell’art. 27 della l. n. 300/1970, hanno diritto ad utilizzare, in ciascuna unità produttiva con più di 200 dipendenti, un idoneo locale comune permanentemente messo a disposizione dal datore di lavoro, sito nella stessa «unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa». Nelle unità produttive con meno di 200 dipendenti viene meno il requisito della permanente disponibilità, dovendosi richiedere il locale di volta in volta. Ovviamente il locale potrà essere utilizzato soltanto per l’esercizio di funzioni sindacali e, per motivi di sicurezza, soltanto durante l’apertura dell’unità produttiva.
Seppur inserito nel titolo III della l. n. 300/1970, dedicato alle RSA ed alle loro prerogative, l’art. 26, co. 1, prevede il diritto dei singoli lavoratori di svolgere attività di proselitismo e collettaggio sindacale nei luoghi di lavoro a sostegno «delle loro organizzazioni sindacali», potendosi, dunque, qualificare come una ulteriore attuazione del generale diritto di libertà e attività sindacale nei luoghi di lavoro. Secondo la dottrina prevalente si ritiene che l’attività di proselitismo e collettaggio debba essere limitata al fine sindacale, non potendosi estendere ad altri fini (politici, religiosi). L’attività incontra, poi, il limite del «normale svolgimento dell’attività aziendale», rimarcando l’eccezionalità e la tassatività delle ipotesi previste dal titolo III della l. n. 300/1970, laddove l’interesse di sindacati selezionati può giungere sino alla compressione dell’interesse alla produzione.
Nella sua versione originaria, l’art. 26 prevedeva due ulteriori commi, abrogati dal referendum dell’11.6.1995, che disponevano il diritto delle associazioni sindacali di percepire i contributi sindacali attraverso una trattenuta sulla retribuzione effettuata dal datore di lavoro su richiesta del lavoratore interessato, attraverso apposita delega (il sistema era stato poi esteso alle prestazioni erogate dal datore di lavoro per conto degli enti previdenziali). Si trattava di un notevole sostegno legale verso tutti i sindacati, laddove la trattenuta alla fonte creava un modello certo e tempestivo per la gestione finanziaria dell’organizzazione sindacale. A seguito dell’abrogazione referendaria della disposizione legale, i più rilevanti contratti collettivi nazionali di categoria hanno riproposto e ripropongono la previsione statutaria, dovendo però soggiacere alle conseguenze della loro limitata efficacia soggettiva, operante nei confronti delle sole parti stipulanti. Da qui, i numerosi tentativi della dottrina e della giurisprudenza di fondare sugli istituti civilistici della delegazione di pagamento (art. 1268 ss. c.c.) e della cessione del credito (art. 1260 ss. c.c.) l’obbligo del datore di lavoro ad effettuare la trattenuta salariale in virtù di una posizione soggettiva attiva del sindacato e del lavoratore. Tentativi conclusisi con la pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., S.U., 21.12.2005, n. 28269) nella quale si è ipotizzata la configurabilità di un obbligo datoriale quale cessione parziale del credito retributivo, laddove, l’istituto non richiede, salvo i casi di eccessiva onerosità, il consenso del debitore ceduto.
Non bisogna dimenticare, poi, come ad oggi, il tema acquisti una nuova rilevanza, laddove, negli Accordi Interconfederali del 28.6.2011, 31.5.2013 e 10.1.2014, il conferimento della delega al pagamento del contributo sindacale diviene strumento (sotto il profilo del dato associativo da coniugarsi con il dato elettorale nelle elezioni delle RSU) per la misurazione e la certificazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali ai fini della contrattazione nazionale di categoria.
Gli artt. 23 e 24 della l. n. 300/1970, per facilitare l’esercizio dell’attività sindacale in azienda, prevedono, poi, per i «dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali» il diritto a permessi retribuiti e no. I permessi dell’art. 23 sono, dunque, retribuiti (con riferimento al trattamento retributivo ordinario) ed i titolari del diritto, i dirigenti delle RSA, per poterlo esercitare devono esclusivamente darne comunicazione al datore di lavoro 24 ore prima della fruizione, tramite la RSA, non essendo tenuti ad indicare i motivi della richiesta.
Del resto, il diritto ai permessi risulta «pieno ed incondizionato» escludendo ogni potere discrezionale di autorizzazione o concessione da parte del datore di lavoro (Cass. 14.1.2003, n.454), salva l’eventuale contestazione ex post, nell’ambito di un procedimento disciplinare, dell’eventuale utilizzo per fini personali del permesso (Cass., 22.4.1992, n.4839). Limiti, poi, vengono posti in relazione al numero dei possibili fruitori del permesso in proporzione al numero dei dipendenti occupati nell’unità produttiva (artt. 23, co. 2), nonché in relazione al cd. monte ore e, cioè, rispetto al numero massimo delle ore di permesso di cui il rappresentante può fruire, otto ore al mese per le unità produttive con più di 200 dipendenti ed un’ora all’anno per dipendente nelle unità produttive minori (art. 23, co. 3). Quest’ultimo limite, peraltro, è derogabile da parte della contrattazione collettiva.
L’art. 24 prevede, poi, un diverso diritto a permessi non retribuiti per i dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, nell’ambito, però, più ristretto della «partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale», con il limite quantitativo di otto giorni all’anno, previa comunicazione al datore di lavoro, tramite la RSA, «di regola tre giorni prima» della fruizione del permesso.
In entrambe le ipotesi normative l’identificazione dei soggetti qualificabili come «dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali» è rimessa alle stesse rappresentanze, a tal fine attribuendosi rilievo alla comunicazione che consente al datore di lavoro di conoscere i nominativi dei lavoratori ai quali riconoscere i diritti in oggetto. Le stesse prerogative sono state, poi, di recente estese al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art. 50, co. 2, d.lgs. 9.4.2008, n.81).
Si prevede, poi, all’art. 22 della l. n. 300/1970 che i dirigenti delle RSA non possano essere trasferiti dalla propria unità produttiva, a meno che non si ottenga il «nulla osta» dalla associazione sindacale di appartenenza, non essendo, dunque, sufficiente in tale ipotesi la sussistenza delle «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive», di cui all’art. 2103 c.c., come per ogni altro lavoratore. La speciale tutela accordata, al fine di evitare eventuali ritorsioni imprenditoriali, si applica sino alla fine dell’anno successivo a quello in cui è cessato l’incarico.
L’ulteriore tutela prevista nei confronti dei dirigenti sindacali interni è prevista dagli ultimi quattro commi dell’art. 18 della l. n. 300/1970 in materia di licenziamento. Innanzitutto, a livello processuale, il dirigente sindacale potrà essere reintegrato nel posto di lavoro, prima della sentenza definitiva, con ordinanza, emessa in ogni stato e grado del giudizio, laddove il giudice ritenga «irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro», su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato di appartenenza. Inoltre, qualora il datore di lavoro non ottemperasse all’ordine giudiziale di reintegra lo stesso verrà condannato al «pagamento a favore del fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore» per ogni giorno di ritardo nella reintegrazione.
Al di fuori del titolo III della l. n. 300/1970 e, pertanto al di fuori dei limiti d’applicazione relativi alla tipologia ed alle dimensioni del datore di lavoro di cui all’art. 35, l’art. 30 prevede per i dirigenti provinciali e nazionali delle RSA il diritto a permessi retribuiti «per la partecipazione alle riunioni degli organi» direttivi e provinciali o nazionali di cui il lavoratore è membro. Qui viene, dunque, in considerazione la tutela dell’attività sindacale esterna e non di quella nei luoghi di lavoro. La legge, poi, non prevede limiti temporali di fruizione dei permessi, rimettendo ai contratti collettivi la previsione di un monte ore; del resto, non si prevede neanche un obbligo di comunicazione dell’intenzione di fruire del permesso al datore di lavoro, anche se, si ritiene che sia comunque necessario per il rispetto del principio della buona fede.
L’art. 31, al co. 2, prevede, infine, per tutti i lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali, senza selezionare, come nell’ipotesi dell’art. 30, le associazioni nell’ambito delle quali sia conferito l’incarico, il diritto ad essere collocati, su richiesta, in aspettativa non retribuita.
Tale periodo di aspettativa, con diritto alla conservazione del posto di lavoro, è utile ai fini della maturazione dell’anzianità contributiva, con contribuzione figurativa a carico dell’ente previdenziale di riferimento, nonché, per la percezione delle tutele previdenziali economiche e sanitarie in caso di malattia e di maternità.
Le disposizioni della l. n. 300/1970 non esauriscono il novero dei diritti sindacali che, a partire dalla metà degli anni settanta, grazie alla contrattazione collettiva, si sono sviluppati nella direzione di un coinvolgimento delle organizzazioni sindacali sotto il profilo informativo e conoscitivo nelle scelte organizzative e nelle politiche imprenditoriali. Peraltro, gli stessi diritti, all’origine, vengono inseriti nella parte cd. politica dei contratti collettivi, e, cioè, in una parte a valenza meramente strategica e ad efficacia esclusivamente obbligatoria, dunque, vincolante solo tra le parti stipulanti.
Alla fine degli anni settanta lo strumento della consultazione ed informazione sindacale inizia ad essere utilizzato anche dal legislatore per la concessione della cassa integrazione guadagni (art. 5 l. 20.5.1975, n. 164) e, successivamente, per il coinvolgimento di organizzazioni sindacali qualificate nella gestione delle crisi aziendali nelle ipotesi di trasferimenti d’azienda (art. 47, l. 29.12.1990, n. 428) e di licenziamenti collettivi (art. 4 l. 23.7.1991, n. 223). Si tratterà, però, di sporadiche e disordinate disposizioni normative, accompagnate da un’ulteriore evoluzione normativa della contrattazione collettiva, dapprima con il Protocollo IRI del 1984 (e la previsione di comitati bilaterali finalizzati a processi di esame e valutazioni congiunte tra le parti), e, poi, dal Protocollo del 23.7.1993.
Il vero salto di qualità per un’ulteriore evoluzione dei modelli partecipativi in azienda si avrà soltanto grazie all’intervento della normativa europea. Il d.lgs. 6.2.2007, n. 25, in attuazione della direttiva n. 2002/14/CE, ha infatti introdotto per le imprese pubbliche e private con più di 50 dipendenti, un generale diritto di informazione e consultazione a favore dei lavoratori, esercitabile concretamente dai loro rappresentanti (RSA o RSU). Con la nuova disciplina legislativa le materie nelle quali dovrebbero essere coinvolti i lavoratori, attraverso i loro rappresentanti, non riguarderebbero più eventi patologici dell’impresa, come le crisi aziendali, ma eventi fisiologici connessi con la prevedibile evoluzione dell’attività e dell’occupazione aziendale, nonché le scelte che potrebbero comportare modificazioni definitive nell’organizzazione del rapporto di lavoro. In realtà, la normativa rinvia alla contrattazione collettiva la definizione dei tempi, delle modalità e delle sedi nelle quali esercitare i diritti di informazione e consultazione, pertanto, si dovranno attendere le applicazioni contrattuali concrete della nuova disciplina.
Art. 39, co. 1, Cost.; artt. 14-17 (titolo II), artt. 20-27 (titolo III ), artt. 30, 31, 35 l. 20.5.1970, n. 300; art. 5 l. 20.5.1975, n. 164; art. 47, l. 29.12.1990, n. 428; art. 4 l. 23.7.1991, n. 223; d.lgs. 6.2.2007, n. 25.
Carinci, F.-De Luca Tamajo, R.-Tosi, P.-Treu, T., Diritto del lavoro, 1. Il diritto sindacale, 6° ed., Torino, 2013, 147 ss.; Ballestrero, M.V., Diritto sindacale, 4° ed., Torino, 2012, 171 ss.; Persiani, M., Diritto sindacale, 14° ed., Padova, 2012, 56 ss.; Corso, F., I diritti sindacali, in Trattato di diritto del lavoro, Persiani, M.-Carinci, F., diretto da, vol. II, Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, Proia G., a cura di, Milano, 2014; Mazzotta, O., I diritti sindacali nell’impresa, Torino, 2010; Bollani, A., Diritti sindacali, in Diritto del lavoro, Lambertucci, P., a cura di, Milano, 2012, 165 ss.; Meucci, M., Le rappresentanze e i diritti sindacali in azienda, Roma, 2010.