Abstract
La tutela penale del patrimonio culturale sta vivendo una fase di tendenziale espansione. Vengono qui analizzate sia la situazione di diritto interno, come consolidatasi a seguito degli interventi subiti, negli ultimi decenni, tanto dalle fattispecie previste nel codice penale, quanto dalla legislazione speciale di settore (d.lgs. 22.1.2004, n. 42, codice dei beni culturali e del paesaggio), sia, per linee generali, l’evoluzione in ambito internazionale, foriera, a sua volta, di alcune ricadute sulla legislazione penale italiana a tutela dei beni culturali.
L’individuazione del valore del “patrimonio culturale”, in sé e quale oggetto di tutela giuridica in generale, e penale in particolare, si è fatta strada con tempi, modalità e intensità diversi nei diversi ordinamenti nazionali, prevalentemente in ragione delle molte differenze storiche, economiche, sociali e strutturali tra i vari paesi (v. infra, § 2.1).
A livello internazionale, la consapevolezza di un valore collettivo, sovranazionale e intergenerazionale di tale patrimonio, e della stretta connessione tra tutela dei diritti umani fondamentali e protezione del cd. cultural heritage, è emersa con forza solo dopo il secondo conflitto mondiale, malgrado alcuni embrionali tentativi di raggiungere accordi internazionali a tutela dei beni di valore storico, artistico, culturale e religioso, in particolare in occasione di conflitti armati, si fossero avuti già nei decenni precedenti (v. per tutti Forrest, C., International Law and the Protection of Cultural Heritage, London-New York, 2010, 63 ss.). L’affermazione, dapprima implicita, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, e quindi esplicita, con il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, di un nucleo incomprimibile di diritti “culturali” della persona, ha reso evidente il legame tra salvaguardia del patrimonio culturale e garanzia dei diritti umani fondamentali, in particolare al godimento e alla libera partecipazione alla vita culturale della società. Strumentale a questa è infatti la preservazione e la libertà di accesso, sia “passivo” sia “attivo”, alla cultura in tutte le sue forme di manifestazione.
Quale aspetto «plasmato dall’uomo» dell’«ambiente», il patrimonio culturale partecipa all’essenzialità di quest’ultimo «per il benessere e il godimento dei diritti umani fondamentali» delle persone (Preambolo della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, 1972). Come tale è non solo oggetto di diritti, ma anche di un generale dovere di «protezione e sviluppo per le generazioni presenti e future» (pr. 1). La peculiare nota di “culturalità” di un dato ambiente si radica nel suo «valore universale dal punto di vista storico, estetico, etnologico o antropologico» (art. 1 della Convenzione per la tutela del patrimonio culturale e naturale del 1972), il che segnala la labilità della stessa distinzione tra patrimonio culturale materiale e immateriale (cfr. Gasparini, L., Il patrimonio culturale immateriale, Milano, 2014, 145 ss.). Quest’ultimo è definibile, sulla scorta della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003, come l’insieme delle «prassi, rappresentazioni, espressioni, conoscenze, abilità – come pure degli strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale», che è «trasmesso di generazione in generazione» e al tempo stesso «costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia», contribuendo a dare alle persone «un senso d’identità e di continuità» (art. 2).
Il complesso intrecciarsi di aspetti particolaristici e identitari, da un lato, e transnazionali e universali, dall’altro, la presenza di un tratto immateriale nella qualifica “culturale” dei beni materiali che a tale patrimonio vengano ascritti, il necessario tratto valutativo e selettivo (come tale mutevole e, a sua volta, condizionato anche culturalmente) di tale qualifica, e la pluralità di valori che possono esserne alla base (estetici, storici, etnoantropologici, religiosi, ecc.), rendono quello di “patrimonio culturale” un concetto dal significato al tempo stesso intuitivo e sfuggente (v. per tutti Forrest, C., International Law, cit., 1 ss.). Non stupisce dunque che lo stesso diritto internazionale volto alla tutela del patrimonio culturale debba fare ricorso a una pluralità di disposizioni definitorie – diversamente articolate a seconda degli scopi perseguiti dal singolo strumento convenzionale – volte prevalentemente a individuare (con formulazioni ampie e generali o, viceversa, particolareggiate e casistiche, e con accentuazione talora di profili ideali-valoriali, talaltra di parametri normativi di rinvio ai diritti nazionali) gli specifici beni culturali più direttamente oggetto della regolamentazione pattizia (cfr. Scovazzi, T., La notion de patrimoine culturel de l’humanité dans les instruments internationaux, in Nafziger, J.A.R.-Scovazzi, T., a cura di, The Cultural Heritage of Mankind, Leiden-Boston, 2008, 3 ss.; Visconti, A., La tutela penale del patrimonio culturale mobile: esigenze di riforma alla luce degli impulsi internazionali, in AA.VV., Circolazione dei beni culturali mobili e tutela penale: un’analisi di diritto interno, comparato e internazionale, Milano, 2015, 137 ss.).
In ambito interno, il valore superindividuale, pubblico, del patrimonio culturale è elevato a principio fondamentale dell’ordinamento (cfr. anche C. cost., 24.6.1986, n. 151) dall’art. 9, co. 2 della Costituzione del 1948, dove pure, nell’accostamento tra «paesaggio» ed eredità storica e artistica del paese, si evidenziano punti di contatto tra componenti “ambientali” e componenti “culturali” del patrimonio stesso (v. per tutti Perini, C., Itinerari di riforma per la tutela penale del patrimonio culturale, in Leg. pen., 19.2.2018, www.lalegislazionepenale.eu), forieri di problematiche di tutela simili (cfr. Demuro, G.P., Beni culturali e tecniche di tutela penale, Milano, 2002, 33 ss.) e di occasionali sovrapposizioni di disciplina (sovrapposizioni, come meglio si vedrà infra, § 3.1, particolarmente evidenti, in ambito penale, nella recente riforma dei reati ambientali). Punti di contatto valorizzati da quella giurisprudenza costituzionale che ha ravvisato nella formulazione dell’art. 9 Cost. l’espressione di un «principio fondamentale unitario dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo» che fonda i compiti di tutela in materia sia culturale (Beni culturali. Disciplina pubblicistica), sia paesaggistica, sia ambientale (Ambiente) dello Stato e delle sue articolazioni (C. cost., 27.7.2000, n. 378, anche in rif. a C. cost., 1.4.1998, n. 85), e da ultimo evidenziati, a livello generale, nella definizione di «patrimonio culturale» contenuta nell’art. 2, co. 1 del d.lgs. 22.1.2004, n. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio («il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici»).
Malgrado tali indubbie connessioni (in particolare tra patrimonio storico-artistico e cd. ambiente-paesaggio), la componente più strettamente “culturale” del patrimonio stesso presenta una propria autonomia concettuale e pratica, evidenziata non solo dalla separazione della relativa disciplina all’interno della legislazione speciale, ma già dalla distinta definizione di «beni culturali» di cui al co. 2 dell’art. 2 cit. Quest’ultimo individua tale specifica nota di culturalità nell’«interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico» di tali beni, riassumibile nel loro configurarsi come «testimonianze aventi valore di civiltà» e dunque nella stretta connessione con un valore di memoria ereditata dal passato (cfr., per tutti, Sciullo, G., Patrimonio e beni, in Barbati, C.-Cammelli, M.-Casini, L.-Piperata, G.-Sciullo, G., Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2017, 32 ss.; si noti anche che, allo stato attuale, la “materializzazione” di tale testimonianza costituisce requisito essenziale per la sua tutela nell’ordinamento italiano, ai sensi dell’art. 7 bis d.lgs. n. 42/2004). La meritevolezza di tutela penale del patrimonio culturale si fa appunto discendere dal valore fondativo delineato dall’art. 9, co. 2, Cost., oltre che dall’assunzione di obblighi pattizi internazionali di protezione dello stesso, sia pure con declinazioni non unanimi a opera della dottrina, che vi ravvisa ora un tendenziale, seppur implicito, obbligo di tutela (anche) penale (cfr. ad es. Demuro, G.P., Beni culturali, cit., 43 ss.), ora una più sfumata legittimazione, non univocamente vincolante, dell’uso dello strumento penale, ove in concreto opportuno (cfr. ad es. Manes, V., La tutela penale, in Barbati, C.-Cammelli, M.-Sciullo, G., a cura di, Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, 2011, 290).
La complessiva rimeditazione del bene giuridico che ha spinto la dottrina penalistica prevalente a passare da una visione “statica” del patrimonio culturale a una essenzialmente “dinamica”, che ne valorizzi il ruolo di strumento di promozione della persona umana (cfr. per tutti Salcuni, G., La tutela penale dei provvedimenti amministrativi nel nuovo testo unico sui beni culturali, in Manna, A., a cura di, Il codice dei beni culturali e del paesaggio. Gli illeciti penali, Milano, 2005, 123 ss.), non è ancora realmente filtrata a influenzare l’impostazione complessiva dell’ordinamento penale, orientato in senso spiccatamente conservativo e “autoritativo” (cfr. per tutti Manacorda, S., La circolazione illecita dei beni culturali nella prospettiva penalistica: problemi e prospettive di riforma, in AA.VV., Circolazione, cit.,11), come meglio si dirà nei paragrafi seguenti (§§ 2.2 e 3).
Il mercato dei beni culturali ha natura ampiamente transnazionale ed è considerato un mercato “grigio”, ovvero lecito in sé, ma contaminato da un grande quantitativo di beni di provenienza illecita (derivanti da furti, scavi clandestini, saccheggi, esportazione illecita, contraffazione), estremamente difficili da individuare e la cui esatta percentuale sul totale risulta impossibile da stimare, stante l’elevatissimo e strutturale campo oscuro tipico dei reati contro il patrimonio culturale (cfr. per tutti Mackenzie, S.-Yates, D., What Is Grey about the “Grey Market” in Antiquities?, in Beckert, J.-Dewey, M., a cura di, The Architecture of Illegal Markets, Oxford, 2017, 70 ss.). L’opacità del mercato è alimentata anche dall’estrema differenziazione nell’approccio degli ordinamenti nazionali alla regolamentazione, che consente ai trafficanti di giocare sugli standard normativi meno (o punto) rigorosi di alcuni paesi per agevolare il riciclaggio e l’immissione sul mercato legale di oggetti di provenienza illecita (cfr. ad es. Tijhuis, A.J.G., The Trafficking Problem: A Criminological Perspective, in Manacorda, S.-Chappell, D., a cura di, Crime in the Art and Antiquities World. Illegal Trafficking in Cultural Property, New York-Dordrecht, 2011, 87 ss.; Mackenzie, S.R.M., Going, Going, Gone. Regulating the Market in Illicit Antiquities, Leicester, 2005, 8 ss.). Di base si usa distinguere tra due modelli sostanzialmente contrapposti. Da un lato vi sono i paesi-fonte o source countries (ad es. Grecia, Spagna, Turchia), ricchi in beni culturali e soggetti a intensa spoliazione, i quali in genere optano per un modello “protezionistico” di forte regolamentazione e per un ricorso piuttosto esteso (per lo meno sulla carta, mancando poi spesso le risorse per dare effettiva attuazione alla normativa) a fattispecie penali e/o aggravanti specifiche (tutela espressa, diretta o indiretta). Dall’altro vi sono i market countries (a loro volta distinguibili tra paesi di transito, come ad es. Hong Kong, Thailandia o Svizzera, con un mercato tanto attivo nell’esportazione quanto nell’importazione, e paesi essenzialmente importatori, come Stati Uniti o Giappone), i quali, anche in ragione del loro ruolo dominante sul mercato internazionale dei beni culturali, optano per un modello liberista e per un ricorso minimale al diritto penale, che spesso non conosce, se non in minima misura (e, ove presenti, spesso in ragione di impulsi provenienti dal diritto internazionale), disposizioni specificamente volte alla tutela del patrimonio culturale (tutela non espressa; cfr. per tutti Demuro, G.P., Beni culturali, cit., 333 ss.; Vozza, D., La prevenzione e il contrasto al traffico illecito di beni culturali mobili tra spunti comparati e prospettive di riforma, in AA.VV., Circolazione, cit., 185 ss.).
L’Italia, pur esemplificando l’artificiosità, in una certa misura, di tale distinzione (si qualifica infatti anche come market country rispetto a beni provenienti, ad es., dal medio o estremo oriente), incarna però molto bene il primo dei due modelli normativi. È infatti dotata di una dettagliata e pervasiva legislazione di settore (Beni culturali. Disciplina pubblicistica) e di una consistente presenza di disposizioni penali specifiche (a tutela diretta o indiretta), talora eminentemente accessorie alla disciplina amministrativa (v. infra, § 3.2), talaltra – in misura minoritaria – autonomamente configurate (v. infra, § 3.1). In queste, comunque, il peculiare disvalore della condotta ruota espressamente attorno all’offesa al patrimonio culturale (va però rilevato come tale tutela espressa non sia esaustiva: non sono ad es. a oggi previste né una fattispecie autonoma, né un’aggravante mirata, per il furto di beni culturali, che al più potrà talora ricadere sotto la circostanza di cui all’art. 625, n. 7 c.p.: cfr. Manes, V., La tutela, cit., 300 s.). L’importanza attribuita al contrasto penale di condotte lesive del patrimonio culturale si evince anche, ad es., dalla presenza di una forza di polizia specializzata (il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale) e di un database, istituito nel 1980, all’avanguardia per l’archiviazione e ricerca di informazioni sui beni culturali illecitamente sottratti, entrambi al centro di numerosi progetti internazionali di cooperazione.
Proprio sul fronte internazionale l’Italia si è non a caso fatta in genere promotrice delle iniziative volte a un rafforzamento del ricorso allo strumento penale nel contrasto ai crimini contro il patrimonio culturale (v. infra, § 2.2), mentre per altro verso dalla ratifica ed esecuzione di convenzioni internazionali di settore sono derivate alcune delle più recenti aggiunte alla disciplina penale nazionale (v. infra, § 3.3); il che ancora una volta mette in guardia da ogni semplificazione classificatoria e, nello specifico, da una troppo netta distinzione, pur possibile ed euristicamente utile, tra Stati (tipicamente art-importing) connotati da un approccio top-down alla criminalizzazione, e Stati (tipicamente art-exporting) in cui questa nasce da input interni (cfr. Vozza, D., La prevenzione, cit., 224 ss.).
La forte contrapposizione tra approcci e interessi differenti degli Stati che si collocano agli estremi opposti del flusso internazionale di beni culturali costituisce uno dei principali fattori di spiegazione della risalente marginalizzazione del profilo penale negli strumenti internazionali a tutela del patrimonio culturale, e più in generale della loro limitata efficacia nel contrasto, in particolare, al fenomeno del traffico illecito (cfr. per tutti Manacorda, S., Criminal Law Protection of Cultural Heritage: An International Perspective, in Manacorda, S.-Chappell, D., Crime, cit., 17 ss; Forrest, C., International Law, cit., 136 ss.).
Anche nel settore del diritto internazionale umanitario (Diritto internazionale umanitario [int. pubbl.]) (su cui, in relazione al tema qui trattato, cfr. per tutti Maugeri, A.M., La tutela dei beni culturali nel diritto internazionale penale. Crimini di guerra e crimini contro l’umanità, Milano, 2008) – il primo, come ricordato (v. supra, § 1), a interessarsi del problema – le poche disposizioni volte a sanzionare gli autori di condotte distruttive o dispersive del patrimonio culturale risentono non solo del carattere non immediatamente cogente delle previsioni lato sensu penali di matrice internazionale pattizia (che necessitano in genere di puntuale trasposizione nell’ordinamento interno), ma altresì di una formulazione per lo più eccessivamente vaga e dell’esplicita alternativa con lo strumento disciplinare. Questo accade ad es. con l’art. 28 della Convenzione dell’Aja per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato del 1954, la cui portata risulta per altro indebolita anche, come in generale tutto il regime risultante dalla Convenzione e dal coevo Primo protocollo, dall’operatività estremamente dilatata concessa alla cd. eccezione di necessità militare. Anche le disposizioni presenti nel sistema delle Convenzioni di Ginevra (in particolare, l’art. 53 del Primo protocollo addizionale del 1977, relativo ai conflitti armati internazionali, e l’art. 16 del Secondo protocollo addizionale dello stesso anno, relativo ai conflitti di carattere non internazionale), la cui violazione intenzionale (a condizione che abbia prodotto una «estensiva distruzione» di beni culturali soggetti a una forma di protezione speciale: art. 85, co. 4, lett. d Protocollo I) costituisce crimine di guerra, richiedono attuazione tramite trasposizione nel diritto penale interno. Stesso dicasi delle previsioni contenute nel Secondo protocollo della Convenzione dell’Aja, adottato nel 1999 e attuato in Italia con la l. 16.4.2009, n. 45 (v. infra, § 3.4). Quest’ultimo, tuttavia, all’art. 15 stabilisce un effettivo obbligo di penalizzazione per le condotte ritenute maggiormente lesive, mentre all’art. 21 è stabilito un più lasco obbligo sanzionatorio (indifferentemente a livello penale, amministrativo o disciplinare) per condotte, pur sempre intenzionali, ma ritenute meno gravi. Solo nel 2001, con l’entrata in vigore dello Statuto della Corte Penale Internazionale (adottato a Roma nel 1998) (Tribunali penali internazionali), è entrata in scena una previsione penale a efficacia diretta volta alla repressione di attacchi intenzionali contro «edifici dedicati alla religione, all’educazione, all’arte, alla scienza o […] monumenti storici […] purché non costituenti obiettivi militari», commessi in caso di conflitto armato tanto internazionale quanto interno (art. 8, rispettivamente co. 2, lett. b, n. ix, e co. 2, lett. e, n. iv), la cui prima applicazione si è avuta nel 2016 (C. pen. int., Prosecutor v. Al Mahdi, ICC-01/12-01/15-171, 26.9.2016).
Fuori da tale ambito, ancor più limitate sono le previsioni di matrice convenzionale che richiedono agli Stati contraenti un impegno sanzionatorio, per altro invariabilmente declinato in modo che la scelta dello strumento penale non sia obbligata. Tra queste si ricordano gli artt. 8 e 10, lett. a) della Convenzione concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali del 1970, che prescrivono l’introduzione di sanzioni penali o amministrative per le sole condotte di esportazione senza autorizzazione di un bene culturale, importazione di un bene registrato che sia stato rubato da un museo o altra istituzione di uno Stato contraente, e violazione degli obblighi di documentazione incombenti su chi eserciti professionalmente il commercio di opere d’arte e d’antiquariato. Analogamente, l’art. 17, co. 1 e 2 della Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo del 2001 (attuata in Italia con la l. 23.10.2009, n. 157: v. infra, § 3.3), prescrive l’adozione di sanzioni «adeguate per severità ad assicurare il rispetto» e a «scoraggiare la violazione» degli obblighi (di cui pure è prescritta l’introduzione nel diritto interno) di denuncia di ritrovamenti archeologici subacquei e di previa autorizzazione per attività di ricerca, recupero e intervento sul patrimonio subacqueo, oltre che a «privare i trasgressori dei vantaggi derivanti dall’illecito».
A livello di Unione europea – le cui competenze in materia di regolamentazione del patrimonio culturale sono, per altro, limitate dai principi generali di cui agli artt. 115 e 167 TFEU e 5 TEU (cfr. Ainis, M.-Fiorillo, M., L’ordinamento della cultura, III ed., Milano, 2015, 423) – solo l’art. 9 del Regolamento (CE) n. 116/2009 relativo all’esportazione di beni culturali al di fuori dei confini dell’Unione (versione codificata del precedente regolamento CEE 3911/1992 e successive modifiche), nel prescrivere che gli Stati membri adottino sanzioni «efficaci, proporzionate e dissuasive» per le infrazioni al Regolamento stesso, introduce un obbligo sanzionatorio, anche se non strettamente di criminalizzazione (obbligo cui l’Italia ha scelto di dar seguito ampliando il raggio di operatività del delitto di esportazione illecita attualmente previsto all’art. 174 d.lgs. n. 42/2004: v. infra, § 3.2).
In anni più recenti, tuttavia, si assiste a un maggiore impulso, a livello internazionale, alla penalizzazione di condotte lesive del patrimonio culturale. Oltre all’attività del Consiglio d’Europa, che già nel 1985 promosse una Convenzione europea sui reati coinvolgenti i beni culturali, mai entrata in vigore per il mancato raggiungimento del numero minimo di ratifiche, e che nel 2017 ha adottato e aperto alla firma una nuova Convenzione sui reati relativi ai beni culturali, vanno ricordate alcune recenti iniziative in ambito ONU (cfr. Castañeda de la Mora, C., The Work of the United Nations Office on Drugs and Crime in the Area of Illicit Trafficking in Cultural Property, in Manacorda, S.-Visconti, A., a cura di, Beni culturali e sistema penale, Milano, 2013, 3 ss.). Lo UNODC, sollecitato da timori crescenti circa possibili connessioni tra traffico illecito di beni culturali e altre forme di grave criminalità (corruzione, riciclaggio, crimine organizzato, e da ultimo finanziamento del terrorismo) ha progressivamente incentivato gli Stati contraenti delle Convenzioni ONU sulla corruzione e sul crimine organizzato transnazionale a farne applicazione mirata anche nella lotta al traffico internazionale di beni culturali. Si è inoltre fatto promotore dell’adozione, nel 2014, da parte dell’Assemblea Generale, di un insieme di International Guidelines for Crime Prevention and Criminal Justice Responses with Respect to Trafficking in Cultural Property and Other Related Offences (A/RES/69/196), strumento di soft-law ampiamente orientato alla prevenzione e repressione penali del fenomeno.
A livello di Unione europea, nel quadro delle politiche relative allo Spazio di sicurezza, libertà e giustizia di cui all’art. 67 TFUE (Spazio di sicurezza, libertà e giustizia), si assiste a una tendenza a includere il “traffico illecito di beni culturali” tra le fattispecie per cui sono previsti obblighi di cooperazione giudiziaria in materia penale indipendenti dalla doppia incriminazione (cfr. Visconti, A., La tutela, cit., 168 ss.; Luparia, L., La tutela penale dei beni culturali nella dimensione processuale, in AA.VV., Circolazione, cit., 258 ss.), mentre il timore di una connessione tra tale fenomeno criminale e il finanziamento del terrorismo internazionale è posto a fondamento della recente proposta di regolamento relativo all’importazione di beni culturali entro i confini UE, la cui eventuale adozione potrebbe implicare obblighi sanzionatori, in materia di illecita importazione, affini a quelli già previsti per l’illecita esportazione dal citato regolamento n. 116/2009.
Per quanto l’ordinamento italiano opti, come si è detto (v. supra, § 2.1), per un modello di tutela penale prevalentemente espressa, sia poi essa diretta o indiretta, non mancano differenziazioni interne nelle tecniche normative adottate, in particolare, nel codice penale e nelle fattispecie collocate nel cd. codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42/2004: v. infra, § 3.2).
Il primo, infatti, si caratterizza per l’opzione in favore di reati di danno e, fino alla recente riforma attuata con la l. 22.5.2015, n. 68, per un’univoca scelta di tutela del patrimonio culturale reale (ovvero non necessariamente dichiarato ai sensi della disciplina amministrativa di settore, v. Beni culturali. Disciplina pubblicistica; in giur. v. ad es. Cass. pen., 12.12.1995, n. 12215, e Cass. pen., 12.9.2006, n. 29927; questo implica, tra l’altro, nell’opinione prevalente, che tali fattispecie, contrariamente alla maggioranza di quelle del d.lgs. n. 42/2004, siano applicabili anche alla cd. arte contemporanea). Scelta che, se da un lato si presenta maggiormente idonea a evitare possibili vuoti di tutela rispetto a beni dal valore culturale non ancora notificato, dall’altro presenta indiscutibili profili di tensione coi principi di legalità e colpevolezza (cfr. per tutti Demuro, G.P., Beni culturali, cit., 81 ss.; Manes, V., La tutela, cit., 294 ss.; Manacorda, S., La circolazione, cit., 21).
L’unica fattispecie presente nel codice fin dal 1930, e mai modificata se non nei livelli edittali di pena, è la contravvenzione di cui all’art. 733 (danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale), la quale ruota intorno a un doppio profilo di lesività effettiva, costituito da un lato dall’evento di danneggiamento di un «monumento o altra cosa propria» di cui sia noto al soggetto attivo «il rilevante pregio», dall’altro dalla condizione obiettiva di punibilità (Cass. pen., 1.2.2001, n. 4001) che dal fatto derivi «un nocumento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale» (condizione il cui riconosciuto “gigantismo” crea ovvi problemi probatori e dunque di concreta applicabilità della fattispecie: cfr. ad es. Mantovani, F., Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, in Riv. it. dir proc. pen., 1976, 77; Manes, V., La tutela, cit., 298). Diversamente dalle altre fattispecie codicistiche, trattasi di reato proprio, il quale richiede un rapporto qualificato tra bene e soggetto attivo, anche se vi è contrasto circa il fatto che tale rapporto debba necessariamente ed esclusivamente consistere nella proprietà del bene (Cass. pen., 15.6.1998, n. 7129), o possa qualificarsi anche come possesso o detenzione, in particolare in relazione alla posizione dei legali rappresentanti di persone giuridiche eventualmente titolari del bene (Cass. pen., 24.10.2008, n. 42893). Unica nel panorama codicistico è anche la configurazione dell’elemento soggettivo, indifferentemente doloso o colposo stante la natura contravvenzionale dell’illecito, pur se la necessità di effettiva consapevolezza del «rilevante pregio» della cosa vale a restringere l’area della colpevolezza (Mantovani, F., Lineamenti, cit., 77).
In rapporto ai delitti comuni (esclusivamente dolosi e necessitanti l’altruità dell’oggetto materiale della condotta) di danneggiamento e deturpamento/imbrattamento (cfr. per tutti Demuro, G.P., Beni culturali, cit., 87 ss.; Manes, V., La tutela, cit., 294 ss.), invece, la scelta di introdurre una tutela espressa, ma indiretta, delle «cose di interesse storico o artistico» risale alla l. 8.10.1997, n. 352, con cui furono inserite due apposite aggravanti, rispettivamente, al co. 2, n. 1) dell’art. 635 c.p. e al co. 2 dell’art. 639 c.p. Il risultato è stato, da un lato, di assoggettare il surplus sanzionatorio legato all’offesa al patrimonio culturale a un possibile bilanciamento ex art. 69 c.p. in caso di compresenza di circostanze attenuanti, ma, dall’altro, di rendere sufficiente, sul piano soggettivo, la semplice conoscibilità del valore culturale del bene per l’applicazione dell’aggravio sanzionatorio. Esiti da ultimo revocati, rispetto al delitto di danneggiamento, dal d.lgs. 15.1.2016, n. 7, che, nel trasformare il danneggiamento “semplice” in mero illecito civile assistito da sanzione pecuniaria, ha contestualmente riconfigurato il danneggiamento di cose di interesse storico o artistico come fattispecie autonoma di reato (non necessitante una componente di violenza), con contestuale attrazione della “culturalità” del bene tra gli elementi costitutivi di fattispecie, necessariamente coperti da dolo, sia pure generico (cfr. Perini, C., Itinerari, cit.).
Da ultimo, come accennato, la l. n. 68/2015, nell’introdurre un intero nuovo titolo (il VI bis) dedicato ai «delitti contro l’ambiente» (v. anche supra, § 1), ha previsto una specifica aggravante, rispettivamente in relazione ai delitti di inquinamento ambientale (art. 452 bis, co. 2 c.p.) e di disastro ambientale (art. 452 quater, co. 3 c.p.), per i casi in cui l’«inquinamento» o il «disastro» siano prodotti (tra l’altro) «in un’area sottoposta a vincolo […] storico, artistico, architettonico o archeologico»: stante l’innovativa necessità che la “culturalità” (qui) dell’area in cui la condotta si esplica (incrementandone il disvalore) sia dichiarata con provvedimento della p.a. costitutivo del vincolo, sarà evidentemente difficile, in pratica, negare la conoscibilità della stessa ai fini dell’applicazione dell’aggravante ex art. 59, co. 2, c.p.
Rispetto ai casi di possibile danneggiamento del bene culturale, la reazione penale non è confinata alle disposizioni codicistiche (v. supra, § 3.1). L’approccio adottato dal legislatore nella configurazione delle contravvenzioni (su cui cfr. in particolare Resta, F., Anticipazione e limiti della tutela penale in materia di “danneggiamento” di beni culturali, in Manna, A., Il codice, cit., 46 ss.) di cui agli artt. 169 (opere illecite), 170 (uso illecito), 171 (collocazione e rimozione illecita) e 172 (inosservanza delle prescrizioni di tutela indiretta) d.lgs. n. 42/2004 è però molto diverso da quello codicistico e indicativo, più in generale, della tecnica di tutela tipica della legislazione speciale.
Questa si caratterizza (come già nelle precedenti l. 1.6.1939, n. 1089 e t.u. 29.10.1999, n. 490: cfr. Mantovani, F., Lineamenti, cit., 75 ss.; Demuro, G.P., Beni culturali, cit., 81 ss.; Manes, V., La tutela, cit., 291 ss.), oltre che per la prevalenza di figure di reato proprio (presupponendo in genere un particolare rapporto tra il bene e il soggetto che ne abbia la proprietà, il possesso o la detenzione, cui si riconnettono i peculiari obblighi derivanti, in capo al secondo, dalla normativa o dai provvedimenti amministrativi), per una una netta anticipazione dell’intervento penale. Questo è per lo più svincolato dal riscontro di un effettivo danno al bene, la cui culturalità, coerentemente con la stretta funzionalizzazione al “rinforzo negativo” della sottostante disciplina amministrativa, deve essere, nella maggior parte di queste fattispecie, dichiarata o, al minimo, presunta (ossia – in relazione ai beni in proprietà di enti pubblici o di persone giuridiche private prive di scopo di lucro – non ancora negativamente verificata). Predominano dunque reati di pericolo, generalmente astratto, mediato dalla trasgressione delle sottostanti disposizioni amministrative (così negli artt. 169, co. 1, lett. c, 170 – rara ipotesi di reato di pericolo concreto: Cass. pen., 18.9.2012, n. 35786, che prescrive al giudice l’accertamento dell’effettiva idoneità lesiva della condotta –, 171, co. 1, prima parte, 173, lett. b e c, 175, lett. b), o dalla mancanza, o violazione dei termini, delle autorizzazioni, concessioni o licenze da questa prescritte (così negli artt. 169, co. 1, lett. a e b, 173, lett. a, 174, 175, lett. a), o ancora dalla violazione di prescrizioni, ordini o ingiunzioni della p.a. competente (così negli artt. 169, co. 2, 171, co. 1 e co. 2, seconda parte, 172, nonché nell’emblematica fattispecie “di chiusura” di cui all’art. 180, ove si prevede la stessa pena prevista dall’art. 650 c.p. per «chiunque non ottempera ad un ordine impartito dall’autorità preposta alla tutela dei beni culturali» in conformità alla disciplina di settore, «salvo che il fatto non costituisca più grave reato»). Questo, secondo alcuni, connoterebbe tali fattispecie come reati a tutela non di beni giuridici, bensì di funzioni (cfr. ad es. Moccia, S., Riflessioni sulla tutela penale del patrimonio culturale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 1295 ss.; Manes, V., La tutela, cit., 306 ss.; contra ad es. Demuro, G.P., Beni culturali, cit., 64 ss.).
Ne derivano frequenti problemi di compatibilità col principio costituzionale di necessaria offensività (cfr. per tutti Manes, V., La tutela, cit., 295 ss.), in particolare laddove la condotta si configuri non solo come pericolosa in astratto, ma anche come pericolosa indirettamente. Così ad es. nell’ipotesi dell’art. 172, ove l’inosservanza penalmente sanzionata è quella delle prescrizioni date ai sensi dell’art. 45, co. 1, d.lgs. n. 42/2004, volte a tutelare solo in via mediata il patrimonio culturale, in quanto prescrittive di distanze, misure e altre indicazioni incidenti su beni diversi da quelli connotati da interesse culturale, onde preservare l’integrità, la prospettiva, la luce, l’ambiente e il decoro di questi ultimi. A questo va aggiunta la propensione della giurisprudenza prevalente a interpretare in senso rigorosamente formale le fattispecie in esame, ad es. laddove sancisce la punibilità ex art. 169, co. 1, lett. a) del restauro effettuato senza autorizzazione ma a regola d’arte o autorizzato successivamente (Cass. pen., 15.12.2008, n. 46082; Cass. pen., 6.3.2015, n. 9784) o quella, ex art. 174, co. 1, dell’esportazione senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione, anche qualora si accerti che, ove fossero stati richiesti, sarebbero stati concessi (Cass. pen., 22.2.2000, n. 22056; Cass. pen., 29.8.2017, n. 39517).
Va inoltre rilevato come molte delle fattispecie penali del d.lgs. n. 42/2004, avendo natura di reato omissivo proprio, vengano forzatamente ricondotte dalla giurisprudenza alla categoria del reato permanente (con le immaginabili ricadute in tema di decorrenza dei termini di prescrizione), facendo leva sull’asserita persistenza del pericolo per tutto il periodo successivo alla scadenza del termine e fino all’effettivo adempimento dell’obbligo da parte del soggetto attivo (cfr. ad es. Cass. pen., 27.9.1995, n. 9860, e Cass. pen., 2.10.2008, n. 37470, entrambe in relazione alla contravvenzione di inosservanza delle prescrizioni di tutela indiretta; Cass. pen., 17.6.1997, n. 5732, in tema di omessa denuncia di ritrovamento archeologico fortuito; in dottrina diffusamente e criticamente Demuro, G.P., Beni culturali, cit., 320 ss.).
Va per altro rilevato come divergano dalla usuale riferibilità al solo patrimonio dichiarato, oltre alle fattispecie di contraffazione (le quali si applicano anche, eccezionalmente, alla cd. arte contemporanea: art. 10, co. 5, d.lgs. n. 42/2004, come recentemente modificato dalla l. 4.8.2017, n. 124), altresì la maggioranza di quelle attinenti alla dispersione (cfr. Demuro, G.P., Beni culturali, cit., 133 ss.; Perdonò, G.L., L’uso illecito e le violazioni in materia di alienazione, in Manna, A., Il codice, cit., 108 ss., e ivi Ferri, P.G., Uscita o esportazione illecite, 165 ss.; Manes, V., La tutela, cit., 298 ss.). In relazione all’art. 173 lett. b) e c) (violazioni in materia di alienazione di beni in proprietà privata; nell’ipotesi di cui alla lett. a, l’interesse culturale è comunque presunto fino a verifica negativa, stante la proprietà pubblica o “parapubblica” dei beni), la riferibilità della condotta (pacifica in giurisprudenza: Cass. pen., 16.12.2003, n. 47922; Cass. pen., 15.2.2005, n. 21400) anche a cose non dichiarate trova la sua ratio nell’essere la denuncia obbligatoria del trasferimento della proprietà o del possesso del bene una delle occasioni in cui la p.a. ha occasione di “intercettare”, ed eventualmente acquisire in prelazione, oggetti dal rilevante interesse culturale. Analoghe considerazioni sorreggono l’affine scelta legislativa (pacifica secondo la giurisprudenza: Cass. pen., 22.10.2015, n. 42458; Cass. pen., 6.4.2017, n. 17223) in tema di uscita o esportazione illecite (art. 174, co. 1, cd. “contrabbando artistico”), in quanto la presentazione al competente ufficio esportazione per la richiesta dell’attestato di libera circolazione e/o della licenza di esportazione è un momento utile all’individuazione dei beni culturali in possesso di privati da sottoporre a dichiarazione di interesse culturale e conseguente vincolo (con possibilità anche di acquisto coattivo ex art. 68; si noti che il perimetro della necessità di autorizzazione all’uscita è stato ridimensionato dalla citata l. n. 124/2017, che ha innalzato le soglie di età e introdotto inedite soglie di valore economico, al di sotto delle quali non è richiesta autorizzazione, con conseguente riduzione dell’area della punibilità ex art. 174: Cass. pen., 8.3.2018, n. 10468).
Per quanto riguarda i reati in materia archeologica – art. 175, le cui fattispecie contravvenzionali puniscono, rispettivamente, l’effettuazione di ricerche senza la prescritta autorizzazione o in violazione delle prescrizioni contenute nella concessione (lett. a) e l’omessa denuncia di rinvenimenti fortuiti (lett. b), e art. 176, impossessamento illecito – la presenza di un provvedimento dichiarativo dell’interesse culturale (per altro da considerarsi presunto fino a verifica negativa, stante la proprietà pubblica ex lege di tutte le cose ritrovate nel sottosuolo e nei fondali marini: art. 91) sarà materialmente impossibile ove l’impossessamento segua immediatamente il ritrovamento (pacifica la possibilità del concorso di reati: Cass. pen., 15.2.2007, n. 6432; Cass. pen., 10.3.2016, n. 9927); questo spiega la ricorrente affermazione giurisprudenziale della sua superfluità (Cass. pen., 24.12.2001, n. 45814; Cass. pen., 25.8.2014, n. 36111). Malgrado la denominazione risalente di “furto archeologico”, la struttura del delitto di cui all’art. 176 non coincide con quella del reato di furto (v. Furto; v. anche supra, § 2.1): non è infatti richiesta la sottrazione della cosa a chi la detiene, stante la correlazione diretta dell’impossessamento con un’attività di ricerca e/o ritrovamento, e non si estende pertanto neppure implicitamente all’art. 176 la previsione della procedibilità a querela (Cass. pen., 28.5.2001, n. 21580; Cass. pen., 3.2.2005, n. 3700). In relazione a questa fattispecie va segnalato un orientamento particolarmente rigoristico della giurisprudenza quanto alla prova della legittimità del possesso di beni archeologici, generalmente posta a carico dell’imputato (Cass. pen., 3.12.1998, n. 12716; Cass. pen., 23.12.2009, n. 49439; Cass. pen., 11.4.2016, n. 14792; contra Cass. pen., 7.6.1999, n. 7131), con inversione indubbiamente problematica ai sensi degli artt. 27, co. 2, Cost. e 6, co. 2, CEDU. Rispetto ai delitti di cui agli artt. 174 e 176, il d.lgs. n. 42/2004 prevede poi, all’art. 177, una particolare ipotesi di ravvedimento operoso (riduzione della pena da uno a due terzi) nel caso in cui «il colpevole fornisca una collaborazione decisiva o comunque di notevole rilevanza per il recupero dei beni illecitamente sottratti o trasferiti all’estero».
Tensioni coi principi costituzionali pone, infine, sul fronte della colpevolezza (cfr. per tutti Demuro, G.P., Beni culturali, cit., 326 ss.; Manes, V., La tutela, cit., 308 ss.), la tecnica normativa prevalente nel d.lgs. n. 42/2004, con la sua fitta trama di rinvii a disposizioni amministrative e la conseguente abbondanza di elementi normativi di fattispecie. È vero, da un lato, che la conoscibilità dell’interesse culturale del bene è per lo più garantita dalla necessità che questo sia dichiarato, ed è sufficiente all’integrazione dell’elemento soggettivo richiesto dalla (prevalente) opzione per illeciti contravvenzionali (come tali punibili indifferentemente a titolo di dolo o di colpa: così gli artt. 169, 170, 171, 172, 175, lett. a, seconda parte e lett. b, e 180; fa eccezione l’ipotesi di ricerche archeologiche non autorizzate di cui all’art. 175, lett. a, prima parte, ritenuta strutturalmente dolosa per la necessaria direzione della condotta al ritrovamento di reperti: implicitamente Cass. pen. 25.7.1966, n. 1226; Cass. pen., 4.4.1973, n. 2671). D’altro canto, però, proprio nelle fattispecie sopra da ultimo richiamate (artt. 173, 174 e 176), tutte delittuose e tutte punite esclusivamente a titolo di dolo, una coerente applicazione dell’art. 47, co. 3, c.p. imporrebbe, invece, l’assoluzione dell’imputato ogni volta che non sia raggiunta la prova «al di là di ogni ragionevole dubbio» (art. 533, co. 1, c.p.p.) dell’effettiva consapevolezza del valore artistico, storico, archeologico o etnoantropologico della cosa; tuttavia, la giurisprudenza talora si accontenta di un accertamento ampiamente presuntivo che finisce per arrestarsi, di fatto, alla prova della mera (ri)conoscibilità dell’interesse culturale (cfr. ad es., in materia di illecita alienazione, Cass., 8.6.2005, n. 21400, che fa riferimento, in punto di dolo, alla mera «percettibilità della nota di valore della cosa»; in materia di impossessamento di beni archeologici affine Cass. pen., 11.2.2015, n. 6202).
Quanto poi ai numerosi casi di rinvio alla disciplina amministrativa per l’individuazione, ad es., degli esatti termini dell’obbligo penalmente presidiato (si pensi all’art. 173, lett. c, che rinvia, per l’individuazione del tempo durante il quale il trasferimento della cosa all’acquirente è vietato per la pendenza del diritto di prelazione della p.a., all’art. 61, co. 1) o delle circostanze che fanno scattare l’obbligo di richiedere un’autorizzazione o licenza (ad es. artt. 173, lett. a, e 174), la generale tendenza giurisprudenziale a ricondurre le norme richiamate alla qualità di disposizioni “integratrici” della fattispecie penale depone per una pressoché invariabile riconduzione di eventuali errori in tali ambiti alla sfera dell’art. 5 c.p., con agevole conclusione nel senso dell’evitabilità dell’errore o ignoranza (cfr. Manes, V., La tutela, cit., 311).
Decisamente eccentriche rispetto al modello normativo dominante nel d.lgs. n. 42/2004 si presentano, da ultimo, le fattispecie di contraffazione, ospitate all’art. 178 (cfr. Lemme, F., La contraffazione e alterazione d’opere d’arte nel diritto penale, II ed., Padova, 2001; Cipolla, P., La repressione penale della falsificazione delle opere d’arte, in Manna, A., Il codice, cit., 263 ss.; Manes, V., La tutela, cit., 302 ss.), dove sono represse (con medesimo trattamento sanzionatorio, salvo un aggravamento di pena ove commesse nell’esercizio di un’attività commerciale: co. 2), rispettivamente, l’effettiva falsificazione dell’opera nella sua fisicità (co. 1, lett. a), la commercializzazione (e condotte prodromiche) di falsi d’arte (co. 1, lett. b), la falsa autenticazione (co. 1, lett. c) e la cd. falsa perizia (co. 1, lett. d). Le fattispecie offrono una tutela solo indiretta al patrimonio culturale: salvi i casi di alterazione ex co. 1, lett. a) (in cui la condotta potrebbe anche cadere su un bene genuino dal valore culturale per sé rilevante, compromettendone l’integrità e la conservazione), a essere tutelato in prima istanza è di fatto l’interesse (commerciale) alla trasparenza e correttezza del mercato dell’arte e, più ampiamente, la fede pubblica (considerazione da cui muove la giurisprudenza che nega rilevanza esimente alla riconoscibilità del falso per il collezionista medio: Cass. pen., 17.11.1995, n. 11253; Cass. pen., 31.3.2000, n. 4084; Cass. pen., 7.7.2011, n. 26710). La conclusione è corroborata dalla citata applicabilità delle disposizione in esame alla cd. arte contemporanea, non sottoposta a vincoli di tutela dalla legislazione speciale (così Cass. pen., 6.7.2007, n. 26072).
Le fattispecie si confermano peculiari anche sotto il profilo del dolo richiesto che, usualmente generico per i reati del d.lgs. n. 42/2004, si presenta qui specifico in varie ipotesi (lett. a, necessaria finalità di profitto; lett. b, finalità di porre in commercio in relazione alla detenzione di falsi – Cass. pen., 6.2.2017, n. 5431 – e all’introduzione degli stessi nel territorio dello Stato); il dolo richiesto è poi intenzionale rispetto alla conoscenza (necessariamente attuale ed effettiva) della falsità delle opere autenticate o variamente “periziate” nelle lett. c) e d).
Il “sistema” delle contraffazioni include altresì una specifica esimente (causa di non punibilità: Cass. pen., 5.10.1984, n. 8075; causa di atipicità: Cass. pen., 17.11.1995, n. 11253) ove l’opera sia dichiarata espressamente non autentica «all’atto della esposizione o della vendita, mediante annotazione scritta sull’opera o sull’oggetto» o, quando ciò non sia fattibile in pratica, «mediante dichiarazione rilasciata all’atto della esposizione o della vendita», come pure in caso di «restauri artistici che non abbiano ricostruito in modo determinante l’opera originale» (art. 179). È infine prevista una specifica ipotesi di confisca obbligatoria degli esemplari contraffatti, con divieto permanente di vendita nelle aste dei corpi di reato (art. 178, co. 4).
Come anticipato (v. supra, § 2.2), nel 2009 la ratifica da parte dell’Italia di due convenzioni internazionali ha condotto al più massiccio inserimento di nuove fattispecie a tutela del patrimonio culturale che il nostro ordinamento penale abbia conosciuto negli ultimi decenni. In particolare, la l. n. 45/2009, di ratifica ed esecuzione del Secondo protocollo (1999) alla Convenzione dell’Aja ha introdotto un articolato gruppo di nuove fattispecie all’interno del nostro diritto penale militare, fin qui di fatto non interessato dalla massiva decodificazione che da tempo ha colpito il diritto penale ordinario (cfr. Rivello, P., La nozione di reato militare alla luce dell’art. 14 della legge 16 aprile 2009 n. 45, relativa alla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, in Rass. giust. milit., 2009, www.difesa.it). Va per altro precisato che soggetto attivo delle nuove fattispecie, applicabili ove il fatto sia commesso nel corso di un conflitto armato o di missioni internazionali (art. 6), può essere «chiunque»: la giurisdizione spetterà pertanto al tribunale militare solo ove i reati in esame siano commessi da un appartenente alle forze armate, risultando, diversamente, perseguibili dal tribunale ordinario; sempre in tema di giurisdizione, l’art. 6 adotta un generalizzato principio di universalità, mitigato solo dalla condizione di procedibilità che richiede la presenza dell’autore del reato sul territorio italiano, andando dunque a integrare una delle ipotesi di cui all’art. 7, co. 5, c.p. (cfr. Maugeri, A.M., La tutela dei beni culturali nell’ambito dei conflitti armati: la l. 16.4.2009 n. 45, in Leg. pen., 2010, 9).
Sulla falsariga del Protocollo, la l. n. 45/2009 prevede una tutela più intensa per i beni sottoposti, ai sensi di questo, a protezione rafforzata (artt. 7, co. 2, 8, co. 2, 10, co. 3, e 12, co. 2), ma procede comunque a penalizzare anche condotte non soggette a stretto obbligo pattizio di criminalizzazione, configurando così i nuovi delitti di attacco e distruzione di beni culturali (art. 7), utilizzo illecito di beni culturali protetti (art. 8), devastazione e saccheggio di beni culturali protetti (art. 9), impossessamento illecito di beni culturali protetti (art. 10, co. 1), danneggiamento di beni culturali protetti (art. 10, co. 2), esportazione e trasferimento illeciti di beni culturali protetti (art. 11) e alterazione o modificazione d’uso di beni culturali protetti (art. 12). In queste fattispecie la produzione di un effettivo danno alla cosa di interesse culturale, per lo più non richiesta come requisito di fattispecie dal regime convenzionale, va a integrare (ove non costituisca già elemento costitutivo del fatto) un’aggravante di reati configurati come di pericolo astratto (artt. 7, co. 3, 8, co. 3, 11, co. 2, e 12, co. 3); aggravante che, soggetta all’ordinario regime dell’art. 59, co. 2, c.p. come prevalentemente interpretato dalla giurisprudenza (per tutte Cass. pen., 9.12.2016, n. 52321), implica l’applicazione della circostanza laddove il danno risultasse per l’agente anche solo prevedibile quale conseguenza della sua condotta intenzionale. La comprensione dei molteplici elementi normativi delle nuove fattispecie implica il rinvio alle disposizioni convenzionali (come integrate dal Protocollo), con tutte le conseguenti implicazioni in tema di colpevolezza (v. anche supra, § 3.2). L’art. 13 trasferisce nell’ordinamento penale interno, per altro nella forma di causa di esclusione della punibilità anziché come scriminante o causa di atipicità, l’aver agito in condizioni di necessità militare imperativa (Maugeri, A.M., La tutela, cit., 12).
La l. n. 157/2009, di ratifica e attuazione della citata Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, ha, infine, introdotto nel nostro ordinamento una serie di contravvenzioni volte a reprimere: l’omessa denuncia all’autorità competente (ai sensi degli artt. 5 e 6) di ritrovamenti archeologici subacquei occorsi, rispettivamente, nelle zone di protezione ecologica o sulla piattaforma continentale italiane, e nella zona economica esclusiva o sulla piattaforma continentale di un altro Stato parte della Convenzione o nell’area internazionale dei fondi marini (art. 10, co. 1 e 2; la pena è la stessa dell’art. 175, lett. b, d.lgs. n. 42/2004, cui la previsione è affine, ma che non conosce una causa di esclusione della punibilità, con degradazione a illecito amministrativo, affine a quella prevista dal co. 3 per i casi di ritardata denuncia); l’omessa denuncia preventiva di eventuali interventi sul patrimonio culturale subacqueo situato nella zona economica esclusiva o sulla piattaforma continentale di un altro Stato parte o nell’area internazionale (art. 10, co. 4) e l’aver dato inizio a detti interventi dopo la presentazione della denuncia, ma prima dell’ottenimento della relativa autorizzazione, ove questa competa alle autorità italiane (art. 10, co. 6); l’attuazione di interventi sul patrimonio culturale subacqueo situato nelle zone di protezione ecologica o sulla piattaforma continentale italiane senza previa autorizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali, o effettuata contravvenendo al progetto approvato in sede di autorizzazione (art. 10, co. 5, fattispecie affine a quella dell’art. 175, lett. a, d.lgs. n. 42/2004). Infine, la l. n. 157/2009 ha introdotto anche una nuova fattispecie delittuosa (art. 10, co. 7) di importazione o commercio di «beni del patrimonio culturale subacqueo recuperati mediante un intervento non autorizzato», peculiare e innovativa per l’inedita criminalizzazione di una (pur molto specifica) ipotesi di importazione illecita.
Fonti normative
Art. 9 Cost.; artt. 452 bis, co. 2, 452 quater, co. 3, 635, co. 2, n. 1), 639, co. 2, 733 c.p.; artt. 169-180 d.lgs. 22.1.2004, n. 42; artt. 6-15 l. 16.4.2009, n. 45; art. 10 l. 23.10.2009, n. 157; art. 28 Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, L’Aja, 1954; art. 53 Primo Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1949 relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, Ginevra, 1977; art. 16 Secondo Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1949 relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali, Ginevra, 1977; artt. 15 e 21 Secondo Protocollo alla Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, L’Aja, 1999; art. 8, co. 4, Statuto della Corte Penale Internazionale, Roma, 1998; artt. 8 e 10 Convenzione concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà di beni culturali, Parigi, 1970; art. 17, co. 1 e 2 Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, Parigi, 2001; art. 9 Regolamento (CE) n. 116/2009 relativo all’esportazione dei beni culturali
Bibliografia essenziale
AA.VV., Circolazione dei beni culturali mobili e tutela penale: un’analisi di diritto interno, comparato e internazionale, Milano, 2015; Demuro, G.P., Beni culturali e tecniche di tutela penale, Milano, 2002; Lemme, F., La contraffazione e alterazione d’opere d’arte nel diritto penale, II ed., Padova, 2001; Manacorda, S.-Chappell, D., a cura di, Crime in the Art and Antiquities World. Illegal Trafficking in Cultural Property, New York-Dordrecht, 2011; Manacorda, S.-Visconti, A., a cura di, Beni culturali e sistema penale, Milano, 2013; Manes, V., La tutela penale, in Barbati, C.-Cammelli, M.-Sciullo, G., a cura di, Diritto e gestione dei beni culturali, Bologna, 2011, 289 ss.; Manna, A., a cura di, Il codice dei beni culturali e del paesaggio. Gli illeciti penali, Milano, 2005; Mantovani, F., Lineamenti della tutela penale del patrimonio artistico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 55 ss.; Maugeri, A.M., La tutela dei beni culturali nel diritto internazionale penale. Crimini di guerra e crimini contro l’umanità, Milano, 2008; Maugeri, A.M., La tutela dei beni culturali nell’ambito dei conflitti armati: la l. 16.4.2009 n. 45, in Leg. pen., 2010, 5 ss.; Moccia, S., Riflessioni sulla tutela penale del patrimonio culturale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, 1294 ss.
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