Diritto
(XII, p. 983; App. I, i, p. 517; II, i, p. 788; IV, i, p. 594; V, i, p. 834)
I temi generali della scienza giuridica sono ampiamente trattati nel vol. XII dell'Enciclopedia Italiana, nel quale sotto la voce diritto sono analiticamente esposti in distinti sottolemmi i profili più significativi dei diversi rami delle discipline giuridiche. In seguito i più rilevanti orientamenti teorici emersi nei diversi settori dell'ordinamento giuridico e le profonde modificazioni del sistema normativo italiano hanno ricevuto una specifica trattazione nelle voci delle Appendici. In particolare, sempre sotto la voce diritto, nell'App. IV, al sottolemma Filosofia del diritto e nell'App. V al sottolemma Filosofia e teorie generali, un'ampia esposizione dei più recenti orientamenti della filosofia del d. completa e integra l'analisi delle successive fasi che hanno storicamente caratterizzato questa disciplina. Nell'App. V, al sottolemma Storiografia, sono anche affrontate le nuove prospettive della storiografia giuridica contemporanea. Per quanto riguarda il d. comparato, la progressiva tendenza al raggiungimento di una uniformità nella legislazione dei diversi paesi è stata analizzata nell'App. II, al sottolemma L'unificazione del diritto. Le tematiche del d. costituzionale sono state invece esaminate con specifico riferimento al nuovo ordinamento costituzionale italiano nelle voci costituente (App. II, i, p. 710) e italia: Ordinamento (App. II, ii, p. 75) e successivamente, per quanto concerne le prospettive di riforma della Costituzione, nella voce istituzioni, Riforma delle (App. V, ii, p. 798). Con riferimento al d. amministrativo la progressiva attuazione del principio del decentramento amministrativo dettato dalla Costituzione è trattata nelle voci decentramento (App. II, i, p. 761; III, i, p. 470; IV, i, p. 578), e regioni (App. IV, iii, p. 194), mentre le profonde innovazioni introdotte in tema di pubblica amministrazione (in questa Appendice) sono esposte nella voce amministrazione pubblica (App. I, p. 112; II, i, p. 162; IV, i, p. 116; V, i, p. 150). Nella voce giustizia amministrativa (App. IV, ii, p. 84) è stata ampiamente esposta la riforma degli organi della giustizia amministrativa con l'istituzione dei Tribunali amministrativi regionali. Nella voce codice (App. II, i, p. 632; IV, i, p. 475; V, i, p. 688) sono invece sinteticamente trattate le principali modifiche normative introdotte nella legislazione civile e penale, sostanziale e processuale; in particolare nell'App. V specifico rilievo è riservato, nel sottolemma Codice di procedura penale, all'introduzione del nuovo codice entrato in vigore il 24 ottobre 1989; inoltre, per quanto riguarda il d. canonico, nel sottolemma Codex iuris canonici sono esposti i principi ispiratori del nuovo codice promulgato dal pontefice Giovanni Paolo ii il 25 gennaio 1983. Con riferimento specifico al d. privato l'esposizione dei criteri volti a individuarne l'essenza ha luogo nella voce diritto dell'Enciclopedia al sottolemma Diritto pubblico e diritto privato; il tema della codificazione civile è invece affrontato nelle voci codice dell'Enciclopedia (vol. X, p. 676) e delle Appendici. Nell'Enciclopedia ampio spazio ha avuto inoltre la trattazione teorica degli istituti storicamente più rappresentativi del d. privato. Si segnalano in particolare le voci contratto (XI, p. 253; App. I, p. 466; II, i, p. 685), negozio giuridico (XXIV, p. 505; App. II, ii, p. 398), obbligazione (XXV, p. 93; App. II, ii, p. 430), proprietà (XXVIII, p. 332; App. II, ii, p. 615), possesso (XXVIII, p. 87; App. II, ii, p. 600), successione (XXXII, p. 923; App. II, ii, p. 925) e testamento (XXXIII, p. 721; App. II, ii, p. 993). Infine per il d. comunitario v. la voce unione europea: Diritto comunitario, in questa Appendice, e le voci cee (App. V, i, p. 541) e diritto comunitario (App. V, i, p. 841). I temi relativi al d. internazionale pubblico, descritti con una trattazione generale che non ne trascura i profili storici nella voce diritto: Diritto internazionale dell'Enciclopedia, sono poi ripresi per singoli settori nelle Appendici. Una nuova trattazione generale nella presente voce è stata peraltro ritenuta necessaria per fare il punto, alla fine del 20° sec., sui profondi mutamenti e sui processi evolutivi in corso in questa materia e nella struttura stessa della comunità internazionale. L'attività e gli interventi della massima organizzazione mondiale sono descritti nelle voci nazioni unite (App. II, ii, p. 391; III, ii, p. 229; IV, ii, p. 558; V, iii, p. 640); il fenomeno della cooperazione internazionale istituzionalizzata è analizzato nella voce organizzazione internazionale (App. III, ii, p. 321); la voce mare (XXII, p. 264; App. II, ii, p. 263; IV, ii, p. 392), ripresa anche in questa Appendice per illustrare le rilevanti novità introdotte dall'entrata in vigore, nel 1994, della convenzione delle Nazioni Unite sul d. del mare, segue le tendenze evolutive che hanno accompagnato il d. internazionale marittimo nella seconda metà del 20° sec.; nella voce ambiente (App. V, i, p. 143 e in questa Appendice; v. anche ambiente e paesaggio, App. IV, i, p. 110) si analizzano le difficoltà cui dà luogo l'esigenza di affrontare sul piano internazionale il problema sempre più drammatico del degrado dell'ambiente naturale e si descrivono gli sforzi intrapresi dalla comunità internazionale nel quadro delle organizzazioni internazionali competenti. Infine, la materia del d. internazionale privato, ampiamente descritta, soprattutto sotto il profilo teorico, nella voce diritto: Diritto internazionale, dell'Enciclopedia, ha richiesto nella presente voce una nuova trattazione, nella quale si dà conto della riforma del sistema italiano di d. internazionale privato introdotta con la l. 31 maggio 1995 nr. 318. *
Diritto privato
di Natalino Irti
L'evoluzione del diritto privato nel 20° secolo
Nei primi anni del 20° sec. i giuristi erano forse in grado di offrire una definizione del d. privato. Con sufficiente precisione la sfera degli interessi privati era distinguibile da quella degli interessi pubblici: affidati, gli uni, all'autonomia dei singoli; gli altri, alle leggi dello Stato e all'azione amministrativa. Lo Stato liberale non orientava le scelte della coscienza né dirigeva i negozi dell'economia: agnostico e neutrale, si limitava a predisporre la tutela giudiziaria dei diritti, e, soprattutto, della proprietà e dei crediti derivanti dal contratto.
Da qui l'esaltazione della volontà individuale come fondamento degli istituti giuridici, si dispieghi essa sulle cose del mondo esterno o sull'altrui attività. La volontà del proprietario e la volontà del creditore esprimono l'essenza dell'individualismo giuridico.
È ben vero che il d. privato si dirama nel d. civile e nel d. commerciale, e che i rapporti civili si contrappongono ai rapporti commerciali, ormai dominati dalla figura dell'impresa e dalla produzione in serie. Ma tutti sono rapporti privati, non pubblici, in cui il singolo agisce come individuo particolare, e non come cittadino, e tutti potrebbero anche chiamarsi rapporti civili, cioè vincoli della società civile, estranei ai vincoli pubblici. In questo senso, il d. privato è d. civile, d. dell'hegeliana particolarità, che confina con il d. pubblico, e insieme ne segna il contenuto e la funzione. Il d. pubblico protegge, ma non costituisce le posizioni dei singoli; tutela dall'esterno, ma non penetra dentro le relazioni civili. I due campi sono definiti in base a un criterio ideologico, che, prendendo veste di teoria giuridica, rivendica l'intangibile primato della proprietà privata e dei vincoli contrattuali. L'ideologia politica si traduce nelle dottrine del d. soggettivo e del negozio giuridico.
Ma nel costituirsi stesso del d. privato, come ramo della legislazione e corpo di dottrine, si annida un principio di antinomia. I codici civili, mortificando le altre fonti del d. e raccogliendo in sistema la disciplina dei rapporti privati, disvelano pure l'essenza della sovranità statale, che assume il monopolio normativo e nulla tollera fuori o sopra di sé. I codici, nell'atto di garantire la continuità della proprietà e la stabilità dei vincoli negoziali, dichiarano il primato della legge statale. Il d. della società civile si fa legge dello Stato; e così rinuncia alla pretesa di un'originaria neutralità, poiché sempre la legge dello Stato è decisione politica. L'antitesi tra sfera civile e sfera politica, tra autonomia privata e legge, tra interessi dei singoli e interessi pubblici, non può più sopravvivere all'interno dei codici: organismi di norme, in cui si manifesta la sovranità statale, e che la scienza del d. proclama in sé conclusi e completi. Il costo della protezione, che i codici offrono ai rapporti della società civile, sta proprio nella perdita di originarietà e di neutralità politica.
Stato liberale e positivismo legislativo finiscono per rivelare principi sostanzialmente avversi. L'uno, il principio dei limiti dello Stato, di un àmbito esclusivo e originario dei privati; l'altro, il principio che ogni d., e dunque anche il d. civile e commerciale, si risolve nella legge, e che la legge è legge dello Stato. Essi si rendono compatibili mercé l'asserzione che la legge dello Stato, pur elevata a fonte suprema del d., è tenuta sempre a ritagliare una sfera degli interessi privati: asserzione, tutta politica e ideologica, che esprime la volontà di un dato contenuto legislativo, e non un limite intrinseco del potere statale. Così, il d. privato trascorre da d. della società civile, esterna allo Stato, a partizione del d. statale. Le vecchie definizioni del d. soggettivo e del negozio giuridico sono sottoposte a severa critica: H. Kelsen ne compie la dissoluzione all'interno di un sistema di norme che, procedendo in dinamica unità dall'alto verso il basso, conosce soltanto norme valide o invalide, rifiutando la considerazione degli interessi e strappando i veli del giusnaturalismo borghese.
Cade la stessa distinzione tra d. privato e d. pubblico, poiché contratto e legge sono parimenti fonti di norme, e la validità delle norme poste dai privati deriva dall'osservanza delle procedure di produzione stabilite dalla legge. Contratto e legge non si fronteggiano come principi di ordini diversi: essi appartengono allo stesso ordine, come gradi di una gerarchia, che ambedue comprende e spiega. A questo punto, la difesa e la salvaguardia del d. privato si risolvono non già nella rivendicazione di una sfera prestatale, ma nello stabilire o promuovere dati contenuti legislativi, cioè in un atteggiamento interno al d. statale. Il quale ultimo è arbitro - arbitro politico, e non neutrale e agonistico - di dilatare o ridurre lo spazio dei rapporti privati, che è lo spazio degli accordi volontari, e non dei comandi legislativi o amministrativi. Stato di diritto è lo Stato, che, restringendo l'ambito dei comandi, allarga lo spazio dei negozi privati; e Stato di diritto è del pari lo Stato in cui i beni non siano volontariamente scambiati, ma assegnati con atti amministrativi o in base a criteri stabiliti dalla legge. La formula dello 'Stato di diritto' si svuota di ogni identità sostanziale: essa tutto può contenere, a tutto può imprimere il carattere della giuridicità. Da 'Stato dei diritti individuali', lo Stato di diritto trascorre a puro Stato di norme giuridiche.
L'intervento statale nell'economia
La dissoluzione normativa del d. privato si verificò intorno agli anni Venti e Trenta del 20° sec., caratterizzati dall'intervento statale nell'economia. Prima, la legislazione del tempo di guerra e le misure adottate per le famiglie di soldati e reduci; poi, la crisi mondiale e il crollo delle banche miste (banche detentrici di partecipazioni in società industriali, a loro volta indebitate verso di esse e azioniste delle medesime) indussero gli Stati europei a disciplinare vasti campi dell'economia e ad assumere controllo e gestione di imprese essenziali. L'intervento pubblico si svolgeva così in due diverse specie: dello Stato regolatore, che emana leggi in materia di produzione, lavoro, scambi; e dello Stato imprenditore, il quale, controllando e gestendo imprese, si fa soggetto tra i soggetti dell'economia.
Si determinava una concordanza di singolare rilievo: mentre la teoria pura del d., sospingendo agli estremi corollari il positivismo legislativo, s'incaricava di dissolvere le pretese extrastatali del d. civile, lo Stato invadeva antichi territori dei privati, rivestendone le forme e utilizzandone gli strumenti.
Fenomeni che si prestavano (come in effetto seguì) a discordi letture: o di incalzante riduzione del d. privato, poiché 'tutto diviene pubblico', o di più larga fruizione degli istituti del d. privato, slegati dai bisogni particolari e posti al servizio di interessi pubblici. Letture, a ben vedere, non incompatibili, poiché la prima, riguardando lo Stato legislatore, accerta la riduzione dello spazio contrattuale; e la seconda, concernendo lo Stato imprenditore, censisce l'uso di figure tecniche, già tenute per proprie ed esclusive del d. privato.
Il tema vero e fondamentale era un altro: che l'economia, diremo con W. Rathenau, non costituiva più un affare privato; che essa veniva ormai spogliata della sua farisaica neutralità e immersa nelle aspre lotte della politica. Il d. privato, come d. della società civile e della particolarità economica, è tratto all'interno dell'unico e unitario ordine giuridico, che è l'ordine statale. Le sue battaglie si svolgono ormai dentro la politicità del d. statale. Economia e politica, che prima si contrapponevano come il fuori e il dentro dello Stato, si riconoscono identiche: l'economia sa che produzione, lavoro, scambi non sono fenomeni naturali; la politica si avvede che l'agnosticismo in materia economica costituisce, anch'esso, una presa di posizione statale.
Le comunità intermedie tra il cittadino e lo Stato
Lo scorcio del 19° sec. e i primi decenni del 20° assistono a un altro fenomeno, destinato a incidere profondamente sull'antica fisionomia del d. privato. Affiorano, e a mano a mano si rinvigoriscono e consolidano, interessi associativi, che esprimono bisogni ed esigenze di collettività diverse dalla società statale: dunque, non interessi individuali, ma neppure interessi pubblici. I sindacati operai e contadini ne costituiscono gli esempi più importanti. Il d. privato, conoscendo soltanto interessi dei singoli, riconduce il rapporto di lavoro all'ordinaria fonte della volontà: si tratterebbe pur sempre di scambio tra mercede ed energie fisiche del lavoratore. Ma la struttura della grande impresa e la produzione in serie determinano innumerevoli situazioni identiche che, nell'imponenza quantitativa e nell'organica necessità dell'economia, provocano una diversa qualità della stessa fonte negoziale. Le parti sono ormai gruppi stabili di imprenditori e di lavoratori, che regolano, non un concreto rapporto, ma serie di rapporti futuri, e di rapporti vincolanti tutti i membri di una data categoria professionale. Giunto a questo grado di maturità, l'accordo collettivo si mostra impaziente di sciogliersi dalle anguste figure del d. privato, per le quali il contratto è in grado di vincolare soltanto i soggetti che vi hanno concorso con la loro volontà. L'efficacia collettiva, svolta nei confronti di tutti i membri della categoria professionale, esige una forma diversa da quella del contratto, e quando, scrive F. Carnelutti sul finire degli anni Venti, "in maggiore o minor misura questa forma viene concessa, il gruppo si converte da semplice soggetto di diritto privato in soggetto di diritto pubblico, figura e persona intermedia tra il cittadino e lo Stato" (1927, p. 47).
L'attrazione del fenomeno verso il d. pubblico non può nasconderne la straordinaria importanza per lo stesso destino del d. privato. Il quale mostra di tutelare anche interessi diversi da quelli individuali, e tuttavia non pubblici, e di porsi al servizio, non soltanto di soggetti, ma pure di comunità 'intermedie tra il cittadino e lo Stato'. È ben vero che la libertà di associazione è già nelle carte ottocentesche, ma lo sguardo del giurista, preso dal rapporto tra singolo e Stato, non si era mai spinto all'interno dei gruppi, mai aveva collegato l'esercizio di quella libertà agli istituti del d. privato. Egli scopre ora nuove forme di autonomia che, in luogo di esaurirsi nella rigida fissità del rapporto obbligatorio e del d. reale, fondano e governano la vita delle comunità.
Il problema dell'autonomia collettiva è proprio in ciò: se essa sia bisognosa di una forza esterna, che le consenta di trascendere i soggetti dell'accordo e di durare nel tempo oltre di loro; o se il d. privato sia in grado di offrire alla libertà di associazione gli strumenti organizzativi, di cui le comunità intermedie debbono pur valersi. Scriviamo 'comunità', anticipando storicamente una parola che soltanto negli anni Cinquanta sarà messa in valore da P. Rescigno, e che reca nel tema una densità di domande e di richiami del tutto ignoti nel primo albeggiare dei fenomeni associativi.
Diritto privato e regimi totalitari
I totalitarismi europei, instauratisi tra le due guerre mondiali, stringono ancor più duramente il cerchio della legge statale intorno al d. privato. La totalità - dello Stato, del partito unico, o del movimento ideologico - non tollera, non può tollerare, principi originari, non derivabili o inscrivibili nel tutto.
Lo Stato di diritto, ormai svuotato di contenuto sostanziale e ridotto a semplice vaso di materiale legislativo, si piega al totalitarismo politico. Il cammino dei dittatori è, in Italia e in Germania, un percorso di pura legalità.
Il d. privato cerca spazio all'interno del nuovo ordine (in fondo, la borghesia accompagna con favore l'avvento di regimi totalitari: e ciò che le è tolto in sede teorica, le va restituito nella concreta tutela degli interessi). Abbandonata la pretesa a un'originarietà o naturalità pre-statale, riconosciuta la compenetrazione fra economia e politica, il d. privato si ridefinisce all'interno della legge positiva. Il Kampf wider das subjektive Recht e le aspre critiche alla volontà individuale come fondamento del negozio giuridico costringono la teoria a degradare i due istituti a semplici autorizzazioni o deleghe del potere statale. Non più forme essenziali della società civile, che esigono dallo Stato riconoscimento e tutela, ma mezzi accordati dalla legge, e dunque mutevoli e precari.
Lo stesso istituto dell'impresa, che è al centro dell'economia moderna e dei nuovi codici civili (così dell'italiano del 1942, in cui si unificano i vecchi codici civile e commerciale), è attirato nella totalità politica, chiamato a perseguire scopi definiti dalle autorità di governo, fatto responsabile dinanzi alla nazione. Il positivismo legislativo è messo al servizio dei regimi totalitari, e, a quel modo che ogni figura giuridica è inserita nella gerarchia delle norme, dove trova la propria validità, così tutti gli istituti del d. privato, dai più antichi ai più nuovi, vengono immessi nell'unità dell'organismo politico. Certo, si rammentano nobili difese della tecnica giuridica e dignitosi rifiuti, i quali però mostravano, da un lato, di non avvertire l'implacabile logica del positivismo legislativo, e, dall'altro, di occultare, sotto lo schermo della neutralità teorica, la nostalgia o l'attesa di un diverso ordine politico.
Perché questo, a ben vedere, è il destino del d. privato, una volta che esso abbia domandato la protezione della legge, o che la legge dello Stato risulti, nell'effettualità storica, più forte e vigorosa. Non potendo più rivendicare l'extrastatualità, il d. privato diviene, anch'esso, teatro di lotta politica; e non resta che opporre politica a politica, ossia certe leggi e disegni di leggi ad altre leggi e disegni di leggi. La difesa del d. privato non è nell'austera asserzione della tecnica, ma nel desiderare e procurare la vittoria di dati contenuti legislativi. La teoria pura del d. e i totalitarismi statali ci hanno insegnato la profonda politicità del d. privato.
Il diritto privato dopo la Seconda guerra mondiale
Le Costituzioni europee, seguite alla Seconda guerra mondiale e al crollo dei regimi totalitari, restituiscono dignità ai diritti fondamentali, che sono non solo garantiti, ma 'riconosciuti' dalle carte, e dunque considerati preesistenti allo Stato e propri dell'uomo come tale. È ben vero che codesta dignità non è accordata, o è spesso negata, a istituti essenziali del d. privato, per es., alla proprietà e alla libertà d'iniziativa economica, provvisti di semplice garanzia costituzionale; ma il positivismo legislativo subisce tuttavia una grave incrinatura. Si reagisce allo svuotamento dello Stato di diritto, che invece le nuove Costituzioni vogliono e disegnano come Stato dei diritti, e, soprattutto, dei diritti fondamentali e dei diritti sociali, sicché l'uomo si dispieghi nella singolarità della persona e nei vincoli della solidarietà collettiva. Diritti fondamentali e diritti sociali si difendono con misure di tecnica giuridica (come, per es., dichiarazioni d'intangibilità o previsioni di maggioranze deliberative più gravi); ma la vera protezione sta in ciò, che la violazione di essi, perpetrata da qualsiasi tipo di legge e non sanata dai congegni interni del sistema, provoca una rottura dell'ordine costituzionale e l'instaurarsi di un nuovo ordine. Sta, ancora una volta, in una forza storica e politica, capace di prevalere sulle altre e di garantire la continuità dell'ordine esistente.
Si deve inoltre sottolineare come, mentre i diritti fondamentali si studiano di tracciare un confine invalicabile dal potere statale, i diritti sociali (appartengano o meno alla stessa categoria dei primi) chiedano allo Stato il loro soddisfacimento. Come diritti a prestazioni positive, e non alla semplice prestazione negativa di non ingerenza, i diritti sociali attendono di essere soddisfatti dallo Stato legislatore e amministratore, ossia attraverso norme e coerenti atti esecutivi. La Costituzione li dichiara; il legislatore ordinario appresta risorse finanziarie e criteri generali; l'amministrazione li soddisfa. E così, con nuovo principio di contraddizione, se i diritti fondamentali esigono il rispetto come dinanzi a qualcosa che è anteriore allo Stato, i diritti sociali si svolgono e soddisfano entro le funzioni dello Stato. Il quale riguadagna, nel soddisfacimento dei diritti sociali, ciò che perde, si direbbe, nel riconoscere i diritti fondamentali. Gli uni reclamano più Stato, gli altri, meno Stato. Il d. privato si trova in una profonda antinomia: rinvigorito dal riconoscimento dei diritti fondamentali, e restaurato nell'originarietà delle sue pretese, perde i territori occupati dallo Stato sociale. Da un lato, abbraccia nuovi beni e interessi (dalla salute all'ambiente, dalla vita privata alla riservatezza); è spogliato, dall'altro, di servizi e prestazioni, già appartenenti ai rapporti di scambio, e ora amministrati dallo Stato. È un'antinomia che le norme costituzionali non riescono a nascondere proprio nelle materie economiche: dove si garantisce la libertà d'iniziativa, e insieme si demanda alla legge l'ufficio d'istituire controlli e programmi; dove si tutela l'attività privata, e insieme si prevedono monopoli pubblici (esemplari, al riguardo, gli artt. 41 e 43 della Costituzione italiana). L'intreccio tra eredità liberale e influenze dirigistiche, tra regole del mercato ed erogazione di servizi pubblici, fa capo ad ambigue formule costituzionali, da cui attingono, di tempo in tempo, fragili governi di coalizione e compromessi di partiti politici.
L'età della decodificazione
Il d. privato è terreno, ancora una volta, di battaglia politica. Il potere legislativo, sollecitato dai discordi impulsi costituzionali, aggira il codice civile con innumeri norme, che gli studiosi classificano tra le speciali ed eccezionali. Ascritte all'una o all'altra categoria, esse erodono i codici, impoveriscono i principi generali, introducono nuovi criteri di disciplina, che, nel reiterarsi e stratificarsi delle leggi, risultano dominanti ed egemoni. Il fenomeno, denominato alla fine degli anni Settanta come decodificazione (Irti 1989), registra il rapporto tra codice civile e leggi speciali: il primo, fermo in Italia al 1942; emanate, le altre, per iniziativa di governi di coalizione e per stimolo delle formule compromissorie della Costituzione. Non si negava allora la grandezza della tradizione tecnica, incorporata nel codice civile, ma l'identificazione storica tra codice civile e d. privato. E si descriveva il moltiplicarsi di microsistemi, ciascuno raccolto intorno a un nucleo di interessi, messo al servizio di singole categorie sociali, latore di un particolare linguaggio. I diritti sociali, risolvendosi in pretese di gruppi economici, reclamavano un'incessante produzione di norme, subito consumate e sostituite da altre. Norme, se si vuole, deboli nell'orditura tecnica e nei contenuti ideali; ma pur sempre norme, e, dunque, rientranti nell'ordinamento, e bisognose di esegesi e di collocazione sistematica.
L'esperienza di quegli anni - del periodo storico che si chiude definitivamente nel 1989 - merita un giudizio di sostanziale favore. Il d. privato, ancorché combattuto sul terreno economico da ultimi fermenti dirigistici, e ristretto dalle prestazioni amministrative dello Stato assistenziale, si arricchisce di nuovi temi e prospettive di studio. Più feconde, tra le altre, due direzioni: verso la scoperta e la tutela di beni esistenziali, che toccano l'uomo nella sua elementare fisicità e nella sua inconfondibile singolarità (salute e riservatezza, ambiente e lavoro ecc.); verso la più intensa considerazione di forme associative, in cui l'individuo, ormai spogliato o impoverito di autonomia nei rapporti economici, svolge il potere di vincolarsi con altri. Un cospicuo libro di P. Rescigno s'intitolò a ragione Persona e comunità (1966), dove le due parole, insieme congiunte e disgiunte, prendono il luogo delle più antiche e consuete 'soggetto e associazione', proprio per esprimere, nell'intensità di echi religiosi e ideologici, l'esistenzialità dell'uomo conteso tra solitudine e rapporto con gli altri. Così, mentre lo Stato assistenziale e gli accordi tra governi di coalizione e gruppi sociali riducevano il territorio del d. privato in favore di soluzioni legislative o amministrative, i diritti fondamentali secondavano la scoperta o riscoperta di figure privatistiche, riversandovi nuove risonanze ideologiche e politiche.
Il diritto privato e i principi comunitari: le privatizzazioni
Abbiamo già indicato il 1989 come data conclusiva di un periodo storico, data, certo convenzionale, ma che pur segna l'inizio di un travaglio e apre una fase di transizione non ancora esaurita. Il crollo del regime sovietico e del collettivismo economico ha la virtù di sciogliere, con la prepotenza delle cose accadute, le ambiguità delle formule costituzionali. Il dirigismo appartiene ormai al passato; la nuova parola d'ordine è 'privatizzazione'. Lo Stato si ritrae da controllo e gestione delle imprese, non scende più soggetto tra i soggetti economici. A esso si demanda una semplice funzione regolatrice, cioè di dettare norme e tracciare cornici legislative, lasciando ai privati le scelte della produzione e dello scambio. Il d. privato gode di un'espansione quantitativa (in ispecie, nell'istituto della società per azioni); mentre il d. pubblico, al fine di tutelare l'interesse collettivo e di adempiere la funzione regolatrice, ricorre a nuove figure o trapianta in Italia figure straniere ('azione d'oro', autorità indipendenti ecc.).
Le privatizzazioni s'inscrivono nell'ideologia liberistica, che trova fondamento giuridico nei trattati europei, i quali, elevando a principi supremi di disciplina il mercato e la libera concorrenza, costruiscono uno spazio senza frontiere interne: uno spazio economico, una pura rete di scambi che si estende al di là dei territori di singoli Stati.
Riconosciuta alle norme dei trattati e dei regolamenti comunitari la forza di rendere non applicabili le stesse norme costituzionali (con l'estremo limite dei principi fondamentali e dei diritti inalienabili della persona umana), i valori del mercato e della libera concorrenza occupano il vertice del sistema giuridico. Un primato non scevro di antinomie, se appena si consideri che le formule costituzionali, mediatrici tra mercato e dirigismo economico, sono sorrette dal più largo consenso popolare, mentre i trattati europei si appoggiano alla semplice legge di ratifica. Sta di fatto che il d. privato può raccordarsi ai principi della comunità europea, e rivendicare la posizione di d. non statale dell'economia.
Si assiste così a uno di quei processi di neutralizzazione, genialmente segnalati da C. Schmitt: il d. privato, come d. del mercato, dichiara il proprio fondamento in leggi non statali, disciolte dai confini territoriali, e regolatrici di un puro spazio economico. Non più l'antitesi tra società civile e Stato, ma tra Europa economica e Stati territoriali, fra tecnocrazie della finanza e partiti politici. Poco o punto giova il rammentare che anche la decisione di costituire uno spazio economico è una decisione politica, e che la lotta non si agita tra economia e politica, ma tra due diverse concezioni della politica. Rimane diffuso il convincimento, o l'ingenuo credere, che il mercato comunitario esprima una sorta di naturalità degli scambi, e perciò si contrapponga all'artificialità delle leggi statali.
L'assunzione dei principi comunitari al rango più alto della gerarchia normativa ha determinato un grave indebolimento della Costituzione, la quale, contestata anche nella genesi storico-politica e nella garanzia dell'unità territoriale dello Stato, è ormai priva di efficacia propulsiva. Rifiutato il modello dell'economia mista, sottoposto a dura critica lo Stato assistenziale (e, dunque, gli stessi diritti sociali come diritti a prestazioni erogate da strutture pubbliche), dibattute le forme di governo, la Costituzione rimane custode dei diritti fondamentali, ma non più sollecita e genera leggi di attuazione. Le leggi speciali o eccezionali - che per l'addietro si giustificavano con il richiamo a valori costituzionali poco o nulla attuati, e perciò si facevano portatrici di criteri di disciplina estranei o avversi al codice civile - hanno perduto il fondamento ideologico e politico della loro importanza.
Si spiega così che il codice civile, non più soverchiato da principi costituzionali, e invece rinvigorito con il legame alla libera Europa della concorrenza e degli scambi, guadagni un plusvalore politico (Irti 1995): cioè, si configuri, o torni a configurarsi, come statuto della particolarità e degli interessi economici, affidati all'autonomia dei singoli. Negli anni di transizione, succeduti agli eventi del 1989, il codice civile, forte ormai dell'ideologia del liberismo e affrancato dall'ombra di valori diversi, mostra intatta la sua capacità di durare, di attraversare regimi, di garantire il tessuto della quotidianità. Mentre per l'innanzi la Costituzione sottometteva a sé il codice civile, aggirandolo o accerchiandolo con le leggi speciali di attuazione, e così garantendo l'unità del sistema, ora il codice civile si raccorda ai principi dei trattati europei, poiché anch'esso contiene un diritto delle libertà economiche e degli scambi (si raccorda, come è ovvio, nel senso di concordanza ideologica, e non già di omogeneità dei rapporti). Insomma, l'indebolimento della politicità costituzionale, il primato normativo dei trattati europei, il declino dello Stato imprenditore e dello Stato assistenziale, sono fattori che restituiscono al codice civile la dignità e la funzione, già erose dal flusso delle leggi decodificanti. Al codice civile, custode, ben s'intende, di un'altra e diversa politicità.
Le nuove prospettive del diritto privato
Il d. privato tenta, dunque, di affrancarsi dal positivismo legislativo: invocando i trattati europei e l'originaria naturalità dell'economia, esso rifiuta il fondamento della legge statale. Bisogna però osservare che la comunità europea è una comunità giuridica (Rechtsgemeinschaft, secondo la formula del Tribunale costituzionale federale), e che gli Stati, rimanendo 'signori dei patti', hanno integro il potere di recederne, e, altresì, che il mercato non è locus naturalis, ma locus artificialis, costruito e governato dal d. in funzione di singoli beni o categorie di beni (Irti 1998). La pretesa all'originaria naturalità ha carattere ideologico e politico, e si studia di nascondere, dietro il velame del tecnicismo economico, la volontà di un dato ordine giuridico: ordine sempre, e sempre decisione costitutiva dello Stato, ancorché si risolva nel disinteressarsi della produzione e degli scambi. La lotta contro lo Stato non è una lotta contro la politica, ma una lotta della politica e nella politica.
Discorriamo di d. privato, ma dovremmo ora separare, all'interno di esso, il d. civile e il d. commerciale. L'unità del codice non è più in grado di occultare l'eterogeneità dei rapporti. Il d. civile è il d. del singolo, titolare di beni esistenziali e promotore di vincoli comunitari, parte di accordi che nascono dal dialogo con altre parti. Il singolo è un soggetto determinato, e accolto dal d. nella sua propria determinatezza. Il d. commerciale è d. dei rapporti di massa, dove la parte scompare nella sua individualità, e compie atti anonimi e iterativi. Fisionomie d'insieme, che certo impoveriscono e semplificano la realtà, ma servono a indicare una direzione storica. Il mondo contemporaneo propone un uomo frazionario, che, nel breve arco di un giorno o di un'ora, è diviso tra esperienze della singolarità ed esperienze di massa, tra scambi dialogici e scambi meccanici, tra spontaneità del linguaggio e rigidità delle teletecnologie. Non gioverebbe né alla precisione della disciplina legislativa né alla proficuità degli studi di raccogliere le due 'frazioni' dell'uomo contemporaneo nell'unità del d. privato: s'intende, del d. privato come legge e scienza del tutto (ma nulla vieta di usarne il nome per indicare l'uno e l'altro campo, e distinguerli dal d. pubblico). D. civile e d. commerciale, insomma, non si riferiscono a rapporti omogenei: i rapporti dell'uno richiamano la singolarità delle parti e la territorialità degli Stati; i rapporti dell'altro richiamano la ripetitività di massa e la pura spazialità dei mercati.
L'autonomia, assunta da sempre come fondamento del d. privato, si configura ormai in modi diversi. Esaurite le dispute sul negozio giuridico, il quale, come categoria storiografica, serve soltanto a descrivere una fase ideologico-politica del d. privato, l'autonomia prende più sicure e limitate determinazioni. Nel d. civile, autonomia è soprattutto l'erigere e governare gruppi associativi: l'art. 18 della Costituzione italiana, conferendo ai cittadini il "diritto di associarsi liberamente […] per fini che non siano vietati ai singoli dalla legge penale", tutela un'autonomia organizzativa, volta a perseguire un qualsiasi scopo non vietato dalla legge penale. Qui libertà costituzionale e autonomia privata sono tutt'uno: la prima senza la seconda sarebbe vana; la seconda senza la prima debole e precaria. Nel d. commerciale o, più generalmente, nel d. degli scambi, autonomia non designa più una forza creatrice della volontà, ma una tutela della parte, predisposta attraverso la disciplina del mercato. Homo socialis nel d. civile; homo oeconomicus nel d. degli scambi: in ambedue i campi, un'autonomia che trae fondamento dalla legge, costituzionale od ordinaria. Il d. privato, quali che siano le pretese di naturalità, non riesce a trarsi fuori dal positivismo legislativo, che, dapprima evocato come esterno protettore, incombe ormai sullo stesso fondamento dell'autonomia. Il problema non sta, almeno a nostro giudizio, nel negarne la derivazione dalla legge positiva, e dunque dallo Stato o dai trattati fra gli Stati, ma nello svelarne, sino all'estremo limite, l'intrinseca politicità (Irti 1992). La lotta per il d. privato è una lotta politica, che si svolge contro altri disegni politici, volti ad affermare il primato del d. pubblico, a ridurre o soffocare la libertà di associazione, a surrogare il mercato con le strutture dello Stato amministrativo. La difesa del d. privato esige la sincerità e il coraggio della battaglia politica. Esso non è più 'separato', e quindi 'privato', dalla vita statale, o dalle intese tra gli Stati, ma - tosto che richiese la protezione della legge - ne fu e rimane per sempre imprigionato.
bibliografia
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Diritto costituzionale comparato
di Giuseppe de Vergottini
Nel delineare un panorama delle più significative esperienze costituzionali contemporanee si intende sottolineare quali siano le linee di tendenza di quella disciplina giuridica che si occupa dello studio comparato degli ordinamenti costituzionali. Di conseguenza si affronterà necessariamente l'intreccio fra sintesi espositiva della situazione degli ordinamenti positivi e illustrazione degli essenziali profili metodologici di quella disciplina che viene abitualmente definita diritto costituzionale comparato.
In via di prima approssimazione, oggetto di quest'ultima è la conoscenza comparata del d. costituzionale proprio di più ordinamenti. Tale approssimazione è corretta e inesatta a un tempo, in quanto di regola, come l'esperienza dimostra, la comparazione non investe, come potrebbe apparire dalla definizione, gli interi ordinamenti, ma piuttosto istituti o gruppi di istituti propri di diversi ordinamenti.
Più puntualmente, il d. costituzionale comparato rientra nell'ambito più vasto della comparazione fra ordinamenti giuridici, limitandosi allo studio di quell'insieme di istituti che ne caratterizza il profilo pubblicistico legato all'organizzazione del potere politico e ai rapporti fra potere organizzato e soggetti individuali e collettivi. In linea di massima quindi il d. costituzionale comparato è interessato allo studio delle forme di Stato e delle forme di governo. Ma tale rilievo pecca sicuramente per difetto, in quanto, ove fosse possibile approfondire l'argomento, emergerebbero altri essenziali spazi di indagine riconducibili agli ambiti di intervento accennati. Si pensi allo studio del concetto di costituzione e di fonte del d., a quello della protezione della costituzione (includente la sua rigidità e l'ampio ed essenziale profilo della garanzia affidata alle corti costituzionali) e, in particolare, a quello dei diritti di libertà.
Il cenno che segue alle forme di Stato e di governo, abitualmente trattate dalla dottrina comparatistica, vuole quindi avere un significato esemplificativo e non certo esaustivo.
Le applicazioni della comparazione
Forme di Stato. - La distinzione/correlazione tra concetti di forma di Stato e di forma di governo è pressoché generale nella dottrina italiana. La forma di Stato abbraccia il complesso degli elementi che caratterizzano globalmente un ordinamento con particolare riferimento alle finalità poste come obiettivi all'azione degli organi costituzionali; ma nel suo ambito rientrano anche i conseguenti criteri relativi alla disciplina dello Stato-comunità e ai ruoli dell'individuo e dei gruppi, nonché i criteri relativi allo Stato-apparato e alle sue modalità di intervento. La forma di governo riguarda il complesso degli strumenti congegnati per conseguire le finalità statali e quindi quegli elementi che riguardano la titolarità e le modalità di esercizio delle funzioni attribuite agli organi costituzionali. In questa prospettiva ogni forma di governo si inquadra in una più ampia forma di Stato da cui viene condizionata.
La distinzione tra forma di Stato e forma di governo mira a mettere in evidenza come le strutture di governo disciplinate dalle varie costituzioni, con riferimento alla titolarità e all'esercizio delle funzioni sovrane, non possano essere considerate prescindendo dalla concezione di fondo accolta da ogni Stato quanto alle basi economiche, sociali e politiche e ai connessi principi direttivi cui ispirare la propria azione. È questa concezione di fondo che dà una propria forma allo Stato e che quindi influisce in concreto sull'operare della forma di governo. Accanto a Stati unitari in cui il potere è tendenzialmente accentrato esistono modelli di ordinamenti caratterizzati da un decentramento del potere politico (Stati tradizionalmente definiti Stati di Stati o Stati composti, comprendenti gli Stati federali e quelli regionali). Secondo un'impostazione convenzionalmente accolta, la natura composita dello Stato articolato su più enti politici territoriali comporterebbe la presenza di una particolare forma di Stato. Secondo altri invece non sarebbe appropriato parlare di una forma di Stato federale o regionale ma, semplicemente, di una tecnica di decentramento del potere compatibile con l'unitarietà dell'ordinamento. Altri ancora riportano il modello federale alla forma di governo, in quanto la ripartizione di potere fra centro e periferia tocca la titolarità e l'esercizio del potere nello Stato e quindi presuppone le grandi opzioni caratteristiche dell'individuabilità della forma di Stato complessivamente intesa.
La scienza costituzionalista, tenendo conto delle varietà di ideologie e indirizzi politici storicamente manifestatisi, ha individuato una tripartizione fra Stato di derivazione liberale (cosiddetto di democrazia classica), Stato autoritario fascista, Stato socialista, a volte ampliata in una quadripartizione, in quanto alle tre forme appena indicate se ne aggiunge una quarta, quella propria degli Stati di recente formazione (Stati del Terzo mondo o in via di sviluppo). Un altro orientamento semplifica la classificazione riducendola a una bipartizione fra Stati 'pluralistici' legati alla tradizione delle democrazie occidentali, che comporta un'organizzazione costituzionale della concorrenza pacifica per l'esercizio del potere, e Stati 'monopolitici' a partito unico, che eliminano l'opposizione, variamente definiti: totalitari, autocratici, monopartitici, a potere 'chiuso', indipendentemente dall'ideologia e dagli indirizzi praticati, oppure fra Stati a potere 'ripartito' fra individui, gruppi e loro rappresentanti (regime costituzionale, democrazia) e Stati a potere 'concentrato' (dittatura, autocrazia). Nel primo caso si insiste sull'alternativa pluralismo/monismo a livello di Stato-comunità; nel secondo sull'alternativa ripartizione/concentrazione di potere a livello di apparato statale, ma è evidente la prossimità delle due impostazioni. Il ricordato orientamento bipartito è anche lo schema di riferimento della letteratura politologica che studia le forme politiche statali (ricorrendo in genere al termine regime) senza uscire dalla contrapposizione fra Stati democratici e Stati non democratici. Tendenzialmente questa dottrina ha tentato di approfondire lo studio degli indici di democraticità (indici, ovviamente, individuati secondo criteri variabili e non sempre condivisi) in base al riconoscimento dei quali uno Stato può essere definito democratico, mentre non democratico viene qualificato lo Stato per cui la verifica dia esito negativo. Sono state individuate due tendenze principali: la prima mira a far discendere la democraticità da un'analisi complessiva degli ordinamenti esaminati; la seconda tende a individuare la presenza di libertà ritenute minime per poter dare la qualifica di democratico a un ordinamento e, soprattutto, tramite il grado di libertà riscontrato opera una serie di possibili suddivisioni. Vengono considerati democratici gli ordinamenti che garantiscono il suffragio universale libero e segreto, elezioni periodiche, pluralità di partiti, pluralità delle fonti di informazione. Più complessa l'analisi degli ordinamenti statali non democratici, che rischiano di essere definiti in modo prevalentemente residuale (in quanto comprendenti tutte le esperienze non riportabili al modello democratico).
Dall'esame delle diverse esperienze risulterebbero allora due fondamentali forme di Stato: quella democratica e quella autocratica. Nella prima si attuano istituti che consentono un collegamento reale, prescindendo da forme di imposizione, tra collettività e organi di vertice, si assicura il controllo interpotere e la presenza dell'opposizione politica e si garantiscono i diritti essenziali della persona. Nella seconda i titolari del potere prescindono da una reale investitura da parte della collettività o predispongono strumenti fittizi che solo formalmente riecheggiano quelli degli ordinamenti democratici. Il potere è concentrato in un leader o in una élite e affidato a un solo organo di decisione o a un complesso omogeneo di organi, con rifiuto della funzione dell'opposizione politica, negazione del controllo interpotere, limitazioni dei diritti. Democrazia e autocrazia sono, bene inteso, forme ideali, elaborate per astrazione a livello dottrinale tramite un processo deduttivo e comparativo. Dal nostro punto di vista, che non si discosta da quanto usualmente hanno individuato politologi e giuristi, i criteri metodologici in base ai quali individuare le due forme di Stato sono: la titolarità del potere politico, le modalità del suo uso, la sua finalizzazione. La forma di Stato può essere di conseguenza caratterizzata dalla concentrazione del potere o dalla sua separazione fra più centri di decisione, da forme di esercizio di potere consensuale o imposto a prescindere dal consenso dei governati, da una specifica ideologia che giustifica il suo uso.
Dal vario intrecciarsi di questi criteri emergono le forme di Stato che storicamente si realizzano e che di solito sono indicate facendo riferimento all'ideologia che le caratterizza e che dovrebbe far apparire evidente lo scopo cui tendono i governanti nell'imprimere i loro indirizzi all'apparato statale. Lo Stato liberale, o meglio di derivazione liberale, è basato su un sistema articolato di istituzioni fra loro controllantisi e sul principio della scelta dei titolari delle più importanti funzioni pubbliche nel rispetto delle scelte dei cittadini; un sistema garante dei diritti di libertà e in particolare preoccupato di garantire il principio di libera competizione sia nella politica sia nel mercato. Lo Stato socialista è inteso ad attuare la dottrina marxista-leninista del d. e dello Stato e a riformare i rapporti economici attribuendo il potere al partito rivoluzionario interprete degli interessi della classe operaia, tramite una concentrazione a suo favore del potere e imponendo, ove necessario, senza remore i propri indirizzi. Lo Stato caratterizzato da finalità di modernizzazione, che in genere discende dal processo di decolonizzazione e ha quindi ottenuto l'indipendenza in tempi recenti, ispira la sua organizzazione al modello liberale o a quello socialista: la storia indica l'alternarsi di esempi in cui si affermano esperienze ispirate ai principi del costituzionalismo liberale, ma più spesso di esempi in cui prevalgono la concentrazione di potere e indirizzi marcatamente autoritari. Non dissimile è la situazione che si riscontra in Stati che non hanno direttamente subito il dominio coloniale e che sono rimasti governati da élites tradizionaliste. Anch'essi si pongono finalità di sviluppo economico che perseguono con modalità autoritarie. Accanto agli Stati appena ricordati, che erano di solito riportati alla discussa categoria degli Stati del Terzo mondo o in via di sviluppo, esistono Stati che hanno formalmente scelto i principi dello Stato liberale, ma che non sono sempre stati in grado di attuarli. La loro storia dimostra un alternarsi di fasi nel cui ambito si succedono periodi in cui opera il principio di separazione dei poteri e periodi in cui opera quello di concentrazione e in cui si riscontra l'effettività delle garanzie ma anche la loro sospensione. Il gruppo più ampio è offerto dalle repubbliche ibero-americane che hanno raggiunto l'indipendenza all'inizio del 19° secolo.
L'elencazione che si è appena fatta viene utilizzata per far ordine tra le diverse esperienze e ha valore prevalentemente descrittivo. Nella realtà le finalità legate alle diverse ideologie (liberale, socialista, modernizzatrice, tradizionalista, autoritaria) sembrano perdere peso rispetto all'importanza che ha per l'individuazione della natura di un regime costituzionale la scelta sulla titolarità del potere (diviso o concentrato) e sulle modalità del suo impiego (consensuale o imposto). È in base a queste ultime che si può individuare la natura democratica o autocratica di una Costituzione. La prima, caratterizzata dal potere ripartito e dalla preoccupazione di ottenere una legittimazione tramite consenso, è la Costituzione garantista caratteristica degli Stati di derivazione liberale, che finisce per essere il punto di riferimento nel valutare la portata di tutte le altre esperienze costituzionali di diverso segno. Infatti tutte le altre Costituzioni sono viste come riconducibili, per raffronto, al modello scelto dal costituzionalismo liberale di derivazione europea e nord-americana; e ciò o perché si pongono in conflitto frontale con tale modello o perché prevedono di imitarlo e raggiungerlo.
Nel periodo fra le due guerre mondiali il costituzionalismo socialista, culminante nel modello sovietico del 1936, è stato la risposta sistematica e organica al modello liberale condensato nei d. e libertà civili e politici e nella separazione dei poteri dell'art. 16 della Dichiarazione francese del 1789. La decisione costituente e governante degli uomini guida del fascismo è stata la risposta disorganica alle stesse scelte nel quadro della breve esperienza dello Stato autoritario. Ai nostri giorni, tramontata l'esperienza dello Stato autoritario fascista e contestata quella socialista, che dove permane ha progressivamente ceduto a una parziale accettazione dei principi liberali, l'unico esempio di rigetto esplicito del costituzionalismo liberale è offerto dall'affermarsi di alcune Costituzioni islamiche. Ben più complesso per la sua equivocità è il fenomeno di quella pletora di Costituzioni che formalmente accettano i principi garantisti del costituzionalismo liberale, ma che di fatto li contraddicono tramite una politica di concentrazione del potere e di repressione del ruolo dell'opposizione e dei diritti di libertà o tramite l'introduzione di regimi d'eccezione che conducono alla sospensione anche formale delle garanzie. La realtà di queste situazioni è particolarmente complessa e comprende ordinamenti sistematicamente caratterizzati da concentrazione di potere e limitazione delle libertà, come pure ordinamenti in cui si alternano fasi dove le garanzie operano e fasi in cui vengono sospese.
Il criterio della finalizzazione dell'uso del potere sovrano, strettamente legato all'ideologia ufficiale, serve a identificare a prima vista le varie realizzazioni concrete dello Stato contemporaneo: Stato di derivazione liberale, socialista, autoritario, modernizzatore e tradizionalista sono quindi tipi in cui è più agevole inquadrare a fini espositivi le esperienze statali odierne. Ma è dall'intersecarsi del criterio della titolarità del potere e di quello delle modalità d'uso dello stesso - e quindi necessariamente astraendo dalla finalizzazione, che finisce per risultare un criterio ausiliario - che discende la possibilità di individuare con chiarezza quella che è l'essenza del potere statale, democratico o autocratico. In tal modo si ammette l'importanza che ha la forma di governo per qualificare la forma di Stato realmente operante in un ordinamento, indipendentemente da quelle che possono essere le premesse politiche storicamente individuabili e a volte formalmente rintracciabili nei testi costituzionali.
L'accenno fatto al concetto di democrazia implica un chiarimento sul suo intimo significato, in quanto è ben noto come con lo stesso termine si sia nel tempo fatto riferimento a realtà profondamente differenziate. Sinteticamente la concezione liberale della democrazia comporta la garanzia dei diritti di libertà, la dialettica maggioranza-minoranza, il controllo interpotere e il rifiuto di forme di concentrazione. La più aggiornata concezione della democrazia sociale tende a porre l'accento sulla rilevanza delle libertà economiche e sociali passando da un regime prevalentemente preoccupato di assicurare il metodo democratico nella selezione della rappresentanza politica e nella formazione delle decisioni a un regime che assicuri altresì una forma di tendenziale eguaglianza sostanziale fra i cittadini.
Forme di governo. - Le forme di governo indicano come il potere politico viene ripartito fra organi costituzionali (negli ordinamenti a separazione di poteri) o concentrato in capo a un organo o a un sistema omogeneo di organi. Tra le forme a separazione di poteri, a parte quella presidenziale propria degli Stati Uniti e quella direttoriale svizzera, che costituiscono casi a sé, nella maggior parte delle esperienze è il raccordo Parlamento-governo che assume rilevanza, ma sempre tenendo in debito conto l'operare del sistema dei partiti politici e, in particolare, dell'opposizione politica svolta in seno all'organo parlamentare. La bilancia pende a volte a favore del Parlamento, a volte a favore del governo, con significative differenze date dalla prevalenza nell'ambito governativo dell'intero collegio o del premier.
Una prima forma di governo parlamentare è quella maggioritaria o a prevalenza del governo (a volte definita di gabinetto o del primo ministro, a seconda che prevalga il collegio governativo o il suo vertice), caratterizzata dalla presenza di sistemi politici bipartitici o a due raggruppamenti di partiti (bipolarismo) con tendenziale rotazione ciclica fra maggioranza e opposizione. In questa il governo è stabile (di legislatura) e dispone di una sicura maggioranza. La base di legittimazione del governo deriva da una sorta di investitura diretta dell'elettorato che esclude le negoziazioni fra partiti e il ruolo mediatore del capo dello Stato: il partito o la coalizione che vince le elezioni 'va al governo' e il suo capo viene nominato capo del governo (Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Germania, Svezia, Grecia, Spagna). Una seconda forma è quella a prevalenza del Parlamento, caratterizzata da un pluripartitismo che opera secondo un modello multipolare, espressione di società politicamente eterogenee con reciproca sfiducia tra le forze politiche e impossibilità di configurare una netta contrapposizione fra maggioranza e opposizione e la relativa rotazione. Il governo non scaturisce immediatamente dalle elezioni, bensì da consultazioni e negoziazioni di cui è regista e mediatore il capo dello Stato (Francia durante la Costituzione del 1946, Italia e in parte Belgio e Olanda, Israele). Una terza forma qualificata come neoparlamentare è quella sperimentata da Israele dopo la riforma della Legge fondamentale sul governo introdotta del 1992 e utilizzata per la prima volta nel 1996: essa comporta l'elezione distinta ma contemporanea da parte del corpo elettorale nazionale, sia del primo ministro, con legge elettorale proporzionale, sia dell'assemblea, con legge maggioritaria. Tale meccanismo facilita, ovviamente, la scelta del titolare della funzione di governo, ma non garantisce una sicura maggioranza di appoggio in Parlamento.
Elementi della forma di governo parlamentare si rinvengono nelle Costituzioni che prevedono un capo dello Stato elettivo su base nazionale e la presenza del rapporto fiduciario Parlamento-governo, che abitualmente si definiscono a governo semipresidenziale, in quanto sarebbero influenzate dalla Costituzione presidenziale nord-americana. Costituzioni semipresidenziali esistevano prima del secondo conflitto e alcune perdurano: quella finlandese del 1919, quella austriaca del 1929 che viene richiamata in funzione alla fine del conflitto, quella irlandese del 1937 e quella islandese del 1944. Nel dopoguerra la Costituzione semipresidenziale più nuova, servita poi da modello a numerose esperienze in diversi continenti, è quella francese del 1958. Più tardi appare quella portoghese del 1976. In tutte queste Costituzioni a un ruolo 'forte' della presidenza si aggiungono molteplici ed essenziali elementi della forma di governo parlamentare, rimanendo centrale il vincolo fiduciario fra Parlamento e governo. Sarebbe quindi più appropriato parlare di forme di governo parlamentari a tendenza presidenziale, in quanto la forma di governo presidenziale nord-americana finisce per costituire un referente assolutamente remoto e improprio (evocato equivocamente dalla definizione semipresidenziale). Nella forma di governo semipresidenziale si possono individuare almeno tre variabili: quella in cui prevale nettamente il ruolo del capo del governo, in quanto riconosciuto capo della maggioranza parlamentare, e in cui di conseguenza è marginale il ruolo del capo dello Stato (Austria, Islanda, Irlanda); quella in cui esiste un equilibrio diarchico (Finlandia e Portogallo) e in cui il capo dello Stato prevale quando non vi è chiara maggioranza parlamentare, con formazione di gabinetti presidenziali (Finlandia dal 1956 al 1981; Portogallo dal 1978 al 1979); quella in cui prevale il capo dello Stato (Francia) salvo nei periodi di 'coabitazione' in cui la maggioranza parlamentare non coincide con quella presidenziale, da considerarsi anomali (1986-88, 1993-95 e dal 1997). Esistono elementi della forma di governo parlamentare perfino nelle forme a preminenza presidenziale o presidenzialiste delle repubbliche ibero-americane. In esse, accanto a un ruolo presidenziale che imita il modello nord-americano, esiste un preciso collegamento fra esecutivo e legislativo, quest'ultimo potendo esercitare forme di indirizzo e controllo sul presidente e/o sul suo governo, dato estraneo alla forma nord-americana (Venezuela, Messico e Costa Rica; Chile nel periodo successivo al 1990; Brasile 1961-63 e dopo il 1988; Uruguay dopo il 1984; Perù dopo il 1979; Argentina dopo il 1983).
I diritti fondamentali e loro protezione. - La concezione della forma di Stato, come rapporto tra autorità e libertà, consente di individuare nello Stato liberale l'inizio del riconoscimento e della garanzia, in senso moderno, delle libertà individuali. In contrapposizione ai modelli storici del passato, il regime liberale delle libertà, regolate nella Costituzione, presupponeva il passaggio dallo stato di suddito a quello di cittadino e la piena autonomia della persona umana, nel quadro dell'eguaglianza giuridica di tutti i soggetti. La libertà si manifestava in una serie di facoltà di azione appartenenti 'per natura' all'individuo e che, in quanto innate nell'uomo, potevano essere soltanto 'dichiarate' dallo Stato (giusnaturalismo) ovvero potevano essere fatte valere come tali soltanto quando fossero espressamente disciplinate dall'ordinamento positivo dello Stato (diritti pubblici soggettivi).
In origine compresi in dichiarazioni distinte dal testo costituzionale (Dichiarazione della Virginia del 1776; Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789), i diritti individuali venivano via via inseriti nel corpo organico delle Costituzioni e successivamente in convenzioni internazionali in cui gli Stati tendevano a dar loro un riconoscimento uniforme a livello mondiale (oltre alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo adottata dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948, si vedano i Patti internazionali del 1966, rispettivamente dedicati ai diritti civili e politici, e ai diritti economici, sociali e culturali) e regionale (si veda, in Europa, la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottata nel 1950 nell'ambito del Consiglio d'Europa). Gli Stati si riservavano, comunque, di dare essi stessi attuazione nel proprio ambito alla disciplina internazionale quando questa fosse più favorevole di quella prevista dalle rispettive Costituzioni.
Sia nel diritto positivo che nella dottrina esiste un'ampia concordanza nel distinguere i diritti in base al diverso rapporto in cui si atteggia il loro contenuto nei confronti del potere politico statale. In reazione all'assolutismo, lo Stato liberale configurava i diritti individuali, e in special modo le libertà civili (libertà personale, di movimento, libertà familiare, proprietà privata, libertà di pensiero, di riunione e associazione), come pretese di astensione e non interferenza da parte del potere pubblico (cosiddette libertà negative). Tali diritti sono spesso qualificati come fondamentali e inviolabili, cioè essenziali per la persona umana e intangibili da parte sia delle amministrazioni sia dei parlamenti, secondo le dottrine contrattualistiche e giusnaturalistiche sviluppatesi in Europa nei secoli passati.
Accanto alle libertà civili, eccezionalmente limitabili con legge per tutelare le libertà altrui, lo Stato liberale doveva anche agevolare e garantire le libertà politiche (diritti di elettorato attivo e passivo, di petizione, di partecipazione al referendum, di formazione e partecipazione ai partiti: le libertà positive). L'esperienza liberale non poteva, tuttavia, trascurare il riconoscimento di ulteriori diritti, progressivamente generalizzati nelle costituzioni del primo e, soprattutto, del secondo dopoguerra, che si sostanziano in pretese di prestazioni pubbliche a favore di individui o categorie di soggetti in stato di bisogno per supplire a situazioni di diseguaglianza sociale ed economica (cosiddetti diritti sociali). Il passaggio dallo Stato di diritto legale ottocentesco allo Stato di diritto costituzionale di democrazia pluralistica, non più fondato sul principio della preminenza della legge del Parlamento, bensì su una costituzione rigida e garantita, rendeva perciò necessaria una riformulazione della teoria costituzionale delle libertà individuali. Lo Stato democratico e sociale di diritto, che aggiunge al principio individualista quello solidarista, non elimina il ruolo del cittadino in un'economia di mercato competitiva, ma si propone di correggere situazioni di ingiustizia sociale, avvalendosi di un'organizzazione costituzionale in grado di far fronte alle esigenze di efficienza ed efficacia dell'intervento pubblico. Si determinava, così, una progressiva valorizzazione delle libertà positive e dei diritti sociali (istruzione, sicurezza sociale, diritto al lavoro, libertà sindacale, diritto di sciopero, proprietà e iniziativa economica individuale, tutela della salute e dell'ambiente, servizi culturali).
La distinzione di origine storica tra diritti civili e politici da un lato, e diritti economici e sociali dall'altro, si rifletteva, in certa misura, sulle modalità di tutela, anche se progressivamente perdeva significato la tendenza a contrapporre le due categorie di diritti, dal momento che nell'ambito dei diritti sociali sono inseriti anche diritti costruiti in modo simile ai tradizionali diritti di libertà e in molte costituzioni i diritti sociali non necessitano di attuazione legislativa, essendo immediatamente azionabili (per es., la scelta di una professione, la formazione della famiglia, la procreazione, l'educazione). I diritti sociali sono quindi considerati vicini ai diritti della persona quanto a intensità di tutela e alcuni di essi sono ormai ricompresi, almeno in alcuni paesi, tra i diritti fondamentali.
Fra le tecniche di protezione delle situazioni di libertà, oltre a quelle che discendono indirettamente dal principio della ripartizione del potere tra più organi reciprocamente controllantisi, dal rinvio alla legge del Parlamento per disporre restrizioni al godimento dei diritti, dall'eventuale non sottoposizione a revisione della normativa costituzionale che li riguarda, trovano riconoscimento le garanzie giurisdizionali. In particolare, la possibilità di ottenere tutela per i diritti civili e politici di fronte a organi indipendenti dal potere politico in caso di violazione delle norme relative, inizialmente riconosciuta nei confronti della pubblica amministrazione, è stata estesa progressivamente anche nei confronti degli abusi dell'organo legislativo, mediante l'istituzione di tribunali o corti costituzionali, di fronte ai quali ricorrere per fare invalidare le leggi dei Parlamenti, a volte anche tramite il ricorso diretto di costituzionalità (come negli ordinamenti latino-americani, in Spagna, Germania, Austria, Svizzera). A tutela delle libertà civili e politiche, inoltre, le norme costituzionali che le riguardano sono suscettibili di privazione temporanea della loro efficacia, con conseguente sospensione delle garanzie dei diritti fondamentali ivi disciplinate, in presenza di situazioni di grave emergenza interna o internazionale prefigurate dalla stessa costituzione o da fonti legislative ordinarie o fondate, in assenza di indicazioni testuali, sul principio di necessità (si vedano le Costituzioni tedesca, francese, spagnola, nonché le Costituzioni di molti Stati ibero-americani e di recente indipendenza).
La tutela dei diritti economici e sociali è realizzata tramite accesso ai giudici civili e amministrativi; sono possibili, altresì, il ricorso individuale diretto alle Corti costituzionali negli ordinamenti spagnolo e latino-americani e il ricorso di gruppi e associazioni per la tutela di interessi collettivi e diffusi, quali i diritti alla salute e all'ambiente (come negli ordinamenti italiano, olandese e brasiliano). In presenza di diritti economici e sociali che richiedono l'attuazione legislativa, può configurarsi l'ipotesi dell'incostituzionalità per omissione qualora l'organo legislativo si astenga dal provvedere (come in Portogallo), ovvero può ammettersi che il giudice costituzionale, valutando la condotta omissiva come un trattamento discriminatorio per alcune categorie di soggetti, estenda la tutela a situazioni che il legislatore non aveva esplicitamente previsto ('sentenze additive' della Corte costituzionale italiana).
Al di fuori degli strumenti giurisdizionali di garanzia può essere previsto il ricorso all'ombudsman: si tratta, generalmente, di un organo parlamentare, dotato di competenze di ispezione politica sull'amministrazione ma anche di tutela degli amministrati; il suo impiego si è rivelato, per es., utile in Italia a livello regionale nel settore della tutela ambientale e della salute, nonché in Svezia per la protezione degli interessi del consumatore e in Germania per la tutela dei portatori di handicap o dei dati personali. Le recenti tendenze dell'interpretazione delle Corti costituzionali in tema di diritti sociali conducono non solo a renderne effettiva la tutela, specie in considerazione della natura prevalentemente programmatica dei relativi disposti costituzionali, ma anche a enucleare situazioni di libertà non espressamente disciplinate nei testi costituzionali ma reclamanti protezione, in quanto riconducibili al catalogo delle libertà costituzionali o fondate su disposizioni di principio e maturate nella coscienza civile a seguito dell'evoluzione sociale, scientifica e tecnologica (cosiddetti nuovi diritti, per i quali v. in questa Appendice le voci diritti e riservatezza).
La comparazione nel diritto costituzionale: le funzioni
La scienza della comparazione scaturisce dalla premessa dell'esistenza di ordinamenti giuridici diversificati. In linea di principio, la comparazione nel d. costituzionale può riguardare anche ordinamenti presenti all'interno di quello statale (per es. più ordinamenti regionali) od ordinamenti statali e ordinamenti di enti internazionali (per es. l'ordinamento italiano e quello dell'Unione Europea, l'ordinamento italiano e quello della Chiesa). Soltanto in via convenzionale ci si concentra in genere sulla comparazione fra ordinamenti statali, nel presupposto che in senso proprio solo gli Stati hanno una Costituzione come massima espressione di sovranità.
Dalla constatazione dell'esistenza di una pluralità di ordinamenti discende la praticabilità di raffronti da cui emergono differenze e coincidenze variamente utilizzabili. La comparazione giuridica è quindi l'operazione intellettuale di raffronto fra ordinamenti, istituti e normative di diversi ordinamenti, che, se compiuta in modo sistematico secondo i canoni del metodo giuridico, assume le caratteristiche della disciplina scientifica.
Il d. costituzionale comparato si occupa dello studio di ordinamenti positivi (oltre che delle loro connessioni storiche, quando utili, e quindi è prevalentemente caratterizzato dalla comparazione sincronica e solo in via ausiliaria, anche se quasi sempre indispensabile, da quella diacronica), ma non è diritto positivo. Esso concerne il raffronto fra ordinamenti positivi diversi ed è quindi incentrato su operazioni logiche di analisi e di sintesi. Tale raffronto comporta una specifica metodologia e quindi il metodo comparativo assume una posizione centrale quale strumento e occasione di conoscenza, ed è comprensibile come a prima vista molti studiosi abbiano finito per ridurre la comparazione al solo 'metodo' comparativo. Ma quando il metodo comparativo viene costruito con modalità sue proprie, e la comparazione viene a interessare precisi campi di ricerca, rispondendo a specifiche finalità e a regole che sono proprie soltanto di essa e non di altre discipline scientifiche, ben può concludersi che la comparazione è essa stessa una scienza autonoma da altre.
Nel d. costituzionale la comparazione non può che attenere a normative e principi che si imperniano sul momento dell'autorità e sui rapporti fra autorità e libertà. A un tempo essa non può non tener conto degli apporti conoscitivi offerti dall'insieme delle discipline scientifiche che toccano in vario modo il tema del potere politico, pur mantenendo la sua autonomia quanto ai criteri da seguirsi che non possono che essere quelli di una disciplina giuridica, e quindi incentrata sullo studio di norme e di complessi organici di norme (ordinamenti). Con questa cautela risulta spesso essenziale l'apporto delle discipline storiche, politologiche, sociologiche, economiche.
Fra i problemi che si trova ad affrontare la comparazione nel campo del d. costituzionale ve ne sono alcuni che abitualmente sono individuati come costanti dagli specialisti e che vanno quindi di seguito esaminati. Riprendendo una schematizzazione ben nota possiamo così sintetizzarli: perché comparare (problema della funzione), cosa comparare (problema dell'oggetto), come comparare (problema del metodo). Si procederà quindi a offrire un'indicazione della funzione e dell'oggetto della comparazione per poi passare ad accennare le caratteristiche del metodo.
La conoscenza e la classificazione. - Funzione primaria della comparazione è l'acquisizione di conoscenza. Dallo studio comparato di ordinamenti o di istituti di diversi ordinamenti scaturiscono elementi conoscitivi indispensabili per la scienza del d. costituzionale. Un esempio classico è dato dall'analisi comparata da cui discende quella conoscenza degli ordinamenti che consente l'elaborazione delle categorie classificatorie in cui inserire e studiare le diverse esperienze costituzionali. I concetti di forma di Stato e di forma di governo già in precedenza ricordati discendono da tentativi di chiarificazione che gli studiosi degli ordinamenti politici e giuridici hanno compiuto tramite un'analisi comparata delle esperienze istituzionali del passato e contemporanee: in tal modo la comparazione può offrire un valido aiuto nell'individuare i concetti che presiedono alla formazione delle classificazioni entro cui svolgere lo studio del d. costituzionale con particolare riferimento a quello comparato.
La dottrina delle forme di Stato e quella a essa connessa delle forme di governo partono da un esame empirico delle diverse esperienze costituzionali e quindi, una volta elaborati i propri criteri di classificazione, tendono a inserirvi le realtà costituzionali storicamente esistenti. Esempio classico è il tentativo di tipizzazione della forma di governo parlamentare desunta dallo studio delle esperienze del parlamentarismo inglese e quindi francese e belga nel 19° secolo. Da tale studio sono emerse delle costanti (governo rappresentativo, libere elezioni, fiducia, controllo politico sul governo, funzione dell'opposizione ecc.) che caratterizzano la figura governo parlamentare. Quando in un certo ordinamento si individuano alcuni dei caratteri appena indicati sarà possibile tentarne l'esame riconducendolo in via comparativa al 'tipo' del governo parlamentare o raffrontandolo ad altri ordinamenti pacificamente definiti a governo parlamentare, e si potrà alla fine considerarlo o meno come rientrante nella figura tipologica menzionata.
La classificazione è il risultato evidente dell'esigenza di chiarezza e sistematicità di una disciplina scientifica. Essa comporta il raggruppamento di oggetti di analisi in modo da formare categorie sistematiche, contesti comuni, entro cui possano essere riportati tutti i casi che rispondano agli elementi caratteristici delle stesse categorie. Esaustività ed esclusività sono i caratteri propri della classificazione: infatti ogni classe dovrebbe comprendere tutte le proprie categorie e solo quelle, con esclusione di quelle appartenenti ad altre classi. Ma ciò può essere un obiettivo e non necessariamente una realtà.
Infatti è stato notato da A. Pizzorusso (1995) che la classificazione nel campo del d. comparato non può condurre a risultati dotati di rigore simile a quello raggiunto dagli scienziati della natura. Le cause delle difficoltà che si incontrano nel formare una soddisfacente classificazione vanno ricercate nella circostanza per cui oggetto dello studio comparato sono gli ordinamenti giuridici, prevalentemente quelli statali, caratterizzati da una complessa eterogeneità di elementi costitutivi. Per avere una dimostrazione dell'inadeguatezza dei risultati raggiunti, basti pensare all'insoddisfacente sistematizzazione delle esperienze degli Stati di recente indipendenza. Nonostante tale rilievo, lo sforzo di giungere a una classificazione anche se non completa deve essere operato, e tenendo conto della constatata prevalenza del ruolo degli Stati, quale forma storica del potere politico contemporaneo, e dello studio degli ordinamenti statali quale oggetto del d. costituzionale, appare sicuramente accettabile il ricorso alla dottrina della forma di Stato e di governo come schema in cui inserire la classificazione ai fini della comparazione, come già fruttuosamente indicato in Costituzioni straniere contemporanee (1970, 1988⁶).
Il raggruppamento in classi dei diversi gruppi di ordinamenti statali in base alla loro reciproca omogeneità costituisce la premessa per operare la comparazione al loro interno, ma non esclude in radice la possibilità di operare comparazioni fra ordinamenti inseriti in classi diverse, in quanto tutti gli ordinamenti classificabili rientrano nella più ampia unità di studio data dal concetto generale di ordinamento statale. In altre parole, in seno alla classe ordinamento statale si inseriscono alcune sottoclassi raggruppate nelle diverse forme di Stato: alla comparazione all'interno di una forma di Stato (ordinamenti omogenei) può aggiungersi quella fra ordinamenti inseriti in diverse forme di Stato, caratterizzati da sensibili variabili (e quindi di solito definiti eterogenei), ma tutti fra loro omogenei in quanto appartenenti alla figura classificatoria ordinamento statale. La scelta di simili criteri per operare la classificazione appare perfettamente ammissibile spettando a ogni ricercatore scegliere criteri che siano funzionali al tipo di indagine svolta, in modo da individuare alcune caratteristiche contestuali dei fenomeni studiati, che vengono considerate come costanti parametriche ai fini delle analisi da compiersi.
Dal punto di vista pratico, la classificazione delle forme di Stato e di governo è utile a diversi fini, messi in rilievo con chiarezza da G.U. Rescigno (1989): a scopi meramente conoscitivi-descrittivi, a fini valutativi, al fine di individuare le successioni storiche, al fine di trarne elementi prescrittivi. Anche sotto altro profilo può sottolinearsi la funzione conoscitiva del d. costituzionale comparato: una disciplina scientifica, per essere veramente tale, non può essere limitata alla conoscenza di un solo ordinamento statale, anche se lo studio delle scienze giuridiche, dopo la costituzione degli Stati nazionali, è stato prevalentemente limitato ai loro confini. Il d. comparato consente alla scienza giuridica di divenire internazionale e quindi scienza in senso proprio. Tale valutazione, diffusa fra gli studiosi del d. privato, può sicuramente estendersi alle indagini che hanno a oggetto il d. pubblico e costituzionale.
La verifica della conoscenza. - Gli scienziati sociali utilizzano diverse modalità sistematiche (metodi) per giungere alle loro conclusioni dando certezza ai loro propositi di ricerca. In particolare, il metodo empirico risulta adatto per affrontare questioni circoscritte, e quindi analisi concernenti istituti ben delimitati, mentre difficilmente può essere utilizzato per analisi di ampio respiro; il metodo statistico può essere utilizzato quando si disponga di dati idonei a un trattamento statistico; il metodo storico è utile quando i precedenti storici siano pertinenti rispetto all'istituto studiato, il quale si pone con i primi in una prospettiva sfalsata nel tempo (diacronica) che richiede una competente e meditata attenzione a elementi e circostanze di fatto spesso profondamente diversi rispetto a quelli che caratterizzano la realtà istituzionale attuale di chi studia. Quando i dati empirici, statistici e storici non sono sufficienti, un rimedio può essere il ricorso alla comparazione fra soluzioni operate da diversi ordinamenti al fine di comprovare l'esattezza dei dati conoscitivi disponibili.
Ecco quindi che la comparazione può essere utilizzata come strumento di verifica e controllo di dati già acquisiti.
A titolo di esempio può portarsi lo studio dell'inchiesta parlamentare nell'ordinamento italiano, che può limitarsi allo studio di una specifica commissione d'inchiesta (legge istitutiva, composizione, criteri organizzatori, funzionamento, relazioni conclusive, eventuale dibattito parlamentare conseguente) con un'analisi relativa a un singolo caso svolta con metodo empirico; può essere svolta richiamando dati relativi ai criteri seguiti in occasione dell'istituzione di commissioni consimili (formazione di commissioni monocamerali o bicamerali, ricorso alla delibera con forma legislativa o non legislativa, criteri di scelta dei rappresentanti dei gruppi parlamentari in relazione al numero o al peso dei partiti quanto all'interpretazione del principio di proporzionalità, individuazione delle norme procedurali dei codici di rito e dei regolamenti parlamentari per l'adempimento degli incombenti istruttori, ricorso alle sedute pubbliche o segrete, ricorso alle relazioni minoritarie, esito della presentazione delle relazioni in aula distinguendo fra ipotesi di discussione o di mancata discussione) con un'analisi che utilizza il metodo statistico; può essere svolta richiamando i precedenti sia nell'ordinamento repubblicano sia nel precedente ordinamento monarchico (come generalmente viene fatto con riferimento all'atto istitutivo della commissione, alla sua composizione, ai poteri istruttori, alle norme applicabili, agli atti adottabili, e simili) con un'analisi che utilizza il metodo storico. Per comprovare gli elementi conoscitivi raccolti si può ricorrere alla comparazione, specialmente con ordinamenti simili a quello italiano, accertando così l'esistenza generalizzata dell'istituto dell'inchiesta, la discrezionalità della maggioranza e in genere la connessione con gli indirizzi del governo quanto alla decisione di procedere all'inchiesta, la natura eccezionale della competenza parlamentare di inchiesta politica sul governo, il parallelismo fra competenze istruttorie parlamentari e competenze della magistratura, la scissione fra ruolo della commissione ad hoc e dell'assemblea e quella fra competenze ispettive della prima e competenze di controllo politico della seconda.
L'interpretazione di norme. - Un metodo comparato rientra fra le tecniche interpretative degli istituti costituzionali che vengono utilizzate nel quadro dell'interpretazione sistematica, in particolare dagli organi giurisdizionali, nazionali e internazionali. È stato rilevato che la comparazione giuridica è uno dei metodi cui fanno ricorso i tribunali costituzionali nell'interpretare le disposizioni relative ai diritti fondamentali: accanto ai metodi letterale, sistematico, storico e teleologico, risalenti alla classica impostazione di F.K. Savigny, P. Häberle (1989) ha posto quello comparativo come quinto metodo di interpretazione, quale stadio imprescindibile nell'esegesi delle clausole costituzionali sui diritti.
Tale considerazione è avvalorata, sul piano degli ordinamenti statali, dal progressivo riferimento delle Costituzioni alla rilevanza delle normative dei patti internazionali sui diritti (così la Costituzione spagnola del 1978, art. 10, 2, prevede che le norme relative ai diritti fondamentali si interpretino in conformità alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e ai trattati su tali materie ratificati dalla Spagna; non dissimile la Costituzione portoghese del 1976, art. 16, 2, oltre a numerose Costituzioni africane di recente adozione o revisione). Peraltro, sul piano degli ordinamenti di enti internazionali, la Corte di giustizia delle Comunità europee fa ricorso ai principi in tema di diritti propri dei diversi ordinamenti statali (v. oltre). Si comprende quindi come l'integrazione fra ordinamenti conduca inevitabilmente a far ricorso alla comparazione nell'interpretazione delle normative sui diritti a opera dei tribunali costituzionali.
L'uso della comparazione da parte dei tribunali costituzionali risulta ampiamente provato. Similmente l'esperienza indica la stessa propensione nei giudici internazionali. Base di tale orientamento può essere considerato, per es., l'art. 38, lettera c, dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, il quale prevede che la stessa Corte applichi "principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili", principi da desumersi con metodo comparativo. Quanto alla Corte di giustizia comunitaria, essa ha basato una sua rilevante giurisprudenza sull'individuazione dei "principi costituzionali comuni agli Stati membri", soprattutto in materia di d.; un riferimento testuale ai "principi generali comuni" si ha nell'art. 215 del Trattato CE in materia di responsabilità extracontrattuale delle istituzioni.
La ricostruzione interpretativa della Corte di giustizia, oltre che alla normativa costituzionale degli Stati membri, si è rivolta a quella contenuta nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 1950, in quanto ratificata e quindi integrante nel suo complesso le discipline nazionali dei diritti. In tal modo la comparazione si è estesa anche alla normativa della Convenzione in quanto recepita negli ordinamenti degli Stati membri. I numerosi casi in cui la Corte ha ritenuto di estrarre principi comunitari dall'esame comparato riguardano: il principio di legalità nelle procedure contenziose, l'irretroattività delle norme penali, il rispetto della vita privata, il segreto professionale degli avvocati, la ricorribilità al giudice, l'inviolabilità del domicilio, il divieto di autoincriminazione. Il ricorso alla comparazione è stato pure indispensabile all'attività della Corte europea dei diritti dell'uomo operante in seno al Consiglio d'Europa e, in generale, trova riscontro in tutte le iniziative che a livello internazionale sono state varate per consentire una protezione dei diritti essenziali dell'individuo e dei gruppi sociali.
L'elaborazione di testi normativi. - La preparazione di nuove Costituzioni o di una nuova legislazione può essere preceduta o accompagnata da indagini comparative. Nell'elaborazione dei testi costituzionali si è sempre fatto riferimento in modo sistematico alla comparazione. È infatti constatabile che, a parte ipotesi di imitazione acritica di istituti sperimentati in altri ordinamenti o di modelli costituzionali imposti da parte di uno Stato distinto da quello destinato a ricevere la Costituzione, in quasi tutti i casi di adozione di nuovi testi i costituenti operano una comparazione fra soluzioni costituzionali già sperimentate e schemi elaborati dagli stessi costituenti: influenza del modello nord-americano sui costituenti ibero-americani; dei modelli degli Stati liberali e di quelli socialisti sui costituenti di molti Stati di recente indipendenza; del modello sovietico sui costituenti della totalità degli Stati socialisti; dei modelli costituzionali occidentali da parte dei costituenti dei paesi dell'Europa orientale e dell'ex URSS dopo il tracollo dell'impero sovietico.
Per venire a esempi della storia costituzionale italiana possono citarsi le analisi comparate nei lavori della Commissione dei 75 in occasione dell'attività dell'Assemblea costituente nel 1946 e gli insistiti riferimenti comparativi in occasione delle attività della Commissione bicamerale istituita dalla l. cost. 21 genn. 1997 nr. 1. La comparazione ha un ruolo significativo nella preparazione della legislazione nella quasi generalità degli ordinamenti. A volte l'apporto dell'indagine comparativa viene rilevato nel testo stesso della legge: nel preambolo della legge spagnola sullo statuto della radio e televisione (l. 10 genn. 1980 nr. 4) esplicitamente si afferma che la disciplina adottata si è ispirata all'"esperienza di altri paesi con sistemi democratici aventi il medesimo orientamento" di quello spagnolo. Riferimenti comparatistici e vere e proprie indagini comparative possono rinvenirsi nella fase preparatoria della legislazione italiana. A titolo di esempio citiamo per l'Italia la l. 27 luglio 1967 nr. 685, che approvava il programma economico 1966-70. Questa legge fu preceduta da un ampio dibattito politico e dottrinale in cui il richiamo alle esperienze di altri ordinamenti e la comparazione con le medesime erano all'ordine del giorno.
Riconoscere la rilevanza della comparazione tra progetti di leggi nazionali e testi normativi di altri ordinamenti non deve indurre nell'equivoco di riconoscere un 'trapianto' di tali testi nell'ordinamento che procede alla comparazione. Va piuttosto notato che la comparazione mira a suscitare proposte o a verificare proposte maturate nell'ordinamento interessato, e più che i testi di per se stessi considerati al legislatore nazionale interessano le 'idee' che stanno dietro le formulazioni normative o le soluzioni offerte a problemi sentiti nel paese.
Non esistono, comunque, criteri omogenei che giustifichino il ricorso alla comparazione da parte dei legislatori: esigenze specifiche condizionate da fattori locali o dal particolare momento storico, come pure la fama acquisita da scelte operate in altri ordinamenti, possono spingere alla verifica comparata. Il ricorso alla comparazione è meglio effettuato nel corso della fase preparatoria negli uffici legislativi dei ministeri, mentre, quando la proposta inizia il suo viaggio attraverso le commissioni parlamentari, le esigenze politiche contingenti dei parlamentari e dei rappresentanti del governo tendono a far dimenticare i raffronti con altri ordinamenti. Infine, va notato che il ricorso alle analisi comparate appare più costruttivo nei settori di intervento legislativo che presentano aspetti tecnici particolari o uniformità di interessi fra ordinamenti oggetto di studio comparato (per es.: d. penale, d. commerciale con particolare riferimento alla concorrenza, tutela del consumatore), mentre difficilmente riguarda quei settori in cui emerge in via prioritaria il carattere squisitamente nazionale degli interessi disciplinati o in cui esistono istituzioni nazionali ben radicate.
L'armonizzazione e l'unificazione di normative. - Dalla formazione di nuovi ordinamenti e da forme di collaborazione interstatale hanno origine fenomeni di integrazione in genere assistiti dal ricorso alla comparazione. Tali fenomeni possono risultare più o meno spinti e passano da forme di coordinamento a forme di totale omogeneizzazione. Convenzionalmente, parlare di armonizzazione significa riferirsi a un processo coordinato di omogeneizzazione di d. statali che mantengono la loro propria individuabilità pur finendo per avere caratteristiche comuni; parlare di unificazione significa invece individuare un processo di uniformazione degli ordinamenti da unificarsi, in modo che la omogeneizzazione sia il più possibile completa.
L'unificazione di normative si opera quando uno Stato impone un ordinamento unitario su territori in precedenza soggetti ad altro potere sovrano, come nel caso della legislazione statutaria sull'unificazione amministrativa del regno. In tal caso il fattore unificante è dato dalla volontà sovrana, e non può escludersi che in tale circostanza la imposizione di nuovi ordinamenti sia accompagnata da indagini comparative che precedono scelte politiche. Il raffronto di ordinamenti diversi può trovare spazio anche quando il potere politico mira a operare una centralizzazione tramite l'imposizione di un d. uniforme nel processo di formazione di nuovi Stati, come avviene in molti Stati di recente indipendenza, che importano soluzioni istituzionali tentando poi di imporle alle diverse comunità locali.
Prospettive soddisfacenti di integrazione, che comportano prevalentemente nuove forme di coordinamento ma a volte anche l'unificazione di normative, si hanno in ambiti regionali circoscritti: l'area europea, quella del Commonwealth, quella dei paesi socialisti, quella in cui vige il d. musulmano, si sono mostrate idonee a sperimentare iniziative agevolate dall'omogeneità dei principi che ispirano gli ordinamenti giuridici degli Stati interessati. La cornice istituzionale in cui si procede può essere offerta da ordinamenti federali e ordinamenti di organizzazioni internazionali. In questi casi si tenta di conciliare l'esigenza di rispettare l'autonomia (Stati membri di Stati federali) o la sovranità (Stati membri di organizzazioni internazionali) e quella di operare in un contesto normativo il più omogeneo possibile, e a tal fine si prevedono soluzioni dirette a provocare forme di coordinamento che possono andare fino alla formazione di un d. uniforme.
Nell'ordinamento dell'attuale Unione Europea, l'esigenza di un miglioramento della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini facenti parte della Comunità ha portato allo studio di diverse proposte dirette all'adozione di un catalogo comunitario dei diritti o all'adesione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo nel quadro del Consiglio d'Europa: tutte queste iniziative hanno richiesto un approfondito studio comparatistico del regime dei diritti negli Stati europei membri della Comunità. In generale, nell'ordinamento comunitario la via dell'uniformazione della disciplina normativa si ottiene tramite l'adozione di regolamenti, che operano in tutto l'ordinamento comunitario, nonché di convenzioni che producano d. uniforme ai sensi dell'art. 220 del trattato, tra cui sono previste quelle in tema di tutela dei diritti. È evidente in tutti questi casi il ricorso preliminare alla comparazione. La via preferita dai trattati è tuttavia quella dell'armonizzazione delle legislazioni nazionali mediante il concorso fra un preventivo intervento comunitario, tramite direttive, e un successivo adeguamento statale. Pure in tale prospettiva si fa ricorso alla comparazione al fine di enucleare criteri direttivi per l'elaborazione della legislazione nazionale. Questo è il criterio che viene seguito per ottenere il ravvicinamento delle legislazioni statali ai sensi dell'art. 100 e di altre norme del trattato dell'UE. I più recenti trattati hanno ribadito sia la linea dell'adozione di normative uniformi comunitarie valide in quanto tali negli ordinamenti degli Stati membri, sia quella dell'armonizzazione tramite direttive. Inoltre, contengono l'affermazione secondo cui gli Stati membri delle Comunità promuovono un ordinamento democratico che si fonda sui diritti previsti dalle loro costituzioni, sulla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, sulla Carta sociale europea e in particolare sulla libertà, eguaglianza e giustizia sociale: ciò sembra implicare un rafforzamento dell'esigenza per gli organi comunitari di conoscere e raffrontare le normative statali in tema di diritti, enucleandone così il regime comunitario. La comparazione fra ordinamenti degli Stati membri e in particolare fra gli istituti che caratterizzano la loro forma di Stato e di governo sembra pure rimanere una premessa indispensabile delle analisi dirette a verificare la progressiva federalizzazione degli ordinamenti nell'area comunitaria.
L'oggetto di indagine
Di quello che è l'oggetto della comparazione si è già accennato all'inizio. Vanno ora aggiunte alcune puntualizzazioni. In primo luogo l'ovvia constatazione che non è sufficiente esporre in modo descrittivo o critico il diritto straniero per fare comparazione: l'esame di un ordinamento costituzionale relativo a un paese diverso da quello in cui si situa l'autore di una ricerca non rientra, di per se stesso, nell'area della comparazione. Così pure non è comparazione la semplice esposizione paese per paese di ordinamenti stranieri o di loro specifici istituti. Piuttosto va sottolineato che una seria e approfondita conoscenza del d. di altri ordinamenti è il presupposto per una successiva comparazione.
In secondo luogo, va osservato che la comparazione può interessare gli ordinamenti complessivamente valutati (macrocomparazione) o singoli istituti degli stessi (microcomparazione).
Di solito è proprio tale ultimo tipo di comparazione che viene effettuato: per fare esempi recenti possono ricordarsi i numerosi studi che hanno interessato la forma di governo semipresidenziale o la modifica in senso federalista della Costituzione italiana in occasione dei dibattiti della commissione bicamerale per le riforme costituzionali. In tutti questi casi si è fatto ricorso alla ricerca ed esposizione di materiali informativi relativi a ordinamenti stranieri contemporanei per trarne in via comparativa dati utili alla progettata riforma della Costituzione italiana.
In terzo luogo va sottolineato come la comparazione interessi, propriamente, il d. costituzionale positivo. Dicendo questo si intende estendere la comparazione oltre il d. contenuto in testi scritti facilmente esaminabili: il d. comparabile include quindi quello contenuto in consuetudini e convenzioni ed emergente dalla prassi interpretativa e dalla giurisprudenza. Per ragioni evidenti non è assolutamente pensabile limitare la comparazione al solo d. formalizzato, cioè scritto e codificato. Se si procedesse in tal modo la comparazione risulterebbe parziale, distante dalla realtà e quindi non attendibile. Si può quindi concludere che la comparazione interessa le normative effettivamente vigenti, a prescindere dall'inserimento in testi scritti; si deve infatti concordare con il rilievo frequentemente operato dagli studiosi di d. privato comparato quando richiamano l'attenzione sulla circostanza per cui il d. realmente vigente (law in action) da tenersi presente a fini comparativi non necessariamente coincide con quello scritto (law in the books).
Il significato della comparabilità fra ordinamenti e istituti
Uno dei problemi maggiormente dibattuti dai comparatisti è quello del riscontro preventivo della caratteristica dell'omogeneità come premessa al ricorso alla comparazione. Secondo un certo orientamento metodologico solo in tale eventualità sarebbe possibile comparare. Per affrontare tale rilevante argomento occorre iniziare distinguendo tra raffronti tra ordinamenti e raffronti tra istituti rientranti in ordinamenti diversi. Iniziando dall'ipotesi di possibili raffronti tra ordinamenti, per omogeneità si intende l'inquadrabilità nella stessa forma di Stato, per eterogeneità l'appartenenza a forme di Stato diverse. Non si discosta molto dall'utilizzazione del criterio individuante della forma di Stato chi individua come riferimento i valori fondamentali che caratterizzano un ordinamento: tali valori, infatti, sono proprio quelli che abitualmente vengono richiamati per individuare le forme di Stato storicamente emergenti. In parte differente è il richiamo alle diverse culture giuridiche. L'inclusione di un ordinamento giuridico in un'area culturale specifica sta a indicare il raccordo dello stesso con i principi di fondo che caratterizzano una certa cultura giuridica, concetto che riecheggia l'antica suddistinzione in 'famiglie giuridiche' elaborata dagli studiosi del d. privato comparato: famiglia romano-germanica e di common law in particolare, cui si aggiungono, secondo l'elencazione di R. David (1964, 1992¹⁰), quella sovietica, musulmana, africana, indù, dell'Estremo Oriente. Fra le varie famiglie individuate dalla dottrina, assumono una particolare rilevanza quella romano-germanica (civil law), quella di common law, quella musulmana, quella socialista-sovietica. Ognuna di queste è caratterizzata da sistemi delle fonti, concetti, terminologia, criteri di interpretazione che ne fanno individuare l'appartenenza a propri peculiari sistemi giuridici. Nell'ambito del d. costituzionale ciò che maggiormente si rileva è l'individuazione dei valori fondamentali, cioè dei valori di base che improntano un ordinamento, più che la concezione del d. inteso come sistema di norme e criteri di applicazione delle medesime.
La distinzione è importante: è evidente come due ordinamenti che siano improntati alla common law, e che quindi possano essere considerati omogenei dalla dottrina privatistica, in realtà potrebbero distinguersi l'uno per l'aver scelto i valori di fondo del costituzionalismo liberale (come avviene per es. in Australia e Canada) e l'altro per il fatto di basarsi sui valori fortemente autocratici propri di numerosissimi paesi in via di modernizzazione (come avviene nella quasi totalità dei paesi africani già dipendenze coloniali inglesi). Dunque per il costituzionalista, di regola, finisce per assumere maggior utilità la distinzione fondata sui diversi valori di fondo (e quindi sui diversi modelli di organizzazione del potere politico e di disciplina dei rapporti fra potere statale e società civile), piuttosto che quella fra sistema giuridico di common law e di civil law.
Un'impostazione tradizionale riteneva possibile la comparazione solo fra ordinamenti omogenei e quindi, per es., si riteneva non ammissibile la comparazione fra istituti di ordinamenti socialisti e liberali. Più tardi si è capito come non fosse indispensabile che la comparazione facesse emergere soltanto convergenze; dunque, ben potevano risultare contrasti fra normative di ordinamenti diversi, come per es. tra ordinamenti capitalisti e socialisti. Quindi, anche se è comprensibile che la comparazione tra ordinamenti omogenei può considerarsi agevolata dalle affinità e coincidenze che ne caratterizzano gli elementi identificanti, non può escludersi la comparabilità fra ordinamenti cosiddetti eterogenei. La comparazione fra questi è conseguenza degli obiettivi che si pone il ricercatore, e il risultato della ricerca, oltre al rilievo di similitudini ed equivalenze, ben può portare a mettere in evidenza diversità. Concludendo, la macrocomparazione fra ordinamenti statali inseriti in forme di Stato diverse è scientificamente legittima, purché funzionale agli obiettivi della ricerca.
Va anche sottolineato che, nella pratica, l'analisi scientifica non può prescindere dal raffronto fra ordinamenti ispirati a principi diversi, quando si pensi, per es., alla necessità di studio dei rapporti fra ordinamenti degli Stati di recente indipendenza e quelli delle potenze europee coloniali (quasi totalità degli ordinamenti africani e asiatici), o fra le diverse fasi storiche di ordinamenti che passano dalla vigenza dei principi dello Stato liberale a quelli dello Stato autoritario o viceversa (ordinamenti ibero-americani e ordinamenti greco, spagnolo, portoghese, per fare esempi di vivo interesse per il ricercatore italiano). Ovviamente, la comparazione svolta fra ordinamenti inquadrati in forme di Stato diverse non può non comportare un approfondimento dei profili sostanziali degli ordinamenti costituzionali esaminati, diffidando dei semplici riscontri di similitudini formali che a prima vista potrebbero indurre a trarre conclusioni affrettate rivelantisi in seguito inesatte e svianti. Fatta questa premessa, resta pur sempre evidente come la comparazione risulti più agevole, e comunque meno rischiosa, quando venga effettuata tra ordinamenti che condividono i medesimi principi di fondo. Appaiono quindi perfettamente 'naturali' le comparazioni frequenti in tema di diritti della persona nell'ambito dei paesi che fanno parte dell'Unione Europea, o le comparazioni fra i diversi sistemi di giustizia costituzionale previsti negli stessi ordinamenti, o infine le ripetute comparazioni tra forme di governo previste negli stessi ordinamenti.
Venendo ora all'ipotesi di raffronto fra istituti appartenenti a ordinamenti diversi, va notato che quando si parla di omogeneità come premessa a una possibile utilità di comparazione si fa riferimento all'individuabilità di comuni elementi identificanti l'istituto da esaminare, sia che si faccia riferimento a un istituto incluso in ordinamenti che condividano gli stessi valori di fondo, sia, a maggior ragione, quando l'istituto riguardi ordinamenti fra loro diversi quanto a valori qualificanti. Al riguardo deve notarsi come non risulti assolutamente attendibile arrestarsi al profilo della semplice qualificazione formale: gli istituti parlamento, governo, corte costituzionale esistono in ordinamenti basati sui principi liberali, ma anche in quelli socialisti e di stati sicuramente autocratici che non accettano nella realtà la separazione dei poteri; i diritti di libertà sono spesso formalmente simili, almeno nei loro profili più generali, a tutte le latitudini. Ecco perché occorre non fidarsi della sola qualificazione formale, operando quindi una serie di giustapposizioni basate sul solo dato definitorio, ed è piuttosto consigliabile adottare un criterio sostanziale mettendo a fuoco la funzione cui risponde un determinato istituto. Di conseguenza, in certi casi, sarà corretto procedere alla comparazione fra istituti partendo dall'individuazione fornita dagli stessi ordinamenti considerati, soprattutto nell'ambito di una medesima forma di Stato, in altri casi sarà più prudente far capo alla funzione svolta.
Così, solo apparentemente l'ombudsman scandinavo e la prokuratura di origine sovietica potrebbero essere messi sullo stesso piano, in quanto l'ombudsman è finalizzato alla tutela di diritti e interessi del cittadino, mentre la prokuratura era finalizzata in via primaria al controllo complessivo dell'unitarietà dell'indirizzo degli organismi amministrativi e giurisdizionali nell'interesse prevalente dello Stato-partito. Di conseguenza, con le debite cautele, non era certo impossibile una comparazione; non era invece accettabile il riscontrare, come da qualcuno fatto, profili di omogeneità dei due istituti per la sola ragione che entrambi gli organi erano considerati dotati di poteri ispettivi e accertativi e di obblighi di informativa verso le assemblee, in quanto nella sostanza si trattava di soluzioni organizzative dotate di attribuzioni funzionali profondamente distanti fra loro.
L'importanza del ricorso al concetto di funzione è evidente quando in un certo ordinamento viene sentito il bisogno di introdurre nuove normative dirette ad affrontare esigenze di tutela che ancora non abbiano trovato una loro regolamentazione e che quindi inducano a individuare modelli di riferimento esterni.
Si può pensare, con riguardo all'ordinamento italiano, all'esigenza di dare corpo alla protezione della 'riservatezza' e quindi alle ricerche comparative sul diritto alla riservatezza previsto in altri ordinamenti. Analogamente si possono ricordare le analisi svolte in tema di ombudsman e di autorità amministrative indipendenti, istituti previsti in altri ordinamenti, con riferimento a soluzioni organizzative finalizzate alla tutela di situazioni soggettive che si sono rivelate via via emergenti. In questi casi l'esigenza sentita in Italia di dar corpo a nuovi profili della funzione di tutela ha condotto a raffrontare la medesima alla funzione inclusa in soluzioni organizzative già sperimentate dirette a scopi consimili.
Un cenno alla metodologia
Già quanto notato in precedenza implica scelte metodologiche proprie della comparazione nel campo del d. costituzionale. E segnatamente: a) la correlazione fra tale tipo di comparazione e funzioni assegnate alla disciplina; b) la rilevanza del proposito classificatorio incentrato sull'individuazione della classe Stato in cui si inseriscono come sottoclassi le diverse forme di Stato a loro volta includenti le più articolate forme di governo e i diversi regimi dei diritti costituzionalmente garantiti; c) l'opzione per una forma di comparazione sincronica e il carattere ausiliario di quella diacronica; d) la restrizione dell'esame comparativo agli ordinamenti statali o comunque il riferimento a tali ordinamenti qualora vengano comparati anche ordinamenti interni (Stati federali o/e regionali) e internazionali (unioni internazionali); e) la comparabilità fra ordinamenti omogenei (appartenenti alla stessa forma di Stato) ed eterogenei (appartenenti a forme diverse); f) l'individuazione nel d. vigente, a prescindere dalle modalità di produzione e formalizzazione, quale materiale da utilizzarsi per la comparazione; g) la distinzione fra macrocomparazione e microcomparazione e la preferenza, quanto a utilità, per quest'ultima; h) l'inclusione del metodo comparativo nell'ambito dell'insieme delle metodologie utilizzate nella ricerca del settore disciplinare e quindi la sua applicazione accanto ad altri metodi concorrenti (empirico, statistico, storico); i) la legittimità della ricerca e della utilizzazione di risultati dell'operazione logico-valutativa che conducano a dare risalto non soltanto a coincidenze e affinità ma anche a divergenze e contrasti.
L'ultimo punto da sottolineare riguarda più da vicino le modalità di svolgimento dell'operazione comparativa fra due o più ordinamenti. Quest'ultima richiede che il ricercatore fissi, in funzione delle sue finalità di ricerca, un parametro di riferimento in base al quale esprimere il proprio giudizio. Questo parametro (tertium comparationis) serve come termine di riferimento nel raffronto fra ciò che viene comparato (comparatum) e ciò che si deve comparare (comparandum). Esso può essere stabilito o partendo dall'individuazione di un obiettivo di ricerca o desumendolo per astrazione da esperienze positive.
A esempio della prima ipotesi si può portare l'esigenza di protezione della riservatezza fino a un certo momento non contemplata espressamente dall'ordinamento positivo italiano ma già disciplinata da altre legislazioni. In tal caso è tale esigenza che diviene parametro di riferimento. A esempio della seconda ipotesi può portarsi l'esigenza di tutela della libertà di associazione prevista dalla generalità degli ordinamenti. In entrambe le ipotesi, sia utilizzando dati positivi sia facendo ricorso all'individuazione di ipotesi di normazione, si fa emergere uno schema di riferimento.
Nella pratica può accadere che chi svolge la comparazione, specialmente quando si esaminano istituti nazionali già esistenti e sperimentati, confonda nell'istituto nazionale il modulo astratto, per cui apparentemente i termini del confronto appaiono ridotti a due: comparato e comparando. Più evidente è l'esigenza di individuare un modulo di riferimento quando l'istituto non è disciplinato dal d. positivo, ma è a livello di proposta legislativa o di studio dottrinale. In tal caso il lavoro di astrazione per costruire il modulo è più evidente: per es., estratto il modulo del diritto alla riservatezza desumendolo dall'esperienza di diversi ordinamenti, lo schema di normazione nazionale verrà comparato con le discipline normative esistenti in altri Stati, tenendo conto del modulo di riferimento. Chiarita l'importanza del modulo astratto di riferimento, deve anche notarsi che non sempre questo può farsi coincidere con l'individuazione di una normativa formale. Più sicuro appare individuare la finalità che sta dietro alla soluzione organizzativa e alla qualificazione formale (nell'esempio citato la funzione di protezione della riservatezza), non intendendosi con ciò escludere la rilevanza dei profili organizzativi e formali, ma volendosi mettere in risalto come questi non possano far trascurare la prevalenza di quello funzionale. Ciò è confortato specialmente dalle analisi di d. comparato nel campo del d. privato e commerciale, che hanno da tempo messo in risalto i limiti di una ricerca circoscritta allo studio di singoli istituti identificati in base a criteri meramente formali. Al contrario, si è riscontrato che lo studio comparato deve essere impostato in termini funzionali, senza riferimento vincolante ai concetti propri dei diversi sistemi legali, bensì tenendo conto delle soluzioni che vengono offerte, a prescindere dalla forma, ai diversi problemi presenti nel corpo sociale.
bibliografia
Il filo conduttore della voce ripercorre quanto già trattato da G. de Vergottini in La comparazione nel diritto costituzionale. Scienza e metodo, in Diritto e Società, 1986, 2, pp. 165 e segg.
Per le diverse dottrine sulle forme di Stato e di governo e per il ricorso alla comparazione anche ai fini di assicurare utili strumenti di classificazione: G.U. Rescigno, Forme di Stato e forme di governo. 1) Diritto costituzionale, in Enciclopedia giuridica, 14° vol., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1989, ad vocem.
L'argomento specifico delle forme di governo in relazione all'individuazione di un criterio di utile classificazione che utilizza la comparazione è stato trattato in: M. Dogliani, Spunti metodologici per un'indagine sulle forme di governo, in Giurisprudenza costituzionale, 1973, pp. 214 e segg.; M. Volpi, Le forme di governo contemporanee fra modelli teorici ed esperienze reali, in Democrazia e forme di governo. Modelli stranieri e riforme costituzionali, a cura di S. Gambino, Rimini 1997, pp. 37 e segg.
Per una esauriente trattazione dei d. di libertà e una loro classificazione: A. Baldassarre, Libertà. 1) Problemi generali, in Enciclopedia giuridica, 19° vol., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1989, ad vocem; L. Carlassare, Forma di Stato e diritti fondamentali, in Quaderni costituzionali, 1995, 1, pp. 33 e segg.
Una chiara distinzione della comparazione incentrata sui valori fondamentali su cui si basano i diversi ordinamenti storicamente avveratisi è in G. Bognetti, Introduzione al diritto costituzionale comparato. Il metodo, Torino 1994.
Sulla comparazione come canone ermeneutico cui ricorrono i tribunali costituzionali, le giurisdizioni internazionali e in generale gli interpreti: P. Häberle, Grundrechtsgeltung und Grundrechts-interpretation im Verfassungsstaat. Zugleich zur Rechtsvergleichung als fünfter Auslegungsmethode (1989), ora nel suo Rechtsvergleichung im Kraftfeld des Verfassungsstaates. Methoden und Inhalte, Kleinstaaten und Entwicklungsländer, Berlin 1992, pp. 27 e segg., e numerosi altri contributi dello stesso Häberle, tra cui La cultura giuridica europea, in La costituzione europea tra cultura e mercato, a cura di P. Ridola, Roma 1997, pp. 15-37. Cfr. inoltre F. Cocozza, Diritto comune delle libertà in Europa. Profili costituzionali della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Torino 1994.
Sulla distinzione fra sistemi di common law e di civil law, e sul loro progressivo avvicinamento: A. Pizzorusso, Sistemi giuridici comparati, Milano 1995; specificamente sugli ordinamenti inglese e americano: U. Mattei, Il modello di common law, Torino 1996.
Sulla comparazione fra sistemi giuridici: M.G. Losano, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extraeuropei, Torino 1978, 1988²; Corso di sistemi giuridici comparati, a cura di G. Alpa, Torino 1996; A. Gambaro, R. Sacco, Sistemi giuridici comparati, Torino 1996. Una significativa rilevanza ha avuto in passato il testo di R. David, Les grands systèmes de droit contemporains, Paris 1964, 1992¹⁰ (trad. it. Padova 1967, 1994⁴). Così pure rilevante è: K. Zweigert, H. Kötz, Einführung in die Rechtsvergleichung, auf dem Gebiete des Privatrechts, 2 voll., Tübingen 1969-71, 1996³ (trad. it. Milano 1992-95).
Fra i manuali che affrontano le tematiche del d. costituzionale: P. Biscaretti di Ruffia, Introduzione al diritto costituzionale comparato, Milano 1969, 1988⁶; C. Mortati, Lezioni sulle forme di governo, Padova 1973; G. de Vergottini, Diritto costituzionale comparato, Padova 1981, 1993⁴; G. Morbidelli, L. Pegoraro, A. Reposo et al., Diritto costituzionale italiano e comparato, Bologna 1995, 1997².
Per una trattazione attenta al profilo della metodologia: G. Lombardi, Premesse al corso di diritto pubblico comparato. Problemi di metodo, Milano 1986; per una recente ricostruzione del dibattito sul metodo: C. Starck, Rechtsvergleichung im öffentlichen Recht, in Juristen Zeitung, 1997, 21, pp. 1021 e segg.
A proposito dell'utilizzazione della comparazione ai fini dell'adozione di schemi classificatori: R. Tarchi, La classificazione delle forme di governo. Il difficile passaggio dal catalogo al sistema, Pisa 1989; M. Troper, Les classifications en droit constitutionnel, in Revue du droit public et de la science politique, 1989, p. 945.
Tra le raccolte di testi costituzionali: Constitutions of the countries of the world, ed. A.P. Blaustein, G.H. Flanz, 17 voll., Dobbs Ferry (N.Y.) 1971; Las constituciones de Iberoamérica, a cura di L. Lopez Guerra, L. Aguiar De Luque, Madrid 1992; Costituzioni straniere contemporanee, a cura di P. Biscaretti di Ruffia, 2 voll., Milano 1970, 1988⁶; E. Palici di Suni, M. Comba, F. Cassella, Le costituzioni dei paesi della Unione Europea, Padova 1998.
Diritto internazionale privato
di Andrea Giardina
Il d. internazionale privato ha avuto, in Italia e nel mondo, profonde e rilevanti evoluzioni negli ultimi cinquant'anni. L'iniziale codificazione delle relative norme contenute nel codice civile del 1865, redatte dallo stesso fondatore della cosiddetta scuola italiana del d. internazionale privato P.S. Mancini, è stata sostituita dapprima dalle norme contenute nelle Disposizioni preliminari al codice civile del 1942 e, più recentemente, dalla l. 31 maggio 1995 nr. 218, contenente la Riforma del sistema italiano di d. internazionale privato. I collegamenti internazionali dell'Italia sono divenuti sempre più numerosi e qualitativamente più intensi con la conseguente stipulazione di varie convenzioni internazionali che rendono uniformi, per l'Italia e gli altri Stati partecipanti, le norme di conflitto. Questa cooperazione internazionale si sviluppa essenzialmente a due livelli. Il primo livello è quello internazionale vero e proprio, che ha come strumento operativo la Conferenza internazionale dell'Aia, ove si negoziano e stipulano testi convenzionali con partecipazione di gran numero di paesi, sia occidentali al di qua e al di là dell'Atlantico, sia in via di sviluppo (van Hoogstraten 1967; Vitta 1969; Giardina 1973). Il secondo livello è quello europeo-comunitario, dove l'esigenza dell'integrazione economica e finanziaria, ma anche sociale e politica, ha prodotto la conclusione di convenzioni in tema di giurisdizione e riconoscimento delle sentenze, la Convenzione di Bruxelles del 26 settembre 1968 e, in tema di obbligazioni contrattuali, la Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 (Badiali 1985; Jayme, Kohler 1995).
Rispetto alla più antica codificazione le modifiche delle soluzioni tecniche adottate sono state numerose e di rilievo. Lo spirito internazionalistico che anima tali soluzioni e le impostazioni che ne costituiscono le premesse è sicuramente rimasto, ma ha subito un radicale mutamento, passandosi da concezioni essenzialmente nazionali che si pensavano intrinsecamente le migliori, e quindi tali da poter essere internazionalmente riconosciute e imposte, a concezioni più autenticamente internazionalistiche in quanto fondate su convenzioni internazionali o, altrimenti, su valutazioni delle soluzioni di altri paesi comunque più attente e rispettose dei valori giuridici diversi da quelli nazionali (sulle caratteristiche generali della riforma italiana del 1995: Davì 1994; Giardina 1996; Picone 1998a).
È stato reso più stretto ed evidente il collegamento fra gli aspetti del d. internazionale privato in senso stretto, relativi appunto alla determinazione del d. applicabile, e aspetti di giurisdizione del giudice italiano nei casi aventi caratteristiche di internazionalità, nonché di riconoscimento delle sentenze straniere. Il d. internazionale privato in senso stretto è sempre di più considerato un segmento, sia pur fondamentale, di una materia, il d. internazionale privato in senso ampio, che ricomprende pure i due ricordati e classici settori del d. processuale civile internazionale. La stessa l. 218 del 1995, che governa oggi la materia, disciplina anche questi due settori processualistici pur mantenendo nel titolo il riferimento al titolo internazionale privato, che va dunque inteso nella sua accezione più ampia (in proposito, si veda la Relazione al Progetto di riforma riportato nella Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1989).
La dottrina del d. internazionale privato ha anch'essa avuto profonde evoluzioni. I temi trattati sotto il vigore del codice del 1865 e nella fase immediatamente precedente e successiva il codice del 1942 sono stati di preferenza i problemi di carattere generale della materia dei conflitti di leggi. Per lunghi anni il tema della natura e della funzione delle norme di d. internazionale privato è stato il tema dominante affrontato dalla migliore dottrina (al riguardo si veda la sintesi proposta da Ballarino 1996²). Sono stati conseguentemente trattati i temi particolari che pure costituiscono momenti essenziali di ogni costruzione generale, quali il rinvio, la qualificazione, l'adattamento. Successivamente, l'attenzione, pur rimanendo essenzialmente focalizzata sui temi generali, li ha individuati in maniera diversa, concentrandosi sui metodi e sulle tecniche del d. internazionale privato e sui conflitti fra sistemi di conflitto piuttosto che sui conflitti di leggi. D'altronde, il ripensamento in maniera diversa delle tematiche di fondo della materia era favorito dagli sviluppi e dalla giurisprudenza nord-americana che suggeriva impostazioni e soluzioni nuove. Nel momento attuale la dottrina, con poche eccezioni, appare maggiormente concentrata su argomenti particolari e di dettaglio, con l'approfondimento di temi che impongono conoscenze accurate del d. civile e commerciale, delle tecniche e degli usi del commercio internazionale, del d. processuale civile. Ne è conseguita tutta una letteratura specialistica che testimonia un certo allineamento italiano rispetto a orientamenti tradizionalmente propri di altri paesi e che consistono nell'apparentare negli studi e nell'accademia il d. internazionale privato con il d. e la procedura civile piuttosto che con il d. internazionale. Del resto è del tutto comprensibile che l'attenzione di studiosi dediti anche allo studio del d. internazionale non possa concentrarsi, in d. internazionale privato, che sui temi generali di questo. Se ciò da un lato ha come risultato un'analisi giuridica più specifica e più utile alla pratica giudiziaria e forense, ha pure la conseguenza di rendere meno evidente quel collegamento fra d. internazionale e d. internazionale privato, che era stato caratteristico per lunghi anni della dottrina italiana e che ormai diviene sempre più difficile riscontrare. L'evoluzione è peraltro inevitabilmente favorita dal sempre crescente numero di informazioni e dati che vanno tenuti presenti nei vari settori di ricerca, determinando una sempre maggiore specializzazione e, quindi, separazione dei settori. Ciò è chiaro anche nella dottrina del d. internazionale privato dove, a parte i temi generali pur affrontati nei limiti sopra indicati, si distingue sempre più chiaramente fra studiosi che si dedicano prevalentemente al d. di famiglia, quelli che si dedicano prevalentemente al d. commerciale, dei contratti e degli affari e quelli che si dedicano prevalentemente a temi di d. processuale. Il collegamento di base fra d. internazionale e d. internazionale privato rimane ciononostante, e malgrado le difficoltà sempre crescenti, una tipica caratteristica della scuola italiana e, soprattutto, dei suoi membri più illustri (v. oltre: La scienza del diritto internazionale privato).
La codificazione del 1942
Il dibattito dottrinale sui temi della natura e della funzione del d. internazionale privato si era svolto con notevole profondità e ampiezza nel corso degli anni Trenta. Avevano riscosso notevole successo quelle dottrine cosiddette unilateraliste rovesciate che attribuiscono alle norme di conflitto la caratteristica di norme di d. pubblico in quanto norme sulla produzione giuridica (Ago 1934; Morelli 1971¹¹) e la sola funzione di richiamo del d. straniero per la disciplina delle fattispecie aventi caratteristiche di internazionalità. Parte della dottrina peraltro continuava a sostenere la tesi della duplice funzione del d. internazionale privato e, quindi, del carattere bilaterale delle sue norme volte, da un lato, a delimitare l'ambito di applicazione delle norme materiali nazionali e, dall'altro, a richiamare il d. straniero (Perassi 1932; Bosco 1939; Vitta 1972-75). In occasione della codificazione del 1942, queste tendenze unilateraliste rovesciate non riuscirono a prevalere sulle altre tradizionali e a informare di sé le norme delle Disposizioni Preliminari al codice civile.
In linea generale può affermarsi che le norme della nuova codificazione furono il risultato di un affinamento tecnico della scienza e della giurisprudenza del d. internazionale privato avutosi soprattutto nel periodo fra le due guerre. L'impostazione delle norme fu la medesima di quella della codificazione manciniana del 1865. Il criterio della nazionalità che era stato il dato caratteristico della prima codificazione italiana fu mantenuto anche nella codificazione del 1942, così come fu mantenuta la formulazione bilaterale delle norme. Il fondamento internazionalistico e universalistico della prima codificazione non poteva però più dirsi essere la ragione della formulazione bilaterale delle norme. Tale formulazione comunque rimane, avendo peraltro alla base concezioni nazionalistiche che fanno ritenere le soluzioni proposte come le migliori e degne di essere generalmente imposte in tutte le situazioni con elementi di internazionalità.
In materia di statuto personale e familiare la codificazione del 1942 ha ribadito l'adozione del criterio di collegamento della cittadinanza. Il criterio non dava luogo a troppe difficoltà applicative data, in linea generale, l'unicità della nazionalità all'interno di una medesima entità familiare. Questa unicità era ottenuta per effetto della legge sulla cittadinanza del 1912 (l. 13 giugno 1912 nr. 555), stabilendosi che la donna straniera la quale sposa un cittadino italiano acquista la cittadinanza italiana e che la donna italiana la quale sposa uno straniero perde la cittadinanza italiana se, iure matrimonii, acquista quella del marito (si veda al riguardo Ballarino 1996²). Altro tipico strumento per evitare l'applicazione contemporanea di due leggi diverse era quello consistente nel dar la preferenza alla legge di uno dei soggetti interessati: per es., al marito nei rapporti personali e patrimoniali fra coniugi (artt. 18 e 19 disp. prel.) o al padre nei rapporti fra genitori e figli (art. 20 disp. prel.). Il cumulo fra due leggi nazionali differenti rimaneva in ipotesi per così dire marginali, quale quella dell'accertamento della filiazione che non veniva ricompreso nella portata normativa dell'art. 20 disp. prel. e che, quindi, veniva disciplinato contemporaneamente dalla legge nazionale del figlio e da quella del presunto genitore (Malintoppi 1953; Campiglio 1990).
Il rispetto della legge nazionale dello straniero trovava tuttavia un'importante limitazione - che peraltro non sussisteva nelle materie personali e successorie - nel caso in cui lo straniero, incapace per il suo d. nazionale, sarebbe stato capace secondo la legge italiana. In tal caso lo straniero, in virtù dell'art. 17, 2° co. disp. prel., veniva considerato capace (al riguardo si veda la critica di Vitta1972-75, per la chiara violazione del principio della parità fra d. nazionale e d. straniero che la norma determinava).
Caratteristica del sistema di conflitto del 1942 era l'amplissima utilizzazione del criterio di collegamento della nazionalità. Questo avveniva in tema di successioni, di donazioni, e anche in tema di contratti e, più in generale, anche in materia di forma degli atti. In particolare, in materia contrattuale, la nazionalità comune del contraente veniva adottata, insieme al luogo di conclusione del contratto, come criterio di collegamento da utilizzare in caso di mancata scelta della legge applicabile da parte dei contraenti. Il d. internazionale privato italiano in questo settore corrispondeva dunque scarsamente alle esigenze di una società economicamente evoluta e aperta ai commerci internazionali (Giardina 1981). In tema di forma degli atti, la legge nazionale del disponente assumeva rilievo anche ai fini della determinazione della validità formale degli atti stessi (Ballarino 1970), anche qui attribuendo rilievo eccessivo alla lex civitatis.
Aspetto caratterizzante la legislazione del 1942, sopravvissuto alla riforma del 1995, è stato quello dell'introduzione della reciprocità quale criterio al quale è subordinato il godimento dei diritti civili da parte degli stranieri. La legislazione manciniana non prevedeva questa restrizione; in uno slancio di ottimistico internazionalismo, estendeva a tutti gli stranieri il godimento dei diritti civili in Italia. L'atteggiamento diverso degli altri Stati nei confronti dei cittadini italiani, la crisi economica fra le due guerre mondiali e i nuovi orientamenti nazionalistici italiani determinarono l'introduzione del criterio della reciprocità nell'art. 16 disp. prel. del 1942. Con la Costituzione repubblicana del 1948 e il riconoscimento in essa dei diritti inviolabili dell'uomo a tutti gli individui, una nuova restrittiva lettura dell'art. 16 disp. prel. si è imposta. La reciprocità, inoltre, non può trovare applicazione in tutti i casi in cui strumenti convenzionali particolari impongono certi trattamenti in favore di tutti e quindi anche degli stanieri; è questo il caso degli strumenti in tema di diritti umani (v. diritti, in questa Appendice) e, soprattutto, della normativa frutto del processo di integrazione europea. Sta comunque di fatto che, nonostante questo più ristretto ambito di applicazione, il criterio di reciprocità continua a operare nell'ordinamento italiano (così Giardina 1978; si veda inoltre Cassese 1975, Mengozzi 1983). Non a caso, dunque, in occasione della riforma del 1995, l'art. 16 disp. prel. c.c. non è stato abrogato.
I limiti della giurisdizione italiana
L'opera di codificazione del 1942 ha riguardato anche il codice di procedura civile. Sono stati quindi toccati due temi propri del d. processuale civile internazionale: quello della giurisdizione del giudice italiano nei casi aventi carattere di internazionalità e quello del riconoscimento delle sentenze straniere. La codificazione delle due materie è avvenuta in armonia con i principi generali allora dominanti: quello dell'esclusività e dell'universalità dell'ordinamento dello Stato. Le conseguenze erano l'assenza di limiti al potere giurisdizionale dello Stato italiano e la necessità di un atto di un'autorità nazionale per attribuire qualsiasi efficacia in Italia a un atto giurisdizionale straniero.
Quanto alla giurisdizione del giudice italiano, l'art. 4 c.p.c. ne dà una definizione particolarmente ampia. La disposizione indica i casi nei quali la giurisdizione sussiste nei confronti di un convenuto straniero. Il riferimento allo straniero convenuto e l'elencazione delle ipotesi molto ampie nelle quali la giurisdizione sussiste nei suoi confronti ha fatto concludere alla giurisprudenza e alla dottrina largamente dominanti (Morelli 1954², p. 108 contra Giuliano) che la giurisdizione italiana sussiste sempre quando a essere convenuto sia un cittadino italiano. Inoltre, la pendenza di un giudizio all'estero non determinava la sospensione o la dichiarazione di mancanza di giurisdizione da parte del giudice italiano (art. 3 c.p.c.); parallalelamente la connessione della causa straniera con causa pendente di fronte in Italia era causa di estensione della giurisdizione italiana anche a questioni rispetto alle quali tale giurisdizione non sarebbe altrimenti sussistita (art. 4, nr. 3 c.p.c.).
Una giurisdizione civile così ampiamente estesa era anche, in principio, inderogabile. L'art. 2 c.p.c. prevedeva infatti limitatissimi casi in cui i criteri generali di giurisdizione fondati sull'art. 4 c.p.c. avrebbero potuto essere derogati in favore di un giudice straniero o di un arbitro estero. La deroga era possibile solo in materia di obbligazioni e poteva essere stipulata solo fra stranieri o da uno straniero con un cittadino non residente o domiciliato in Italia (per tutti, Gaja 1971).
L'esclusività e l'universalità dell'ordinamento italiano trovava poi la sua conferma nelle disposizioni finali del codice di procedura civile attinenti alla delibazione (artt. 796 e segg. c.p.c.). Secondo la giurisprudenza e la dottrina ampiamente prevalenti il procedimento di delibazione era necessario sia per il semplice riconoscimento della sentenza straniera (efficacia del giudicato estero in Italia) sia per la sua esecuzione (Morelli 1954²; per la diversa conclusione dell'efficacia automatica dei giudicati esteri in Italia, Cappelletti 1965). Il riconoscimento automatico dei giudicati stranieri era, a precise condizioni, ammesso solo in virtù di convenzioni bilaterali. Il caso emblematico era rappresentato dalla Convenzione italo-francese del 1930 (in proposito, Perassi 1932). L'orientamento di fondo del sistema italiano era infine comprovato dall'impossibilità, nel caso di pendenza di giudizio in Italia, di delibazione di sentenza straniera indipendentemente dalla priorità del giudizio straniero rispetto al giudizio italiano.
La Conferenza dell'Aia di diritto internazionale privato e la ripresa della collaborazione internazionale dopo la guerra
Dopo la Seconda guerra mondiale la cooperazione internazionale multilaterale in tema di d. internazionale privato riprese nell'ambito della Conferenza dell'Aia. La settima sessione ebbe luogo nel 1951, l'ottava nel 1956; le successive di seguito a intervalli regolari e sempre con un numero crescente di Stati partecipanti. L'obiettivo dell'unificazione globale del d. internazionale privato, che era l'obiettivo degli ideatori e primi protagonisti del sistema dell'Aia (P.S. Mancini e T.M.C. Asser), venne del tutto abbandonato nel corso di questa ripresa della Conferenza. Sono stati i temi particolari quelli rispetto ai quali l'iniziativa codificatoria è ripresa e ha avuto un successo abbastanza ampio. Notevole è stata anche l'attività nei settori della procedura civile internazionale (al riguardo, von Overbeck 1993; Ballarino 1996²). Pur restando gli Stati europei continentali i maggiori protagonisti dell'unificazione che si opera all'Aia, il Regno Unito, gli Stati Uniti e diversi altri paesi, fra i quali sempre più numerosi quelli in via di sviluppo, partecipano attualmente alla Conferenza, dando a essa uno spirito più genuinamente internazionalistico e permettendole di fornire agli Stati, per la firma e la ratifica, testi sempre meglio corrispondenti alle esigenze della collaborazione internazionale in settori specifici e importanti.
L'integrazione europea e la Convenzione di Bruxelles del 1968
La collaborazione postbellica internazionale ha avuto, come è noto, uno dei suoi punti di maggiore intensità nell'Europa comunitaria. Il Trattato istitutivo della Comunità economica europea (1957) previde all'art. 220 che, in materie collegate e strumentali rispetto all'integrazione economica comunitaria, gli Stati negoziassero e stipulassero convenzioni per incrementare la collaborazione reciproca. La materia prescelta dagli Stati comunitari fu quella della giurisdizione e del riconoscimento ed esecuzione delle sentenze straniere. Il risultato fu la Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, successivamente estesa agli ulteriori Stati divenuti membri della Comunità con varie convenzioni di adesione nel 1978, 1982, 1989. La Convenzione di Bruxelles è una convenzione cosiddetta doppia, in quanto contiene sia norme sulla giurisdizione sia norme sul riconoscimento delle sentenze. Essa detta dei criteri di giurisdizione comuni per gli Stati contraenti, eliminando per ciascuno di essi quei criteri di giurisdizione cosiddetti eccessivi perché fondanti la giurisdizione nazionale sulla base di legami giudicati troppo tenui. Per l'Italia è stato eliminato, per es., il criterio di giurisdizione costituito dalla nazionalità italiana del convenuto, che trovava il suo fondamento nel c.p.c. (art. 4).
Il criterio di base adottato dalla Convenzione è quello del domicilio del convenuto. Ne risulta che in ognuno degli Stati partecipanti sussiste una duplicità di regime: uno, quello della Convenzione, applicabile nei confronti dei convenuti domiciliati nella Comunità, e un altro applicabile nei confronti dei domiciliati in Stati terzi. Come si vedrà in seguito, questa duplicità di regime, per le materie disciplinate dalla Convenzione di Bruxelles, è ora stata soppressa in Italia dalla l. 218 del 1995. La Convenzione di Bruxelles ha poi stabilito il principio del riconoscimento automatico per ogni Stato dei giudicati provenienti dagli altri Stati membri. Solo in caso di contestazione del riconoscimento o di necessità di esecuzione forzata del giudicato estero è necessario l'esperimento di una sorta di delibazione semplificata.
Il grande interesse e la grande importanza della Convenzione di Bruxelles sono inoltre determinati da un meccanismo di rinvio pregiudiziale alla Corte delle Comunità Europee che i giudici degli Stati membri possono e, in alcuni casi, debbono attivare. Il meccanismo è fondato sul Protocollo di Lussemburgo del 3 giugno 1971, successivamente adattato a seguito delle nuove adesioni. Esso ha permesso alla Corte comunitaria, su richiesta dei giudici degli Stati membri, di risolvere dubbi e problemi interpretativi che si pongono a livello nazionale, dando un contributo determinante a un metodo di interpretazione unitario del testo convenzionale, in principio autonomo dalle metodologie e dalle concezioni proprie dei vari ordinamenti statali.
Il successo della Convenzione di Bruxelles ha determinato, nel 1988, la stipulazione a Lugano di una convenzione, detta parallela perché sostanzialmente identica a quella di Bruxelles, con altri Stati europei membri dell'EFTA (European Free Trade Association). A seguito della successiva adesione di diversi di questi Stati alla Comunità, la Convenzione di Lugano riveste importanza oggi essenzialmente nei rapporti con la Svizzera. Inoltre la Convenzione di Bruxelles ha fornito, per es. all'Italia, un modello anche per le soluzioni di d. comune, al di fuori, cioè, dello specifico ambito di applicazione convenzionale. La legge di riforma del 1995, al suo art. 3 nr. 2, estende l'applicazione delle disposizioni della Convenzione di Bruxelles in tema di giurisdizione anche alle persone domiciliate fuori della Comunità. L'Italia ha così dimostrato apertura internazionalistica verso i paesi terzi e, quindi, volontà di non discriminare fra domiciliati nella Comunità e non.
La Convenzione di Roma del 1980
Seppure non fondata sull'art. 220 del Trattato CE, una Convenzione fu negoziata, e poi stipulata il 19 giugno 1980 dagli Stati della Comunità, in tema di legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. L'originario progetto codificatorio dell'inizio degli anni Settanta riguardava anche le obbligazioni non contrattuali, ma le diversità in quest'ultimo settore consigliavano di stralciarlo dal progetto e di restringere quest'ultimo alla materia contrattuale, dove le divergenze si rivelavano più facilmente superabili. La Convenzione di Roma rappresenta un mutamento importante per il d. internazionale privato italiano. Fra gli Stati partecipanti che avevano tutti in materia contrattuale norme di conflitto consuetudinarie fondate sulla giurisprudenza, l'Italia era l'unico paese ad avere regole precise, codificate nell'art. 25, 1° co. disp. prel. c.c., sia pure giudicate poco corrispondenti alle moderne esigenze del commercio intercomunitario e internazionale. Il criterio del collegamento più stretto, adottato dalla Convenzione per individuare la legge applicabile ai contratti, in assenza di scelta delle parti ha rappresentato certamente una novità importante per il sistema italiano, soprattutto in considerazione dell'elasticità del criterio stesso. L'accertamento del collegamento più stretto in un dato caso concreto, nonostante la presunzione fondata sulla prestazione caratteristica, costituisce un esercizio inusitato per la giurisprudenza italiana di conflitto, tradizionalmente abituata a procedere con ragionamenti più schematici e deduttivi. La clausola finale dell'art. 4 della Convenzione, che prevede, inoltre, che la presunzione fondata sulla prestazione caratteristica del contratto debba essere disattesa quando sia accertato un diverso collegamento più stretto; la norma di cui all'art. 7 nr. 1, della Convenzione, che prevede la possibilità di 'dare efficacia' a norme imperative di uno Stato terzo, con il quale il contratto presenta forti collegamenti, sono norme inconsuete per la giurisprudenza e la dottrina del nostro paese; la loro applicazione porterà certamente a nuovi sviluppi nella metodologia applicativa del d. internazionale privato in Italia. Non è qui il caso di menzionare anche ulteriori aspetti generali e particolari per i quali la Convenzione di Roma rappresenta un'importante novità per tutto il d. internazionale privato del nostro paese, ben oltre la materia dei contratti.
La legge nr. 218 del 1995: il metodo e le questioni generali
Le convenzioni di Bruxelles e di Roma, come pure le varie convenzioni concluse alla Conferenza dell'Aia, nonché la considerazione delle importanti riforme legislative avvenute in alcuni paesi vicini, primi fra tutti la Germania e la Svizzera, sono state gli elementi che dall'esterno hanno spinto a una riconsiderazione delle soluzioni classiche del d. internazionale privato italiano. Ma importanti fattori interni spingevano per una riforma con forza ancora maggiore (Giardina 1985). In primo luogo è da tenere presente l'impatto della Costituzione repubblicana del 1948 che aveva fissato principi, quale quello generale dell'eguaglianza nell'art. 3 e quello dell'eguaglianza dei coniugi nell'art. 29, di rango superiore alla legge ordinaria. Si poneva dunque il problema della compatibilità con queste norme costituzionali di quelle norme di conflitto che davano in alcuni casi (artt. 18, 19 e 20) la preferenza alla legge nazionale del marito rispetto a quella della moglie o alla legge nazionale del padre rispetto a quella della madre. Per lunghi anni la dottrina aveva sostenuto che le norme di conflitto, in quanto norme strumentali, non si prestavano a essere confrontate con i ricordati principi costituzionali e non potevano, dunque, dirsi incostituzionali (in questo senso per tutti: Vitta 1972-75, vol. 1°; Quadri 1969⁵; Ballarino 1974, ma in maniera meno decisa). La tesi dell'incostituzionalità degli artt. 18, 19 e 20 disp. prel. (Giardina 1974) era rimasta del tutto isolata. Quello che a partire dalla metà degli anni Settanta cominciava a consolidarsi era un orientamento che, de iure condendo, propugnava una modifica legislativa delle norme di conflitto sopra ricordate (in questo senso, per tutti: Vitta 1983; Mengozzi 1983). Ulteriore spinta alla riforma era data dall'adozione della legge sul divorzio nel 1970 e dalla riforma del d. di famiglia nel 1975. Le posizioni paritarie che queste normative stabilivano mettevano in una luce sempre più critica le soluzioni di applicazioni cumulative di leggi nazionali differenti, in quanto i casi di differente cittadinanza all'interno di un medesimo gruppo familiare aumentavano considerevolmente e la scelta in favore della legge di una soltanto delle parti coinvolte, il marito o il padre, appariva sempre più insoddisfacente. Finalmente, nel 1987, la Corte costituzionale, con le sentenze nr. 71 e nr. 477 dichiarava incostituzionali le disposizioni dell'art. 18 e dell'art. 20 disp. prel., in quanto attribuivano preferenza ingiustificata, ai sensi degli artt. 3 e 29 Cost., al marito e al padre (al riguardo: Giardina 1987; Corrao 1988; Barel, Costantino 1990. Con riguardo a tutta la dottrina prima orientata in senso differente, per tutti: Ballarino 1996²).
La Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato è avvenuta con la l. 218 del 1995. L'iniziativa era stata presa dieci anni prima per impulso di E. Vitta (Consiglio nazionale del notariato 1986) con la costituzione di una Commissione, presieduta da R. Monaco, presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Il progetto fu terminato nel 1989 e approfonditamente discusso in dottrina (La riforma del diritto internazionale privato e processuale 1994). Dopo alcune modifiche parlamentari dell'ultimo momento, ma su temi di rilievo, quali la giurisdizione, il rinvio, le società, il testo fu approvato e la l. 218 fu adottata il 31 maggio 1995, con entrata in vigore il 1° settembre. Inizialmente, peraltro, fu rinviata l'entrata in vigore delle disposizioni della legge relative al riconoscimento delle sentenze straniere, ma a partire dal 1° gennaio 1997 la l. 218 è totalmente operante.
La l. 218 è stata ampiamente analizzata dalla dottrina italiana e straniera e le sono stati riservati giudizi generalmente positivi, in quanto è stata considerata una legge precisa nella formulazione di dettaglio e in linea con gli orientamenti generali più moderni prevalenti in materia, dunque particolarmente rispondente alle esigenze della vita internazionale delle persone. Analisi approfondite e proposte teoriche ricostruttive hanno cominciato a essere formulate (si veda, soprattutto, Picone 1998a). In questa sede saranno indicate alcune caratteristiche di fondo della legge che la qualificano nel quadro dell'evoluzione generale del d. internazionale privato. La Riforma ha per oggetto sia il d. internazionale privato in senso stretto, sia il d. processuale civile internazionale. Sono così previste delle regole sulla giurisdizione dei giudici italiani, sia in via generale all'art. 3, sia in particolare con riguardo a taluni settori specifici. Sono poi anche disciplinati il riconoscimento e l'esecuzione degli atti e delle sentenze straniere in Italia. A questo proposito è da sottolineare come entrambi questi settori siano caratterizzati da novità importanti. La giurisdizione italiana è delimitata estendendo, anche ai convenuti domiciliati in Stati non membri della Convenzione di Bruxelles, i criteri di giurisdizione da questa previsti. Per le materie fuoriuscenti dall'ambito materiale della Convenzione di Bruxelles, oltre al criterio generale del domicilio o della residenza in Italia del convenuto, la giurisdizione viene affermata sulla base dei criteri di competenza territoriale interna. L'estensione della sfera di applicazione ratione personarum della Convenzione di Bruxelles è indubbiamente da valutare con favore, in quanto evita discriminazioni, del resto molto criticate, nei confronti di convenuti non domiciliati nella Comunità. Nelle altre materie, invece, i criteri di competenza territoriale, applicati per riferimento, finiscono per estendere troppo la giurisdizione dei nostri giudici, così come fanno alcune disposizioni speciali in tema di rapporti di famiglia e successioni. Sul secondo tema di d. processuale civile internazionale, quello del riconoscimento ed esecuzione delle sentenze straniere, l'importante risultato raggiunto è stato quello del riconoscimento automatico, a certe condizioni, dell'effetto di cosa giudicata delle sentenze straniere. Il procedimento di delibazione di fronte alla Corte d'appello si rende necessario solo per ottenere l'esecuzione forzata e in caso di contestazione del riconoscimento.
Per quanto attiene alla disciplina di conflitto in senso stretto, possono qui essere menzionate le soluzioni date ad alcune questioni generali. È in primo luogo da ricordare come sia stato effettuato un ampio richiamo alle convenzioni internazionali. È ovvio che le convenzioni, in quanto norme speciali, vanno integralmente e puntualmente rispettate (ed è quanto stabilisce l'art. 2 della l. 218), ma in alcuni casi particolari il legislatore ha fatto di più: ha esteso l'ambito di applicazione delle convenzioni stesse. È già stata messa in luce l'applicazione allargata dei criteri della Convenzione di Bruxelles. Vanno poi menzionati i casi dell'art. 42 in tema di protezione dei minori, dell'art. 45 in tema di obbligazioni alimentari, dell'art. 57 in tema di obbligazioni contrattuali e dell'art. 59 in tema di titoli di credito, nei quali alcune convenzioni vengono applicate 'in ogni caso', cioè estendendone l'ambito di applicazione ratione personarum o ratione materiae. Quanto sopra dimostra un atteggiamento aperto e liberale del nostro sistema nei confronti della collaborazione internazionale e del rispetto delle soluzioni proposte da altri ordinamenti.
A conferma di questo atteggiamento generale possono menzionarsi le particolari soluzioni adottate in tema di prova del d., ordine pubblico e rinvio. Quanto al primo aspetto, l'art. 14 della legge conferma il principio iura novit curia anche per quanto concerne il d. straniero. Il giudice potrà utilizzare tutti gli strumenti di ricerca che gli sono disponibili, potrà richiedere informazioni al Ministero della Giustizia, potrà rivolgersi a esperti e a istituti specializzati. Ma poi, in caso di mancato accertamento del contenuto della legge straniera, il giudice non farà immediatamente ricorso alla lex fori, ma darà prima applicazione alla differente legge straniera cui faccia rinvio un criterio di collegamento sussidiario eventualmente previsto dalla norma di conflitto.
L'eccezione di ordine pubblico è stata sempre conosciuta nel sistema italiano di d. internazionale privato sin dalle sue origini nel 1865; essa costituiva uno dei tre pilastri della costituzione di Mancini, insieme al principio di nazionalità e a quello dell'autonomia della volontà delle parti. L'art. 16 della legge apporta a queste eccezioni limitazioni importanti. In primo luogo, facendo propri i risultati raggiunti dalla dottrina (Davì 1994), la norma non prende in considerazione la legge straniera in quanto tale per confrontarla con l'ordine pubblico, ma solo gli effetti che l'applicazione di tale legge determina in Italia. In secondo luogo, inoltre, la contrarietà all'ordine pubblico di tali effetti non determina immediatamente la conseguenza dell'applicazione della legge italiana, ma, prima, l'applicazione di altra legge straniera eventualmente richiamata in via sussidiaria dalla norma di conflitto.
Infine, il rinvio. È un'innovazione importante nel sistema italiano, introdotta negli ultimi lavori parlamentari prima della definitiva adozione della l. 218. La soluzione ora incorporata nell'art. 13 ammette il principio del rinvio in due casi essenziali: quando il d. dello Stato richiamato accetta il rinvio e quando il rinvio stesso è fatto indietro alla legge italiana. Il rinvio è tuttavia escluso in tre ipotesi: quando il d. straniero è designato per effetto di una scelta delle parti, quando si tratta della forma degli atti, e quando si tratta di obbligazioni non contrattuali. In tema di filiazione, infine, il principio del rinvio subisce una limitazione generale, in quanto il rinvio stesso è accettato solo quando permette di giungere a una legge favorevole all'accertamento della filiazione (su tutta la materia del rinvio e per gli ulteriori riferimenti, da ultimo, Picone 1998b).
La scienza del diritto internazionale privato
La scienza del d. internazionale privato rappresenta, sia in Italia sia all'estero, un settore notevolmente raffinato ed evoluto nel più vasto ambito delle scienze giuridiche. Studiosi illustri si sono da sempre applicati allo studio delle tematiche generali e di dettaglio di una materia che di per sé impone l'approfondimento di questioni dommatiche e di principio, l'analisi comparativa delle soluzioni e la ricerca del collegamento con altre materie come quelle civilistiche e processualistiche. In un'analisi delle tematiche affrontate con maggiore costanza e determinazione nei vari periodi che si sono succeduti, dalla codificazione del 1942 ai giorni nostri, possono distinguersi i momenti che seguono.
La natura e la funzione delle norme di d. internazionale privato hanno attratto l'interesse della migliore dottrina in un periodo immediatamente precedente e successivo alla codificazione del 1942. La codificazione manciniana era stata improntata a criteri universalistici (intesi in maniera unilaterale italiana) e la legislazione di conflitto italiana era predisposta all'adesione a una futura convenzione internazionale che avrebbe codificato gli stessi principi italiani o principi analoghi. La conseguenza era stata la formulazione in chiave bilaterale e onnivalente delle norme. Tale formulazione era contestata dalle dottrine unilateralistiche (cosiddette tradizionali per distinguerle dalle successive dottrine unilateralistiche rovesciate), le quali ritenevano inappropriate, e talvolta anche internazionalmente illecite, norme di conflitto che non si limitassero a stabilire i limiti di applicazione delle norme materiali nazionali, ma svolgessero anche l'ulteriore funzione di stabilire quando e come applicare le norme di ordinamenti stranieri.
Le teorie unilateralistiche avevano avuto il massimo del successo all'epoca della codificazione tedesca del 1900, che ne era stata largamente influenzata. Successivamente, tuttavia, hanno continuato a essere vive e vitali a opera prima di J.-P. Niboyet in Francia (Niboyet 1938-47, vol. 3°) e poi di R. Quadri in Italia (Quadri 1969⁵), sia pure sfrondate della tradizionale e indimostrata giustificazione internazionalistica (interstatuale).
Le norme redatte con tecnica bilaterale nella codificazione manciniana e poi, di nuovo, nella codificazione del 1942, sono state lungamente, e con successo, interpretate in chiave unilateralistica rovesciata da una dottrina affermatasi negli anni Trenta e tuttora diffusa (Ago 1934; Morelli 1971¹¹). Le norme di conflitto, in realtà, avrebbero un'unica funzione che è quella di indicare quando e come certe fattispecie aventi caratteri di estraneità debbano essere disciplinate alla stregua di norme straniere. La delimitazione della sfera di applicazione del d. materiale nazionale sarebbe dunque una semplice e automatica conseguenza dell'unica funzione (detta, appunto, unilaterale rovesciata) delle norme di conflitto e consistente nel rinvio al d. straniero.
Questo dibattito sembra ormai sopito. Il bilateralismo, del resto corrispondente alla formulazione letterale delle norme, sia nella codificazione del 1865, sia in quelle del 1942 e del 1995, sembra definitivamente consolidato. È al contempo riconosciuto che in alcuni settori e in alcuni casi possono sussistere norme formulate con tecnica unilateralistica tradizionale: il caso delle cosiddette norme di applicazione necessaria (De Nova 1964). In occasione dell'elaborazione della l. 218 del 1995, la questione non fu al centro dell'attenzione e la tecnica bilateralistica fu in principio adottata per tutta la riforma.
La tematica di fondo che ha successivamente occupato la scienza del d. internazionale privato è stata quella dei limiti dei sistemi nazionali di conflitto e dei cosiddetti conflitti fra sistemi di conflitto (Francescakis 1958). In vari casi particolari la dottrina e la legislazione avevano messo in evidenza come norme nazionali di conflitto escludessero dal loro ambito valutativo situazioni sorte e sviluppatesi all'estero senza alcun contatto con lo Stato del foro. Sono da ricordare in questa linea, dopo le antiche considerazioni di F.C. Gabba (1906), quelle di E.M. Meijers (1938), ma soprattutto gli sviluppi dovuti a Ph. Francescakis (1958).
In Italia questi orientamenti hanno ricevuto il contributo di quelle dottrine che avevano sottolineato la limitatezza dell'ordinamento giuridico in contrapposizione alla dottrina dell'universalità e dell'illimitatezza dell'ordinamento (Balladore Pallieri 1940; Capotorti 1961). Può ricordarsi al riguardo il contributo tratto dall'analisi del tema intertemporale in d. internazionale privato e ai sensi del quale norme di conflitto abrogate non hanno titolo a essere applicate secondo i principi del d. intertemporale quando le situazioni da considerare non avevano avuto alcun contatto con l'ordinamento del foro (così Giardina 1970). Analogamente, è da menzionare la distinzione messa in luce tra norme di conflitto che rinviano alla legge applicabile e norme di conflitto che rinviano all'ordinamento competente, queste ultime essendo in principio volte alla disciplina di situazioni prive di contatti con lo Stato del foro (così Picone 1998a e 1998b). Al momento attuale, tuttavia, le tematiche della natura, della funzione e dei limiti (spaziali) di applicazione delle norme di conflitto sembrano suscitare minore interesse nella dottrina. Questa, nei limiti in cui si occupa ancora di tematiche generali e di principio, sottolinea l'esistenza di una pluralità di metodi utilizzati in d. internazionale privato: quello del rinvio alla legge applicabile, quello del rinvio all'ordinamento competente e quello consistente nel privilegiare il raggiungimento di predeterminati obiettivi sostanziali (così Picone 1996). In questa maniera, evidentemente, si prospettano soluzioni eclettiche alle problematiche classiche della natura, della funzione e dei limiti del d. internazionale privato, problematiche che si erano poste proprio nell'ottica opposta della ricerca di soluzioni unitarie. È da aggiungere che il graduale disinteresse per le tematiche di principio tradizionalmente affrontate sembra anche determinato dal successo ampiamente riscosso da impostazioni di base radicalmente diverse proposte soprattutto dalla dottrina nord-americana dei conflitti di legge. Quando i principi ispiratori dell'intera materia vengono individuati nella tutela dei governmental interests che stanno alla base della normativa nazionale e delle normative straniere (Currie); oppure nella scelta della better law fra le varie leggi potenzialmente in concorrenza fra loro (Cavers); oppure nella ricerca della closest connection che una fattispecie possa avere con gli ordinamenti potenzialmente interessati (Reese), è evidente che soluzioni unitarie non vanno più ricercate, ma che ogni indagine diviene piuttosto un'indagine di specie condotta con esclusivo, o preponderante, riguardo alle caratteristiche di ogni caso concreto (in proposito, De Nova 1964, Brilmayer 1995).
La situazione attuale è dunque caratterizzata da una sempre più vasta accettazione del principio del collegamento più stretto come principio informatore di ogni sistema di conflitto, principio ora in Europa e in Italia consacrato dalla Convenzione di Roma del 1980 in tema di contratti e dalla progressiva affermazione di clausole cosiddette di eccezione che permettono, in omaggio al criterio del collegamento più stretto, di derogare a quanto disposto da singole norme di conflitto (v., per es., la generale clausola di eccezione contenuta nell'art. 15 della legge svizzera di d. internazionale privato del 1987).
In questa situazione complessiva è quindi del tutto comprensibile e giustificabile che la ricerca giuridica nel settore del d. internazionale privato si stia prevalentemente orientando verso analisi di singoli settori e istituti, tenendo in grande considerazione i dati della giurisprudenza nazionale e straniera e fornendo un'accurata esegesi delle norme introdotte dalla l. 218 del 1995. L'analisi è poi costantemente rivolta alle convenzioni internazionali che l'Italia stipula ed esegue nel suo ordinamento e agli effetti che tali norme di esecuzione producono reagendo sull'intero sistema (Giardina 1993, con riferimento alla Convenzione dell'Aia del 1985 sul trust). Gli argomenti del d. processuale civile internazionale, che da sempre sono stati egregiamente approfonditi dalla dottrina italiana, sono poi costantemente e accuratamente trattati traendo motivo dal funzionamento della Convenzione di Bruxelles del 1968 e di Lugano del 1988 e dalla ricca giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee relativamente alla prima. Infine, l'analisi di dettaglio e comparata è sempre più ampiamente condotta su temi attinenti al d. degli affari e del commercio internazionale, nell'ambito del quale l'uniformità internazionale si va sempre più rapidamente realizzando e gli studi e i risultati raggiunti sono sempre più facilmente comparabili e utilizzabili internazionalmente.
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Diritto internazionale pubblico
di Alessandra Mignolli
Nella seconda metà del 20° sec. il d. internazionale pubblico ha conosciuto una significativa evoluzione e un rapido sviluppo. Pur conservando inalterata la sua struttura portante, l'ordinamento giuridico internazionale si è dovuto confrontare con situazioni nuove, legate alla mutata composizione della comunità internazionale e alle sue vicende storiche e politiche, ma anche con problemi derivanti dal progresso tecnologico, che ha creato nuove esigenze di natura economica, e con l'emergere di nuovi valori e interessi comuni. In tale fermento di sviluppo e di crescita un contributo importante è giunto alla scienza del d. internazionale e alla sua evoluzione positiva dall'opera della dottrina, nell'ambito della quale un posto di rilievo spetta agli autori italiani, sia relativamente allo sviluppo e all'analisi di nuove tendenze, sia per la sistemazione dommatica e l'approfondimento delle varie tematiche della materia.
Interdipendenza e istituzionalizzazione
Il d. internazionale si è sviluppato, nella seconda metà del Novecento, sulla spinta della crescente interdipendenza tra i membri della comunità internazionale, che ha investito molteplici profili: politico e della sicurezza, economico, commerciale e finanziario, culturale, scientifico e tecnologico, sociale, ambientale. Tale interdipendenza, che negli anni Novanta ha avviato il processo di globalizzazione dell'economia e delle reti internazionali di informazione, era già chiaramente percepita all'indomani del secondo conflitto mondiale, quando la comunità internazionale, appena uscita dalla catastrofe della guerra, cominciò a porsi l'obiettivo di individuare strumenti istituzionali diretti a garantire un lungo periodo di pace e cooperazione.
Con questo spirito furono convocate la conferenza di Bretton Woods del 1944, che creò le grandi istituzioni finanziarie internazionali (il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale), quella di San Francisco del 1945, che diede vita alle Nazioni Unite, e quella dell'Avana del 1947-48, che elaborò l'ambizioso progetto di un'organizzazione internazionale del commercio che regolasse in tutti i suoi aspetti le relazioni commerciali multilaterali. La Carta dell'Avana rimase però lettera morta e dalla parte di essa dedicata alle tariffe doganali nacque, nel 1947, quando la conferenza era ancora in corso, il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade); questo accordo, applicato a titolo provvisorio fino al 1994, ha consentito la graduale liberalizzazione degli scambi commerciali e ha accompagnato la comunità internazionale fino alla creazione dell'Organizzazione mondiale del commercio, avvenuta nel 1995, quasi 50 anni dopo il fallimento della Carta dell'Avana (v. istituzioni economiche internazionali, in questa Appendice).
Interdipendenza e conseguente spinta all'istituzionalizzazione hanno dunque caratterizzato, in molti diversi settori, l'evoluzione postbellica delle relazioni internazionali. La nascita delle Nazioni Unite fu difatti accompagnata da quella delle cosiddette istituzioni specializzate (quelle la cui creazione era avvenuta in precedenza, come l'Organizzazione internazionale del lavoro, furono prontamente collegate al massimo organismo internazionale), competenti in materie specifiche, di natura tecnica, culturale, sociale. Si sviluppò dunque l'esigenza, già avvertita fin dalla seconda metà del 19° secolo, di gestire a livello internazionale diversi servizi per i quali l'ambito nazionale si era rivelato insufficiente, e che aveva dato luogo alla creazione di unioni amministrative, come l'Unione postale universale, costituita a Berna nel 1874.
Con l'intensificarsi di tale fenomeno, si produsse un'eccezionale innovazione nella struttura stessa della comunità internazionale, fino allora costituita esclusivamente di Stati sovrani. La personalità giuridica internazionale cessò progressivamente di essere peculiarità esclusiva di questi ultimi e la sfera soggettiva internazionale andò così allargandosi di fronte all'impossibilità di ignorare il ruolo autonomo che le maggiori organizzazioni andavano assumendo nella vita di relazione internazionale.
Già nel 1949 la Corte internazionale di giustizia, con un parere reso sulla vicenda dell'uccisione del mediatore delle Nazioni Unite in Palestina, Folke Bernadotte, sostenne l'esistenza della personalità internazionale dell'ONU: poiché questa era stata creata dai suoi membri fondatori con lo scopo di svolgere autonomamente determinate funzioni nell'ambito internazionale, ciò implicava, di necessità, che l'organizzazione godesse di soggettività internazionale e di capacità di agire a livello internazionale. Non si trattava peraltro di uno Stato, né tantomeno di un 'superstato', perché la soggettività di un'organizzazione dipendeva ed era limitata dai suoi specifici fini e dalle sue funzioni. A trent'anni di distanza la Corte è andata ancora oltre: in un parere reso nel 1980 ("interpretazione dell'accordo del 25 marzo 1951 tra Organizzazione mondiale della Sanità ed Egitto") essa ha infatti affermato la personalità internazionale di tutte le principali organizzazioni internazionali, che sarebbero pertanto vincolate dalle regole generali del d. internazionale a esse applicabili, dal loro atto costitutivo e dagli accordi di cui sono parte.
Alle organizzazioni di carattere universale, aperte cioè all'adesione di tutti gli Stati, si sono via via affiancate numerose organizzazioni particolari, la partecipazione alle quali è subordinata a requisiti diversi: di natura geografica (l'appartenenza a una determinata regione), politica (il riconoscersi in un determinato blocco ideologico), economica (per es., il fatto di essere uno stato industrializzato, o produttore di petrolio, o esportatore di materie prime). Tra le organizzazioni regionali una natura speciale è stata progressivamente assunta dalle Comunità Europee, che sono giunte a sviluppare un proprio ordinamento giuridico, diverso sia dagli ordinamenti interni degli Stati membri, sia dall'ordinamento internazionale. Si tratta, secondo quanto la stessa Corte di giustizia delle Comunità ebbe ad affermare (sentenza Van Gend & Loos, causa nr. 26/62, del 5 febbr. 1963), di un ordinamento di nuovo genere nel campo del d. internazionale, che ha come soggetti non solo gli Stati membri, come accade nel caso delle organizzazioni internazionali, ma anche i loro cittadini, ordinamento a favore del quale gli Stati hanno rinunciato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani. Le norme dell'ordinamento comunitario si rivolgono dunque indifferentemente agli Stati membri e ai privati (sul processo di integrazione europea, che ha condotto, nel 1992, alla creazione dell'Unione Europea, v. unione europea, in questa Appendice).
L'evoluzione della comunità internazionale
Questi fenomeni di intensa istituzionalizzazione delle relazioni internazionali fanno da sfondo a ulteriori mutamenti che si sono manifestati nella comunità internazionale nel dopoguerra. L'immediato manifestarsi, subito dopo la guerra, di una contrapposizione tra due blocchi ideologici e la nascita di un sistema internazionale bipolare non sono stati eventi privi di conseguenze anche sotto il profilo giuridico.
Da un lato, infatti, la riflessione sulle relazioni tra i paesi appartenenti al blocco socialista porta a interrogarsi se queste fossero effettivamente rette dalle norme generali del d. internazionale classico. La cooperazione economica e politica tra tali Stati era sì disciplinata da una fitta rete di accordi bilaterali e multilaterali, ma spesso i loro rapporti si confondevano, a causa della peculiare struttura interna di questi Stati, con quelli tra i partiti 'fratelli' che li guidavano. La nozione stessa di sovranità alla quale, come si vedrà tra breve, i paesi socialisti si mostravano estremamente attaccati nelle loro relazioni esterne, perdeva, almeno in linea di principio, molto del suo significato all'interno del blocco. Si parlò di dottrina della 'sovranità limitata', che il leader sovietico L.I. Brežnev, sulla base di numerosi precedenti, così teorizzò: "quando forze interne ed esterne, nemiche del socialismo, tentano di mutare lo sviluppo di un paese socialista e spingono verso la restaurazione dei rapporti capitalistici, quando cioè sorge un serio pericolo per gli interessi del socialismo in quel paese e per la sicurezza di tutta la comunità socialista, allora non si tratta più solamente di un problema che concerne il popolo di quel paese, bensì di un problema comune, degno dell'attenzione e della cura di tutti i paesi socialisti". Una tale teoria, che contrastava con il principio di non ingerenza negli affari interni di un altro Stato, apriva la strada, e di fatto condusse, a interventi e ingerenze da parte di quello che aveva assunto il ruolo di paese-guida del blocco socialista, l'Unione Sovietica.
Sul diverso piano delle relazioni con i paesi esterni al blocco, l'Unione Sovietica fin dalla sua nascita aveva assunto un atteggiamento di contestazione verso le regole del d. internazionale generale, di natura consuetudinaria, considerato espressione del mondo capitalista: di qui la predilezione per lo strumento dell'accordo, che sottolineava la base esclusivamente consensuale che questo paese attribuiva al d. internazionale. Una tale concezione, peraltro, derivava in modo naturale dalla tenacia con cui i paesi socialisti, nei loro rapporti con l'Occidente, difendevano la propria sovranità, al fine di salvaguardare a ogni costo la propria integrità territoriale e indipendenza politica, ma anche il loro peculiare sistema politico ed economico. Per altro verso, gli Stati socialisti si impegnarono nel ricercare un rinnovamento del d. internazionale, insistendo in particolare sulla formazione di principi generali, da essi considerati indispensabili ad assicurare una coesistenza pacifica tra stati appartenenti a sistemi politici ed economici diversi. A tal fine, essi hanno sempre insistito, più che sul normale procedimento di formazione delle norme consuetudinarie, sull'elaborazione di 'dichiarazioni di principi' da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Qui essi, volendo orientare al modello socialista sia i sistemi interni dei paesi del Terzo mondo, sia l'assetto stesso delle relazioni internazionali economiche, si sono presentati strenui difensori dei principi anticolonialisti, in primo luogo del principio di autodeterminazione dei popoli, ma anche di quelli, improntati alla solidarietà internazionale, su cui si sarebbe dovuto fondare il nuovo ordine economico internazionale. Inoltre, coerentemente con la propria concezione consensualista del d. internazionale, si sono sempre mostrati reticenti ad accettare forme di garanzia dell'attuazione del d. attraverso, per es., meccanismi internazionali di controllo o sottoponendosi a metodi giurisdizionali di soluzione delle controversie.
Già a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, e vorticosamente nel corso di tutto il decennio successivo, la comunità internazionale è stata poi investita da una vera e propria rivoluzione: l'ondata della decolonizzazione ha portato sulla scena internazionale un gran numero di nuovi Stati, sorti dalla dissoluzione degli imperi coloniali. Anche questo fenomeno ha comportato importanti conseguenze giuridiche. Solo dopo la metà del 19° sec. la comunità internazionale, fino allora centrata sugli Stati cristiani europei e americani, aveva cominciato ad aprirsi, con estrema lentezza, ai paesi musulmani dell'area mediterranea e a qualche paese asiatico: la Turchia è stata 'ammessa' nel concerto delle nazioni solo nel 1856 e il Giappone alla fine del secolo. Con la Società delle Nazioni, cui parteciparono numerosi Stati extraeuropei, si era cominciato ad assistere a una sorta di 'decentramento' della comunità internazionale e, come è stato detto (Schmitt 1950), alla fine del cosiddetto ius publicum europaeum. Dopo la decolonizzazione, la maggioranza della comunità internazionale è ormai costituita da paesi africani e asiatici, per lo più in via di sviluppo.
Tali paesi, che in ragione della loro preponderanza numerica detengono la maggioranza in seno all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, non tardarono a rendersi conto delle possibilità che una simile situazione offriva loro. In particolare essi, riuniti nel cosiddetto Gruppo dei 77 nell'ambito dell'Assemblea generale, avviarono subito una forte critica nei confronti delle norme di d. internazionale consuetudinario, la cui formazione, asserivano, era opera esclusiva dei paesi sviluppati e coloniali ed era avvenuta senza la loro partecipazione. Basti ricordare la contestazione delle norme consuetudinarie che regolavano il trattamento dei beni stranieri, in particolare le questioni relative all'espropriazione e nazionalizzazione e al relativo indennizzo: allo scopo di estromettere i vecchi colonizzatori dalle attività economiche nazionali, i PVS (Paesi in Via di Sviluppo) si appellarono al principio della sovranità esclusiva e permanente dello Stato territoriale sulle proprie risorse naturali per giungere ad affermare l'esclusiva competenza dello Stato nazionalizzante e delle sue leggi interne in materia di indennizzo. Da questo atteggiamento derivò un'intensa attività volta alla riforma del d. consuetudinario, soprattutto in materia economica, attraverso gli atti, in particolare le dichiarazioni di principi, emanati dall'Assemblea generale. Nonostante il carattere non vincolante di tali atti, si riteneva che essi fossero in grado di agevolare la formazione di una nuova opinio iuris internazionale e di orientare la prassi degli Stati in modo da rendere più rapida la formazione di nuove norme consuetudinarie. In tale azione, per i motivi sopra accennati, i PVS potevano contare generalmente sulla solidarietà dell'URSS e dei paesi socialisti. Trovò così origine e forza l'idea della creazione di un "nuovo ordine economico internazionale" fondato su principi di solidarietà internazionale e volto a eliminare le disuguaglianze di fatto esistenti tra gli Stati attraverso correttivi che finivano per l'imporre pesanti obblighi a carico dei paesi più ricchi. Il nuovo ordine economico internazionale ebbe il suo culmine nell'adozione, da parte dell'Assemblea generale, della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, nel 1974, e nell'apertura alla firma, nel 1982, della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, la cui Parte xi, dedicata alla disciplina dello sfruttamento internazionale delle risorse minerarie dei fondali marini oltre le giurisdizioni nazionali, accoglie come principio guida la nozione di 'patrimonio comune dell'umanità' e il criterio della ripartizione dei benefici tra tutti gli Stati appartenenti alla comunità internazionale. Nonostante tutti questi fermenti, tuttavia, l'esistenza di un vero e proprio diritto allo sviluppo stentò ad affermarsi, per la resistenza dei paesi industrializzati che continuavano, grazie ai meccanismi di voto ponderato, a detenere la maggioranza in seno agli organismi internazionali decisivi, quali il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Sotto il profilo strettamente giuridico ne derivò, in sostanza, una sorta di doppia sfera di relazioni economiche: da una parte quella tra i paesi industrializzati e capitalisti membri dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), fondata sul criterio della reciprocità e sulle regole classiche del d. internazionale e, dall'altra, quella tra paesi occidentali e PVS, caratterizzata per contro dalla concessione a questi ultimi di trattamenti preferenziali, in mancanza però di una sincera accettazione da parte dei paesi ricchi dei principi cui i paesi in via di sviluppo intendevano ispirare la trasformazione delle relazioni e degli assetti economici internazionali.
Merita di essere ricordato un ulteriore sviluppo per quanto concerne la composizione della comunità internazionale, relativo al ruolo assunto dagli individui nel d. internazionale. Sulla soggettività internazionale degli individui la dottrina è divisa: anche se la parte predominante di essa persiste nel negarla, è un fatto che gli individui hanno cominciato a essere presi sempre più in considerazione dal d. internazionale. Questo fenomeno si è manifestato sotto due profili: da un lato l'individuo viene posto in rilievo come destinatario di una serie di diritti e di libertà sanciti in numerosi strumenti giuridici internazionali sui diritti dell'uomo (nel rinviare a diritti, in questa Appendice, ricordiamo solo la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, del 1948; i Patti delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, del 1966; la Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali, del 1950); dall'altro tende a emergere sul piano internazionale la sua responsabilità per i cosiddetti crimini di diritto internazionale, cioè quei comportamenti che costituiscono violazione di norme internazionali e che sono lesivi di interessi fondamentali della comunità internazionale.
Sotto il primo profilo, ci si chiede se gli individui siano da considerarsi diretti destinatari di norme internazionali tenendo conto dei meccanismi che alcune convenzioni internazionali hanno predisposto per garantire il rispetto dei diritti umani da parte dei governi. Di fronte a strumenti, quali quelli previsti dalla Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali del 1950, che consentono a singoli individui di ricorrere alla Commissione europea dei diritti umani e, ora, direttamente alla Corte europea dei diritti umani, si potrebbe concludere che sono gli individui stessi i titolari dei diritti garantiti dalla Convenzione, la quale dunque creerebbe delle situazioni giuridiche soggettive direttamente in capo a essi, senza passare per il tramite degli Stati. Tuttavia, una tale impostazione, benché suggestiva, non è generalmente ritenuta accettabile allo stato attuale dello sviluppo del d. internazionale. Questo continua infatti a rivolgersi esclusivamente agli Stati che accettano e ratificano le convenzioni con una propria manifestazione di volontà. È sempre e solo attraverso l'attuazione che lo Stato dà a un accordo nel proprio ordinamento interno, dopo averlo ratificato sul piano internazionale, che i cittadini possono godere dei diritti che la norma internazionale attribuisce loro. In altre parole, la norma internazionale produce effetti in favore dell'individuo solo in quanto trasformata, attraverso le normali procedure nazionali di adattamento, in norma interna. Per il d. internazionale, l'individuo continua a essere l'oggetto di diritti e obblighi che fanno capo agli Stati (Capotorti 1995).
Lo stesso accade nella diversa ipotesi della repressione e punizione dei crimini commessi da individui. Nell'ordinamento internazionale, la responsabilità individuale per atti lesivi di interessi internazionalmente tutelati si era fatta strada da tempo. Basti pensare alle disposizioni sull'incriminazione di criminali di guerra già presenti nel Trattato di pace di Versailles del 1919 e alle regole tradizionali in materia di repressione della pirateria. Con gli accordi che diedero vita ai tribunali di Norimberga e di Tokyo si affermò la ripartizione in crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l'umanità, ripartizione che nei decenni successivi ha conosciuto un'articolazione in fattispecie diverse, quali il genocidio (in questa Appendice), la tortura, la schiavitù, il terrorismo (v. in App. V). Il problema che subito si pose era quello di scavalcare l'interesse dello Stato per l'esercizio della giurisdizione penale, una delle tradizionali prerogative della sovranità territoriale. Nel caso dei reati di terrorismo, per es., si è fatto ricorso in numerose convenzioni alla regola aut dedere aut iudicare, in base alla quale lo Stato sul cui territorio venga a trovarsi una persona indiziata di reati di terrorismo è tenuto ad avviare nei suoi confronti un procedimento penale o, in alternativa, a concedere l'estradizione dell'indiziato verso lo Stato che abbia uno stretto collegamento con il reato (lo Stato dove questo è stato commesso, o lo Stato nazionale dell'indiziato o delle vittime). Queste soluzioni, tuttavia, non sono sufficienti ad assicurare la repressione di crimini, spesso assai gravi, perpetrati in situazioni in cui lo Stato, a causa dello stato di guerra o di gravi disordini interni, non possa o non voglia assumere iniziative. La soluzione apparsa più idonea a garantire che atrocità come i crimini di guerra, il genocidio, la tortura, siano effettivamente perseguiti e puniti è quella di costituire, per mezzo di una convenzione internazionale, una corte penale permanente, dotata della competenza a perseguire, giudicare e punire i colpevoli di atti indicati come crimini da norme internazionali. Dopo un lungo lavoro della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite, lo statuto istitutivo di una Corte penale permanente è stato aperto alla firma a Roma il 18 luglio 1998, a conclusione di una difficile conferenza intergovernativa. L'istituzione della Corte penale permanente, se consente di rispettare anche in questo tipo di giudizi i principi e le garanzie generali del d. penale, non è tuttavia in grado di risolvere il problema fondamentale, dato dalla probabile mancanza di universalità nella partecipazione all'accordo. Si tratta infatti di una convenzione, quindi di un atto aperto alla volontaria adesione degli Stati e privo di effetti per gli Stati terzi. Altrettanto problematico appare l'inserimento, tra i crimini perseguibili, dell'aggressione, atto questo difficile da definire e da individuare giuridicamente e per il quale è arduo separare la responsabilità dell'individuo da quella dello Stato e che investe comunque una decisione assunta dai più alti vertici dello Stato, per i quali l'esperienza storica dimostra quali siano le resistenze a incriminarli. Proprio per le indicate difficoltà, lo statuto prevede che la giurisdizione della Corte penale sui crimini di aggressione possa subentrare solo a seguito dell'adozione (che non può avvenire prima di 7 anni dall'entrata in vigore dello statuto) di un emendamento volto a definire tale crimine e a stabilire, conformemente alle rilevanti disposizioni della Carta delle Nazioni Unite, le condizioni per l'esercizio della giurisdizione penale. Le difficoltà incontrate nell'elaborazione e nell'adozione del progetto hanno indotto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, pressato dai gravi eventi accaduti durante le crisi della ex Iugoslavia e del Ruanda, a seguire un approccio diverso da quello della corte permanente precostituita, istituendo esso stesso, sulla base del potere decisionale attribuitogli dalla Carta, due tribunali speciali ad hoc competenti a giudicare e punire gli individui indiziati di aver commesso gravi violazioni del diritto umanitario nella ex Iugoslavia (risoluzioni nr. 808/1993 e nr. 827/1993) e nel Ruanda (risoluzione nr. 955/1994).
Alla fine degli anni Ottanta la comunità internazionale è stata investita da un nuovo rivolgimento, le cui conseguenze sull'assetto delle relazioni giuridiche internazionali non sono ancora chiaramente definite. Il crollo del muro di Berlino nel 1989 rappresenta il momento simbolico di avvio di un processo che ha condotto rapidamente alla dissoluzione dell'Unione Sovietica e della Iugoslavia, con la formazione di numerosi nuovi Stati, alla caduta dei regimi comunisti dell'Est europeo e alla fine della contrapposizione in due blocchi ideologici che aveva caratterizzato la comunità internazionale nei quarant'anni precedenti. Il venir meno di tale contrapposizione ha avuto la sua prima e più vistosa manifestazione in occasione della crisi del Golfo (1990-91), quando il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è finalmente trovato nelle condizioni di intervenire (l'unico intervento militare analogo delle Nazioni Unite risaliva alla guerra di Corea, nel 1950, reso possibile dalla temporanea assenza dell'URSS dal Consiglio di sicurezza). È sembrato che questo fosse un decisivo momento di svolta segnato dallo spostamento del baricentro delle Nazioni Unite dall'Assemblea generale, la quale nei decenni precedenti aveva assunto un ruolo centrale, al Consiglio di sicurezza finalmente investito in misura più incisiva delle funzioni di garante del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale istituzionalmente affidategli dalla Carta. Peraltro le successive vicende che hanno interessato la comunità internazionale e in particolare l'intervento nel Kosovo del 1999, caratterizzato da un'azione militare della NATO in assenza di preventiva autorizzazione del Consiglio, non hanno confermato questa linea di tendenza. Si sono così riproposte le critiche che avevano colpito il Consiglio per la discrezionalità dell'organo, le valutazioni politiche che lo guidano nelle sue decisioni, la composizione ristretta e non sufficientemente rappresentativa del gran numero di Stati membri, il predominio assicurato alle grandi potenze dal diritto di veto.
Sul piano delle relazioni economiche internazionali, inoltre, il fallimento del modello politico-economico socialista ha di fatto decretato la vittoria del sistema liberista a livello mondiale. Si è assistito, di conseguenza, a un graduale ripensamento delle concezioni del nuovo ordine economico internazionale, e la comunità internazionale appare avviata, con sempre maggiore convinzione, sulla via della più ampia liberalizzazione delle relazioni economiche: la cosiddetta globalizzazione dell'economia altro non è che l'apertura dei mercati nazionali alla libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone, agevolata dallo sviluppo delle reti telematiche di comunicazione che permettono rapidi contatti tra i più lontani punti del pianeta. Un tale processo lascia intravedere il ridimensionamento delle strategie di assistenza allo sviluppo e una difficile elaborazione di nuovi strumenti, volti essenzialmente a permettere ai PVS di inserirsi, su un piano di parità e a condizioni di reciprocità, in un mercato globale impostato sulle regole del liberismo economico e della concorrenza. Non solo, ma la prospettiva che si apre è quella di relazioni internazionali che vedranno sempre più, quali principali protagonisti, i privati, operatori economici, commerciali e imprese, operanti attraverso canali di comunicazione situati spesso al di fuori e al di sopra delle regole statali e internazionali, e da queste difficilmente controllabili e disciplinabili. Questo "dédoublement du monde" (Dupuy 1996) tra il piano delle relazioni intergovernative e quello, sempre più presente, delle relazioni interindividuali, rappresenta una sfida per il d., che dovrà necessariamente approntare idonei interventi normativi, facendo ricorso volta a volta agli strumenti propri del d. interno e del d. internazionale, o elaborando nuovi strumenti e nuove tecniche.
Profili normativi
Le fonti tradizionali del d. internazionale, consuetudine e accordo, hanno certamente conservato un ruolo centrale nell'ordinamento internazionale. Tuttavia, lo sviluppo di tale ordinamento è stato caratterizzato e fortemente influenzato da due tendenze di segno opposto. Il rilievo assunto dall'attività delle organizzazioni internazionali, tra le quali in primo luogo le Nazioni Unite, ha comportato un crescente ricorso agli strumenti normativi tipici di queste: le raccomandazioni o risoluzioni, dichiarazioni ecc. Si tratta di atti formalmente non vincolanti, adottati sempre più spesso con la procedura del consensus, senza una votazione formale ma con la semplice constatazione della mancanza di obiezioni da parte dei membri dell'organo.
Attraverso questa cosiddetta soft law si è tentato, soprattutto da parte dei PVS, di modificare il d. internazionale generale, creando una sorta di procedimento legislativo o quasi-legislativo internazionale. In realtà atti di questo tipo sono e restano non vincolanti, benché non sia da trascurare la loro funzione di impulso alla successiva eventuale formazione di norme consuetudinarie o alla conclusione di accordi internazionali. Gli anni Sessanta e Settanta sono stati, in questo senso, un periodo fecondo e dinamico. L'Assemblea generale, divenuta, anche per effetto della paralisi del Consiglio di sicurezza, il centro dell'attività delle Nazioni Unite, intraprese un'intensa e stimolante attività normativa. Infatti, come è stato osservato (Dupuy 1996), di fronte ai disaccordi tra l'Est socialista, l'Ovest capitalista e il Sud in via di sviluppo, appariva necessario disporre di un foro ove i membri potessero persistere nell'affermazione ostinata di una comunanza di valori, se non di interessi.
Di "quasi-legislazione internazionale" si può invece parlare solo con riferimento a taluni atti, esclusivamente di natura tecnica, prodotti da organizzazioni internazionali specializzate, che hanno la caratteristica di essere giuridicamente vincolanti per gli Stati membri, pur con alcuni strumenti di salvaguardia, come clausole di opting out, anche nei confronti dello Stato dissenziente o di quello che non abbia partecipato alla sua adozione: esempi classici sono le normative in materia di aviazione civile adottate dall'ICAO (International Civil Aviation Organization) e i regolamenti dell'OMS in materia sanitaria.
Sull'opposto versante, sulla spinta dei principi fondamentali sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite si è andata affermando la diffusa convinzione dell'esistenza, nel d. internazionale consuetudinario, di una categoria di norme inderogabili, di uno ius cogens internazionale. A esso si riferisce la Convenzione di Vienna sul d. dei trattati del 1969 nello stabilire, all'art. 53, la nullità di qualsiasi trattato contrastante con una norma imperativa del d. internazionale generale. E un implicito riferimento a esso si può pure rinvenire nella prima parte del progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti illeciti elaborato dalla Commissione del d. internazionale e approvato in prima lettura nel 1980, quando introduce la distinzione tra semplici delitti e crimini internazionali: questi ultimi, secondo la Commissione, si differenziano dai primi per l'importanza dell'obbligo violato e la gravità della violazione. L'importanza dell'obbligo la cui violazione dà luogo a un crimine evoca la nozione di d. cogente. In ogni caso, rilevante ai fini normativi è il dato formale fornito, sia pure in termini non del tutto limpidi, dalla Convenzione di Vienna, per la quale imperativa è una norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale nel suo insieme come una norma non derogabile, e che può essere modificata solo da una successiva norma di d. internazionale generale avente il medesimo carattere. L'indicazione offerta dal progetto sulla responsabilità, a sua volta, può invece essere utile al fine di individuare, a titolo esemplificativo, quale sia, sotto il profilo materiale, il contenuto delle norme internazionali cogenti. La Commissione indica come rientranti nella categoria dei crimini internazionali le violazioni gravi di obblighi essenziali: a) per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (per es., l'aggressione); b) per la salvaguardia del d. dei popoli all'autodeterminazione (per es., il mantenimento con la forza di un regime coloniale); c) per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'uomo (per es., genocidio, discriminazione razziale); d) per la salvaguardia dell'ambiente (per es., volontario e massiccio inquinamento dell'atmosfera e del mare). Se è forse prematuro parlare dell'esistenza di norme cogenti in materia ambientale, è invece certo che le altre ipotesi sono espressione di un generale convincimento della comunità internazionale della loro obbligatorietà rafforzata.
Merita di essere ricordata, in tema di d. internazionale cogente, la tesi di un autorevole studioso italiano (Conforti 1997⁵), secondo il quale tali principi inderogabili sarebbero da individuare attraverso il riferimento all'art. 103 della Carta delle Nazioni Unite, in base al quale "in caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto". Questa disposizione, di natura convenzionale, avrebbe assunto, consolidandosi nel tempo attraverso la prassi degli Stati, natura consuetudinaria, rendendo inderogabili i principi fondamentali e generali sanciti nella Carta. Ancora, benché le due categorie non necessariamente coincidano, occorre rilevare che le norme cogenti rientrano tra quelle norme generali che introducono obblighi erga omnes, vale a dire che nell'eventualità di una loro violazione non solo lo Stato direttamente colpito deve considerarsi leso, ma con lui l'intera comunità internazionale, che godrebbe pertanto della facoltà di reagire, proprio perché il rispetto di alcuni principi fondamentali costituisce un interesse comune a tutti gli Stati. L'esistenza di una categoria di norme produttive di obblighi erga omnes, ammessa incidentalmente già dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 1970 sul caso Barcelona Traction, assolve la funzione di consentire la reazione a violazioni di obblighi di particolare importanza anche da parte di Stati diversi da quello leso e anche qualora uno Stato leso non esista, come può accadere se il fatto è perpetrato all'interno dello Stato (è il caso, per es., della violazione del principio di autodeterminazione dei popoli tramite il mantenimento con la forza di un regime coloniale o di violazioni dei diritti umani). Questa idea è stata ripresa e affermata da gran parte della dottrina e accolta anche dalla Commissione del diritto internazionale, la quale ha prospettato, tra le conseguenze dei crimini internazionali, la possibile reazione di tutti gli Stati, e non solo di quelli direttamente lesi dall'atto illecito. Infatti, l'art. 40 della seconda parte del Progetto sulla responsabilità, approvata in prima lettura nel 1996, esplicitamente stabilisce che, in caso di atto illecito riportabile alla categoria dei crimini, "tutti gli altri Stati" sono da considerarsi lesi; inoltre, nell'art. 53, tra gli obblighi gravanti su tutta la comunità internazionale in conseguenza di un crimine commesso da uno Stato, figura quello di "cooperare con gli altri Stati nell'applicazione di misure volte ad eliminare le conseguenze del crimine". Norme come quelle attinenti al rispetto dei diritti umani incidono su questioni (il trattamento dei sudditi) tradizionalmente rientranti nel dominio riservato degli Stati. In questa materia la prassi sembra aver superato questo limite e con esso quello del divieto di ingerenza negli affari interni di uno Stato, tanto da far riscoprire la nozione, di stampo ottocentesco, degli interventi di umanità che, se riuscirà ad affermarsi, come lascia presagire l'attività più recente del Consiglio di sicurezza, finirà per colpire duramente il "secolare scudo" della sovranità degli Stati (Ferrari Bravo 1991).
Infine, all'innovazione normativa internazionale ha contribuito in misura notevole lo sviluppo del processo di codificazione del d. internazionale consuetudinario. L'idea di porre per iscritto le norme internazionali consuetudinarie non è nuova: risale alla fine del 19° secolo e all'inizio del successivo, quando con le grandi Conferenze della pace dell'Aia del 1899 e 1907 fu intrapresa l'opera di codificazione del d. internazionale di guerra, ripresa dalla Società delle Nazioni, peraltro con scarso successo. Per impulso della Carta dell'ONU, che all'art. 13 affida all'Assemblea generale il compito di promuovere la codificazione del d. internazionale e il suo sviluppo progressivo, sono state concluse numerose convenzioni che hanno codificato vasti settori del d. consuetudinario, introducendo anche importanti elementi di innovazione. In questo contesto è stata preziosa l'opera svolta dalla più volte citata Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite, organo sussidiario istituito dall'Assemblea generale in applicazione dell'art. 13 della Carta, che nel corso degli anni ha elaborato un gran numero di progetti di convenzioni di codificazione, molti dei quali sono stati adottati da conferenze intergovernative. Sarà sufficiente qui ricordare la Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche, quelle del 1969 sul d. dei trattati, del 1978 sulla successione degli Stati nei trattati, del 1983 sulla successione di Stati in materia di beni, archivi e debiti di Stato, nonché il lavoro, non ancora portato a termine, sulla responsabilità degli Stati per atti illeciti, al quale hanno a lungo prestato il loro contributo in qualità di relatori speciali due illustri giuristi italiani, R. Ago e G. Arangio-Ruiz. La fondamentale Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (sulla quale v. mare: Diritto internazionale, in questa Appendice) è anch'essa una convenzione di codificazione, pur essendo stata adottata con un procedimento diverso, al di fuori dell'attività della Commissione.
Il contenuto delle norme
Non è semplice disegnare un quadro dell'evoluzione del d. internazionale sotto il profilo materiale del contenuto delle norme, intanto perché il d. convenzionale si è andato insinuando in quasi tutti i settori del d., anche in quelli che tradizionalmente rientravano nell'ambito del dominio riservato degli Stati. Accordi, trattati e convenzioni vengono conclusi nelle materie più diverse, toccando praticamente tutti i settori dell'attività di uno Stato.
Il d. consuetudinario, d'altra parte, ha visto a partire dal dopoguerra alcuni importantissimi elementi di evoluzione, che ne hanno mutato per molti aspetti il contenuto. In molti casi l'impulso è venuto dai principi sanciti nella Carta dell'ONU, in primo luogo per quella che è stata probabilmente la più grande conquista del d. internazionale contemporaneo, l'affermazione del divieto di ricorso alla forza nelle relazioni internazionali come principio regolatore delle relazioni tra Stati e come norma di d. internazionale cogente.
L'obiettivo della messa al bando della guerra e dell'affermazione dell'obbligo di soluzione delle controversie internazionali con mezzi pacifici era stato perseguito dalla comunità internazionale fin dalla conclusione della Prima guerra mondiale. Tuttavia, né il Patto della Società delle Nazioni, né i tentativi successivi, come il Protocollo di Ginevra del 1924 o il Patto di rinuncia alla guerra del 1928 (cosiddetto Patto Briand-Kellogg), riuscirono a far divenire parte dell'ordinamento internazionale una norma che privasse gli Stati del diritto di muovere guerra per tutelare i propri interessi, né tantomeno tali sforzi riuscirono a evitare la catastrofe della Seconda guerra mondiale. Alla fine di questa, il divieto della minaccia e dell'uso della forza nelle relazioni internazionali fu inserito tra i principi su cui si fonda la Carta delle Nazioni Unite (art. 2, paragrafo 4). In seguito, questo principio ha acquisito il valore di una norma generale di d. internazionale cogente, come è stato dichiarato dalla Corte internazionale di giustizia nella sentenza del 1986 nel caso delle attività militari e paramilitari degli Stati Uniti contro il Nicaragua. In quanto norma generale cogente, essa vincola tutti gli Stati, indipendentemente dalla loro appartenenza alle Nazioni Unite. In base alla Dichiarazione sul rafforzamento dell'efficacia del principio dell'astensione dalla minaccia e dall'uso della forza nelle relazioni internazionali, adottata dall'Assemblea generale nel 1987, con risoluzione nr. 42/22, lo Stato che violi tale principio incorre in responsabilità internazionale, ed è da rilevare che, come già detto, l'aggressione armata contro l'integrità di uno Stato costituisce un crimine internazionale. In questo contesto normativo, assumono particolare rilievo da un lato l'evoluzione dell'istituto classico della legittima difesa contro un attacco armato, dall'altro la prassi, avviata dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, di autorizzare gli Stati membri a usare la forza ai fini del mantenimento della pace. Sotto il primo profilo il d. internazionale, per l'impulso dell'art. 51 della Carta, che riconosce agli Stati il "diritto naturale di legittima difesa individuale e collettiva", e in conseguenza della qualificazione dell'aggressione armata come crimine internazionale, ammette che, di fronte a un atto lesivo dell'interesse generale al mantenimento della pace, possano intervenire, a fianco dello Stato direttamente colpito dall'attacco, anche Stati terzi. Tale reazione, peraltro, e veniamo al secondo punto, è dalla Carta dell'ONU istituzionalmente assegnata alla competenza del Consiglio di sicurezza, che è il massimo responsabile del mantenimento della pace. Spetta dunque al Consiglio decidere, qualora ricorrano gli estremi di una violazione della pace, di una minaccia alla pace o di un atto di aggressione, quali mezzi implicanti l'uso della forza armata siano opportuni per ristabilire la pace. Ma l'impossibilità del Consiglio di disporre di contingenti messi a sua disposizione dagli Stati lo ha privato della possibilità di agire direttamente, come previsto dalla Carta. Una volta trovatosi nelle condizioni di agire, per il venir meno della contrapposizione tra membri permanenti, il Consiglio ha così cercato nuove strade, avviando la prassi di delegare agli Stati membri quella che in base alla Carta è una sua specifica funzione, l'uso della forza ai fini del mantenimento o ristabilimento della pace.
Nella comunità internazionale del secondo dopoguerra, in ragione soprattutto di quel processo di crescente interdipendenza cui si accennava all'inizio, si sono consolidati alcuni principi strettamente legati all'esistenza di interessi comuni all'intera comunità internazionale. Quello al mantenimento della pace è certamente il più rilevante; ma l'emergere di nuovi problemi, che è impossibile affrontare a livello nazionale e che comunque coinvolgono un gran numero di Stati, ha dato luogo a un'incessante ricerca di nuove soluzioni, e alla nascita di nuove regole. Si è già accennato al problema dello sviluppo della maggior parte dei paesi nati dalla decolonizzazione e all'evoluzione del d. internazionale economico che ne è derivata. Esigenze di interesse comune all'intera comunità internazionale hanno poi condotto all'elaborazione del principio del patrimonio comune dell'umanità. Il problema di fondo è quello dello sfruttamento e della gestione di risorse esauribili in spazi sottratti alla giurisdizione di uno Stato. Tali risorse, nel d. internazionale classico, sono soggette, come gli spazi in cui sono situate (alto mare, spazio extra-atmosferico), a un regime di libertà, per il quale ogni Stato gode della medesima facoltà di usufruirne. Di fronte a risorse esauribili la cui estrazione, come accade per le risorse minerarie del fondo e sottosuolo dell'alto mare, richiede tecnologie avanzate e costose, si è presentata l'esigenza, fatta valere dai PVS, che di tali tecnologie non dispongono, né disporranno in un prossimo futuro, di assicurare all'intera comunità internazionale la possibilità di beneficiare dello sfruttamento di questi beni comuni. Da tale esigenza si è affermato il principio del patrimonio comune dell'umanità, caratterizzato nelle sue linee generali, al di là dei singoli regimi specifici nei quali ha trovato attuazione (il più perfezionato è quello predisposto dalla parte xi della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982 per le risorse minerarie del fondo e sottosuolo del mare al di là delle giurisdizioni nazionali), dall'obbligo per i singoli Stati di fare in modo che l'intera umanità possa beneficiare dello sfruttamento di risorse comuni. La prospettiva è duplice: da un lato si tratta di configurare criteri di sfruttamento e di ripartizione dei benefici a livello globale, dall'altro occorre predisporre strumenti di gestione e conservazione delle risorse che consentano anche alle generazioni future di potervi accedere.
Dal canto suo, il d. del mare ha vissuto, in un certo senso, un'evoluzione di segno opposto: la Convenzione di Montego Bay, se da un lato fissa il principio del patrimonio comune dell'umanità per le risorse minerarie dei fondali dell'alto mare, stabilendo la loro inappropriabilità, dall'altro estende in misura considerevole gli spazi soggetti alla giurisdizione e al controllo degli Stati costieri. A ben vedere, tuttavia, le esigenze e gli interessi sottostanti a tali sviluppi, apparentemente contraddittori, sono in realtà assai simili. L'istituto della 'zona economica esclusiva', la principale innovazione introdotta nel d. del mare dalla Convenzione, che ha recepito una corrispondente norma consuetudinaria, risponde al desiderio degli Stati costieri in via di sviluppo di preservare le risorse naturali delle fasce di mare adiacenti alle proprie coste dallo sfruttamento da parte delle potenti flotte d'alto mare dei paesi industrializzati.
Infine, tra le questioni che coinvolgono un interesse comune non si può ignorare quella della tutela ambientale, che ha fatto sentire la sua valenza internazionale per l'impossibilità di affrontarla e risolverla nell'ambito del singolo Stato. Tuttavia, le difficoltà in questo campo sono molte, da un lato per la riluttanza di molti Stati ad accettare limitazioni allo sfruttamento di risorse soggette alla propria sovranità territoriale, dall'altro per la crescente tendenza, manifestata da alcuni Stati industrializzati, a voler imporre su base extraterritoriale le proprie regole e i propri standard di protezione ambientale, soprattutto in campo commerciale. Inoltre, molti PVS hanno insistito, per esempio in occasione della Conferenza di Rio su ambiente e sviluppo del 1992, sugli alti costi che la tutela ambientale comporta in termini di sviluppo economico e sulla loro limitata responsabilità per la produzione dei danni ambientali, a causa del loro scarso e comunque recente sviluppo industriale. Questa presa di posizione ha condotto da un lato all'elaborazione della nozione di sviluppo sostenibile (in questa Appendice), per la quale la politica ambientale deve costituire parte integrante della politica di sviluppo e affiancarsi a essa nella definizione delle scelte nazionali di sviluppo economico; dall'altro lato, in molti accordi internazionali in materia ambientale è stato inserito il principio della responsabilità comune ma differenziata, per il quale gli oneri della tutela ambientale devono ricadere in misura maggiore sui paesi industrializzati, che vengono considerati i principali responsabili del degrado dell'ambiente.
Le garanzie
Gli strumenti di cui il d. internazionale dispone per garantire la sua applicazione e per sanzionare eventuali violazioni rispecchiano la struttura paritaria della comunità internazionale: manca in altre parole un'autorità sovraordinata capace di imporre ai soggetti dell'ordinamento l'osservanza delle norme. Tutte le forme di garanzia previste dal d. internazionale riposano pertanto sul consenso e sulla volontà degli Stati. Il primo strumento è dunque rappresentato dall'autotutela. Questa, lo si è visto, è stata nel d. internazionale contemporaneo limitata dall'attribuzione al Consiglio di sicurezza dell'ONU della competenza esclusiva a decidere il ricorso alla forza armata, salvo nel caso della legittima difesa. La rinnovata possibilità di azione che la mutata situazione politica offre al Consiglio di sicurezza in materia di mantenimento della pace, ma anche in generale di garanzia del d. internazionale, ha dato luogo a un gran numero di interventi, in relazione ai quali si pongono non pochi interrogativi.
La dottrina si è impegnata a verificare la compatibilità con il sistema per il mantenimento della pace, creato dal capitolo vii della Carta, di alcune modalità di intervento poste in essere dal Consiglio di sicurezza negli anni Novanta. In particolare, tre questioni hanno attirato l'attenzione degli studiosi. a) In primo luogo l'ampio potere discrezionale di cui il Consiglio gode nel valutare l'esistenza di una "minaccia alla pace" ai sensi dell'art. 39 (Gaja 1990; 1993). È evidente, difatti, che tale nozione risulta di per sé estremamente ampia, ma per potervi fare ricorso, il Consiglio di sicurezza dovrebbe accertare l'esistenza di un qualche rischio, se non di un vero e proprio conflitto armato, almeno di una seria tensione internazionale. Per fare solo due esempi, nella risoluzione nr. 748/1992, il Consiglio ha ravvisato una minaccia alla pace nel rifiuto da parte del governo libico di estradare due propri cittadini indiziati di aver commesso un atto di terrorismo internazionale, mentre nella risoluzione nr. 940/1994 la minaccia alla pace veniva individuata nella violazione del principio democratico da parte delle forze militari haitiane che avevano impedito l'insediamento del presidente eletto Aristide. b) In secondo luogo, la prassi di autorizzare gli Stati membri a far uso della forza armata per imporre coercitivamente il rispetto delle delibere del Consiglio. La mancata attuazione degli artt. 43 e seguenti ha infatti impedito al Consiglio di disporre di contingenti armati messi a sua disposizione dagli Stati membri per le azioni coercitive. Nell'impossibilità di operare direttamente, l'organo ha pertanto delegato l'uso della forza agli Stati membri, singolarmente o riuniti in coalizioni multinazionali o, e questa è l'unica ipotesi ammessa dalla Carta (art. 53), in organizzazioni o accordi regionali. Oltre al caso del Golfo (risoluzione nr. 678/1990), ricordiamo quelli in cui il Consiglio ha autorizzato alcuni Stati membri a utilizzare "tutti i mezzi necessari" per garantire l'attuazione di precedenti risoluzioni: ciò è avvenuto a più riprese nella lunga vicenda del conflitto nella ex Iugoslavia, per assicurare l'effettività del blocco dell'Adriatico e del rispetto dell'interdizione dello spazio aereo della Bosnia ed Erzegovina (rispettivamente risoluzioni nr. 787/1992 e nr. 816/1993, rivolte agli Stati membri della NATO e dell'UEO); in occasione della crisi della Somalia, per assicurare la sicurezza dell'operazione di intervento umanitario (risoluzione nr. 794/1992, che ha dato il via alla costituzione della Unified Task Force - UNITAF, forza di polizia internazionale posta sotto il comando degli Stati Uniti); nel caso di Haiti, il Consiglio ha autorizzato gli Stati membri a costituire una forza multinazionale e a utilizzare tutti i mezzi necessari "per facilitare la partenza da Haiti dei dirigenti militari [...] e il pronto ritorno del presidente legittimamente eletto" (risoluzione nr. 940/1994). Questa prassi è stata in taluni casi ricondotta all'esercizio della legittima difesa collettiva ai sensi dell'art. 51 della Carta (guerra del Golfo: Starace 1994) o all'art. 53, che consente al Consiglio di avvalersi, per le azioni coercitive, di organizzazioni e accordi regionali (ex Iugoslavia); si è anche sostenuto che, nell'ambito del sistema delle Nazioni Unite, sarebbe in via di formazione una regola non scritta che consentirebbe, in assenza di opposizione da parte degli Stati membri, di legittimare delibere che al momento si situano al limite tra legittimità e illegittimità (Conforti 1996⁵). c) In terzo luogo, i dubbi della dottrina si sono concentrati sulla tendenza del Consiglio ad assumere sempre più un ruolo di 'giustiziere' diverso da quello, di mero 'poliziotto' internazionale, che gli competerebbe in base alla Carta, in quanto organo politico e non giurisdizionale. Per quanto riguarda la verifica dei presupposti dell'intervento ai sensi dell'art. 39, questo punto è strettamente legato alla questione della discrezionalità, ma l'indicato atteggiamento del Consiglio si è manifestato anche con l'adozione di ulteriori iniziative, spesso totalmente inedite: nel caso della crisi del Golfo, la risoluzione nr. 687/1991, adottata a conclusione delle ostilità, non solo richiama alla mente un trattato di pace per le clausole che dettano le condizioni per la cessazione delle ostilità ma, attribuendo all'Iraq la responsabilità giuridica per l'atto di aggressione compiuto, impone a quest'ultimo Stato l'obbligo di risarcire i danni provocati dalla violazione della norma fondamentale del d. internazionale che vieta appunto l'aggressione; inoltre, con le risoluzioni nr. 827/1993 e nr. 955/1994 il Consiglio di sicurezza ha istituito due tribunali penali per la repressione dei crimini contro l'umanità commessi da individui rispettivamente nella ex Iugoslavia e nel Ruanda. Sulla legittimità di queste ultime risoluzioni, la dottrina si è profondamente divisa. Il Segretario generale delle Nazioni Unite si è espresso nel senso di considerare i due tribunali come organi sussidiari del Consiglio di sicurezza, che questo può istituire in base all'art. 29, e le cui funzioni sarebbero riconducibili, in generale, al Capitolo vii della Carta. Non manca, peraltro, chi opta per l'illegittimità delle delibere in questione (Arangio-Ruiz 1996) e chi le riconduce all'art. 42 in quanto rientranti tra le misure coercitive (Conforti 1996⁵). Secondo un altro autore (Picone 1995), si potrebbe configurare l'esistenza di un diverso livello di funzionamento dell'organo: esso agirebbe non più, o non soltanto, in qualità di organo delle Nazioni Unite, come tale vincolato alle funzioni e ai poteri attribuitigli dalla Carta, ma anche in qualità di organo, non 'formale' ma 'materiale', della comunità internazionale nel suo insieme, intesa, secondo la concezione di R. Quadri, come entità collettiva portatrice di una propria volontà e autorità che è espressione delle forze sociali prevalenti. In tale veste il Consiglio sarebbe autorizzato a intervenire, in nome e per conto della comunità internazionale, sulla base del d. internazionale generale e non solo della Carta, a tutela di alcuni valori giudicati fondamentali, sostituendosi all'azione unilaterale dei singoli Stati. Di fronte a simili problemi, sia governi sia studiosi hanno avanzato proposte per adeguare il massimo organo decisionale delle Nazioni Unite a una situazione internazionale che è profondamente diversa da quella dell'immediato dopoguerra, in funzione della quale era stato concepito.
In tema di conseguenze di illeciti internazionali si è già accennato ai lavori della Commissione del d. internazionale in materia di responsabilità degli Stati per atti illeciti, che nel progetto in corso di elaborazione ha introdotto la fondamentale distinzione tra delitti e crimini internazionali. Ma la Commissione, nel 1980, ha intrapreso lo studio di un ulteriore e diverso profilo del problema della responsabilità internazionale, quello delle conseguenze derivanti in capo allo Stato dai danni prodotti da attività non vietate dal d. internazionale, cioè per i danni arrecati al territorio di uno Stato straniero o su spazi comuni in conseguenza di attività lecite ma altamente pericolose, problema di grande rilevanza (basti pensare alle ripercussioni sul territorio di altri Stati dell'attività di centrali nucleari o di industrie altamente inquinanti) ma di difficile approccio sul piano internazionale.
Anche i procedimenti di soluzione delle controversie risentono dei particolari caratteri della comunità internazionale. La predisposizione di strumenti obbligatori cui ricorrere in caso di controversie internazionali non ha, difatti, registrato molti progressi. La funzione giurisdizionale internazionale conserva, pertanto, la sua tradizionale natura arbitrale; riposa, in altre parole, sulla volontà degli Stati coinvolti nella controversia. La giurisdizione della Corte internazionale di giustizia è obbligatoria in un numero estremamente limitato di situazioni. In particolare, essa può essere adita unilateralmente, ai sensi dell'art. 66 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, per far valere la nullità di un trattato contrario a una norma cogente. Può inoltre essere adita con requête unilaterale in caso di controversia tra quegli Stati che abbiano sottoscritto una dichiarazione di accettazione della giurisdizione obbligatoria della Corte ai sensi dell'art. 36, paragrafo 2, dello Statuto della Corte. Tuttavia, gli Stati hanno fatto scarso uso di tale strumento, che già figurava nello Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale. In linea generale, gli Stati prediligono i metodi diplomatici di risoluzione delle controversie, sfociando questi in un accordo che presuppone il consenso delle parti. I mutamenti nell'assetto politico della comunità internazionale, con il venir meno della divisione di questa in due blocchi contrapposti, lasciano tuttavia aperta la possibilità di sviluppi diversi da quelli accennati. L'attività della Corte internazionale di giustizia si è andata progressivamente intensificando. Resta però il fatto che a essa si ricorre più frequentemente per via di compromesso che attraverso lo strumento della dichiarazione di accettazione preventiva della giurisdizione. Appare chiaro, infatti, che gli Stati, pur mostrandosi sempre più disposti a sottoporre le loro controversie alla giurisdizione della Corte, esitano a impegnarsi preventivamente, preferendo farlo, di volta in volta, in occasione di singole controversie. I paesi socialisti, come si è già accennato, pur sottolineando l'importanza della soluzione pacifica delle controversie, preferivano ricorrere a metodi diplomatici, tra questi in primo luogo ai negoziati diretti. Nessuno di tali Stati, dalla fine della guerra, aveva mai sottoposto una controversia alla Corte internazionale di giustizia, né aveva sottoscritto alcuna dichiarazione facoltativa di accettazione della giurisdizione ai sensi dell'art. 36, paragrafo 2, dello Statuto. Verso la fine degli anni Ottanta l'atteggiamento dei paesi socialisti nei confronti della Corte cominciò a cambiare. Nel 1989 l'Unione Sovietica emanò un decreto con il quale dichiarava di accettare la competenza della Corte per la soluzione di controversie derivanti da alcune convenzioni internazionali in materia di diritti dell'uomo. Successivamente, alcuni Stati ex socialisti presentarono dichiarazioni in base all'art. 36, paragrafo 2, dello Statuto: la Polonia nel 1990, l'Estonia nel 1991, la Bulgaria e l'Ungheria nel 1992. Nel 1997, la Corte internazionale di giustizia, adita con un compromesso, ha emesso la sua prima sentenza in una controversia che contrapponeva due paesi dell'Est europeo ex socialisti, l'Ungheria e la Slovacchia. Il caso, e questo è un elemento interessante, aveva a oggetto la mancata attuazione, per motivi di natura ambientale, di un progetto di dighe sul Danubio, la cui realizzazione era prevista da un trattato stipulato tra Ungheria e Cecoslovacchia nel 1977.
In un diverso contesto, ancora in tema di risoluzione di controversie, sono senz'altro da notare le modifiche apportate per effetto degli accordi scaturiti dall'Uruguay Round del GATT al sistema di risoluzione delle controversie commerciali nell'ambito dell'Organizzazione mondiale del commercio. Ne risulta un procedimento situato al confine tra conciliazione e giurisdizione, i cui aspetti procedurali sono stati affinati e resi più spediti rispetto al passato; tale sistema, alle sue prime prove, sembra destinato a costituire un efficace strumento per la soluzione delle controversie commerciali, di cui non sfugge la rilevanza in un contesto internazionale orientato alla globalizzazione delle relazioni economiche e commerciali.
Nuovi strumenti sono stati inoltre studiati per la soluzione delle controversie che coinvolgono uno Stato nei confronti di una parte privata straniera, persona fisica o giuridica. La creazione dell'ICSID (International Centre for the Settlement of Investment Disputes) con la Convenzione di Washington del 1965 ha appunto lo scopo di depoliticizzare le controversie relative agli investimenti (Giardina 1982; Sacerdoti 1987): il Centro permette la costituzione di tribunali arbitrali competenti a risolvere controversie tra uno Stato ospite di un investimento e il privato straniero, escludendo l'intervento dello Stato nazionale di quest'ultimo in protezione diplomatica. Le sentenze emesse da un tribunale ICSID hanno automaticamente valore di cosa giudicata negli ordinamenti interni degli Stati contraenti la Convenzione.
bibliografia
La letteratura dedicata ai diversi temi del d. internazionale è sterminata. Qui di seguito, tenendo prevalentemente conto della dottrina italiana, si propongono alcune indicazioni bibliografiche, che possono essere utili per un approfondimento della materia.
Tra le trattazioni generali del d. internazionale pubblico si segnalano i classici G. Morelli, Nozioni di diritto internazionale, Padova 1943, 1967⁷; R. Quadri, Diritto internazionale pubblico, Palermo 1949, Napoli 1968⁵; R. Monaco, Manuale di diritto internazionale pubblico, Torino 1960, 1971²; P. Sereni, Diritto internazionale, Milano 1956-66, 5 voll.; e i più recenti M. Giuliano, T. Scovazzi, T. Treves, Diritto internazionale, Milano 1983-91²; A. Cassese, International law and politics in a divided world, Oxford 1986; I. Brownlie, Principles of Public International Law, Oxford 1990⁴; L. Ferrari Bravo, Lezioni di diritto internazionale, Napoli 1992³; F. Capotorti, Corso di diritto internazionale, Milano 1995; B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli 1997⁵.
Per un inquadramento storico delle tematiche relative alla comunità internazionale: C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus publicum europaeum, Köln 1950 (trad it. Milano 1991); J.-B. Duroselle, Histoire diplomatique de 1919 à nos jours, Paris 1953, 1993¹¹ (trad. it. Milano 1998).
Per una riflessione sull'evoluzione più recente del d. internazionale: L. Ferrari Bravo, Prospettive del diritto internazionale alla fine del secolo XX, in Rivista di diritto internazionale, 1991, pp. 525-33; R.-J. Dupuy, Le dédoublement du monde, in Revue générale de droit international public, 1996, pp. 313-21.
Sul d. internazionale dell'economia: M. Giuliano, La cooperazione degli Stati e il commercio internazionale, Milano 1978⁴; Diritto internazionale dell'economia, a cura di P. Picone, G. Sacerdoti, Milano 1982; D. Carreau, P. Juillard-Flory, Droit international économique, Paris 1990²; A. Giardina, G. L. Tosato, Diritto del commercio internazionale, Milano 1996.
Sulla consuetudine internazionale: G. Arangio-Ruiz, Consuetudine internazionale, in Enciclopedia Giuridica, 8° vol., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1988, ad vocem; L. Condorelli, Consuetudine internazionale, in Digesto delle discipline pubblicistiche, 3° vol., Torino 1989.
Sul d. dei trattati: F. Capotorti, Il diritto dei trattati secondo la Convenzione di Vienna, introduzione a La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, Padova 1984, pp. 9-80.
Sugli accordi di codificazione: R. Ago, Nouvelles réflexions sur la codification du droit international, in Revue générale de droit international public, 1988, pp. 539-76; R. Pisillo Mazzeschi, Trattati e consuetudini nella codificazione del diritto internazionale, in La Comunità internazionale, 1994, pp. 196-222.
Sul d. internazionale cogente: N. Ronzitti, La disciplina dello jus cogens nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, in Comunicazioni e studi, 1978, pp. 241-99; G. Gaja, Jus cogens beyond the Vienna Convention, in Recueil des cours de l'Académie de droit international de la Haye, 1981, 3° vol., pp. 271-316.
Sugli atti delle organizzazioni internazionali: A. Malintoppi, Le raccomandazioni internazionali, Milano 1958; B. Conforti, La funzione dell'accordo nel sistema delle Nazioni Unite, Padova 1968; G. Arangio-Ruiz, The concept of international law and the theory of international organization, in Recueil des cours de l'Académie de droit international de la Haye, 1972, 3° vol., pp. 629-742; A. Pellet, La formation du droit international dans le cadre des Nations Unies, in European journal of international law, 1995, pp. 401-25.
Sulle Nazioni Unite: G. Gaja, Il Consiglio di sicurezza di fronte all'occupazione del Kuwait: il significato di un'autorizzazione, in Rivista di diritto internazionale, 1990, pp. 696-97; U. Villani, Lezioni sull'ONU e la crisi del Golfo, Bari 1991, 1995²; G. Gaja, Réflexions sur le rôle du Conseil de sécurité dans le nouvel ordre mondial, in Revue générale de droit international public, 1993, pp. 297-320; P. Picone, Interventi delle Nazioni Unite e obblighi "erga omnes", in Interventi delle Nazioni Unite e diritto internazionale, a cura di P. Picone, Padova 1995, pp. 517-78; B. Conforti, Le Nazioni Unite, Padova 1996⁵.
Sulla Corte internazionale penale permanente: F. Lattanzi, Riflessioni sulla competenza di una corte penale internazionale, in Rivista di diritto internazionale, 1993, pp. 661-97; Dai tribunali penali internazionali ad hoc a una corte permanente. Atti del Convegno, Roma 1995, a cura di F. Lattanzi, E. Sciso, Napoli 1996 (in partic. G. Arangio-Ruiz, The establishment of the international criminal tribunal for the former territory of Yugoslavia and the doctrine of implied powers of the United Nations, pp. 31-45).
Sulla responsabilità degli Stati: R. Ago, Scritti sulla responsabilità internazionale degli Stati, Napoli 1978-86, 3 voll.; United Nations codification of State responsibility, a cura di M. Spinedi, B. Simma, New York 1987; M. Spinedi, International crimes of States. The legislative history, in International crimes of States, Berlin-New York 1989, pp. 7-138.
Sull'intervento di umanità: N. Ronzitti, Rescuing nationals abroad through military coercion and intervention on grounds of humanity, Dordrecht-Boston 1985.
Sull'uso della forza: L. Sico, Neutralità, in Enciclopedia del diritto, 28° vol., Milano 1958-95; A. Miele, L'estraneità ai conflitti armati, Padova 1967-70; M. Panebianco, Guerra (Diritto internazionale), in Enciclopedia Giuridica, 15° vol., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1989, ad vocem; N. Ronzitti, Forza (uso della), in Digesto delle discipline pubblicistiche, 7° vol., Torino 1991; V. Starace, Uso della forza nell'ordinamento internazionale, in Enciclopedia Giuridica, 32° vol., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1994, ad vocem.
Sul patrimonio comune dell'umanità e lo sfruttamento di risorse comuni: A.C. Kiss, Le concept de patrimoine commun de l'humanité, in Recueil des cours de l'Académie de droit international de la Haye, 1982, 2° vol., pp. 99-256; A. Gattini, Il "common heritage of mankind". Una rivoluzione in diritto internazionale?, in Comunicazioni e studi, 1985, pp. 651-731; M. Gestri, La gestione delle risorse naturali di interesse generale per la Comunità internazionale, Torino 1996.
Sulla soluzione delle controversie e la Corte internazionale di giustizia: G. Arangio-Ruiz, Controversie internazionali, in Enciclopedia del diritto, 10° vol., Milano 1962, ad vocem; G. Morelli, Studi sul processo internazionale, Milano 1963; G. Morelli, Nuovi studi sul processo internazionale, Milano 1972; V. Starace, Processo internazionale, in Enciclopedia del diritto, 36° vol., Milano 1987, ad vocem; J.G. Merrills, The optional clause revisited, in British Yearbook of international law, 1993, pp. 197-244.
Sull'ICSID: A. Giardina, L'exécution des sentences du Centre international pour le règlement des différends relatifs aux investissements, in Revue critique de droit international privé, 1982, pp. 273-93; G. Sacerdoti, La Convenzione di Washington del 1965. Bilancio di un ventennio dell'ICSID, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1987, pp. 13-40.