Divorzio
Il divorzio è, sotto il profilo giuridico, l'atto emesso da un'autorità riconosciuta con il quale si pone termine al vincolo matrimoniale durante la vita dei coniugi, accordando a essi il diritto di contrarre un nuovo matrimonio. Nella storia del costume si accertano, con analogo significato, altre forme di scioglimento del matrimonio: ad esempio, l'atto di revoca del consenso matrimoniale da parte di uno dei due coniugi o di entrambi e il ripudio della donna da parte dell'uomo. Di essi si ha conoscenza sia presso i sistemi di società considerati dagli studi etnografici sia nelle antiche civiltà orientali e occidentali (v. De Pomerai, 1930). Non vanno invece confusi con il divorzio né l'atto di annullamento del matrimonio, con il quale si dichiara che tra i coniugi non è mai esistito un legame coniugale, né la separazione legale, che consente o impone ai coniugi di condurre un'esistenza separata, ma non scioglie il vincolo matrimoniale.
In generale, i limiti posti dalla società alla volontà dei coniugi di sciogliere arbitrariamente il legame matrimoniale derivano da un complesso di fattori che hanno avuto influenza diversa, ma comunque determinante, nelle vicende storiche di tutti i sistemi sociali. Si tratta principalmente del coinvolgimento della parentela nelle questioni patrimoniali, dell'azione del potere temporale della Chiesa in materia di matrimonio e, più recentemente, dell'intervento dello Stato nella sfera dei comportamenti privati.
L'implicazione dei gruppi parentali nella formazione della famiglia cresce con l'interesse sociale nei riguardi del patrimonio, della sua amministrazione e conservazione nel tempo. L'attribuzione al gruppo familiare delle funzioni di procreazione e di cura e socializzazione dei nuovi nati, in una con l'esigenza di garantire la continuità dei beni attraverso la trasmissione ereditaria dei diritti di proprietà, rappresentano in effetti le ragioni essenziali di tutta una serie di ostacoli che le società patriarcali tradizionali hanno usualmente frapposto all'incondizionata dissoluzione del matrimonio; come del resto costituiscono il motivo essenziale dell'ingerenza che la parentela, non senza il conforto della legge, ha sempre preteso di esercitare sulla libera volontà di scelta dei nubendi.
A misura che "il diritto successorio appare strettamente legato non solo al sorgere della proprietà, ma a quello della famiglia e alla credenza che il generato porti con sé il sangue del genitore", nota Enrico Besta, la presenza di una prole legittima e il suo destino si ergono necessariamente a baluardo della preservazione del patrimonio all'interno del gruppo familiare (v. Besta, 1936, p. 2). E difatti, proprio l'impossibilità di assolvere questa funzione viene, a ragione, a costituire il motivo primario o comunque essenziale che giustifica la rottura del vincolo matrimoniale, dal momento che l'adulterio (perturbatio sanguinis) commesso dalla donna e la sterilità di uno dei coniugi avrebbero per l'appunto potuto revocare in dubbio, rispettivamente, la legittimità della prole e la continuità della discendenza, ossia due dei principali cardini delle società tradizionali. Altri fattori importano meno, e meno incidono sulla stabilità del vincolo coniugale, poiché "dove il matrimonio è retto dall'interesse e dalla consuetudine, coloro che lo contraggono non si attendono la congenialità o, se lo fanno, sentono che è secondaria e non desiderano il divorzio se questa non viene raggiunta" (v. Cooley, 1909; tr. it., p. 268).
Quanto al potere temporale della Chiesa, l'estensione del controllo ecclesiastico e del dogma del matrimonio come sacramento ha avuto una parte così significativa nella storia del matrimonio e del divorzio nella civiltà occidentale che un'adeguata comprensione dei suoi aspetti non può prescindere dalla conoscenza, sia pure superficiale, dei fattori che hanno impresso direzione e carattere sia alla legislazione ecclesiastica sia a quella secolare (v. Lichtenberger, 1931). A partire dall'XI secolo il principio dell'indissolubilità del vincolo si poteva dire universalmente ammesso nei paesi di tradizione cristiana, anche se restavano qua e là antichi costumi popolari o se erano ammessi particolari benefici legali, che consentivano nella pratica di passare a nuove nozze (v. Stone, 1977). Comunque sia, col tempo il carattere sacramentale del matrimonio, e quindi la sua indissolubilità, sono destinati ad affermarsi. Dopo il Concilio di Trento (1563) la giurisdizione della materia matrimoniale fu sottratta alla legge secolare e posta sotto il controllo ecclesiastico. Da questa trasformazione derivarono conseguenze pressoché irreversibili nella regolamentazione civile della materia, come la separazione personale dei coniugi (separatio tori, mensae et habitationis firmo manente vinculo) e l'introduzione di quegli impedimenti matrimoniali che si comprendono ancor oggi tra i motivi di nullità del matrimonio.La reazione contro il dogma del matrimonio come sacramento si presentò, nei paesi di tradizione cristiana, alla fine del Medioevo nella forma di due vasti movimenti: "la secolarizzazione del matrimonio e l'assunzione sotto la responsabilità dello Stato (sit venia verbo) di gran parte della regolamentazione della materia matrimoniale" (v. Rheinstein, 1974, p. 7).
La Riforma protestante affermò la natura contrattualistica del matrimonio e dunque la legittimità del suo ordinamento temporale, secondo le leggi e i costumi dei diversi luoghi. La versione protestante era anche più restrittiva di quella cattolica in materia di nullità; ma ammetteva il divorzio, quantunque lo concepisse come punizione del coniuge resosi colpevole di una grave violazione dei doveri matrimoniali, in primis di adulterio. I mutamenti sollecitati dai riformatori, per quanto rilevanti sul piano della dottrina, non ebbero tuttavia effetti immediati sugli ordinamenti dei singoli paesi. In quelle parti dell'Europa in cui il cattolicesimo ha conservato il proprio predominio, anche temporale, generalmente il divorzio non è entrato a far parte degli ordinamenti civilistici, se non con notevole ritardo. Mentre là dove è stato introdotto, come in quelle aree dell'Europa occidentale in cui la penetrazione del luteranesimo e del calvinismo era sfociata in movimenti di massa (alcuni territori di lingua tedesca, l'area scandinava, i paesi di lingua francese, i Paesi Bassi e la Scozia), ciò è avvenuto secondo modalità difformi, con ampie differenziazioni quanto alle cause che lo rendevano possibile - ad ogni modo su basi alquanto ristrette - e con notevoli diversità per quanto riguarda le procedure mediante le quali veniva accordato (v. Chester, Conclusion, 1977).
Comunque sia, nel solco della Riforma erano destinate a scorrere dapprima le idee dell'Illuminismo e poi gli eventi della Rivoluzione francese, che, favoriti dall'incipiente affermazione del modo di produzione industriale, reclamavano la secolarizzazione dei regolamenti matrimoniali e, con essa, il riconoscimento di una maggiore libertà di decisione ai coniugi. "Laissez aux individus, laissez aux familles le droit de faire ce qui ne nuit point à autrui [...], rendez à la liberté individuelle tout ce qui n'appartient pas naturellement à l'autorité publique", proclamava con enfasi Robespierre. Almeno in questo campo, e sia pure per un breve volgere di anni, la Rivoluzione francese mantenne le promesse. Con la Costituzione del 1791 il matrimonio assume lo statuto di un contrat civil: spetta alla legge, non più alla Chiesa, definire gli impedimenti al matrimonio, e all'état civil, anziché ai registri parrocchiali, la registrazione del contratto. Ma la Costituzione non faceva cenno al divorzio, che venne approvato dalla Convenzione, il 20 settembre del 1792, con una formula che prevedeva lo scioglimento del matrimonio per mutuo consenso dei coniugi o a richiesta di uno solo di essi senza indicazione dei motivi (v. Ronsin, 1989). L'innovazione, almeno in questa forma radicale, fu tuttavia di breve durata. Travolto dalle critiche dell'opinione pubblica e dalle preoccupazioni restauratrici della classe politica, il divorzio fu dapprima modificato dal Codice napoleonico del 1804 e infine definitivamente abolito nel 1816.Ma la via era tracciata, e, se non sempre in discesa, da allora il cammino fu certamente pianeggiante. Una ventata di nuove leggi rendeva possibile, in molte nazioni del continente, un'estensiva applicazione del divorzio, secondo forme e modalità che ancora recavano i segni visibili della tradizione, ma che nondimeno predisponevano il terreno per successive, più radicali riforme dell'istituto. Sotto il profilo normativo, e benché nel quadro di rilevanti difformità tra gli ordinamenti dei diversi paesi (v. Ancel, 1975), il processo evolutivo delle leggi sul divorzio si avviava ineluttabilmente a compiere il passaggio dal divorzio inteso come sanzione, nei confronti di precisi e identificabili elementi di colpa di uno dei coniugi, al divorzio inteso come riconoscimento della situazione di fatto, ovvero come dimostrazione o accertamento della fine della convivenza (divorce faillite).
Questo per quanto concerne l'Europa e, comunque, per i paesi di tradizione cristiana; perché, al di fuori di questo contesto, restano divergenze anche profonde nella regolamentazione della materia. In generale sembrerebbe imporsi, anche per le similari pressioni esercitate dalle trasformazioni dei sistemi di produzione e dal cambiamento degli stili di vita, la tendenza ad adottare un unico, prevalente modello di regolamentazione giuridica del matrimonio e dei rapporti familiari, improntato ai principî dell'individualismo e dell'autonomia delle scelte dei coniugi. In particolare questa tendenza parrebbe affermarsi "con maggiore rapidità e in modo più radicale in quei paesi ove più elevato è il livello di industrializzazione e più radicato il predominio delle ideologie di tipo liberale e socialista, e più lentamente e in misura meno radicale nei paesi industrialmente arretrati e più conservatori" (v. Rheinstein, 1974, p. 16). Fatto sta che mentre i paesi occidentali, inclusi quelli a forte presenza cattolica, hanno percorso, specie in questi ultimi decenni, itinerari convergenti verso un modello di divorzio relativamente semplificato nelle procedure, ove in sostanza l'innovazione fondamentale consiste, come si è accennato, nel passaggio dal divorce sanction al divorce faillite, nell'area dei paesi orientali e del Medio e Vicino Oriente è tuttora apprezzabile vuoi l'influenza della religione vuoi quella delle consuetudini e tradizioni locali, con contaminazioni più o meno rilevanti da parte degli ordinamenti occidentali.
Nel quadro di queste diversità si profila tuttavia un curioso e per alcuni versi paradossale processo di omologazione culturale del significato sociologico del divorzio; un processo che, attraverso la varietà delle culture e degli ordinamenti, introduce una profonda e latente uniformità di comportamenti nelle forme della dissoluzione del matrimonio. In effetti, se gli ordinamenti tendono ormai a registrare l'avvenuta rottura del matrimonio, prescindendo dalle ragioni e dalle colpe che possono averla determinata, questo significa in pratica che tanto le modalità della formazione della famiglia quanto quelle della sua dissoluzione vengono sempre più demandate alla libera volontà dei coniugi e alle influenze che su questa volontà esercita la vita sociale. Ovunque, sia nei paesi in cui la legislazione ha avuto un ruolo determinante nella regolamentazione dei rapporti matrimoniali, sia in quelli ove questi rapporti hanno risentito in maggior misura delle influenze del costume e delle consuetudini, la decisione di porre termine al matrimonio parrebbe in sostanza sempre più ricondursi all'autonoma scelta degli interessati. Come dire, in definitiva, che in questa materia gli sforzi secolari della legge di sottoporre i comportamenti dei singoli a una qualche forma di regolamentazione si sono rivelati, almeno finora, se non vani certamente inefficaci e hanno finito per riconsegnare il testimone nelle mani di quel costume al quale l'avevano un tempo sottratto.
Che cos'è il divorzio? Di quale fatto o di quali fatti sociali è espressione? Che rapporto c'è tra l'atto formale che lo rappresenta e la fine del matrimonio da cui presumibilmente quell'atto trae origine? A queste domande evidentemente non è facile rispondere se la letteratura ha spesso aggirato il problema, prestando maggiore attenzione al divorzio in quanto tale piuttosto che all'evento che lo precede, e cioè alla rottura del rapporto coniugale. Già all'inizio del Novecento il demografo italiano Augusto Bosco osservava che nello studio del divorzio "le difficoltà sorgono quando vogliamo penetrare nell'intreccio delle cause e districarne la trama; quando vogliamo mettere separatamente in rilievo e studiare gli elementi di cui la divorzialità è una risultante e assegnare il valore di ciascuno, ossia stabilire i rapporti di variazione tra il fatto del divorzio e altri fatti con cui è connesso" (v. Bosco, 1908, p. 487).
Per affrontare la questione possiamo procedere in due modi: anzitutto passare in rassegna le ragioni che nella letteratura vengono usualmente indicate per spiegare le tendenze di lungo periodo del divorzio; in secondo luogo considerare i risultati specifici con riferimento ai caratteri che più frequentemente emergono dalle indagini del fenomeno condotte nei diversi paesi. L'analisi del primo punto richiede una breve premessa. Il divorzio, come abbiamo visto, è sempre esistito. Nella pratica, non si danno società prive di divorzio o di un suo equivalente funzionale (v. König, 1974). Esistono invece differenze anche marcate tra i tassi di divorzio presenti in società diverse o in ambienti e segmenti diversi della medesima società. Nondimeno, l'indicazione costante che emerge dalle statistiche è che in quasi tutti i paesi è in atto da tempo un aumento dell'instabilità matrimoniale. Sono forse apprezzabili le variazioni nella velocità della crescita del fenomeno, ma la tendenza è talmente univoca da escludere che esso possa essere spiegato soltanto in termini relativi ai singoli contesti nazionali. Tutto lascia supporre che la direzione e l'ampiezza del cambiamento nella frequenza dei divorzi debbano essere collegate a mutamenti storici profondi dell'organizzazione economico-sociale, che a loro volta hanno avuto riflessi importanti sull'istituto del matrimonio e sulla vita familiare.
Sulla natura di questi cambiamenti vi è tra gli studiosi una sostanziale uniformità di vedute. Appena agli inizi del secolo un famoso sociologo americano, Charles H. Cooley, accennava a "due tipi di forze, le une personali e le altre istituzionali, che tengono unite le persone nel matrimonio". Le prime, sosteneva, "possono essere rozzamente riassunte nell'affetto e nell'interesse comune per i figli. Le forze istituzionali derivano invece maggiormente dall'organizzazione generale della società, come l'interdipendenza economica tra moglie e marito, lo stato del sentimento pubblico, la tradizione e la legge" (v. Cooley, 1909; tr. it., p. 267). Per quanto riguarda l'affetto, le condizioni attuali dovrebbero favorire anziché ostacolare la solidità del legame coniugale. In realtà, a misura che l'individualismo affettivo si è imposto sul dominio della convenance, "non è contraddittorio dire che questo tendere all'amore aumenta il divorzio" (ibid.), dal momento che la libertà può assumere la forma di "un'impulsività che si rivela sia nel contrarre che nel rompere un matrimonio senza un valido motivo" (ibid., p. 268). Sulla validità dei motivi occorrerà ritornare. Ma al tema delle conseguenze paradossali che possono derivare dalla crescente importanza dell'impegno affettivo che i coniugi ripongono nel matrimonio è stato accordato da allora notevole spazio nella letteratura (v. Stone, 1977; v. Rougemont, 1949; v. Linton, 1949; v. Davis, 1966; v. Shorter, 1975; v. Furstenberg e Cherlin, 1991). E se gli accenti variano, nella sostanza il motivo dominante di queste riflessioni si riduce a questo, che la ricerca della felicità, il desiderio di vivere felici non possano che accrescere il rischio che l'esperienza coniugale comporti anche delusione.
Circa l'allentamento dei legami istituzionali, si tratta notoriamente di un terreno elettivo dell'analisi sociologica; tanto che possiamo limitarci a ricapitolare per grandi linee l'influenza che questo processo può aver esercitato sulla stabilità del matrimonio e in genere sull'organizzazione della famiglia. In cima alla lista troviamo ovviamente le trasformazioni intervenute nelle funzioni della famiglia, trasformazioni non solo ma certo soprattutto economiche. Da tempo è stato messo in risalto il significato di questo cambiamento, che ha spostato il centro produttivo dal gruppo domestico al mercato e ha progressivamente ridotto la mole di beni e servizi erogati direttamente dalla famiglia ai suoi componenti: ne è derivata una riduzione dell'interdipendenza economica tra i coniugi e quindi dei vincoli di reciproca necessità che un tempo finivano per dare stabilità al rapporto. Con esiti equivalenti, debbono inoltre essere menzionati i cambiamenti causati dall'urbanizzazione e dal crescente intervento dello Stato nella sfera dei diritti sociali: entrambi avrebbero concorso a ridurre l'efficacia delle tradizionali sanzioni economiche e sociali sulla relazione matrimoniale, riducendo in sostanza sempre più la famiglia a "un mero veicolo di gratificazioni sessuali ed emozionali" (v. Davis, 1966, p. 425).
Last but not least, il mutamento cui è attribuito maggior rilievo sull'aumento del numero dei divorzi è l'ingresso della donna nel mercato del lavoro. La ricerca empirica ha in più occasioni ribadito l'esistenza di una relazione positiva tra lo status sociale della donna e i tassi di divorzio (v. Seccombe e Lee, 1987). Un'analisi comparativa estesa a un campione di 66 nazioni ha evidenziato una correlazione di tipo curvilineo tra la partecipazione della donna alla forza lavoro e il divorzio; nel senso che, mentre al di sotto di una certa soglia (40%) la presenza della donna nel mercato del lavoro ha un effetto negativo sul livello dei divorzi, in quei paesi dove vi sono elevati tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro questo fatto esercita un'influenza crescente sul divorzio (v. Trent e South, 1989). Del resto, un'ulteriore prova a favore è che "in tutti i paesi occidentali l'impennata nel numero dei divorzi si è avuta nello stesso periodo in cui si verificava anche un forte aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro" (v. Barbagli, 1990, p. 80). Le ragioni? L'accesso della donna al lavoro aumenta la sua autonomia finanziaria e quindi riduce le pressioni che la obbligano a dipendere dalla capacità di guadagno del marito per il proprio sostentamento. Il fatto stesso di godere di un'entrata economica indipendente amplifica, per così dire, le possibilità di scelta da parte della donna, facilitando non solo la presa di coscienza dello scontento e dell'insoddisfazione per un rapporto giudicato insostenibile, ma anche la sua concreta risoluzione attraverso il divorzio.
A queste cause debbono essere aggiunte le spinte che derivano dalla semplificazione delle normative e delle procedure che regolano l'istituto del divorzio e dall'indebolimento del potere sanzionatorio esercitato dalle istituzioni e dalle credenze religiose; anch'esse vanno a innestarsi nella tendenza che vede, pressoché dappertutto, "gli individui sempre più partecipi alla vita economica e ai valori culturali" (v. Bumpass, 1990, p. 493). Sicché, riassumendo, l'estensione del divorzio e l'aumento delle relative frequenze, anche in aree e paesi in cui fino a epoca recente il divorzio non era consentito (in Italia è stato introdotto nel 1970, in Spagna nel 1981, in Colombia nel 1976, in Brasile nel 1977, in Argentina nel 1986), sarebbero dunque da attribuire al declino delle costrizioni che in passato favorivano la conformità (specie della donna) alle esigenze della vita familiare, e al prevalere delle cure e degli investimenti individuali su quelli collettivi. Per cui, ovunque si sono create le condizioni per mettere a confronto alternative e percorsi di vita ugualmente praticabili e socialmente approvati, si sono dati anche i presupposti per un mutamento del diritto in senso favorevole allo scioglimento del matrimonio e, nel lungo termine, per la diffusione della pratica tra le popolazioni.
Tutt'altra questione è come mutino nel corso del tempo le frequenze dei divorzi. Ferme restando le cause di cui si è detto, e che ci consentono di spiegare in massima parte la tendenza di fondo del fenomeno, sulle variazioni di breve periodo dei tassi di divorzio agisce un altro gruppo di motivi di carattere più contingente, motivi che si riconducono di solito agli eventi bellici, ai rapidi cambiamenti economico-sociali, alle modifiche della normativa specifica, ai processi rivoluzionari e all'imposizione di leggi discriminanti da parte di un regime dittatoriale. Nei due ultimi, ad esempio, è agevole riconoscere, da un lato, le cause della considerevole impennata dei divorzi negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d'ottobre (v. Yvert-Jalu, 1981) e, dall'altro, le ripercussioni sul divorzio della politica per la purezza della razza ariana praticata in Germania dal Terzo Reich tra il 1934 e il 1939 (v. Rottleuther-Lutter, 1989). Quanto agli altri motivi, almeno un cenno merita il ruolo degli eventi bellici. Osservando il grafico dei divorzi negli anni delle ultime due grandi guerre, non è difficile cogliere visivamente l'impronta del loro passaggio. In particolare dopo il secondo conflitto mondiale, in tutti i paesi belligeranti l'andamento dei divorzi disegna una curva a 'U', contraddistinta da un picco rilevante nei valori delle frequenze negli anni dell'immediato dopoguerra, seguito da un successivo calo che perdura grosso modo fino al 1965, e da una ripresa costante dei tassi a partire da quella data (v. Chester, Conclusion, 1977). Eventuali scarti nella crescente tendenza monotona dei tassi di divorzio riflettono, inutile dirlo, le variazioni intervenute nella normativa.
Queste, dunque, le cause generali del fenomeno; del fenomeno della rottura del matrimonio, beninteso, e non dei motivi addotti dalla coppia in sede legale; motivi che, a giudizio unanime degli studiosi, risentono invece eccessivamente delle caratteristiche formali della legge e vengono spesso strumentalizzati dai coniugi al solo fine di ottenere lo scioglimento del matrimonio o di risolvere a loro vantaggio le decisioni del tribunale. Ad ogni modo, sulle cause che determinano nei singoli paesi l'andamento generale degli scioglimenti del matrimonio s'innestano, specificandone la portata, fattori di maggiore dettaglio come l'età degli sposi al matrimonio, la sua durata, il numero di figli, il livello socioeconomico della coppia, il luogo di residenza, l'appartenenza religiosa, l'età e il sesso della prole, e quanti altri possano avere un'influenza diretta o indiretta sulla stabilità o sulla dissoluzione del rapporto coniugale. Ovviamente, non v'è modo in questa sede di riportare nemmeno la minima parte dei risultati ottenuti in questi ultimi anni dalla ricerca demografico-sociale sull'intreccio di questi fattori e sull'efficacia con la quale essi incidono sui tassi di divorzio nei diversi paesi. A puro scopo d'inventario (con la consapevolezza di tralasciare aspetti e sfumature non marginali per la comprensione del divorzio) possono tuttavia essere indicati alcuni dati salienti.
Muovendo dai caratteri sociodemografici, un dato certo, pressoché universale, è che i matrimoni che avvengono in età precoce sono colpiti dal divorzio in misura più che proporzionale alla loro presenza all'interno della popolazione (v. Kellerhals e altri, 1977; v. Norton e Glick, 1979; v. Moore e Waite, 1981; v. Smith e Meitz, 1983; v. White, 1990; v. Furstenberg e Cherlin, 1991). Per la Gran Bretagna, ad esempio, è stato calcolato che il rischio di divorzio raddoppia quando la sposa ha meno di vent'anni e si triplica quando entrambi gli sposi hanno un'età inferiore a questa soglia (v. Chester, England..., 1977).
L'effetto dell'età al matrimonio sul divorzio permane anche quando si controlla l'influenza di altri fattori, come le gravidanze prematrimoniali, la durata del matrimonio o l'appartenenza dei coniugi a una data 'coorte' di matrimonio (v. Rottleuther-Lutter, 1989). Il che non esclude che l'età possa essere collegata ad altri fattori, come ad esempio alla posizione sociale occupata dalla coppia. Se si tiene presente che nella gran parte dei paesi si è constatato che quanto meno elevato è il ceto di appartenenza tanto minore è la stabilità del matrimonio (v. Goode, 1962), allora non è azzardato ritenere che la relazione tra età al matrimonio e divorzio sia semplicemente un effetto della maggiore presenza di matrimoni precoci tra i ceti più bassi.
Oltre all'età, sul divorzio influisce la durata del matrimonio. Anche in questo caso disponiamo di copiose informazioni, ma l'esame dei dati è complicato dall'intervento di due fattori: la normativa che regola il divorzio e la lunghezza del procedimento che dalla richiesta dei coniugi conduce via via sino alla sentenza. In effetti, le statistiche sui divorzi sono di regola riferite alla durata del tempo intercorso tra la celebrazione del matrimonio e la data in cui è stato ottenuto il divorzio, e non alla durata effettiva del rapporto coniugale; inoltre, talune normative (l'italiana, ad esempio) subordinano la concessione del divorzio alla separazione personale dei coniugi protrattasi ininterrottamente per un certo numero di anni. In entrambi i casi, per misurare la durata effettiva del matrimonio dovremmo tener conto sia del tempo assorbito dalla fase procedurale sia del periodo legale di separazione; il che, purtroppo, non sempre è possibile, e anche se lo fosse, non necessariamente ci consentirebbe di calcolare la reale durata del matrimonio, per la semplice ragione che "la fine del matrimonio non è qualcosa che accade tutt'a un tratto, ma è piuttosto un lungo processo" (v. König, 1974, p. 104). Ad ogni modo, ferme restando queste difficoltà di calcolo, è un fatto che il divorzio interessa soprattutto la prima fase del matrimonio. La probabilità di divorziare, cioè, si dispone grosso modo secondo una curva a 'U' rovesciata: è più elevata nei primi anni di matrimonio, raggiunge un massimo tra il secondo e il settimo anno, e si riduce gradualmente negli anni seguenti (v. Rottleuther-Lutter, 1989).
L'andamento della distribuzione dei divorzi secondo la durata del matrimonio ricalca, dopotutto, l'evoluzione del ciclo familiare della coppia. Nella prima fase del ciclo prevalgono le difficoltà di adattamento dei coniugi alla convivenza di coppia: è in questo periodo difatti che, per le coppie più giovani, il rischio del divorzio è più alto. Inoltre, in questa fase la propensione al divorzio è agevolata dal fatto che nella gran parte dei casi la coppia non ha figli. Con la nascita dei figli, in effetti, il rischio di divorzio in genere si riduce, sia per la responsabilità che i genitori sentono nei confronti della prole, sia per le ovvie complicazioni che la loro presenza introduce nell'eventualità di un divorzio. E infatti la ricerca sociale ha messo in luce che all'aumentare del numero dei figli la frequenza dei divorzi diminuisce (v. Becker e altri, 1977; v. Cherlin, 1977; v. Höhn, 1980). In realtà, secondo alcuni autori, anche in questo caso ci troveremmo di fronte a una relazione spuria; nel senso che la frequenza dei divorzi non sarebbe legata tanto al numero, quanto all'età dei figli. Il rischio di divorziare sarebbe quindi ridotto quando i figli sono ancora piccoli, ma destinato ad aumentare al crescere della loro età (v. Cherlin, 1977); il che consentirebbe peraltro di spiegare un fenomeno altrimenti incomprensibile, come la relativamente elevata frequenza di coppie già avanti con gli anni, che hanno alle spalle una lunga storia matrimoniale, e che giungono al divorzio nella fase del cosiddetto empty nest, ossia quando i figli hanno lasciato la casa o hanno comunque raggiunto la maggiore età (v. Chester, Conclusion, 1977). Comunque sia, resta difficile se non impossibile pervenire su questo punto a una conclusione univoca a partire dalla letteratura. Il quadro internazionale è tutt'altro che omogeneo: mentre in Italia, ad esempio, la relazione tra numero di figli e stabilità del matrimonio è ancora molto forte, in altri paesi occidentali essa si dimostra sempre più debole e meno incidente sulla decisione della coppia di divorziare (v. Barbagli, 1990). Inoltre vanno considerati aspetti più specifici legati al sesso dei figli, che, per quanto marginali, aggiungono complicazione a complicazione. Graham B. Spanier e Paul Charles Glick, lavorando sui dati della Current population survey statunitense relativi al 1975, sono giunti in proposito alla conclusione che le probabilità che i coniugi avevano di mantenere unito il loro matrimonio aumentavano se essi avevano solo figli maschi piuttosto che solo figlie femmine. In particolare, "le madri avevano il 18% di probabilità in più di vivere in un rapporto coniugale stabile se la famiglia si componeva di due figli e nessuna figlia piuttosto che se essa conteneva due figlie e nessun figlio" (v. Glick, 1988, p. 868).Un altro degli aspetti sui quali si è più a lungo soffermata la ricerca sociale è l'analisi dei rapporti tra la posizione sociale della coppia e il divorzio. Gran parte della letteratura ha confermato in proposito i risultati ottenuti da William Goode in un famoso studio del 1956, After divorce, e cioè che, contrariamente a ciò che allora si riteneva, la percentuale dei divorzi diminuiva salendo la scala sociale: era più elevata tra gli operai e diminuiva progressivamente nei ceti impiegatizi, tra i dirigenti e nelle fasce più elevate della gerarchia socioprofessionale. Da allora, indagini svolte in altri paesi hanno portato alla medesima conclusione. Le ragioni? Secondo Marzio Barbagli sarebbero essenzialmente da vedere, da un lato, nel fatto che le coppie dei ceti più bassi "incontrano maggiori difficoltà nella vita quotidiana, nel lavoro come nel tempo libero, che finiscono per ripercuotersi negativamente sulle relazioni fra i coniugi", dall'altro, nel fatto che "i coniugi dei ceti più agiati tendono a non rompere il loro matrimonio perché i beni che posseggono [...] ricordano loro, giorno dopo giorno, quanto hanno da perdere con il divorzio" (v. Barbagli, 1990, p. 61). In realtà anche stavolta siamo in presenza di dati, se non contrastanti, certamente più articolati. Un primo, importante elemento che interviene a complicare il quadro dei risultati è legato ai criteri di misura seguiti nelle diverse indagini. Il cosiddetto status socioeconomico della coppia risulta in effetti dalla sintesi di diversi fattori: il livello di istruzione, la posizione lavorativa e il reddito. Disaggregando queste componenti, anziché considerarle insieme, si perviene talvolta a conclusioni diverse da quelle ottenute da Goode. In secondo luogo, altro è considerare il livello socioeconomico complessivo della coppia, altro è valutare separatamente per i due coniugi i parametri che lo compongono. Anche in questo caso i risultati a cui si arriva possono essere diversi, specie se si tiene conto del fatto che, "con l'incremento dell'occupazione femminile, i guadagni della donna introducono un ulteriore fattore di complicazione nella relazione tra il reddito e il divorzio" (v. Glick, 1988, p. 865). Infine, la correlazione positiva tra ceto sociale e stabilità matrimoniale non trova riscontro in tutti i paesi. In Italia, ad esempio, è stato provato che, prendendo in considerazione sia il titolo di studio sia l'occupazione e il reddito, "la stabilità matrimoniale è sempre stata maggiore nei ceti sociali più bassi che in quelli più elevati" (v. Barbagli, 1990, p. 61).
Come stiano effettivamente le cose è difficile dire, se non altro per la difficoltà di armonizzare le informazioni di cui disponiamo. Limitatamente al reddito, uno studio longitudinale di Heather L. Ross e Isabel V. Sawhill ha dimostrato che, mentre l'aggiunta del reddito della moglie a quello del marito può in taluni casi accrescere la stabilità del matrimonio, in altri parrebbe invece avere un effetto destabilizzante, che gli autori spiegano con la maggiore indipendenza economica raggiunta dalla donna (v. Ross e Sawhill, 1975). Pressappoco alle medesime conclusioni giungono anche Paul Glick e Andrew Cherlin. Secondo Glick, "la percentuale di uomini che hanno un matrimonio stabile è positivamente correlata con il loro livello di reddito, mentre questa relazione s'inverte per quanto riguarda le donne" (v. Glick, 1988, p. 865). Cherlin, d'altra parte, esaminando in tempi successivi un ampio campione di donne americane in età compresa tra 30 e 44 anni ha constatato che quanto più era elevato il differenziale di reddito tra moglie e marito tanto maggiore era la probabilità che la donna giungesse al divorzio in un breve volgere di anni (v. Cherlin, 1984).
Del resto, questi risultati appaiono sostanzialmente coerenti con l'insieme dei fattori ai quali si è soliti imputare l'aumento della frequenza di divorzi degli ultimi decenni. L'ingresso della donna nel mondo del lavoro, la disponibilità di un'entrata finanziaria indipendente, la maggiore esigenza di formazione prelavorativa, unitamente alla più ampia possibilità di avere contatti con l'ambiente esterno alla famiglia e di stabilire una relazione di parità nei rapporti con il coniuge: tutto ciò non può che accrescere l'autonomia della donna, e dunque facilitare l'eventuale scioglimento del matrimonio nel caso in cui proseguire la convivenza sia divenuto insopportabile. In definitiva, con il lavoro, la posizione e l'identità sociale della donna entrano in una dimensione diversa, in gran parte affrancata da una dipendenza priva di alternative rispetto al matrimonio e alla famiglia. E il divorzio non è che uno degli esiti del cambiamento. L'intera gamma dei fenomeni demografici - convivenze prematrimoniali, nascite illegittime, fecondità, nuzialità, età al matrimonio, ecc. - ne risente in misura più o meno ampia, secondo i casi e i contesti nazionali. La quasi totalità delle teorie avanzate in quest'ultimo scorcio di secolo sostengono questa interpretazione. La partecipazione delle donne alla forza lavoro e i mutamenti verificatisi nelle retribuzioni femminili avrebbero insomma giocato un ruolo cruciale nella loro decisione di sposarsi o di restare nubili, di mettere al mondo dei figli o limitare l'ampiezza della famiglia, di divorziare o di rimanere sposate, di risposarsi o di restare single (v. Coombs e Zumeta, 1970; v. Keeley, 1977; v. Becker e altri, 1977; v. Preston e McDonald, 1979; v. Ahlburg, 1979; v. Ermisch, 1981; v. Shapiro, 1987). E non è detto che da ciò non derivi un effetto di rinforzo dei comportamenti demografici sull'instabilità del matrimonio; ovvero, che la crescita dei divorzi possa dar luogo a un aumento della presenza femminile nel mercato del lavoro, e questa a sua volta concorra a ridurre l'investimento nel matrimonio e a minare ulteriormente il debole argine che separa le crisi del rapporto di coppia dal divorzio (v. Bumpass, 1990).
Un ultimo aspetto al quale dobbiamo accennare riguarda l'appartenenza religiosa. Come influisce sulla stabilità del matrimonio il fatto di appartenere a una determinata religione? E quali sono gli effetti dei matrimoni 'misti', nei quali i due coniugi sono di confessione diversa? Per quanto strano possa sembrare, i risultati di ricerca che consentirebbero di rispondere a queste domande sono tutt'altro che abbondanti. Evidentemente non è qui in discussione il ruolo delle religioni o delle Chiese sulla diffusione dell'istituto del divorzio nel corso della storia, quanto piuttosto l'atteggiamento e il comportamento differenti che persone appartenenti a diverse confessioni mostrano di avere nei confronti del divorzio, in un determinato paese. Diciamo subito che una relazione tra stabilità matrimoniale e religione di appartenenza esiste ed è stata documentata, quantunque non senza eccezioni (v. Bumpass, 1990).
In generale, i paesi di religione musulmana sono alquanto permissivi nei confronti del divorzio, i protestanti presentano un più elevato rischio di divorzio rispetto ai cattolici, mentre le coppie formate da coniugi che appartengono a confessioni diverse sono le più colpite in assoluto. Tuttavia, altro è quanto avviene all'interno di uno stesso paese e altro quanto si coglie comparando tra loro paesi con caratteristiche non dissimili dal punto di vista dell'affiliazione religiosa. Un caso emblematico è l'Italia. Se si mettono a confronto i divorzi che provengono da matrimoni celebrati con il rito religioso (o concordatario) con quelli che provengono da matrimoni celebrati con il rito civile, la diversità è notevolissima: tra i coniugi che hanno contratto matrimonio in municipio la 'divorzialità' risulta cinque volte più elevata di quella che si riscontra tra le coppie che hanno celebrato il matrimonio secondo il rito religioso o concordatario (v. Santini, 1986). Almeno a giudicare da questi dati, quindi, l'influenza della morale cattolica sul costume e sulle scelte che riguardano la vita coniugale sembrerebbe considerevole. E tuttavia ciò non basta a chiarire le ragioni della differenza tra la pratica del divorzio nel nostro paese e quella di altri paesi sempre a maggioranza cattolica. Per esempio, non è sufficiente a spiegare perché le coppie italiane che hanno divorziato nel 1981 sono appena 1/8 di quelle austriache o francesi (v. Festy, 1983). La spiegazione della relativa specificità dell'Italia nel panorama internazionale richiede cioè che si tenga conto di altri elementi, quantunque risulti poi molto difficile fornire anche una semplice stima del peso che a questi elementi deve essere attribuito nell'interpretazione del fenomeno (v. Sgritta, 1988). L'influenza della fede religiosa sul divorzio appare inoltre alquanto variabile. In Austria, nonostante il fatto che la stragrande maggioranza della popolazione sia cattolica, prevale una concezione alquanto liberale del matrimonio e del divorzio (v. Haller, 1977). Nella Repubblica Federale Tedesca e negli Stati Uniti le differenze nei tassi di divorzio di cattolici e protestanti sono assai più ridotte di un tempo (v. Höhn, 1980; v. Glenn e Supancic, 1984). E lo stesso vale per quanto riguarda la Finlandia (v. Anntila, 1977) e i Paesi Bassi (v. Kooy, 1977).
In Svizzera l'impatto del fattore religioso sulla divorzialità parrebbe tuttora rilevante, sebbene anche in questo caso, a ben vedere, svolgano un ruolo altri fattori, come le caratteristiche della residenza - urbana o rurale - della coppia (v. Kellerhals e altri, 1977). Più persistente, invece, si direbbe l'effetto della combinazione all'interno della coppia di due diverse fedi religiose. Negli Stati Uniti, Norval D. Glenn e Michael Supancic hanno riscontrato che la probabilità di incorrere nel divorzio è più elevata quando i due coniugi appartengono a diverse denominazioni protestanti che non quando sono entrambi di religione cattolica, ed è di gran lunga maggiore tra le coppie di religione ebraica (v. Glenn e Supancic, 1984). Ad analoghi risultati sono giunti anche Gerrit Kooy per i Paesi Bassi (v. Kooy, 1977) e Jean Kellerhals e i suoi collaboratori per la Svizzera, ove i matrimoni tra protestanti o di religione 'mista' presentavano tassi di divorzio più elevati che non quelli tra la popolazione cattolica (v. Kellerhals e altri, 1977, p. 205, tab. V).
L'esame dei dati relativi al divorzio risente evidentemente della pluralità dei fattori che condizionano la manifestazione del fenomeno. Nei paesi in cui il divorzio non è ammesso dalla legge, ad esempio, è prevedibile che l'instabilità matrimoniale assuma espressioni diverse, e cioè si presenti sotto forma di equivalenti funzionali del divorzio, come la separazione o il semplice abbandono della casa da parte di uno dei due coniugi; ma in entrambi i casi essa non viene registrata come divorzio dalle statistiche ufficiali. Così, le variazioni nel tempo della normativa, in senso più restrittivo o più permissivo, giocano anch'esse evidentemente un ruolo determinante sulle frequenze degli scioglimenti; per non dire dell'influenza che esse esercitano su aspetti più elementari della divorzialità, come la durata del matrimonio, i motivi legali della separazione, l'età dei coniugi al momento del divorzio, ecc. Infine, non minore incidenza sulla conoscenza della distribuzione del fenomeno nel tempo e nello spazio hanno i criteri adoperati nella sua misura statistica.
Basti osservare che il computo dei tassi di divorzio conduce a valori anche molto differenti se basato sul rapporto tra i divorzi avvenuti in un determinato anno e la popolazione totale, ovvero tra i primi e il numero di matrimoni esistenti, o nell'unico modo effettivamente corretto, che consiste nel seguire nel tempo una determinata coorte di matrimoni, calcolare quanti divorzi provengono da tale coorte per ogni anno di calendario e quindi sommare questi valori per tutta la lunghezza dell'intervallo considerato.Trascurando l'esame del fenomeno nella lunga durata, reso difficile dalla mancanza di dati attendibili e comparabili, la situazione odierna è stata spesso descritta dagli studiosi come il prolungamento di una generale tendenza alla crescita dei tassi di divorzio che ha avuto inizio intorno alla metà degli anni sessanta. In realtà, si potrebbe riandare più indietro nel tempo e cogliere l'avvio di questa tendenza già al principio del secolo. Ma resta il fatto che se l'andamento del fenomeno è apparso, almeno nel mondo occidentale, in lenta progressione in tutto il corso del Novecento, è a partire dal 1965 che si è verificata quella forte accelerazione che è giunta a moltiplicare in poco tempo i valori relativi.
Una valutazione alquanto grossolana dell'aumento dell'instabilità matrimoniale avutosi da allora è desumibile già dal semplice esame dei valori assoluti. Nel 1965, nel complesso dei paesi dell'attuale Comunità Europea, vi erano state 125.000 sentenze di divorzio, nel 1988 sono state oltre 534.000 (v. Eurostat, 1990). Negli Stati Uniti, nello stesso periodo, si è passati da 479.000 a 1.183.000 (v. United Nations, 1984 e 1991), con la particolarità che dal 1974, per la prima volta, i matrimoni interrotti da un divorzio hanno raggiunto e superato quelli cessati per morte di uno dei coniugi (v. Glick, 1988). Analoghi ordini di grandezza ha presentato la crescita dei divorzi in URSS, dove si è passati da 438.000 scioglimenti del 1965 a 1.167.000 del 1988. Meno imponente è stato l'aumento nell'insieme dei paesi asiatici, e tuttavia i divorzi sono passati da 146.000 a 204.000. Per i paesi dell'Africa non disponiamo di una serie storica completa, ma sono degni di nota gli incrementi verificatisi in Egitto e tra la popolazione bianca del Sudafrica. Infine, nei paesi del Sudamerica l'incremento è stato di circa otto volte, ma è da attribuire pressoché esclusivamente al Brasile, che ha introdotto il divorzio solo nel 1977. In Australia i divorzi crescono da poco più di 8.000 nel 1965 a circa 40.000 nel 1987 (v. Glick, 1988).
Assai meglio e più correttamente dei valori assoluti, che dipendono da altre grandezze demografiche, servono i valori relativi, e in particolare le cosiddette 'somme dei tassi di divorzio per durata del matrimonio'. Tali somme presentano tuttavia il non trascurabile difetto di non essere sempre calcolabili per tutti i paesi. Dove ottenibili, queste misure consentono di rilevare che, ad esempio, in Gran Bretagna i matrimoni sciolti per divorzio sono stati 107 su 1.000 nel 1965, ma 404 su 1.000 nel 1983; in Danimarca 182 e 451, sempre su 1.000, all'inizio e alla fine del periodo; in URSS 149 e 358; in Finlandia 137 e 293; in Svezia 178 e 455 (nel 1985). In Italia non ha molto senso tentare di cogliere una tendenza, considerato il breve periodo trascorso dall'introduzione della legge. Ma non vi sono dubbi che, anche sommando ai divorzi le separazioni, si resta alquanto al di sotto dei livelli di divorzialità che abbiamo appena riportato (v. Sardon, 1986; v. Santini, 1986; v. Monnier, 1988); mediamente in Italia le coppie interessate al divorzio sono 1/10 e perfino 1/20 di quelle dei paesi dell'area scandinava o del Nordamerica, senza contare che i tassi di divorzio di questi paesi non includono le separazioni delle coppie conviventi. Per gli Stati Uniti, ad esempio, stime recenti fanno ascendere a circa il 60% la quota dei (primi) matrimoni destinati a sfociare in un divorzio tra quelli celebrati in questi ultimi anni (v. Castro Martin e Bumpass, 1989; v. Furstenberg e Cherlin, 1991).
Per avere una panoramica più ampia della situazione possiamo tentare di ordinare i paesi secondo una graduatoria decrescente dei tassi di divorzio, suddividendoli in tre grandi gruppi, da quelli più elevati a quelli intermedi ai più ridotti. Per mancanza di dati, non possiamo continuare a utilizzare le 'somme dei divorzi ridotti'; dobbiamo ripiegare sui molto meno affidabili rapporti tra il numero di divorzi in un dato anno e la popolazione in quello stesso anno. L'anno che assumiamo a riferimento è il 1988. Al primo gruppo, con tassi di divorzio superiori al 2‰, ma in molti casi ben oltre il 4‰ abitanti, appartengono Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, URSS, Australia, Nuova Zelanda, gran parte dei paesi dell'Europa orientale, Cuba e Puerto Rico. Il secondo gruppo raccoglie invece quei paesi che hanno tassi di divorzio compresi tra il 2 e l'1‰; in esso possiamo includere Austria, Olanda, Polonia, Egitto, Venezuela, Israele, Giappone e Giordania. Nell'ultimo gruppo, nella parte bassa della graduatoria, troviamo infine i paesi dell'Europa meridionale, come l'Italia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia, la Turchia, la Iugoslavia e Cipro, quindi la Cina e altri come il Brasile, il Guatemala, la Giamaica (v. United Nations, 1991).
"Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo": inizia così il romanzo di Tolstoj, Anna Karenina. Quel poco che sappiamo sulle disgrazie delle famiglie non ci consente né di confermare né di smentire questa affermazione. Non è questo il punto, infatti. Ciò che importa è che gli studiosi e gli analisti del divorzio devono averla presa per buona, dal momento che fino a non molti anni fa hanno quasi completamente trascurato, non senza le solite eccezioni (v. Goode, 1956), di tentare di capire che cosa succede ai matrimoni e alle famiglie dopo il divorzio; forse perché convinti che se lo scioglimento del matrimonio segue itinerari prestabiliti, quanto accade dopo si sottrae a ogni logica, per riflettere unicamente i capricci della soggettività. Con il senno di poi è agevole sostenere che quegli studiosi avevano torto. E forse lo si poteva capire già prima, se solo si fosse tenuto presente che il divorzio non è un evento ma un processo. Che non si esaurisce certamente nei rituali delle procedure né all'atto della sentenza, ma prosegue la sua corsa - come un treno lanciato - attraverso stazioni successive, per le quali sono inevitabilmente destinate a transitare sia l'esistenza futura dei coniugi sia quella dei figli.
Il fatto che studi e ricerche sulle conseguenze del divorzio da qualche tempo si siano fatti sempre più numerosi si spiega essenzialmente con un duplice ordine di motivi. Il primo, più banale, è che ciò si è verificato là dove più elevato e persino drammatico è stato l'aumento dell'instabilità matrimoniale, sicché le conseguenze del divorzio hanno assunto la dimensione di un problema sociale. L'altro motivo che ha sollecitato gli studiosi a occuparsi delle conseguenze del divorzio è la condizione dei figli dei divorziati (v. Davis, 1966). Anche in questo caso la ragione è semplice. Per i figli, quanto e più che per i genitori, il divorzio suggella la fine legale del matrimonio, ma non cancella affatto le responsabilità e i legami sviluppatisi nel corso della convivenza. Anzi, per i figli il divorzio segna l'inizio di una serie di importanti cambiamenti nella loro condizione personale e familiare: in alcuni casi essi sono destinati alla convivenza con uno dei due genitori, in altri a seguire passivamente la loro 'carriera matrimoniale' (v. Furstenberg e Cherlin, 1991). Il numero di bambini coinvolti è tutt'altro che trascurabile.
Per gli Stati Uniti è stato calcolato che, sommando ai figli di genitori divorziati quelli di madri nubili, la proporzione di bambini nati negli anni novanta che si troveranno con ogni probabilità a trascorrere almeno una parte della loro giovinezza in una famiglia con un solo genitore potrebbe facilmente raggiungere il 60%, ammesso che i tassi di divorzio si mantengano ai livelli attuali e prosegua nel frattempo la tendenza alla crescita dei concepimenti fuori dal matrimonio (v. Furstenberg e Cherlin, 1991). Appena meno allarmanti sono i dati della Repubblica Federale Tedesca, per la quale si calcola che circa un bambino ogni dieci si trovi attualmente nella medesima situazione (v. Rottleuther-Lutter, 1989).
Non è tutto. Se è vero, difatti, come spesso si è sostenuto, che il divorzio presenta all'attivo la possibilità di mettere fine al clima di tensione che normalmente precede la rottura del matrimonio, resta da dimostrare che il bilancio costi-benefici si mantenga positivo su tutto il fronte dei problemi che rimangono o sorgono dopo la separazione. Per quel che ne sappiamo, i disagi e le difficoltà cui dà luogo il divorzio sono molti, non facili da gestire, e non sempre di breve durata, specie per i figli. Gli studiosi che si sono occupati del decorso degli avvenimenti che seguono la conclusione del matrimonio, lo descrivono come una sequenza di stadi attraverso i quali si svolge l'adattamento dei membri della famiglia alla nuova situazione (v. Raschke, 1987). In una prima fase occorre affrontare la separazione emotiva; quindi si rende indispensabile provvedere ai necessari accorgimenti legali, per la divisione del patrimonio e l'assolvimento delle responsabilità dei genitori nei confronti dei figli; infine bisogna aver cura di rinegoziare i rapporti con le rispettive famiglie d'origine e di inserirsi nella comunità degli amici e dei conoscenti nella nuova veste di divorziati (v. Bohannan, 1970).
Evidentemente vi sono delle differenze nel modo in cui questi problemi vengono affrontati. Dipende dall'età dei coniugi, dall'età e dal sesso dei figli, dalla durata del matrimonio, dal livello economico-sociale, dall'ambiente di residenza, dall'eventuale presenza di altri partners, nonché dai motivi intrinseci che hanno portato alla rottura del matrimonio. Ma è un fatto che, nella successione delle varie stazioni, si compiano a un tempo il difficile processo di "sradicamento del micro-mondo familiare" (v. Vaughan, 1987) e l'impianto su nuove basi della propria vita affettiva, economica e sociale. Insomma, si perde, pressoché bruscamente, ciò che si possedeva o su cui si poteva contare e occorre ricostruire o riconquistare ciò di cui si ha bisogno.Ora, è precisamente per questi motivi che nel divorzio ci sono 'vincitori' e 'vinti'. Con una particolarità e un'aggravante, che meritano di essere segnalate. La particolarità è che di regola a prevalere sono gli stessi che godevano di una posizione di vantaggio nel matrimonio, mentre chi ne esce svantaggiato è quasi sempre chi già occupava una posizione subordinata all'interno della famiglia. Dunque "le famiglie dopo il divorzio appaiono molto simili a quello che erano prima del divorzio" (v. Furstenberg e Cherlin, 1991, p. 33). L'aggravante consiste nel fatto che non solo i costi del divorzio si distribuiscono in misura ineguale tra i componenti della famiglia, ma sovente le diseguaglianze tra il prima e il dopo risultano addirittura più marcate. E questo succede perché al coniuge più debole - di solito, anche se non necessariamente, la donna - è usualmente affidata, per soprammercato, la custodia dei figli.Fino alla fine del secolo scorso, e in molti paesi anche oltre, i figli vivevano generalmente con il padre dopo il divorzio.
L'affidamento dei figli alla madre è, per la donna, una conquista recente. L'inversione di tendenza è legata, da un lato, all'abolizione del principio della colpa e, dall'altro, all'affermarsi dell'idea che nell'affidamento si dovesse anzitutto tener presente l'interesse del minore; e dal momento che la madre rappresenta di solito la principale figura di riferimento del bambino, è a lei che nella stragrande maggioranza dei casi i tribunali affidano la sua custodia. Come tutte le conquiste, tuttavia, anche questa è esposta a risultati paradossali. Dipende dalle specifiche circostanze, naturalmente: ma è un fatto, pressoché privo di eccezioni, che in tutti i paesi le donne partecipano in proporzione minore alla forza lavoro e, quando lavorano, spuntano mediamente salari meno remunerativi di quelli maschili. Come scrivono F. Furstenberg e A. Cherlin, "che l'uomo e la donna contribuiscano in misura diversa al reddito complessivo della famiglia non crea alcun problema finché la famiglia rimane unita. L'uno e l'altra cooperano con il loro lavoro, all'interno e all'esterno della casa, al benessere di tutti i componenti della famiglia. Ma il divorzio mette in crisi questo sistema di distribuzione familiare" (ibid., p. 46).Quando il matrimonio si scioglie, i diversi membri della famiglia vengono a trovarsi in una condizione economica che spesso si rivela ampiamente insufficiente per provvedere alla copertura delle loro necessità; il motivo è che vengono meno quelle regole di solidarietà e ridistribuzione che consentivano di superare le disparità di guadagno esistenti all'interno della famiglia. L'ormai copiosa letteratura sull'argomento dimostra in effetti che le conseguenze economiche negative del divorzio ricadono soprattutto sulle donne e sui figli (v. Hoffman, 1977; v. Espenshade, 1979; v. Schwarz, 1984; v. Weiss, 1984; v. Raschke, 1987; v. Kitson, 1990; v. Burkhauser e altri, 1991). Noblesse oblige: nell'eventualità che il tribunale le conceda la custodia dei figli, la donna dovrà ancora fare di necessità virtù e provvedere al loro e al suo mantenimento con un reddito che presumibilmente è assai inferiore a quello su cui poteva contare prima del divorzio. E poiché il gioco è di quelli che gli economisti chiamano 'a somma zero', la situazione finanziaria del marito risulterà del pari migliorata.
Secondo Saul Hoffman, ad esempio, negli Stati Uniti, tra il 1968 e il 1974, il reddito familiare reale in rapporto ai bisogni è diminuito del 6% per le donne divorziate, mentre è aumentato del 17,7% per gli uomini divorziati (v. Hoffman, 1977). Sempre negli Stati Uniti, uno studio che ha seguito la condizione economica delle coppie divorziate per tutti gli anni settanta ha dimostrato che, nell'anno successivo all'evento, le donne avevano subito una riduzione del reddito pari al 30%, mentre gli uomini avevano potuto contare su un incremento del 15% (v. Duncan e Hoffman, 1985). E la situazione non appare diversa in altri paesi, come Australia, Canada, Francia, Gran Bretagna, Italia, Repubblica Federale Tedesca, per i quali sono disponibili informazioni. Del resto, per avere una visione complessiva della situazione, è sufficiente esaminare le statistiche sulla percentuale di minori in stato di povertà secondo la tipologia familiare ottenuta a partire da dati nazionali ufficiali. Timothy Smeeding, Barbara B. Torrey e Martin Rein hanno accertato ad esempio che in molti paesi occidentali passare da una famiglia di due genitori a una di un solo genitore accresce per un bambino il rischio di trovarsi in condizioni di povertà in ragione di 1:3 nel caso della Svezia e della Svizzera e di 1:7 nel caso degli Stati Uniti, del Canada e della Repubblica Federale Tedesca (v. Smeeding e altri, 1988).
Insomma, comunque si guardi alla letteratura, emerge costantemente una relazione tra l'instabilità matrimoniale e il crescere di due tendenze, entrambe associate alle famiglie composte di un solo genitore: la cosiddetta 'femminilizzazione' della povertà (v. Weitzman, 1985) e l'aumento della proporzione di bambini costretti a vivere in situazioni economiche sfavorevoli (v. Sgritta, 1991). In verità, alcune ricerche hanno rilevato che il disagio economico prodotto dal divorzio ha carattere temporaneo, mediamente cinque anni (v. Duncan e Hoffman, 1985); ma non è privo di ironia constatare che, se per molte donne la possibilità di mantenere un livello di vita adeguato comporta l'onere di ritornare nella famiglia d'origine o di contare sul suo aiuto, altre per realizzare questo risultato debbono passare per una seconda esperienza matrimoniale. Meno frequenti, invece, i casi in cui la donna può fare assegnamento sulla sola somma di denaro o sugli alimenti che il coniuge è tenuto a corrispondere periodicamente per il suo mantenimento o per quello dei figli. In genere, se si escludono i paesi dell'area scandinava e pochi altri nei quali sono stati introdotti accorgimenti legali e procedurali che impongono il rispetto degli impegni stabiliti al momento del divorzio, negli altri è stato appurato che l'assegno di mantenimento o non viene affatto pagato o viene versato con notevole ritardo; e quando viene corrisposto "è spesso basso ed è inferiore a quanto necessario [...] e tende a diventarlo ancor più con il passare del tempo" (v. Barbagli, 1990, pp. 100 ss.).
Si potrebbe sostenere che la scarsa tutela che le normative di molti paesi tuttora accordano alla donna altro non è che il rovescio della medaglia della crescente emancipazione femminile, anche attraverso l'accesso al mercato del lavoro, e che le donne che chiedono il divorzio scambiano consapevolmente uno standard di vita più elevato con un maggiore benessere psicologico. Ma questo ragionamento, peraltro di per sé discutibile, trascura la presenza dell'altra figura debole della famiglia, il bambino. Giustamente è stato osservato che gli interessi che genitori e figli hanno nella preservazione del rapporto matrimoniale spesso differiscono, e che nel conflitto di interessi che inevitabilmente si scatena con il divorzio i bambini sono di solito spettatori partecipi ma impotenti (v. McLanahan, 1989).
Tali e tanti sono i mutamenti che la separazione impone all'andamento abituale della vita familiare, che spesso i figli ne riportano conseguenze negative destinate a perdurare ben oltre i nuovi equilibri sui quali lentamente si assesta l'esistenza dei genitori. Le difficoltà metodologiche connesse allo studio degli effetti di lungo periodo non sempre ci consentono di disporre di risultati di ricerca attendibili: è assai facile cadere nella trappola delle interpretazioni del tipo post hoc, ergo propter hoc (v. Levitin, 1976, p. 2), né si può escludere che le indicazioni che se ne traggono non risentano, in questo più che in altri ambiti, di quell'atteggiamento pregiudizialmente negativo, orientato a rilevare specialmente i risvolti devianti e patologici, con cui la ricerca psicosociale si è spesso accostata al problema del divorzio (v. Raschke, 1987).
Nondimeno, si è inevitabilmente colpiti dall'elenco delle affezioni che la letteratura annovera tra le conseguenze più durature dei conflitti che precedono e seguono la rottura del matrimonio. Judith Wallerstein e Sandra Blakeslee (v., 1989), basandosi su uno studio clinico di un campione di bambini di coppie divorziate residenti a San Francisco, parlano addirittura di una generazione segnata in modo indelebile dall'esperienza del divorzio; almeno la metà di questi bambini è, secondo loro, destinata a entrare nel mondo degli adulti con difficoltà psicologiche che vanno dall'ansia al senso di colpa, all'incapacità di applicarsi nell'esecuzione di un compito. Un quadro non molto diverso fornisce anche la ricerca condotta da Mavis E. Hetherington (v., 1989) su un piccolo campione di bambini in età prescolare provenienti sia da famiglie di divorziati che da famiglie unite. Restano, come si diceva, i dubbi sulla correttezza metodologica di queste inchieste e, come nel caso della Wallerstein, sull'assenza di opportuni elementi di raffronto con la popolazione non 'colpita' dal divorzio. Sempre negli Stati Uniti, tuttavia, Sara McLanahan e Larry Bumpass (v., 1989) hanno trovato che quanti da bambini erano vissuti in una famiglia composta di un solo genitore presentavano maggiori probabilità di fallimento nel percorso scolastico, di sposarsi precocemente, di avere un figlio prima di sposarsi, e di porre termine al matrimonio con un divorzio. Un accurato esame della letteratura sulla materia condotto da Irving Garfinkel e Sara McLanahan (v., 1986) ha infine permesso di stabilire che l'esperienza del bambino che vive per alcuni anni in una famiglia priva di uno dei genitori produrrà significativi effetti negativi sulla sua posizione occupazionale e farà aumentare le probabilità che egli si trovi in età adulta a dipendere dall'assistenza sociale.In definitiva, non è facile trarre una conclusione univoca sugli effetti che il divorzio ha sui figli. Infatti, troppe sono le variabili da controllare prima di poter concludere che i disturbi e le conseguenze negative accertate possano essere esclusivamente imputate alla rottura della convivenza familiare.
D'altra parte, alcune ricerche dimostrano che i bambini i cui genitori sono infelicemente sposati ma non giungono al divorzio risentono del clima conflittuale della famiglia anche più di quanto accada ai figli di divorziati (v. Peterson e Zill, 1986).
Nei paesi in cui il divorzio è stato introdotto da più lungo tempo i sondaggi demoscopici hanno in più occasioni riscontrato che l'atteggiamento nei confronti del divorzio è divenuto via via più aperto e tollerante. Questo mutamento di atteggiamento dell'opinione pubblica è stato interpretato nel senso che, in tutti gli ambiti del comportamento che hanno a che vedere con la vita matrimoniale e con la famiglia, si sarebbe verificata una sorta di erosione delle norme tradizionali che imponevano l'adozione di certi modelli prestabiliti di vita e, in particolare, l'accettazione della convivenza anche in presenza di gravi conflitti coniugali. La legislazione non ha fatto che adeguarsi a questi mutamenti del costume, benché in taluni paesi abbia cercato di contrastarli e di ritardarne il passaggio dalla coscienza al diritto. In molti luoghi, non solo dell'Occidente, oggi la vita familiare e il suo destino sono diventati una questione di scelta personale, fondata in sostanza sul calcolo del proprio interesse e della propria realizzazione.
E tuttavia, a fronte di questi profondi cambiamenti del clima culturale che circonda l'istituto del matrimonio e la famiglia, cambiamenti che in taluni paesi sono ancora in fase incipiente, si sono affacciati recentemente chiari sintomi di apprensione per le conseguenze di lungo periodo dell'instabilità familiare e ne sono nate approfondite discussioni sull'opportunità di adottare misure idonee a contrastarle. E non è senza interesse notare che ciò è avvenuto specialmente in quelle realtà dove il processo di modernizzazione del costume ha avuto modo di dispiegare più a fondo i suoi effetti. Gli Stati Uniti, difatti, costituiscono un caso emblematico di questo ripensamento. "All'inizio degli anni ottanta ancora pochi osservatori avevano prestato attenzione a queste tendenze; ora esse sono ampiamente dibattute", scrive A. Cherlin (v., 1990, p. 154). Posti di fronte al "new american dilemma", cioè all'aumento inarrestabile delle famiglie unigenitoriali, qualificati osservatori hanno additato da tempo all'attenzione della pubblica opinione le "influenze negative che questi cambiamenti della famiglia produrranno sul carattere e sul comportamento delle future generazioni di Americani" (v. Garfinkel e McLanahan, 1986, pp. 26-27). Né le perplessità si riducono a questo. Qualora dovessero proseguire le attuali tendenze, gli esiti del divorzio potrebbero mettere a repentaglio alcune conquiste fondamentali realizzate nella società americana degli ultimi decenni nel campo dell'emancipazione femminile, dei rapporti tra Stato e famiglia e delle relazioni di classe e di razza (v. McLanahan, 1989).
Un'inversione di rotta? È presto per dirlo. Per appurarlo bisognerà tra l'altro attendere l'evoluzione dei comportamenti in altre sfere della vita privata, nonché in quella della politica, ed estendere la verifica ad altri contesti. Ma se rilievi isolati come quelli appena menzionati non possono naturalmente provare nulla, non è detto che li si possa liquidare come banali varianti di una ricorrente retorica conservatrice. Comunque sia, essi sono la prova che il dibattito sul divorzio e sulle funzioni della famiglia è tutt'altro che risolto; che anche dove più estesa è stata la penetrazione dell'istituto e più radicale l'evoluzione della legge e del costume, affiora l'essenza profondamente ambivalente di una vicenda che forse con eccessiva disinvoltura è stata talvolta presentata come un progresso uniforme e inesorabile.
(V. anche Famiglia; Matrimonio).
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