Matrimonio
'Matrimonio' è una parola di origine recente. Nella Politica Aristotele osservava che "l'unione dell'uomo e della donna non ha un nome". Ma, più in generale, noi oggi sappiamo (v. Benveniste, 1969) che nelle lingue indoeuropee (che si sono diffuse dall'Asia centrale all'Atlantico per circa quattro millenni) mancava una parola per dire 'matrimonio'. In queste lingue venivano usati termini completamente diversi a seconda del sesso: verbali per l'uomo, nominali per la donna. Per l'uomo si adoperavano dei verbi con radice wedh che significavano 'condurre una donna a casa propria'. Per la donna invece non si usavano verbi, ma forme nominali, per indicare che essa 'non si sposa, ma è sposata', che non compie un atto, ma cambia condizione (ibid.). In latino, ad esempio, il termine matrimonium significava 'condizione legale di mater' ed era usato in espressioni come ire in matrimonium (per una fanciulla), dare filiam in matrimonium (per suo padre), alicuius filiam ducere in matrimonium (per il marito).
Molto diverso è oggi il significato del termine 'matrimonio'. Secondo il Vocabolario della lingua italiana di Niccolò Zanichelli, esso è "un accordo fra un uomo e una donna stipulato alla presenza di un ufficiale dello stato civile o di un ministro di culto, con cui i soggetti contraenti si impegnano a instaurare e mantenere fra essi una comunanza di vita e di interessi". Secondo questa definizione, dunque, vi è un matrimonio solo quando esso è celebrato, in conformità alle leggi e ai costumi di un paese, da un'autorità (civile o religiosa).
I sociologi e gli antropologi usano il termine 'matrimonio' in un'accezione molto più ampia. In "Notes and queries on anthropology" gli antropologi inglesi scrivevano nel 1951 che il matrimonio "è un'unione fra un uomo e una donna tale che i bambini nati dalla donna vengano riconosciuti come prole legittima da entrambi i genitori". Per questa definizione il matrimonio ha dunque due caratteristiche: è un'unione fra un uomo e una donna e assicura la legittimità dei figli. Ma anche questa accezione del termine 'matrimonio' viene oggi considerata non sufficientemente ampia dagli antropologi. Vi sono infatti società nelle quali il matrimonio ha altre caratteristiche.
Fra i Nuer, ad esempio, se una donna è sterile e non può per questo trovare un partner di sesso maschile, ma al tempo stesso dispone di molte risorse economiche (cioè di bestiame), essa può sposare un'altra donna ed essere considerata il 'marito' di questa e il padre 'sociale' dei figli che questa avrà da altri uomini. Fra i Nayar, d'altra parte, le ragazze prendono marito con una cerimonia rituale durante la quale l'uomo intreccia una collana intorno al collo della moglie. Ma dopo di allora egli se ne va e non si fa più rivedere dalla moglie. Quest'ultima resta nella casa del proprio gruppo matrilineare e riceve altri uomini, che di solito arrivano la sera e ripartono il giorno dopo. Nessuno di loro ha il dovere di mantenere la donna e i figli che nascono. Questo compito spetta invece al lignaggio materno.Per questo molti studiosi usano il termine matrimonio in un'accezione molto più ampia, prescindendo dal fatto che assicuri la legittimità dei figli, e lo definiscono come una relazione fra due individui di sesso diverso, socialmente sancita al fine della procreazione e della socializzazione dei figli.
Le due coppie concettuali endogamia-esogamia e omogamia-eterogamia vengono usate spesso, nella letteratura sociologica e antropologica, come sinonimi. Ma esse hanno, a ben vedere, significati diversi. Si parla di endogamia per indicare le norme sociali che prescrivono la scelta del coniuge all'interno del gruppo, di esogamia per riferirsi invece alle norme che vietano di sposarsi con una persona dello stesso gruppo. Per omogamia si intende il matrimonio fra individui simili, per eterogamia quello fra individui dissimili. Naturalmente, l'endogamia favorisce l'omogamia, ma quest'ultima dipende anche da altri fattori e si ha anche quando mancano norme che impongano chi sposare e gli individui sono liberi di scegliere il partner che preferiscono. Tutti questi termini (endogamia-esogamia, omogamia-eterogamia) devono comunque essere sempre usati in riferimento a gruppi o a comunità ben definiti: un clan, un lignaggio, l'insieme dei parenti stretti, un gruppo religioso, una classe, una casta o un villaggio.
L'esogamia relativa ai parenti domina in molte zone dell'Africa a sud del Sahara, dove vi sono lignaggi a discendenza unilineare, che si trasmette cioè o attraverso gli uomini o attraverso le donne. Spesso, in questi casi, la proibizione del matrimonio fra parenti stretti si estende a tutti i membri del lignaggio. In questo modo si creano alleanze e legami fra i vari lignaggi e i gruppi di villaggi. 'Sono dei nemici, ci sposiamo con loro', dicono spesso i Luo del Kenya, parlando di una tribù limitrofa. E l'antropologo Tylor ha scritto nel secolo scorso: "Quante volte, nella storia dell'umanità, i popoli selvaggi si saranno visti chiaramente di fronte alla semplice alternativa tra prendere moglie dall'altro o venire ucciso dall'altro". Un esempio può servire a far capire quanto le regole esogamiche possano favorire le relazioni e le alleanze fra i diversi gruppi. Nel villaggio indiano di Rani Khera vi erano, negli anni cinquanta, 266 donne sposate che provenivano da villaggi lontani da 12 a 24 miglia. Altre 220 donne, quando si erano sposate, erano andate a stare in 200 diversi villaggi. In questo modo Rani Khera, con le sue 150 famiglie, aveva stabilito legami con altri 400 villaggi (v. Goode, 1963).
Nelle società occidentali un forte contributo all'affermazione di regole esogamiche è venuto in passato dal cristianesimo. Nell'antica Roma il matrimonio fra cugini di primo grado era legalmente consentito, anche se recenti ricerche hanno mostrato che in pratica esso non era molto frequente (v. Shaw e Saller, 1984). Dal 300 d.C. il cristianesimo si oppose a ogni tipo di matrimonio fra parenti. La tesi che ognuno dovesse cercare il coniuge al di fuori del gruppo dei propri parenti fu sostenuta assai presto da Agostino, che considerava il matrimonio un "seminario di carità", cioè un modo per sviluppare le relazioni di amicizia fra le famiglie. Questa idea ha trovato attuazione, nel corso dei secoli, nella cosiddetta 'teoria degli impedimenti', cioè degli ostacoli che si frappongono all'unione di due persone. Il diritto canonico ha previsto che non potessero sposarsi coloro che fossero parenti consanguinei (in certi momenti fino al settimo grado), parenti adottivi (genitori e figli adottivi, fratelli e sorelle per adozione), affini (cioè parenti del coniuge). Veniva inoltre vietato di unirsi alle persone legate da quel vincolo della parentela spirituale creato dal battesimo (o dalla cresima) fra il battezzato (o il cresimato) e i suoi padrini e madrine. Questo impedimento fu con il tempo esteso anche ai rapporti fra il padrino e la madre del figlioccio diventata vedova e a quelli fra la figlioccia e il figlio del suo padrino.
Due sono i casi più famosi di società nelle quali si pratica l'endogamia. Il primo è quello dei paesi arabi, nei quali le norme prescrivono di sposarsi con un parente prossimo, possibilmente con il figlio dello zio paterno. La regola del matrimonio fra cugini paralleli patrilineari è così coercitiva che il cugino può opporsi alla decisione della figlia dello zio paterno di sposare qualcun altro. La funzione di questa regola è probabilmente di evitare che una parte del patrimonio - l'eredità delle donne - esca fuori dal clan. I dati di cui disponiamo mostrano tuttavia che il matrimonio fra cugini paralleli patrilineari è oggi meno frequente di un tempo (v. tab. I). Il secondo caso è quello dell'India, dove le norme impongono di sposarsi con una persona della stessa casta o, più esattamente, dello stesso segmento di casta. Nell'India del Nord è ammessa anche l'ipergamia, cioè quel matrimonio in cui lo status della famiglia della sposa è (leggermente) inferiore a quello della famiglia dello sposo. Severamente condannata è invece l'unione di una donna con un uomo di rango inferiore (ipogamia).
Forme di endogamia di ceto si sono avute anche in Europa, nella società di antico regime. Anche se vi erano importanti differenze fra i vari Stati, ovunque ci si aspettava che i nobili si sposassero fra di loro. La mésaillance, cioè un matrimonio fra un aristocratico e una donna di condizioni sociali inferiori, veniva severamente condannata e poteva avere conseguenze assai gravi per la nuova coppia. E in effetti questo tipo di unione è stato assai raro dal XV secolo alla fine del XVIII. Così, ad esempio, nel Lancashire, all'inizio del Seicento, circa il 90% dei matrimoni di sposi provenienti dalla gentry furono contratti con spose dello stesso ceto. In Lombardia, nel corso del Settecento, tutti i nobili si sposavano con persone della nobiltà antica e del patriziato urbano.Sebbene oggi, nei paesi occidentali, non vi siano più norme sociali che impongono di sposarsi con persone del proprio ceto, vi è una certa omogamia sociale. Ricerche recenti hanno mostrato che negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali vi è una tendenza alla diminuzione dell'omogamia riguardo allo status ascritto e all'aumento di quella relativa agli status acquisiti. In altri termini, è in via di riduzione la quota degli sposi che vengono da famiglie della stessa classe sociale, mentre sta crescendo quella di coloro che hanno lo stesso livello di istruzione (v. Kalmijn, 1991).
Negli Stati Uniti si è avuta anche, per molto tempo, una forte endogamia razziale. La legislazione di molti Stati americani ha infatti a lungo vietato i matrimoni fra bianchi e neri. Dopo la seconda guerra mondiale queste leggi sono state abrogate in molti Stati. Nel 1966 leggi di questo tipo esistevano ancora in 19 Stati; ma l'anno dopo esse furono dichiarate incostituzionali dalla Corte Suprema. Da allora la quota della popolazione americana che approva i matrimoni fra bianchi e neri è aumentata considerevolmente, passando dal 20% nel 1968 al 48% (contro il 42% che non li approva) nel 1991 (v. Benokraitis, 1993, p. 200). Anche il numero di questi matrimoni è cresciuto negli ultimi venticinque anni, ma la quota delle donne nere che sposa un bianco è ancora molto piccola (v. tab. II).
Nelle società che conosciamo le cerimonie nuziali assumono forme molto diverse. In certi casi due persone vengono considerate sposate non quando vanno a stare insieme, ma al momento della nascita del primo figlio. In altri casi, invece, basta che due persone convivano perché si ritenga sancito il matrimonio.
Esistono società in cui ci si può sposare senza cerimonie e formalità. È quanto avveniva fra gli abitanti delle isole Trobriand, stando ai risultati della ricerca condotta, negli anni venti del nostro secolo, da Bronislaw Malinowski. In queste isole, quando due persone di sesso diverso iniziavano a farsi vedere insieme in pubblico voleva dire che intendevano unirsi in matrimonio. Per esprimere il suo consenso, il padre della ragazza offriva del cibo alla coppia. E bastava che i due giovani mangiassero insieme nella casa dell'uomo perché fossero considerati sposati.
In altre società, invece, il matrimonio è preceduto da molteplici atti scaglionati in un periodo di tempo più o meno lungo. Questi atti possono far parte di due diverse fasi: il corteggiamento e il fidanzamento. Il corteggiamento consiste in un assiduo susseguirsi di attenzioni, premure, complimenti, galanterie, lusinghe nei confronti di una persona dell'altro sesso, per suscitare il suo amore. Esso dunque è raro nelle società agricole dell'Europa o dell'Asia nelle quali i matrimoni sono combinati dai genitori degli sposi, che si servono di mediatori per trovare il partner più adatto e conveniente, per organizzare incontri, preparare contratti. A prendere l'iniziativa del corteggiamento è infatti uno dei due potenziali partners (in genere quello di sesso maschile).
Il fidanzamento può essere invece stipulato o dai promessi sposi oppure dai loro genitori. Sappiamo, ad esempio, che fra gli Aborigeni australiani, in India o in Cina, i genitori decidevano di fidanzare con qualcuno il figlio o la figlia quando questi avevano solo sei o sette anni o prima ancora che nascessero. D'altra parte, nella Roma antica, gli sponsalia (o fidanzamento) venivano conclusi molti anni prima del matrimonio da coloro che avevano la patria potestà sui minori. La stipulazione di questo fidanzamento veniva accompagnata da varie cerimonie, fra le quali quelle della consegna alla fidanzata di un anello da parte del fidanzato e del pagamento a lei di un pegno (una somma di denaro o degli oggetti di valore). Il fidanzato perdeva questo pegno se non manteneva la sua promessa di matrimonio, mentre lo riceveva indietro quadruplicato se la rottura era dovuta alla fidanzata.Ignorato nell'alto Medioevo, il fidanzamento fu riscoperto e introdotto nel diritto canonico nel XII e XIII secolo. Fu allora che i canonisti introdussero la fondamentale distinzione fra verba de futuro e verba de presenti, parole per il futuro e parole per il presente. Il contratto per verba de futuro costituiva una promessa, un impegno per l'avvenire, il vero fidanzamento. Questo rapporto si trasformava automaticamente in matrimonio (detto 'matrimonio presunto') se i due promessi sposi andavano ad abitare insieme e avevano rapporti sessuali. Ma, se questo non avveniva, il fidanzamento era revocabile e coloro che l'avevano stipulato erano liberi di sposarsi con un'altra persona. Il contratto per verba de presenti, con il quale i due fidanzati si scambiavano, di fronte a testimoni, formule come 'io prendo te in moglie' e 'io prendo te per marito', costituiva il matrimonio e non era dunque revocabile. Fino alla metà del XVI secolo era questa cerimonia, e non quella in chiesa, che creava l'obbligo legale vincolante.
Nella realtà, sia in Europa che in Asia, il matrimonio è sempre stato preceduto da un numero molto maggiore di atti, di formalità, di cerimonie e di feste nei ceti sociali più elevati come in quelli più bassi. A Firenze, ad esempio, nel corso del XV secolo (v. Klapisch-Zuber, 1988), negli strati più ricchi della popolazione, il processo iniziava con un primo incontro non pubblico (detto 'impalmamento' o 'abboccamento') fra i parenti dei due futuri sposi, preparato dai sensali, nel corso del quale venivano stabilite le condizioni dell'accordo matrimoniale. A distanza di pochi giorni aveva luogo un secondo incontro, solenne e pubblico, fra i membri maschili delle due famiglie, che serviva a definire ed enunciare, con l'aiuto di un notaio, le condizioni degli sponsalia. Un terzo incontro avveniva, il 'dì dell'anello', a casa della fanciulla, dove si recavano il fidanzato e i suoi parenti. Alla presenza di un notaio il promesso sposo infilava al dito della donna l'anello nuziale. Infine, a distanza talvolta di molti mesi dal 'dì dell'anello', aveva luogo la cerimonia nuziale, con festeggiamenti che si protraevano per alcuni giorni. Negli strati più bassi della popolazione, invece, il numero degli incontri era minore.
In tre quarti delle società conosciute dagli antropologi il matrimonio è preceduto o seguito da un trasferimento di beni che può assumere forme assai diverse. Le più importanti sono quattro. Vi è innanzitutto la 'ricchezza della sposa' (bride wealth). L'uomo che riceve una moglie dà in cambio dei beni al padre o ai parenti di questa. Tali beni non sono destinati alla formazione della nuova famiglia, ma vanno a beneficio della famiglia di origine della sposa. Quando gli Europei scoprirono per la prima volta questo uso in Africa lo chiamarono 'prezzo della sposa' (bride price) perché pensarono di trovarsi di fronte a una specie di acquisto della moglie da parte del marito che riduceva la donna in schiavitù. Questa interpretazione fu tuttavia criticata da Evans-Pritchard e da altri antropologi, che proposero appunto di usare l'espressione 'ricchezza della sposa'. Un tempo questa era costituita da capi di bestiame o da utensili di ferro. Oggi invece si ricorre sempre più di frequente a pagamenti in denaro. Il trasferimento di beni e di denaro avviene talvolta al momento del matrimonio, ma talvolta si verifica in più fasi, l'ultima delle quali è segnata dalla nascita del primo figlio. Spesso, se la sposa è sterile, il matrimonio finisce: la donna ritorna a casa dei genitori e questi ultimi restituiscono i beni o il denaro che hanno ricevuto.
Vi è in secondo luogo il cosiddetto 'servizio per la sposa' (bride service). Un uomo lavora per un certo tempo per la famiglia della sposa, talvolta prima del matrimonio, talvolta anche dopo. In questo caso, dunque, le figlie vengono usate "come esca" (v. Goody, 1973) dal padre o dai parenti per ottenere delle prestazioni di lavoro da chi vuole sposarle. In alcune società il servizio per la sposa dura solo pochi mesi; in altre, invece, può continuare per vari anni. Fra i !Kung San, ad esempio, lo sposo lavora per la famiglia della sposa per un periodo che va dai tre ai dieci anni.L'esempio più famoso di servizio per la sposa si trova nell'Antico Testamento. Isacco manda il figlio Giacobbe a prendere moglie dallo zio materno (il fratello della madre Rebecca), Labano. Giacobbe si innamora della seconda figlia di questi, Rachele, e per averla in moglie lavora gratuitamente per lo zio per sette anni. Ma alla fine di questo periodo Labano non mantiene la sua parola e gli dà in sposa la prima figlia, Lia. Così, per avere anche Rachele, Giacobbe deve lavorare per lo zio per altri sette anni (Genesi, 29).
Vi è in terzo luogo la dote: quell'insieme di beni e di denaro dato da una famiglia a una figlia che si sposa. La dote non rappresenta dunque uno scambio di beni fra i parenti dello sposo e quelli della sposa, ma un trasferimento di risorse economiche dai genitori alla figlia. Il valore economico della dote varia fortemente. Nelle famiglie aristocratiche europee del XVI, XVII e XVIII secolo il padre della sposa dava a questa una somma in contanti di notevole entità, che poteva anche superare l'equivalente di un anno di reddito della famiglia. Ma l'ammontare di questa somma dipendeva da molti fattori. Essa era naturalmente più elevata per le figlie uniche che per quelle che avevano delle sorelle. Inoltre, quanto più bassa era la posizione nella gerarchia sociale della famiglia della sposa rispetto a quella dello sposo, tanto maggiore era la dote.
Vi è infine la dote indiretta: quell'insieme di beni e di denaro dati dalla famiglia dello sposo alla sposa o per la sposa (v. Goody, 1973). I tipi di dote indiretta più diffusi sono due. Il primo (detto 'dono del mattino', Morgengabe) è costituito dal dono che il marito fa alla moglie il mattino dopo la consumazione del matrimonio (il matrimonio 'morganatico' è stato chiamato così proprio perché la moglie aveva diritto solo a questa forma di dote). Il secondo è rappresentato dai beni dati dai genitori dello sposo al padre della sposa, che se ne serve in parte per l'acquisto del corredo della figlia.
I dati raccolti dagli antropologi su quasi 900 società umane mostrano che la forma di trasferimento di beni più diffusa in occasione del matrimonio è la ricchezza della sposa (nel 45% dei casi), seguita dal servizio per la sposa (19% delle società), dalla dote indiretta (12%) e dalla dote (8%). L'uso della ricchezza della sposa è particolarmente diffuso nell'Africa a sud del Sahara e nelle società orticulturali o pastorali con un sistema di discendenza patrilineare, nelle quali domina la poligamia e si segue la regola di residenza patrilocale dopo le nozze. L'uso del servizio per la sposa è più spesso presente nelle popolazioni indigene precolombiane delle due Americhe, oltre che in alcune zone dell'Africa, in quelle società di caccia e raccolta nelle quali vi è un basso grado di diseguaglianza. La dote indiretta è usata più spesso nei paesi arabi. Il sistema della dote ha avuto invece grande diffusione in alcuni paesi dell'Asia e in Europa, dove si è sviluppato dall'XI al XIV secolo (v. Hughes, 1978) ed è rimasto in vita per molti secoli.
È da molto tempo che antropologi, sociologi, storici ed economisti si interrogano sulla diversa importanza che hanno assunto, nei vari tipi di società, queste quattro forme di trasferimento dei beni in occasione del matrimonio. Secondo Ester Boserup (v., 1970) il fatto che in alcune zone si usi la dote e in altre invece la ricchezza della sposa dipende dal diverso sistema di divisione del lavoro agricolo fra i due sessi, cioè dal diverso contributo dato dalle donne alla produzione agricola. Questa studiosa ha distinto fra due differenti modelli di agricoltura di sussistenza. Il primo - l'agricoltura della zappa - è tipico di alcune regioni africane a bassa densità di popolazione, nelle quali si pratica la cultura itinerante e la maggior parte del lavoro agricolo (semina, sarchiatura, seminagione, raccolto) è svolta dalle donne. In queste società è diffusa la poligamia, le donne godono di una certa indipendenza economica e di una notevole libertà di movimento e l'uomo che prende una donna in sposa dà ai suoi genitori del denaro e dei beni. In questo caso una moglie costituisce non un peso, ma una risorsa economica. Il secondo - l'agricoltura dell'aratro - è proprio di zone ad alta densità di popolazione in Asia e nei paesi arabi, nelle quali la terra è proprietà privata e il lavoro agricolo viene svolto di solito dagli uomini. In queste società domina la monogamia, le donne sono segregate in casa, dipendono completamente dal marito dal punto di vista economico e, quando si sposano, ricevono dai genitori una dote, che ha la funzione di garantire in futuro il mantenimento loro e dei figli.
Goody (v., 1973) ha contrapposto l'Africa non solo all'Asia ma anche all'Europa, e ha ricondotto l'uso della dote e della ricchezza della sposa al diverso modello di discendenza e di trasmissione dell'eredità e all'esistenza o meno di un sistema complesso di stratificazione sociale. Là dove, come in Eurasia, vi è un sistema di discendenza bilaterale, si usa la dote, che è una forma di "devoluzione divergente", un sistema con cui una parte della proprietà familiare viene data alle figlie al momento del loro matrimonio. Là dove, invece, vi è un sistema di discendenza unilineare (di eredità 'omogenea'), come avviene in Africa, la proprietà trasmessa al momento del matrimonio assume la forma di ricchezza della sposa, che passa dai parenti maschi dello sposo ai parenti maschi della sposa. Inoltre, nelle società in cui vi è l'agricoltura dell'aratro (in Eurasia), si ha una maggiore produttività che favorisce il formarsi di diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza. In questa situazione le famiglie che appartengono a un ceto più elevato cercano con la dote di far sì che le figlie restino in questo ceto o migliorino la loro posizione sociale (con l'ipergamia). Là dove invece, come avviene in Africa, non vi sono forti diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, la dote non esiste.
L'idea di Goody che la dote costituisca una forma di eredità ante mortem è stata criticata da molti studiosi (v. Klapisch-Zuber, 1988). Alcuni hanno interpretato la dote come una tattica riproduttiva usata dalla sposa potenziale e dai suoi parenti per attirare lo sposo più ricco (v. Gaulin e Boster, 1990).
In un importante saggio Hajnal (v., 1965) ha sostenuto che, all'inizio del nostro secolo, i paesi dell'Europa occidentale avevano un modello di matrimonio (che egli chiama appunto 'europeo') "unico al mondo", che presentava due caratteristiche. In primo luogo le persone di entrambi i sessi si sposavano a un'età avanzata: gli uomini a 26-27 anni o più, le donne a 23-24 anni. In secondo luogo, una quota abbastanza alta della popolazione (dal 10 al 15%) non si sposava mai. Hajnal ha sostenuto che questo modello di matrimonio era una caratteristica di molti paesi d'Europa anche nel XVII secolo e ha avanzato l'ipotesi che esso sia emerso verso il XVI secolo, nel periodo in cui in questi paesi si è avuto un innalzamento dell'età al matrimonio. In tutti gli altri paesi, invece, vi è sempre stato un modello 'non europeo', caratterizzato dal matrimonio precoce e quasi universale di tutta la popolazione.Le numerose ricerche condotte dopo la pubblicazione di questo saggio hanno arricchito le nostre conoscenze in materia. Oggi sappiamo che nell'antica Roma gli uomini si sposavano in media intorno ai trent'anni e le donne verso i venti; che in Inghilterra il modello europeo di matrimonio esisteva già nel XIII secolo; che esso invece non era ancora nato in alcune zone della Francia del XIV e del XV secolo e nella Toscana fiorentina del XV secolo. Nel villaggio di Montaillou, all'inizio del Trecento, le donne si sposavano a 17-18 anni. Nella valle del Rodano, nel XV secolo, l'età alle prime nozze delle donne era di 20-21 anni, quella degli uomini andava da 25 a 28. A Tolosa, nel XIV e XV secolo, le donne si sposavano a 16-17 anni, gli uomini fra 25 e 28. In Toscana l'età alle prime nozze degli uomini era più elevata fra gli abitanti delle città (30-31 anni) che fra quelli delle campagne (25 anni). Le donne invece si sposavano molto precocemente (dai 15 ai 20 anni) non solo nel contado, ma anche in città (v. Herlihy e Klapisch-Zuber, 1978). Sappiamo inoltre che, per molto tempo dopo il XVI secolo, le donne continuarono a sposarsi assai presto in molte zone della Spagna e dell'Italia meridionale. In Puglia, ad esempio, nel XVI e nel XVII secolo, l'età media al matrimonio delle donne era al di sotto dei 20 anni e in alcune zone non superava i 15-16 anni.
Nel corso del tempo, in diversi paesi, l'età al matrimonio ha subito varie oscillazioni. Essa si abbassava dopo le grandi epidemie, quando il tasso di mortalità aumentava bruscamente, perché la popolazione reagiva e cercava di recuperare le perdite, mentre tendeva a rialzarsi con il ritorno alla normalità. Queste reazioni della popolazione alle crisi di mortalità non erano solo spontanee, ma venivano anche incoraggiate dai governi cittadini. L'età al matrimonio risentiva inoltre, in certi paesi, dell'andamento dell'economia e dei salari reali. Ad esempio, in Inghilterra, dalla metà del XVI alla metà del XIX secolo, l'età alle prime nozze delle donne è variata da un minimo di 23 a un massimo di 26,5 anni, mentre la quota dei mai sposati è andata da un minimo del 5,8% a un massimo del 16-20%. Queste variazioni sono spiegabili con il diverso andamento dell'economia: il miglioramento della situazione economica faceva aumentare il tasso di nuzialità e diminuire l'età alle prime nozze, il peggioramento aveva l'effetto opposto (v. Wrigley e Schofield, 1981).
Importanti mutamenti sono avvenuti nell'ultimo mezzo secolo. Nei paesi occidentali, dopo la fine della seconda guerra mondiale, l'età al matrimonio è diminuita fortemente, fino all'inizio degli anni settanta. Ma da allora a oggi è di nuovo aumentata. La diminuzione della nuzialità nell'ultimo ventennio è stata così forte che si pensa che, in alcuni paesi occidentali, per le generazioni dei nati dopo il 1955 si avranno tassi di celibato e di nubilato definitivi fra il 20% e il 30%. Negli ultimi decenni si è avuto un continuo innalzamento dell'età al matrimonio anche in molti paesi asiatici. Permangono tuttavia delle differenze, anche sotto questo aspetto, fra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo (v. tab. III).
È un errore pensare che le unioni libere (o famiglie di fatto o convivenze more uxorio, come vengono anche chiamate) siano un fenomeno recente dei paesi occidentali. In realtà esse sono esistite in Europa anche in altri periodi storici ed esistono da molto tempo in altri continenti.
Come si è detto, fino alla metà del XVI secolo perché un matrimonio fosse valido non era necessaria una celebrazione religiosa pubblica: bastava il consenso degli sposi, espresso pronunciando, davanti a testimoni, 'verba de presenti'. La Riforma protestante stabilì che vi fosse nel tempio una cerimonia religiosa presieduta dal pastore e che essa fosse preceduta da un annuncio fatto durante un servizio religioso. (Ma la Chiesa anglicana aderì a questa regola solo nel 1753, con il Lord Hardwick's act, richiedendo la partecipazione al matrimonio di un ecclesiastico). Il Concilio di Trento, con il cosiddetto 'decreto Tametsi', stabilì che la celebrazione del matrimonio avvenisse in facie ecclesiae e fosse officiata dal parroco, in presenza di due o tre testimoni.
Le ricerche storiche hanno messo però in luce che in molti paesi una parte della popolazione continuò a lungo a seguire le regole della vecchia tradizione, ad andare cioè a convivere more uxorio con una persona dell'altro sesso, senza la celebrazione in chiesa del matrimonio. Questo si verificò in Francia, in Italia e in Inghilterra (v. Flandrin, 1976; v. Marongiu, 1981; v. Gillis, 1985). In quest'ultimo paese la quota delle persone che seguì questa strada aumentò costantemente dalla metà del XVIII secolo fino ai primi decenni del XIX (v. Gillis, 1985, pp. 110-111). Ma sia in Francia che in Italia e in Inghilterra le unioni more uxorio furono più frequenti in campagna che in città, fra gli strati più poveri che fra quelli più agiati della popolazione. Nel corso del XIX secolo queste unioni hanno avuto un certo rilievo anche in Islanda, in Norvegia e in Svezia (v. Trost, 1978). In quest'ultimo paese, all'inizio del nostro secolo, vi erano due tipi di unioni: il 'matrimonio di coscienza', fra gli intellettuali che si battevano per il riconoscimento del rito civile, e il 'matrimonio di Stoccolma', fra gli strati più poveri della popolazione che per il momento non potevano concedersi di più (v. Trost, 1978; v. Matavic, 1986).
Fuori d'Europa, nei paesi che si affacciano sul Mar Caraibico, le unioni more uxorio hanno avuto nel passato, e hanno anche oggi, una notevole importanza. Come si può vedere dalla tab. IV, in molti di questi paesi vi è un'alta quota di donne che vivono in una famiglia di fatto. Ma è ad Haiti e nella Repubblica Dominicana, a Panama, El Salvador e in Giamaica che questo fenomeno è più esteso. I paesi, invece, nei quali le famiglie di fatto sono meno frequenti sono Guadalupa e Portorico (oltre a quelli, ben più vasti e popolati, dell'America del Sud: il Cile, l'Argentina e il Brasile). In tutti questi paesi vi sono due tipi di unioni di fatto: quelle consensuali (chiamate common law unions, nei paesi anglofoni), caratterizzate dalla convivenza continua dei due partners, e quelle dette visiting (o amie, nella Martinica e nella Guadalupa), nelle quali invece la convivenza è saltuaria e l'uomo contribuisce poco o nulla al mantenimento economico della donna. Vi sono tuttavia molte altre variazioni nei diversi paesi. Ad Haiti, ad esempio, vi sono tre diversi tipi di unioni visiting. Nel primo (chiamato vivavek) l'uomo non dà alcun contributo al mantenimento della donna e convive con lei solo saltuariamente. Il secondo (detto rinmin) è identico al primo riguardo alla convivenza, ma è diverso sia perché la donna viene in parte mantenuta dall'uomo, sia perché con il passar del tempo si trasforma in un'unione consensuale. Il terzo tipo (chiamato fiancée) è molto simile al secondo, ma in genere porta al matrimonio.
Della grande importanza assunta in questi paesi dalle unioni di fatto sono state fornite due spiegazioni (v. Charbit, 1987; v. CEPAL, 1992). Secondo alcuni essa sarebbe riconducibile al passato schiavista di questi paesi. Permettendo lo sfruttamento delle donne schiave, impedendo loro di formarsi una famiglia e ai loro uomini di affermare la propria autorità di mariti e di padri, lo schiavismo avrebbe spinto questi ultimi verso l'irresponsabilità e l'assenteismo nei confronti della moglie e dei figli. Secondo altri, invece, la diffusione delle unioni di fatto sarebbe dovuta alla precarietà economica in cui vive la popolazione di questi paesi. Diffuse soprattutto fra gli strati più disagiati della popolazione, le unioni di fatto nascerebbero non da una libera scelta, ma dall'impossibilità delle coppie di questi strati di unirsi in matrimonio.Per quanto riguarda i paesi occidentali, la recente diffusione delle convivenze more uxorio è iniziata alla metà degli anni sessanta nei paesi dell'Europa del Nord ed è stata rapidissima. Basti pensare che oggi in Svezia più del 90% delle persone che si uniscono in matrimonio hanno convissuto prima more uxorio, sotto lo stesso tetto, anche per molti anni. Anche se non con lo stesso ritmo, le famiglie di fatto si sono moltiplicate in Gran Bretagna, in Francia e in Germania, in Austria e in Olanda. Più della metà delle persone che si sono sposate in questi paesi, negli anni ottanta, avevano convissuto more uxorio per un certo periodo di tempo. Lo sviluppo di queste unioni è stato invece più lento nei paesi dell'Europa del Sud, in Italia, in Spagna e in Portogallo.
L'uso di convivere more uxorio è iniziato negli strati più secolarizzati della popolazione delle grandi città dell'Europa e degli Stati Uniti: a Stoccolma, a Copenhagen e ad Amsterdam, a Londra e a New York. Si pensi che delle persone che si sono sposate a Parigi negli anni ottanta ben il 75% avevano convissuto more uxorio per un po' di tempo. Quest'uso però si è esteso in poco tempo anche alle città minori e ai piccoli centri di provincia e anche a una parte rilevante della popolazione cattolica. In Francia, ad esempio, nel corso degli anni ottanta, la quota dei praticanti che avevano convissuto per un po' di tempo more uxorio è passata dal 10% al 50%.I ceti sociali alla testa del cambiamento, che per primi hanno iniziato a preferire la convivenza al matrimonio, non sono stati gli stessi in tutti i paesi. In Francia a vivere nelle famiglie di fatto hanno cominciato i professionisti, gli intellettuali, gli studenti. In Gran Bretagna, in Austria, in Svizzera e in Australia, quest'uso ha avuto inizio quasi nello stesso momento in tutti i ceti sociali. In Svezia il cambiamento è partito fra le coppie della classe operaia, che per prime hanno proposto un nuovo modello di famiglia non basato sul matrimonio, che è stato ripreso e seguito da tutte le altre classi sociali.
Il matrimonio termina di solito o con la morte di un coniuge o con il divorzio. Tuttavia, nei paesi o nei periodi storici nei quali il divorzio non era permesso, vi sono sempre state forme extralegali di rottura di fatto del vincolo coniugale. Una delle più diffuse era l'abbandono. Il marito (o, molto più raramente, la moglie) se ne andava di casa lasciando definitivamente il coniuge e i figli. Un secondo tipo di scioglimento extralegale del matrimonio era la vendita della moglie. Un uomo portava nella piazza del mercato del paese la moglie e qui, alla presenza di un gruppo di persone, la cedeva a un altro uomo in cambio di denaro. Questo atto di compravendita creava una nuova unione nel momento stesso in cui poneva termine alla vecchia, e dunque serviva contemporaneamente da divorzio e da seconde nozze.
La quota dei matrimoni che terminano con un divorzio è fortemente aumentata nei paesi occidentali negli ultimi decenni, soprattutto dopo il 1965. I paesi alla testa di questo cambiamento sono stati la Svezia, la Danimarca, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, nei quali circa il 40% dei matrimoni finisce con una sentenza del tribunale. Vi è un secondo gruppo di paesi, come il Belgio, l'Olanda, la Francia e la Germania, nei quali invece i matrimoni che terminano con un divorzio vanno dal 25% al 30%. A notevole distanza da questi due gruppi ve ne è un terzo, formato dall'Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia, dove l'instabilità coniugale è minore.
A causa di questo mutamento e dell'allungamento della durata della vita, che ha avuto luogo nello stesso periodo, negli Stati Uniti, alla metà degli anni settanta, i matrimoni terminati con un divorzio hanno superato quelli sciolti per la morte di un coniuge. Questo non ci autorizza tuttavia a pensare che nelle società del passato fosse pressoché solo la morte a rompere il vincolo coniugale e che oggi sia quasi esclusivamente il divorzio. Nella Roma antica, ad esempio, nell'età augustea, un matrimonio "concluso dalla morte, non spezzato dal divorzio" era considerato assai raro (v. Garnsey e Saller, 1987). Anche nei paesi musulmani il numero dei divorzi è sempre stato piuttosto elevato. Secondo l'islamismo un marito può rompere il matrimonio quando vuole, senza bisogno di dare una spiegazione. Basta che pronunci le parole 'io divorzio da te'. Analogamente, nell'Africa subsahariana, dove dominava (ed è ancora oggi molto frequente) la poligamia, il divorzio poneva termine a un gran numero di matrimoni. Non disponiamo purtroppo di dati precisi sul passato, ma quelli sul presente mostrano che la morte del coniuge e il divorzio hanno circa la stessa importanza nel porre fine al matrimonio (v. Kaufmann e altri, 1988, pp. 222-224). Invece, in Europa, in Cina e in India, a porre termine al matrimonio è stata, per molti secoli, non il divorzio, ma la morte del coniuge.
Per molto tempo fra i paesi africani e quelli euroasiatici vi sono state grandi differenze anche riguardo alle seconde nozze. Nei primi la quota delle persone vedove che si risposano è sempre stata assai elevata. Nei paesi arabi vi era un tempo (e vi è in parte ancora) la norma del levirato, che prevede che una donna rimasta vedova sposi il fratello del marito defunto. Nei paesi dell'Africa a sud del Sahara, dove è diffusa la poligamia, quasi tutte le vedove si risposano (spesso con un uomo che ha già una moglie) e lo fanno dopo pochi mesi dalla fine del primo matrimonio.In Europa e in Asia l'atteggiamento verso un nuovo matrimonio è stato a lungo assai meno favorevole. Come scriveva più di un secolo fa Alberto Del Vecchio, "le seconde nozze, e segnatamente quelle della vedova, sono sempre state invise ai popoli della grande famiglia indoeuropea. Per quanto lontano si voglia spingere lo sguardo nei ricordi storici, noi troviamo che la vedovanza è sempre stata preferita al secondo matrimonio, e che un profondo sentimento di avversione ha dominato presso i popoli primitivi pel coniuge che non conserva intatta la memoria del defunto compagno della sua vita" (v. Del Vecchio, 1885, p. XI). In India vi è stato un periodo in cui la moglie superstite era spinta a suicidarsi sul rogo del marito per dare prova di fedeltà coniugale. Ma in generale, sia in India che in Cina, le seconde nozze sono state a lungo proibite negli strati sociali più alti, mentre erano talvolta tollerate in quelli più bassi (v. Goody, 1990). Nell'antica Roma invece le seconde nozze erano consentite, anche se le vedove dovevano attendere dieci mesi prima di poter contrarre una nuova unione. Il cristianesimo, pur non vietando espressamente le seconde nozze, le ha viste per molto tempo con sfavore, rifiutando di accompagnarle con una benedizione nuziale. E questo atteggiamento sfavorevole è stato a lungo condiviso dalle popolazioni di molti paesi europei, come risulta dalla diffusione che ha avuto nel passato il rito del charivari (o della 'scampanata'), cioè di quelle rumorose manifestazioni di opposizione e di dileggio inscenate da gruppi di giovani in occasione delle nozze dei vedovi e delle vedove.
Nonostante tutto questo, nell'Europa dell'ancien régime le persone vedove che si risposavano non erano poche. Si è ad esempio calcolato che, nell'Inghilterra del XVI secolo, il 25-30% dei matrimoni era costituito da seconde nozze. Ma la quota delle persone vedove che si risposavano variava molto a seconda della zona geografica, della classe sociale, del sesso e dell'età. Tale quota era maggiore nel Nord che nel Sud dell'Europa. E, ovunque, passavano più spesso a seconde nozze gli uomini delle donne, le persone delle classi più basse che quelle delle classi più alte, i giovani dei vecchi. A Firenze, ad esempio, nel XV secolo si risposavano i due terzi delle donne che avevano perduto il marito prima di aver compiuto 20 anni, un terzo di quelle che avevano da 20 a 29 anni, ma solo l'11% di quelle fra i 30 e i 39 anni (v. Klapisch-Zuber, 1988, p. 289).
In tutti i paesi occidentali, nella seconda metà dell'Ottocento e nella prima del Novecento, la quota delle seconde nozze sul totale dei matrimoni è costantemente diminuita. Ma nell'ultimo trentennio, in seguito al forte aumento del numero dei divorzi, l'incidenza delle seconde nozze è cresciuta di nuovo rapidamente. Le seconde nozze costituiscono ormai quasi un terzo dei matrimoni in Canada e in Germania, più di un terzo in Danimarca, in Svezia, in Inghilterra e nel Galles, e addirittura quasi la metà negli Stati Uniti. A differenza di quanto avveniva nel passato, oggi in molti di questi paesi le donne si risposano quasi nella stessa misura degli uomini. D'altra parte, in molti di questi paesi, soprattutto nel corso degli anni ottanta del nostro secolo, la quota delle persone divorziate passate a seconde nozze è diminuita, passando dal 65% al 40% (v. Goode, 1993, p. 118), mentre è aumentata quella di coloro che vanno a vivere more uxorio con un nuovo partner per il resto della loro vita. (V. anche Divorzio; Famiglia; Incesto; Parentela; Sessualità).
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