DNA antico
Nel DNA sono scritti i caratteri biologici di un organismo, che ne condizioneranno lo sviluppo embrionale e la capacità di crescere, adattarsi all'ambiente in cui si troverà a vivere e riprodursi. Non solo, il DNA conserva anche la testimonianza della storia naturale dell'organismo stesso. Attraverso il DNA, infatti, possiamo analizzare la struttura delle popolazioni umane o determinare la distanza evolutiva tra uomo e scimmie antropoidi. La possibilità di recuperare materiale genetico direttamente dai resti dei nostri progenitori e di studiarlo utilizzando i metodi dell'ingegneria genetica amplia le già vaste prospettive della ricerca molecolare. Il presupposto, naturalmente, è che il DNA si conservi attraverso i secoli e i millenni nelle ossa o nei tessuti molli mummificati.
La prima dimostrazione convincente che un tale tipo di studio fosse realizzabile fu fornita nel 1984 da una équipe americana diretta da Russell Higuchi. I ricercatori riuscirono a isolare una piccola quantità di DNA da un frammento di muscolo essiccato di quagga, un equide simile alla zebra. L'ultimo esemplare di quagga conosciuto era morto in cattività nell'Ottocento; fortunatamente i resti mummificati dell'animale erano stati conservati in un museo. Higuchi e i suoi colleghi non si limitarono a osservare la presenza di DNA, peraltro fortemente degradato, nel tessuto cellulare, ma ne replicarono alcuni frammenti nel batterio Escherichia coli e giunsero infine a isolare una porzione di DNA presente negli organuli cellulari chiamati 'mitocondri' (DNA mitocondriale). Esaminatane la sequenza nucleotidica, si osservò che non differiva da quella di una zebra attuale.
L'anno successivo fu la volta della prima mummia umana. Studiando i tessuti molli essiccati di alcune decine di mummie egizie, lo svedese Svante Pääbo trovò, infine, che quelli di un infante di 2400 anni fa contenevano ancora una certa quantità di materiale genetico. Anche in questo caso fu possibile purificare il DNA e quindi riprodurlo mediante clonazione in E. coli. Può essere interessante sottolineare che questo lavoro, che forse ancora più del precedente attirò l'attenzione del pubblico, contenesse già tutte le contraddizioni e le ambiguità che caratterizzeranno, negli anni successivi, lo sviluppo di questo nuovo settore della ricerca scientifica. Attualmente, infatti, sulla base della conoscenza che abbiamo dei processi di decadimento del DNA e su quella di numerose osservazioni empiriche su materiali archeologici, vi sono fondati motivi per ritenere che quello che Pääbo isolò nel 1985 non fosse il DNA originale della mummia bensì un contaminante moderno.
I ricercatori che nella metà degli anni Ottanta tentavano di isolare e replicare DNA conservato in materiali archeologici, fossero essi di origine umana, animale o vegetale, incontravano notevoli difficoltà operando con le tecniche dell'ingegneria genetica allora disponibili, in quanto il DNA risultava degradato, cioè ridotto a minuscoli frammenti e presente solo in minime tracce. Un paragone cui si è fatto spesso ricorso in passato è quello tra il DNA e un nastro magnetico. Se avessimo la possibilità di leggere o ascoltare nella sua interezza il nastro, questo ci rivelerebbe una quantità straordinaria di informazioni sulla cellula, nel cui nucleo è contenuto il DNA stesso, e sull'organismo di cui la cellula fa parte. Nel caso del DNA 'fossile', o più correttamente 'antico', è come se un nastro lungo una trentina di chilometri venisse ridotto a frammenti di 10÷20 cm. Inoltre, molti dei frammenti sarebbero in parte smagnetizzati. Si può fare il parallelo anche con un libro antico composto di migliaia di pagine, che giunge a noi ridotto in brandelli e con gran parte dei caratteri cancellati.
Il DNA è soggetto a danni di varia natura dovuti fondamentalmente a due fenomeni: idrolisi e ossidazione. Nella cellula vivente una serie di processi enzimatici interviene a riparare il DNA danneggiato. I processi di riparo si interrompono, però, alla morte della cellula. Da questo momento, pertanto, il DNA inizia ad accumulare lesioni di vario tipo che divengono sempre più numerose con il passare del tempo. Il tipo di danno più evidente è la frammentazione della doppia elica. Tra le quattro basi azotate (Adenina, Guanina, Timina e Citosina) che troviamo nella doppia elica del DNA, le prime due in particolare (basi puriniche) tendono a distaccarsi per idrolisi del legame base-zucchero (legame N-glicosidico). Questa reazione è influenzata dalla temperatura e dal pH del mezzo. In corrispondenza del sito privo di base si verifica una reazione di distacco (β-eliminazione) del deossiribosio, con il risultato di produrre un'interruzione del filamento. Allorché queste interruzioni si accumulano e diventano corrispondenti sui due filamenti, la doppia elica si spezza. L'idrolisi è anche responsabile della perdita dei gruppi amminici di Adenina, Guanina e Citosina. In aggiunta all'idrolisi, le basi possono andare incontro a modificazioni di tipo ossidativo, sia per effetto diretto dell'interazione con radiazioni ionizzanti, sia indirettamente attraverso l'azione di radicali liberi (O2, H2O2, OH) prodotti dalle radiazioni ionizzanti con l'acqua. I radicali liberi attaccano i doppi legami coniugati.
Nel DNA antico è stata messa in evidenza anche la presenza di legami crociati tra DNA e proteine e tra filamento e filamento di una stessa elica. Il legame tra temperatura e decadimento chimico spontaneo è descritto dall'equazione di Arrhenius:
k=A exp(−Ea/RT)
dove k è la costante o coefficiente di velocità di reazione, A un fattore che dipende dalla reazione stessa, Ea l'energia di attivazione, R la costante dei gas (8,31 KJ mol−1 a 1 atm) e T la temperatura in gradi Kelvin. Secondo questa formula, a ogni diminuzione della temperatura corrisponde una riduzione esponenziale della velocità di reazione. I calcoli circa l'effetto della depurinazione sulla degradazione del DNA indicano che un cromosoma batterico composto da 3×106 coppie di basi (bp) si frammenterà in pezzi della lunghezza di circa 100 bp in 'soli' 500 anni alla temperatura di 15 °C. La stesso processo richiederà invece ben 81.000 anni se la temperatura sarà di −10 °C. Le stime teoriche risultano in discreto accordo con le osservazioni empiriche. Per esempio, si è potuto dimostrare, analizzando il DNA vegetale residuo in frammenti di papiro, che la doppia elica, nel caldo ambiente egiziano, si degrada con un tempo di dimezzamento di circa 21-22 anni. A una simile emivita corrisponde una sopravvivenza massima del DNA non superiore a 500-600 anni. Se trasferiamo questi risultati ai resti umani antichi, ci rendiamo facilmente conto che le probabilità di riuscire a isolare il DNA originale da mummie egizie di epoca dinastica sono praticamente pari a zero. L'età di questi reperti, infatti, non è mai inferiore a 2000 anni e può anche superare i 4000.
Nel corso degli anni sono comparsi, nella letteratura scientifica, lavori che descrivevano l'isolamento di DNA da materiali di età estremamente rilevante (10-100 milioni di anni). Famoso è rimasto il caso delle foglie di magnolia mioceniche come pure quello degli insetti nell'ambra, per non parlare dell'osso di dinosauro e, più recentemente, dei batteri conservati nei cristalli di sale. Questi risultati hanno suscitato un grandissimo clamore sulla stampa internazionale e hanno alimentato le speculazioni più estreme sulle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Tuttavia, sebbene questi strabilianti risultati siano stati accolti su riviste internazionali anche di grande prestigio, non hanno convinto la comunità scientifica e questo per una serie di motivi: in alcuni casi non si è riusciti a riprodurre i medesimi risultati in laboratori diversi; in altri casi è apparso evidente che gli autori erano incorsi in errori interpretativi di vario tipo. Per esempio, è stato possibile dimostrare che un frammento di gene mitocondriale, che codifica per il citocromo b, estratto da un osso di dinosauro e attribuito in un primo tempo al dinosauro stesso, proveniva, in realtà, dal nucleo di una cellula umana moderna. La sequenza nucleotidica del citocromo era stata inizialmente identificata come 'sequenza di dinosauro' sulla base di un'analisi filogenetica poco accurata.
Per quanto riguarda gli insetti inglobati nell'ambra si è visto che, nonostante il loro splendido stato di conservazione, non contengono più traccia del DNA originario; un dato, questo, avvalorato dall'osservazione che anche molecole chimicamente più stabili del DNA, quali lignine e chitine, non si conservano in materiali così antichi. I risultati di esperimenti che descrivono l'isolamento di DNA di insetto da nuclei di ambra sono ‒ con tutta probabilità ‒ spiegabili con la contaminazione dei campioni e dei reagenti avvenuta in laboratori dove veniva manipolato anche il DNA di insetti moderni. Resta infine il caso dei batteri 'fossili'. Per questi ultimi, l'analisi filogenetica accurata delle sequenze del loro DNA ha dimostrato che esse risultano indistinguibili da quelle dei microrganismi recenti, avvalorando così il sospetto di un risultato dovuto a contaminazioni.
Il tema più controverso nelle ricerche sul DNA antico è quello del DNA umano. È ormai assodato che alcune delle prime pubblicazioni sull'isolamento di DNA residuo da resti umani provenienti da contesti archeologici non sono attendibili. Diversi studi metodologici hanno dimostrato che, nonostante la messa in opera di svariate precauzioni, risulta molto difficile evitare che la PCR amplifichi DNA umano recente. Si è visto che, contrariamente a quanto si credeva fino a poco tempo fa, le ossa e i denti non possono essere decontaminati anche se sottoposti a prolungati trattamenti con raggi UV e ipoclorito. Osso compatto e denti non sono infatti impermeabili al DNA, ma questo vi può penetrare attraverso una serie di pori naturali. Sudorazione, desquamazione epidermica e respirazione sono altrettante fonti di inquinamento. Esperimenti condotti con rigore hanno mostrato che, frequentemente, i reperti paleoantropologici contengono DNA appartenenti a più individui. Un risultato significativo in questo senso è quello ottenuto in un laboratorio della Smithsonian Institution. L'esame di cinque scheletri umani ben conservati, datati tra l'800 e il 1600 d.C., ha mostrato che il livello di contaminazione nei campioni variava tra lo 0 e il 100%. Attualmente si tende a considerare 'autentico' il DNA umano la cui sequenza differisca in maniera significativa da quello delle popolazioni attuali o, almeno, presenti caratteri distintivi di un determinato gruppo etnico. Il caso più noto è rappresentato dal recupero di DNA di uomo di Neanderthal. Altri tipi di DNA umano distinguibili su base etnica sono quelli dei nativi americani e degli abitanti delle Isole Andamane.
Gli organuli cellulari chiamati 'mitocondri' possiedono un proprio patrimonio genetico, parzialmente autonomo rispetto a quello racchiuso nel nucleo. Tale patrimonio genetico è costituito da molecole circolari di DNA a doppia elica. Ogni molecola ha un contorno di circa 16.500 coppie di basi. La trasmissione del DNA nucleare e di quello mitocondriale dai genitori ai figli segue un meccanismo diverso. Nel caso del DNA nucleare ogni figlio riceve un uguale contributo da ciascun genitore; il DNA mitocondriale, al contrario, proviene esclusivamente dalla madre (eredità materna). Il fatto che il DNA mitocondriale si trasmetta per via materna implica che non andrà incontro a segregazione né a ricombinazione. Di fatto il DNA mitocondriale si trasmette inalterato attraverso le generazioni; cambiamenti possono intervenire solo attraverso mutazioni. Due individui che abbiano in comune un'antenata presenteranno DNA mitocondriali tanto più divergenti quanto maggiore sarà il tempo che li separa dall'ava. A questo proposito è importante sottolineare la caratteristica peculiare del DNA mitocondriale, di evolvere rapidamente, in media 10-20 volte più velocemente della controparte nucleare. Di fatto, come è stato ripetutamente sottolineato, il DNA mitocondriale si comporta come un orologio molecolare che batte un ticchettio molto veloce; risulta pertanto particolarmente adatto a studiare la storia delle popolazioni umane che si è compiuta nell'arco di pochi milioni di anni.
L'analisi del DNA mitocondriale in campo paleoantropologico offre molteplici prospettive; prima fra tutte la possibilità di verificare se un individuo vissuto nell'antichità rientri o meno nell'ambito della variabilità genetica delle popolazioni moderne che vivono sullo stesso territorio. L'esempio più famoso è offerto dagli studi sul DNA mitocondriale di uomo di Neanderthal (Homo sapiens neanderthalensis). Si tratta di un tipo umano diffuso in Europa nel primo e secondo stadio della glaciazione del Würm (80.000-40.000 anni fa) ed estintosi circa 30.000 anni fa. Il nome deriva da quello di una valle, Neanderthal, presso Düsseldorf dove, nel 1856, fu rinvenuta una calotta con caratteristiche notevolmente arcaiche e vari elementi dello scheletro di un individuo adulto. Oggetto di grande dibattito tra gli antropologi sono stati, e sono tuttora, i rapporti evolutivi tra uomo di Neanderthal e uomo anatomicamente moderno (H. sapiens sapiens). Quest'ultimo, comparso verosimilmente in Africa circa 200.000 anni fa, si diffuse successivamente nel resto del mondo a partire da 100.000 anni fa. In Europa, in particolare, giunse attorno a 30.000 anni fa sostituendovi i preesistenti neandertaliani. Sulla base di resti ossei e manufatti, alcuni antropologi hanno ritenuto che vi fosse una sostanziale continuità genetica tra neandertaliani e sapiens. La maggior parte degli specialisti ritiene però che i neandertaliani siano scomparsi senza trasmettere in maniera significativa il loro patrimonio genetico alle popolazioni moderne.
Nel 1991 il Rheinisches Landesmuseum di Bonn ha avviato uno studio interdisciplinare dello scheletro ritrovato nel 1856 presso Düsseldorf. Il progetto prevedeva anche l'analisi del DNA. Dall'omero destro venne prelevata una sezione di 3,5 g, che fu poi utilizzata per tutte le analisi successive. Queste comprendevano l'analisi della racemizzazione dell'acido aspartico (D/L Asp), un test geochimico che fornisce un'indicazione preliminare sulla sopravvivenza o meno delle macromolecole biologiche, l'estrazione del DNA e l'amplificazione di una regione del DNA mitocondriale caratterizzata da un ampio grado di variabilità nelle popolazioni umane. I risultati dei test hanno indicato che, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare dall'antichità del materiale, i processi di degradazione non si erano spinti eccessivamente avanti e deboli tracce di DNA mitocondriale residuo erano ancora presenti nell'osso. Una serie di esperimenti di amplificazione ha permesso poi di individuare alcune sequenze che si discostavano notevolmente da quelle moderne di riferimento contenute nelle banche dati e che sono state pertanto attribuite all'uomo di Neanderthal.
Successive analisi hanno permesso di giungere a conclusioni di notevole interesse. Apparentemente il DNA di uomo di Neanderthal si colloca al di fuori del campo di variazione del DNA umano moderno, in una posizione filogenetica intermedia tra l'uomo anatomicamente moderno e lo scimpanzé, anche se notevolmente più prossimo al primo che al secondo. Sulla base del principio dell'orologio molecolare i ricercatori hanno potuto calcolare che un DNA mitocondriale comune all'uomo di Neanderthal e all'uomo anatomicamente moderno sarebbe esistito tra 690.000 e 500.000 anni fa. Occorre precisare che questi risultati, di per sé, non risolvono il dilemma circa una trasmissione, o meno, di eventuali caratteri genetici neandertaliani nell'uomo anatomicamente moderno, in quanto le testimonianze di tale trasmissione potrebbero essere state cancellate, nel corso del tempo, da fenomeni genetici quali la deriva genetica o un flusso massiccio e continuato di geni sapiens.
Uno studio particolarmente ampio, condotto di recente, sembrerebbe fornire una risposta conclusiva in proposito. Sono stati analizzati i resti scheletrici di ventiquattro neandertaliani e quaranta sapiens. Lo stato di conservazione di quattro campioni neandertaliani e di cinque sapiens è risultato sufficientemente buono da essere compatibile con la sopravvivenza di tracce del DNA originale. Utilizzando la PCR, i ricercatori hanno tentato di amplificare un frammento di DNA mitocondriale noto per differire per due mutazioni nella sequenza nucleotidica tra uomo di Neanderthal e uomo anatomicamente moderno. Il risultato è stato che tutti e quattro i campioni neandertaliani hanno mostrato la presenza delle due mutazioni che sono invece risultate assenti nei sapiens. Tenendo conto del fatto che anche i resti scheletrici di quest'ultimo tipo umano sono molto antichi, la conclusione più ragionevole sembra essere quella che i neandertaliani non hanno contribuito al patrimonio genetico delle popolazioni moderne in misura rilevante.
In senso sia biologico che culturale l'evoluzione adattativa della specie umana è profondamente influenzata dalle patologie. Esse variano nel tempo, in relazione a fattori socioambientali, tecnologici ed etnici. La disciplina che si occupa dello studio delle malattie nell'antichità si chiama 'paleopatologia'. Tradizionalmente la ricerca paleopatologica utilizza fonti indirette (antichi testi e iconografie), fonti dirette (resti scheletrici, mummie e altri materiali biologici di origine umana) e fonti comparative (informazioni concernenti le malattie in altre specie animali). La possibilità di analizzare DNA conservato in antichi reperti ossei o nei tessuti molli delle mummie apre la strada alla paleopatologia molecolare. In linea di principio possiamo studiare infezioni, malattie ereditarie e neoplasie. Mentre la paleopatologia molecolare delle malattie ereditarie e quella delle neoplasie sono ancora a uno stadio pionieristico, la paleopatologia delle infezioni ha già prodotto numerosi risultati.
In pratica dobbiamo cercare il DNA di agenti patogeni di natura batterica, virale, protozoaria o fungina che, in relazione allo stato della malattia, siano presenti in maniera significativa nei tessuti molli, nel sangue o in lesioni ossee alla morte dell'individuo. Per quanto riguarda la ricerca di patogeni batterici nei contesti archeologici, fino a ora, è stato possibile individuare il DNA di Mycobacterium tuberculosis, agente causativo della tubercolosi, quello di M. leprae (agente causativo della lebbra), di Yersinia pestis (peste) e di Treponema pallidum (sifilide). Tra i patogeni sopraelencati quello di gran lunga meglio studiato è M. tuberculosis. Il principio della diagnosi paleomolecolare di questo batterio si basa sull'amplificazione mediante PCR di un breve tratto del cromosoma batterico denominato 'sequenza di inserzione (IS) 6110'. Tale sequenza è specifica per i del cosiddetto 'complesso di M. tuberculosis' (MTB) che comprende, oltre a M. tuberculosis stesso, anche M. bovis e M. africanum. È così possibile discriminare tra il DNA dei micobatteri del terreno, verosimilmente abbondanti nei materiali di scavo, e quello degli antichi patogeni. Particolarmente importanti, per le conoscenze sulla diffusione delle malattie infettive a seguito di eventi migratori, sono state le analisi del DNA compiute su mummie precolombiane a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso. È stato possibile confermare l'ipotesi che la tubercolosi fosse diffusa presso le popolazioni dell'America Meridionale secoli prima della conquista spagnola.
Per quanto riguarda l'Europa, una ricerca particolarmente esauriente è stata recentemente compiuta su 168 mummie naturali ritrovate nelle cripte della chiesa dei Domenicani di Vác in Ungheria. L'insieme delle informazioni ottenute attraverso ricerche in archivio, esami radiografici e analisi del DNA antico, ha fornito una prova eloquente dell'endemicità della tubercolosi tra gli ungheresi dei secc. XVIII e XIX. La letteratura scientifica recente riporta anche diversi lavori che descrivono l'identificazione del DNA di M. tuberculosis in mummie naturali e artificiali dell'antico Egitto, alcune delle quali risalenti all'epoca predinastica (3300 a.C.). Questi ultimi risultati hanno sollevato un considerevole dibattito tra gli specialisti, in quanto contrastano con le stime teoriche ed empiriche sulla conservazione del DNA nei climi caldi. Tali stime indicano un tempo di sopravvivenza del DNA molto breve e pertanto incompatibile non solo con la sua presenza nelle mummie predinastiche, ma anche in quelle della più tarda epoca dinastica.
A loro volta, i sostenitori della verosimiglianza delle diagnosi molecolari nelle mummie egizie sottolineano diversi aspetti particolari della biologia dei micobatteri, quali la produzione di lesioni calcificate e una parete batterica spessa e ricca di lipidi che favorirebbero la conservazione del DNA per tempi particolarmente lunghi. Fanno inoltre osservare l'eccezionale resistenza di M. tuberculosis, in grado di sopravvivere al fissaggio in formalina. Il batterio ha addirittura infettato un incauto imbalsamatore a un anno di distanza dalla morte del soggetto. Parimenti oggetto di grande controversia sono state le ricerche finalizzate a ritrovare il DNA di Y. pestis nella cavità pulpare dei denti di vittime della peste risalenti al Medioevo e al Rinascimento. Mentre in un laboratorio francese è stata ottenuta un'alta percentuale di casi positivi, in altri due, ubicati rispettivamente in Inghilterra e in Danimarca, tutti i campioni esaminati sono risultati negativi.
Possiamo infine citare un caso che, pur facendo riferimento a materiale recente, rientra pienamente nella problematica di studio dell'origine delle malattie infettive e della loro diffusione. Si tratta dell'origine del virus dell'immunodeficienza umana (HIV). È noto che ambedue i virus che causano l'AIDS (HIV-1 e HIV-2) ebbero origine in Africa, probabilmente attraverso la mutazione di virus delle scimmie. L'analisi di campioni di sangue vecchi di quasi 40 anni e provenienti da Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) ha permesso di determinare la sequenza nucleotidica di un frammento lungo circa 300 bp del materiale genetico del virus. L'esame della sequenza 'archeologica' ha indicato che HIV-1 avrebbe iniziato a infettare l'uomo nel decennio che va dal 1940 al 1950, spinto con ogni probabilità da una serie di fattori ecologici e sanitari come le campagne di vaccinazione su larga scala (in cui uno stesso ago ipodermico veniva utilizzato per più soggetti senza essere sterilizzato), la diffusione dei mezzi di trasporto, l'incremento demografico e i contatti sessuali più frequenti.
Il permafrost conserva i resti di grandi Mammiferi quali cavalli, mammut, bisonti, orsi, lupi. Le collezioni dell'American Museum of Natural History di New York e quelle del Canadian Museum of Nature a Ottawa, per fare un esempio, raccolgono circa 100.000 resti ossei provenienti da questo ambiente. I depositi nel permafrost sono, pertanto, di estremo interesse per lo studio della storia delle popolazioni animali. Le condizioni di conservazione dei materiali nel permafrost sono caratterizzate da bassa temperatura e parziale disidratazione. Nel permafrost l'acqua è in gran parte (92-97%) sotto forma di ghiaccio, mentre solo una frazione minore (3-8%) è allo stato liquido; ciò dipende dalla temperatura e dalla struttura del sedimento. Anche gli acidi nucleici dei materiali conservati nel permafrost sono, pertanto, soggetti ad attacco idrolitico, sebbene in misura molto ridotta rispetto ad altri ambienti umidi. Occorre poi considerare che mentre i valori di potenziale redox (da +40 a −250 mV) del permafrost siberiano suggeriscono una condizione di anossia, favorevole quindi alla conservazione del DNA, quelli del permafrost antartico (tra +260 e +480 mV) risultano meno favorevoli in quanto rivelano la presenza di ossigeno che influisce negativamente sulla stabilità della doppia elica. Quello del permafrost, occorre infine precisare, non rappresenta l'ambiente più freddo del pianeta. Le temperature più basse si registrano infatti in corrispondenza delle calotte polari alle latitudini più elevate, dove la temperatura varia tra −20 e −50 °C, contro i −9 e −12 °C del permafrost siberiano.
Nonostante questi fattori non completamente favorevoli, la stabilità dei materiali biologici nel permafrost risulta assicurata per tempi lunghi. Come conseguenza, i tentativi di recupero di DNA residuo da carcasse di mammut (Mammuthus primigenius), orso bruno (Ursos arctos) o bisonte della Beringia (Bison priscus) datate tra 10.000 e 100.000 anni fa sono stati, in genere, coronati da successo. Nel caso del mammut è stato addirittura possibile determinare la sequenza dell'intero genoma mitocondriale dell'animale a partire da poche centinaia di milligrammi di osso. Il confronto tra il DNA mitocondriale di mammut e quello dei suoi parenti moderni, elefante asiatico (Elephas maximus) ed elefante africano (Loxodonta africana) ha permesso di stabilire che il mammut era geneticamente più prossimo al primo che al secondo. Per quanto riguarda il bisonte della Beringia, sono stati esaminati i resti di oltre 350 esemplari. Questo ha permesso di mettere in evidenza delle fluttuazioni nella composizione genetica delle popolazioni di questi animali lungo un arco temporale di ben 150.000 anni.
Una novità negli studi sulla conservazione del DNA nel permafrost è rappresentata dalle ricerche sul cosiddetto 'DNA sporco'. Si indica con questa locuzione il DNA isolato da sedimenti in assenza di macro- e microresti visibili. È stato identificato DNA riconducibile a piante erbacee, alberi, muschi, come pure quello di animali di grande taglia quali mammut, bisonti e cavalli in campioni di età straordinariamente elevata (300.000-400.000 anni). Si ritiene che il DNA vegetale derivi in massima parte dai tessuti somatici delle piante e, solo in minima parte, dal polline. Il DNA animale, a sua volta, potrebbe provenire dalle deiezioni dei grandi erbivori della steppa. Un caso particolare e di grande interesse è rappresentato dal ritrovamento di resti umani nel permafrost o nel ghiaccio. Il reperto più famoso di questa categoria è il cosiddetto od Ötzi. Si tratta di una mummia naturale ritrovata il 19 settembre 1991 sulle Alpi a 3270 m di quota. Il corpo giaceva in una conca rocciosa ed emergeva dal ghiaccio in fusione. La datazione mediante radiocarbonio (3300-3100 a.C.) e i resti di equipaggiamento ritrovati nelle vicinanze hanno permesso di collocare questa mummia in un orizzonte culturale che va dal tardo Neolitico alla prima Età del Rame.
Studi preliminari, pubblicati già nel 1994, hanno dimostrato che il DNA mitocondriale dell'individuo è conservato, seppure in uno stato di elevata frammentazione. Recentemente sono stati diffusi i risultati dell'ultima analisi del DNA mitocondriale di Ötzi che evidenziano come il tipo mitocondriale, o aplogruppo, di colui che si ritiene essere stato un cacciatore o un pastore rientri in quello che viene definito con la sigla K. Il DNA mitocondriale delle popolazioni europee è attualmente suddiviso dai genetisti in nove aplogruppi (H, T, U, V, W, X, I, J, K). In particolare il DNA della mummia corrisponde a una variante, non ancora descritta, del gruppo K1. Sembra importante sottolineare il fatto che gli organi interni della mummia sono ben conservati. Altre analisi del DNA, eseguite su campioni del contenuto intestinale, hanno reso possibile identificare, con notevole accuratezza, i diversi tipi di alimenti assunti dall'uomo nelle ultime ore di vita. Sappiamo così che si cibò di carni di cervo rosso (Cervus elaphus) e di stambecco (Capra ibex). Tra gli alimenti di origine vegetale spicca invece un cereale, identificabile, verosimilmente, con il farro. Sempre le analisi del DNA nei residui di contenuto intestinale hanno portato i ricercatori a riconoscere svariati tipi di pollini e spore vegetali provenienti, con ogni probabilità, dall'ambiente di alta montagna nel quale Ötzi mosse gli ultimi passi.
Beauval 2005: Beauval, Cédric e altri, A late Neandertal femur from Les Rochers-de-Villeneuve, France, "Proceedings of the National Academy of Sciences USA", 102, 2005, pp. 7085-7090.
Drancourt, Raoult 2005: Drancourt, Michel - Raoult, Didier, Paleomicrobiology: current issues and perspectives, "Nature reviews. Microbiology", 3, 2005, pp. 23-35.
Fletcher 2003: Fletcher, Helen A. e altri, Widespread occurrence of Mycobacterium tuberculosis DNA from 18th-19th century Hungarians, "American journal of physical anthropology", 120, 2003, pp. 144-152.
Hebsgaard 2005: Hebsgaard, Martin B. - Phillips, Matthew J. - Willerslev, Eske, Geologically ancient DNA: fact or artefact?, "Trends in microbiology", 13, 2005, pp. 212-220.
Krause 2006: Krause, Johannes e altri, Multiplex amplification of the mammoth mitochondrial genome and the evolution of the Elephantidae, "Nature", 439, 2006, pp. 724-727 (online edition: doi:10.1038/nature04432).
Pääbo 2004: Pääbo, Svante e altri, Genetic analyses from ancient DNA, "Annual review of genetics", 38, 2004, pp. 645-679.
Rollo 2002: Rollo, Franco, Il DNA dei faraoni: realtà o leggenda?, "Le scienze", 412, 2002, pp. 78-83.
Rollo 2002: Rollo, Franco e altri, Ötzi's last meals: DNA analysis of the intestinal content of the neolithic glacier mummy from the Alps, "Proceedings of the National Academy of Sciences USA", 99, 2002, pp. 12594-12599.
Willerslev 2004: Willerslev, Eske - Hansen, Anders J. - Poinar, Hendrik N., Isolation of nucleic acids and cultures from fossil ice and permafrost, "Trends in ecology and evolution", 19, 2004, pp. 141-147.
Willerslev, Cooper 2005: Willerslev, Eske - Cooper, Allan, Ancient DNA, "Proceedings of the Royal Society B", 272, 2005, pp. 3-16.