Documentario
Con il termine documentario si intende, nell'uso comune, un film, di qualsiasi lunghezza, girato senza esplicite finalità di finzione, e perciò, in generale, senza una sceneggiatura che pianifichi le riprese, ma anzi con disponibilità verso gli accadimenti, e senza attori. Non a caso, nei Paesi anglosassoni si impiega sempre più spesso il termine nonfiction. Alla base del d. c'è un rapporto ontologico con la realtà filmata, che si pretende restituita sullo schermo come si è manifestata davanti alla macchina da presa, senza mediazioni. Il film è il documento di tale realtà, la prova che le cose si sono svolte come risultano proiettate. Il cinema di finzione rappresenta invece una realtà mediata, manipolata dal regista per esprimere ciò che ha immaginato. È una realtà messa in scena. Nel d. la macchina da presa è al servizio della realtà che le sta di fronte; nel film di finzione la realtà viene rielaborata per la macchina da presa. In quest'ultimo il patto implicito dello spettatore con lo schermo è: "so bene che ciò che vedo rappresentato non è vero, benché verosimile, e tuttavia ci credo"; nel d. egli dirà piuttosto: "ciò che vedo è vero, e non solo verosimile, e per questo ci credo". L'effetto magico di illusione di realtà che il cinema di finzione produce viene, per così dire, sospeso nel d., dove si evidenzia l'effetto probatorio.
Nella pratica, le cose stanno un po' diversamente da come possono essere definite in teoria. It's all true e F for fake: tra questi due titoli di d. realizzati da Orson Welles ‒ il primo in Brasile nel 1942, rimasto incompiuto, e riassemblato ed edito nel 1993 da Bill Krohn, Myron Meisel e Richard Wilson; il secondo in vari Paesi europei nel 1972-73 (si indicano qui e altrove due date, dall'inizio delle riprese all'uscita, dato il carattere particolare del d. rispetto al film di finzione) ‒ si può inquadrare la problematica e i diversi aspetti di un genere che, nella sua evoluzione a partire dal cinema muto, sfugge alle definizioni assertorie.
Il termine documentario viene usato come aggettivo in riferimento al cinema fin dalle origini: per es., il polacco Bolesław Matuszewski, proponendo nel 1898 un pionieristico progetto di cineteca, parlò di deposito di materiali cinematografici "di interesse documentario"; il fotografo e cineasta statunitense Edward G. Curtis usò nel 1914 le locuzioni materiale documentario e opere documentarie per definire i propri film sui pellerossa. La critica storica tende però ad attribuire l'impiego cosciente del termine al cineasta e produttore scozzese John Grierson che, recensendo Moana (1926; L'ultimo Eden) di Robert Flaherty, parlò di "valore documentario" del film, per poi teorizzare il genere in vari saggi scritti nel 1932-1934 su "Cinema quarterly". Essi furono raccolti e rielaborati assieme ad altri in un libro considerato, a torto o a ragione, un classico: Grierson on documentary, ed. F. Hardy, 1946 (nuova ed. 1966; trad. it. Documentario e realtà, a cura di F. Di Giammatteo, 1950; una critica alla teoria e alla pratica produttiva di Grierson, e insieme una acuta riflessione sul d., si trovano in B. Winston, Claiming the real. The documentary film revised, 1995). Va notato tuttavia che Grierson ritiene il valore documentario di Moana secondario rispetto al suo valore estetico, ponendo con ciò il dilemma proprio del genere. La messa in scena, congenita al cinema di finzione narrativo con attori, non è, né può essere, estranea al documentario. Per quanto reale e non manipolato sia il profilmico (ciò che la macchina da presa riprende), esso, fin dai tempi di Auguste e Louis-Jean Lumière, non può evitare di essere inquadrato, e con ciò stesso selezionato e orientato; anche se è stato detto che l'inquadratura di un d. è una finestra aperta sul mondo più che una cornice che lo racchiude e lo sintetizza. Inoltre, per quanto breve sia il film, come nei piani-sequenza di un minuto dei Lumière, il fatto stesso che ci sia un inizio e una fine implica inevitabilmente un embrione di narrazione, un'evoluzione del profilmico marcata da un prima e da un dopo. La manipolazione spazio-temporale viene accentuata da tutte le tecniche che hanno caratterizzato lo sviluppo del linguaggio cinematografico, soprattutto dal montaggio e dalle altre operazioni di postproduzione successive alle riprese. Con l'introduzione del sonoro, che pure incrementò con la presa diretta l'impressione di realtà, non va sottovalutata la mediazione del microfono e del missaggio, e poi, in proiezione, quella di amplificatori e altoparlanti. La realtà, in altre parole, è sempre, nel d. come nel film di finzione, una realtà 'registrata', quindi mediata, 'impura'. Ma l'innocenza, per così dire, con cui lo spettatore assiste alla proiezione (o, in televisione, alla trasmissione) di un d. lo rende facilmente ingannabile, quando si vuol far passare subdolamente per documento, prova inconfutabile di verità, ciò che è realtà truccata: è quanto ha sempre fatto la propaganda, con i cinegiornali e i telegiornali, e con la pubblicità. È invece piuttosto un problema di interpretazione critica che di volontà dell'autore il fatto che si sia insistito più del dovuto sul realismo dei documentari. Flaherty, considerato il padre del genere, realizzò film, assai belli, con strutture narrative precise, pur se dissimili da quelle tipiche del film di finzione, e interpretati da attori, anche se non professionisti, chiamati a rivestire i panni di personaggi più che a essere sé stessi. A questa irrisolvibile impasse teorica, o definitoria, si oppone tuttavia il buon senso, che fa istintivamente distinguere il film costruito per raccontare una storia inventata da quello che racconta una realtà attuale. Forse non si dovrebbe dire racconta ma descrive, riporta, registra, documenta, o parlare come i cineasti anglosassoni di factual film, o come quelli sovietici di cinema 'fattografico' o 'non recitato'. Ma si resta sempre nell'ambito di definizioni in negativo (nonfiction, non recitato), che trovano il loro senso in opposizione al cinema di finzione dominante, mentre mancano definizioni in positivo, forse perché solleverebbero troppe contraddizioni. È peraltro vero che la distinzione, prima che essere estetica, venne operata a livello produttivo: il film di finzione nacque come trasposizione cinematografica delle varie forme precedenti dello spettacolo teatrale (Méliès), il d. come aggiunta del movimento alla fotografia (Lumière); successivamente l'industria si incaricò di relegare il d. ai margini dello spettacolo cinematografico istituzionalizzato, facendone una forma specializzata di cinema; solo con la televisione ciò che non è finzione trova nell'ecletticità del palinsesto un trattamento tendenzialmente paritetico con la finzione, anche se in forme troppo spesso degradate rispetto alla qualità raggiunta dal d. nel cinema.
Gli anni del muto. ‒ Il cinema nacque per documentare. Fu un documento scientifico negli esperimenti protocinematografici fatti negli anni Settanta dell'Ottocento dallo statunitense Eadweard Muybridge e dal francese Étienne-Jules Marey, dove la moltiplicazione di scatti fotografici ravvicinati (zooprassografia, cronofotografia) consentiva l'analisi del movimento, così scomposto, di animali o di esseri umani. Contemporaneamente, fra le evoluzioni e i perfezionamenti degli spettacoli della lanterna magica si distinse il prassinoscopio del francese Émile Reynaud, che si situava sul versante opposto delle 'attrazioni', utilizzando non fotografie ma disegni in rapida successione, che davano l'illusione del movimento. Quando l'evoluzione tecnologica consentì negli anni seguenti, con lo statunitense Thomas A. Edison e i francesi Lumière, di portare le fotografie in successione a una cadenza tale da rendere la riproduzione del movimento verosimile e visibile agli spettatori, prima singoli (tramite il cinetoscopio o peepshow nel caso del cinetografo di Edison) e poi in gruppo (tramite la proiezione nel caso del cinematografo dei Lumière), la dicotomia realtà-finzione era già in atto. Edison (e per lui i suoi collaboratori William Kennedy Laurie Dickson e William Heise) filmò scene di 'vita vissuta' ricostruite spesso in studio (più di 900 fra il 1893 e il 1900, di cui il 60% conservate); i Lumière, e per loro ben presto vari operatori come Alexandre Promio e Gabriel Veyre, filmarono 'cartoline' in movimento, in Francia e poi in varie parti del mondo, secondo un modulo fisso con poche varianti, che era la forma più essenziale di documentazione priva di apparenti intenti espressivi. Le 'vedute' che componevano i loro cataloghi (più di 1400 fra il 1895 e il 1905, quasi tutte conservate) si aprivano alla realtà, al contrario di quelle di Edison e di altri pionieri, come il francese Georges Méliès e il catalano Segundo de Chomón, che portarono alle estreme conseguenze la concezione del nuovo mezzo come trucco.
Non mancava peraltro nei cataloghi Lumière qualche 'veduta fantasmagorica', come non mancavano 'vedute all'aria aperta' in quelli di Méliès e di de Chomón. Il cinema delle origini mescolava volentieri nei programmi di spettacolo vari generi, compresi quelli che vennero definiti all'epoca travelogues (film di viaggio o turistici). Questa commistione si evolse successivamente nella composizione dello spettacolo cinematografico, dove il feature, il 'pezzo forte', cioè il film di finzione, era preceduto da cortometraggi (a carattere documentario o, meno spesso, di finzione), cinegiornali (a cominciare dal Pathé journal nel 1908, e fino ai primi anni Settanta; in Italia l'Istituto Luce iniziò la produzione regolare di cinegiornali nel 1927 e la proseguì fino al 1946, quando fu sostituito totalmente da La settimana Incom), comiche, pubblicità (comprese quelle dei 'prossimamente'), secondo i casi e le epoche.
Solo negli ultimi anni del Novecento si è posta l'attenzione sul vasto repertorio di film nonfiction dei primi anni del muto conservati negli archivi di tutto il mondo. Spesso datazione, titolazione, attribuzione (non tanto a registi quanto a case produttrici) sono ardue. Un primo esame di questo vasto materiale (nel primo decennio del Novecento la produzione di vedute sarebbe stata più ampia di quella dei film di finzione) ha portato a rilevare la "mancanza di evoluzione che caratterizza il cinema nonfiction di un periodo che va all'incirca dal 1903 al 1917. […] Si può supporre che la quasi assoluta mancanza di evoluzione che osserviamo nel cinema nonfiction sia dovuta al fatto che lo stile [puramente descrittivo] di cui questo genere disponeva fin dalle origini rimaneva perfettamente adeguato nonostante il passare del tempo. […] Nelle vedute non c'è quell'impulso alla drammatizzazione e quel senso del ritmo che caratterizzano il cinema di finzione coevo, dove il montaggio viene piegato in modo sempre più evidente alle esigenze narrative e di intervento ideologico. […] Le vedute tendevano a produrre la sensazione che il soggetto filmato preesistesse all'atto della ripresa (un paesaggio, una tradizione sociale, un metodo di lavoro) o che l'evento si sarebbe verificato comunque, anche in assenza della macchina da presa (un avvenimento sportivo, un funerale, un'incoronazione). […] La qualità più caratteristica delle vedute è il modo in cui esse mimano l'atto del guardare e dell'osservare. […] Nelle vedute l'aspetto decisivo [è] rappresentato dalla relazione fra il soggetto e la macchina da presa. […] La chiave del loro enorme fascino, oggi spesso dimenticato, è nel modo in cui questi film esplorano i meccanismi dello sguardo al di fuori dello spazio finzionale. […] Le vedute inscenano davanti a noi quella pulsione a 'guardare soltanto' che è così centrale per la nostra epoca moderna" (T. Gunning, Prima del documentario: il cinema nonfiction delle origini e l'estetica della "veduta", in "Cinegrafie", 1995, 8, pp. 13-19).
Il cinema esplora. Fu importante, agli inizi, il 'film di viaggio'. La possibilità offerta dal nuovo mezzo di abolire le distanze riproducendo luoghi lontani venne sfruttata da subito, a cominciare dai Lumière, a fini non solo documentari ma ben presto anche pubblicitari, per promuovere il turismo. Si ricordino, per fare un solo esempio, gli Hale's Tours (proiezioni di paesaggi che gli spettatori vedevano dal finestrino di finte carrozze ferroviarie in ambienti fieristici), promossi fra il 1905 e il 1912 dallo statunitense George C. Hale. A sua volta, il ricco banchiere parigino A. Kahn promosse negli anni Dieci e Venti Les archives de la planète, commissionando vedute (tuttora conservate) di varie parti del mondo per un utopico catalogo enciclopedico-geografico. Altri cineasti che negli anni Dieci si dedicarono a d. esotici furono l'italiano Luca Comerio (i cui materiali sono stati creativamente riutilizzati da Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi in Dal Polo all'Equatore, 1986) e il belga Alfred Machin, specialista di film animalisti.Il cinema era un occhio ubiquo, che poteva correre rischi da cui lo spettatore era preservato, dandogli insieme l'emozione e l'informazione di eventi lontani nello spazio, e prefigurando in qualche modo la televisione. Nacquero i primi film di esplorazione vera e propria: The great white silence (1924) di Herbert G. Ponting, primo rimontaggio dei materiali da lui girati al seguito della tragica spedizione di R.F. Scott nell'Antartico nel 1910-11, utilizzati dapprima in appoggio a conferenze, quindi ulteriormente rielaborati nella versione sono-rizzata del 1933, 90° South; South (1914-1917) di Frank Hurley, su un'altra spedizione al Polo Sud, quella di E. Shackleton. Successivamente vanno citati almeno: sempre in Gran Bretagna, The epic of Everest (1924) di Joel B.L. Noel; negli Stati Uniti, Grass (1925) e Chang (1927, Elefante) di Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper (futuri autori di King Kong, 1933), girati fra Kurdistan e Turkestan e nel Nord della Thailandia; Simba, the king of beasts (1928) di Martin e Osa Johnson, girato in Africa; in Francia, La croisière noire (1926) di Léon Poirier e, in epoca sonora, La croisière jaune (1933) di André Sauvage (rimontato per esigenze commerciali da Poirier), sulle spedizioni promozionali della Citroën in Africa e in Asia; Voyage au Congo (1927), in cui Marc Allégret segue lo zio A. Gide nel suo viaggio africano (nel 1952 realizzò anche un prototipo del 'film biografico', Avec André Gide); in Unione Sovietica, oltre ad alcuni film di Dziga Vertov, Šanchajskij dokument (1928, Documento su Shanghai) di Jakov M. Blioch, Turksib (1929) di Viktor A. Turin, sulla costruzione della linea ferroviaria Turkestan-Siberia, Sol′ Svanetij (1930, Sale per la Svanetia) del georgiano Michail K. Kalatozov, d. visibilmente messo in scena; in Germania, i film di montagna di Arnold Fanck, che si specializzò nel genere, come Der heilige Berg (1926) e Die weisse Hölle vom Piz Palü (1929; La tragedia di Pizzo Palù, coregia di Georg W. Pabst); Die letzten Segelschiffe (1926-1930) di Heinrich Hauser, sugli ultimi velieri. Il genere era talmente popolare che ci si poté permettere di parodiarlo, come nel cortometraggio, involontariamente autoriflessivo, Crossing the Great Sagrada (1924) dell'inglese Adrian Brunel.Flaherty/Vertov. L'evoluzione del d., come sottolineò Grierson nel 1932, è "da una banale (o fantasiosa) descrizione del materiale naturale a una elaborazione o rie-laborazione creativa di tale materiale" (Documentary, in "Cinema quarterly", Winter 1932; poi in Grierson on docu-mentary, 1966, p. 36), o, come recitava il titolo di una retrospettiva del Museum of Modern Art di New York del 1939: The nonfiction film: from uninterpreted fact to documentary, o ancora, come dice Gunning, dalla concezione del film come puro sguardo a quella del film come discorso, affidato al montaggio e alle didascalie (e, con il sonoro, alla voce fuori campo). Tale evoluzione viene tradizionalmente identificata in due lungo-metraggi, Nanook of the North (1920-1922; Nanouk) di Flaherty e Kinoglaz (1924, Cineocchio) di Vertov. La pretesa di entrambi di "cogliere la vita sul fatto" (come recita il sottotitolo del film di Vertov) è corretta da Flaherty con il desiderio di narrativizzare, e a volte di mettere in scena gli eventi rappresentati, e da Vertov con quello di piegarli, attraverso un elaborato lavoro di montaggio e con didascalie non descrittive, a un discorso fortemente ideologico. Curiosamente, mentre non si rimproverò a Flaherty di tradire la purezza dello sguardo oggettivo sul reale, questa accusa fu fatta spesso a Vertov dai suoi contemporanei. Superati gli equivoci, la critica contemporanea più avanzata può allontanarsi più facilmente dal fantasma dell'oggettività e rinvenire nelle manipolazioni del reale un elemento fondamentale del loro modo di fare cinema documentario. Flaherty, un ex esploratore con esperienza immediata sul campo, passò con Nanook of the North dalla veduta come descrizione alla veduta come narrazione, senza comprometterne il carattere referenziale (non va dimenticato del resto che l'opera nacque sia come film di esplorazione ‒ i viaggi di Flaherty nel 1910-1916 al seguito di Sir W. Mackenzie fra gli Inuit, da cui aveva tratto una prima versione del film andata poi distrutta in un incendio accidentale ‒ sia come film promozionale, finanziato dalla compagnia di pellicce Revillon Frères); Vertov, che fece da 'mediatore' in sala di montaggio rielaborando materiali preesistenti per vari cinegiornali, si oppose strenuamente con Kinoglaz, forte dell'ideologia rivoluzionaria, alla veduta come descrizione, che presuppone un occhio che mima quello umano, per insistere invece sul carattere cinematografico, meccanico e tecnico, di tale occhio, detto appunto cineocchio.Il documentario urbano. Il d. non si limitava ormai a vedere, e neppure a vedere 'di più'. Tendeva a intervenire, a partecipare a ciò che faceva vedere. La realtà rappresentata era riscoperta non più come lontana e misteriosa ma, guardata con altri occhi, come presente a fianco della comune esperienza quotidiana. Ecco, per es., tutto il sottogenere di film sulla città, spesso stilisticamente vicini alle coeve avanguardie: negli Stati Uniti, il pionieristico Manhatta (1921, cortometraggio [poi sempre cm]) di Charles Sheeler e Paul Strand (più noto come fotografo); in Francia, Rien que les heures (1926) di Alberto Cavalcanti, La Zone (1927, cm) di Georges Lacombe, Études sur Paris (1928) di Sauvage, À propos de Nice (1929, cm) di Jean Vigo; in Germania, Berliner Stilleben (1926, cm) e Impressionen vom alten Marseiller Hafen (1929, cm) di László Moholy-Nagy, Berlin. Die Sinfonie der Grossstadt (1927) di Walter Ruttmann, Menschen am Sonntag (1929-30) di Robert Siodmak ed Edgar G. Ulmer; in Unione Sovietica, Moskva (1927) di Michail A. Kaufman (fratello di Vertov) e Il′ja P. Kopalin, Čelovek s kinoapparatom (1929, L'uomo con la macchina da presa) di Vertov; in Italia, Stramilano (1929, cm) di Corrado D'Errico; in Portogallo, Douro, faina fluvial (1929-1931, cm) di Manoel de Oliveira; sino a film lirico-poetici come De brug (1928, Il ponte, cm) e Regen (1929, Pioggia, cm) di Joris Ivens, Vesnoj (1929, In primavera) di Kaufman o Images d'Ostende (1929-30, cm) di Henri Storck. Un modo per avvicinare attraverso il cinema realtà culturalmente lontane è quello utilizzato dal francese Jean Epstein nella sua trilogia bretone: Finis terrae (1928-29), Mor Vran ‒ La mer des corbeaux (1929-1931, cm sonorizzato), L'or des mers (1931-1933, sonorizzato). Una rilettura critica del già vasto materiale cinegiornalistico esistente fu intrapresa dalla sovietica Esfir′ I. Šub con Padenie dinastii Romanovych (1927, La caduta della dinastia dei Romanov), Velikij put′ (1927, La grande via), il perduto Rossija Nikolaja II i Lev Tolstoj (1928, La Russia di Nicola II e Lev Tolstoj) e Segodnja (1930, Oggi); con lei nacque il fondamentale sottogenere documentaristico del compilation film (o film d'archives o film di montaggio). La critica della realtà divenne anche impegno politico e sociale con i film di Vertov (Šestaja čast′ mira, 1926, La sesta parte del mondo) e di Ivens, come Zuiderzee (1930, mediometraggio [poi sempre mm]), sulla costruzione della grandiosa diga sul mare del Nord, e, basato in buona parte sullo stesso materiale e con voce fuori campo dell'autore, Nieuwe gronden (1934, Nuova terra, mm).
Gli anni Trenta e la questione del sonoro. ‒ L'avvento del sonoro alla fine degli anni Venti mise in crisi tanto il cinema di finzione quanto quello documentario, ma in maniera diversa. Le pesanti attrezzature necessarie per la presa diretta del suono, che restarono in vigore sino alla fine degli anni Cinquanta, costrinsero il cinema di finzione a rinchiudersi negli studios, dove esse potevano più facilmente essere gestite. Girare in ambienti dal vero divenne un'opzione complicata e onerosa. Ciò valeva a maggior ragione per il d., che oltretutto aveva di solito budget molto più ridotti. Aveva però il vantaggio di non dover dipendere da dialoghi, come il cinema di finzione: era in quel periodo un genere più parlato che parlante. L'impasse venne risolta infatti utilizzando lo studio per registrare il commento musicale e la voce fuori campo (che sostituiva le didascalie), nonché i rumori d'ambiente attinti a una fonoteca, anche se i più scrupolosi li registravano sul posto, ma separatamente dalle riprese. Tanto più sorprendenti sono perciò alcuni coraggiosi tentativi di presa diretta sincrona con l'immagine. Fondamentale è Entuziazm (1930, Entusiasmo; noto anche come Simfonija Donbassa, Sinfonia del bacino del Don), in cui Vertov teorizza il 'radio-occhio' mettendo in pratica, con vero entusiasmo, il nuovo strumento. Egli utilizzò sincronismo e contrappunto in un gioco di voci, rumori, musica che compongono, con un montaggio incredibilmente articolato (in un momento in cui il missaggio dei suoni era ancora impossibile), la prima grande sinfonia astratto-concreta del cinema sonoro. Il film resta un esempio senza successori. Pochi altri film si avventurarono nei primi anni del sonoro sul terreno impervio della presa diretta, e comunque sporadicamente, quando utilizzavano interviste, come in La croisière jaune, Campo de' Fiori (1933, cm, produzione Istituto Luce), Housing problems (1935, cm) degli inglesi Edgar Anstey e Arthur Elton, nonché nei cinegiornali e nei d. di propaganda quando a parlare era un'autorità.Il suono e la voce. Il metodo corrente nel d. era quello del suono doppiato. Agli inizi ci si limitò ad aggiungere la musica a film girati con le tecniche del muto. L'introduzione della voce di commento, praticamente sempre maschile, pose il serio problema dell'imposizione di un senso alle immagini, molto più marcato che con le didascalie. Si rischiava non solo la radio illustrata ma anche, dato l'anonimato di una voce onnisciente, non a caso denominata nei Paesi anglosassoni voce di Dio, una sovradeterminazione autoritaria del messaggio. Era una pratica particolarmente consona al cinegiornalismo di regime (come quello dell'Istituto Luce, voce di Guido Notari), nonché alla televisione. Un caso particolare fu The march of time, il cinegiornale statunitense che dal 1934 al 1951 si affiancò al settimanale "Time", e che trasformò i metodi correnti drammatizzando gli avvenimenti e a volte ricreandoli con attori.
Alcuni autori, per evitare l'anonimato della voce, utilizzarono la propria: è il caso di Nieuwe gronden, di The land (1939-1942, mm mai distribuito) di Flaherty, di The battle of San Pietro (1944; San Pietro, mm) di John Huston; in altri film fu impiegata una voce nota, come in Spanish Earth (1937, mm, commento e voce di E. Hemingway e, in una prima edizione, di O. Welles) e The 400 million (1938, mm, voce di Fredric March), entrambi di Ivens; di Native land (1942) di Leo Hurwitz e P. Strand, voce dell'attore nero Paul Robeson; dei d. dell'inglese Humphrey Jennings, London can take it (1940, cm, voce del radiocronista statunitense Quentin Reynolds) coregia di Harry Watt, Words for battle (1941, cm, Laurence Olivier), The true story of Lili Marlene (1944, mm, Marius Goring), A diary for Timothy (1944-45, mm, Michael Redgrave); di Let there be light (1945-46, mm) di Huston, voce del padre Walter Huston, sui soldati affetti da disturbi psicotici, e per questo proibito fino al 1980.
A volte si tentò un uso creativo di musica e rumori, senza utilizzare la voce fuori campo: in chiave ritmica, come in Philips radio (1931-32, mm) di Ivens, o di immedesimazione realistica, come in North sea (1938, mm) di Watt; altre volte la voce acquistava toni letterari e poetici intrecciandosi con gli altri elementi sonori, come negli inglesi Coal face (1935, cm) di Cavalcanti, Night mail (1936, cm) di Watt e Basil Wright (con versi di W.H. Auden e musica di B. Britten), Listen to Britain (1942, cm) di Jennings (un regista sempre attento alla forma sonora); invece in Las Hurdes ‒ Tierra sin pan (1932, cm) di Luis Buñuel voce e musica sembrano convenzionali, ma in realtà risultano deviate dal loro senso apparente nel contrasto con le atroci immagini di una regione miserrima dell'Estremadura, contrappuntate, in maniera surreale, dal commento clinico di P. Unik e dalla musica di J. Brahms.Il documentario di finzione. Negli anni Trenta si realizzarono film in cui narrazione e personaggi sopravanzavano gli intenti puramente documentaristici, anche se la narrazione riattivava accadimenti reali e accoglieva le accidentalità delle riprese, e i personaggi erano esseri viventi in un mondo reale incarnati da non professionisti. Si ricordino, ancora in periodo muto, i film di Flaherty, Menschen am Sonntag, Ums täglische Brot (1929, noto anche con il titolo della versione inglese, Hunger in Waldenburg) di Phil Jutzi, Chang, L'or des mers, il d. svizzero di propaganda socialdemocratica Ein werktag (1931) di Richard Schweizer; quindi l'incompiuto ¡Qué viva México! (1931-32) di Sergej M. Ejzenštejn, Redes (1935) di Strand e Fred Zinnemann, Man of Aran (1934; L'uomo di Aran) di Flaherty, girato nell'arcipelago a ovest dell'Irlanda, The edge of the world (1937), girato da Michael Powell nelle isole Shetland (rifilmate nel 1978 per il prologo e l'epilogo di Return to the edge of the world), En handfull ris (1938, Una manciata di riso), girato in Tailandia dall'ungherese Paul Fejos e dallo svedese Gunnar Skoglund, Native land, Fires were started (1943) di Jennings, sull'opera dei vigili del fuoco durante un blitz tedesco su Londra; sino ai primi assaggi del Neorealismo italiano, che questi film stranieri prefiguravano, come Uomini sul fondo (1941) e Alfa Tau! (1942) di Francesco De Robertis e La nave bianca (1941) di Roberto Rossellini (e De Robertis). Come ha detto Jean-Luc Godard, "tutti i grandi film di finzione tendono al documentario, così come tutti i grandi documentari ten-dono alla finzione" (L'Afrique vous parle de la fin et des moyens, in "Cahiers du cinéma", avril 1959, 94, p. 21).
Il film-saggio. Un'altra forma di d. 'impuro', che si impose molto più tardi ma di cui è possibile intravedere le tracce nel muto e negli anni Trenta, è il film-saggio. Esso venne definito, forse per la prima volta, da Hans Richter, a proposito del suo Die Börse als Markt (1939, cm): "Il compito di questo tipo di documentari è quello di rappresentare un concetto. Anche ciò che è invisibile deve essere reso visibile. […] Per riuscire a dare corpo al mondo invisibile dell'immaginazione, dei pensieri e delle idee, il film-saggio può servirsi di una riserva di mezzi espressivi incomparabilmente maggiore di quella del semplice film documentario" (Der Filmessay, in "National-Zeitung", 25 aprile 1940, cit. in J. Leyda, Films beget films, 1964, pp. 30-31, libro fondamentale anche per la storia del 'film di montaggio'). È possibile interpretare come precorritori di questa tendenza film così diversi, ma anche così tesi ad articolare idee astratte in immagini concrete, come, nel muto, Ceux de chez nous (1914, mm), uno straordinario film di Sacha Guitry su artisti suoi contemporanei utilizzato per delle conferenze, che trovò forma sonora nel 1952 in un'edizione per la televisione; Häxan (1922; La stregoneria attraverso i secoli) del danese Benjamin Christensen; i film di Vertov e della Šub; film sul cinema come Autour de 'L'argent' (1928-29, mm) di Jean Dréville, sulle riprese del film di Marcel L'Herbier, e Paris cinéma (Les coulisses du cinéma) (1929, cm) di Pierre Chenal; Frauennot-Frauenglück (1929-30), un film svizzero a favore dell'aborto cui collaborarono con varie funzioni Ejzenštejn, Eduard K. Tissé, Grigorij V. Aleksandrov ed Emil Berna; e, nel decennio in questione, Las Hurdes, La vie est à nous (1936) di un collettivo (che comprendeva tra gli altri, Jacques Bécker e Henri Cartier-Bresson) coordinato da Jean Renoir, che è molto più di un film militante sul Fronte popolare in Francia; Native land, che lavora analogamente sulle violazioni dei diritti civili; A diary for Timothy, un augurio poetico-saggistico per i figli del dopoguerra. Il cinema educa. La tendenza non va confusa con quella, assai meno ambiziosa, del cinema didattico, scientifico o sull'arte, spesso realizzato all'interno di istituzioni come, in Italia, l'Istituto Luce. Rispetto a tanti prodotti anonimi (o semplicemente poco visti, e meritevoli forse di rivalutazione), vanno ricordati i cortometraggi scientifici (o pseudoscientifici, ma esteticamente interessanti) del francese Jean Painlevé e dell'italiano Roberto Omegna, e nel campo dell'arte quelli di Luciano Emmer, che 'narrativizzò' una serie di opere pittoriche e proseguì la sua attività nel dopoguerra, influenzando autori come Alain Resnais (Van Gogh, 1948, cm; Guernica, 1951 coregia di Robert Hessens, cm).
Chi si pose il problema educativo in maniera strategica fu Grierson che, dopo un'ottima esperienza registica nel muto (Drifters, 1929, mm), promosse e diresse in qualità di producer settori cinematografici di enti pubblici, come l'Empire Marketing Board, dal 1928 al 1933, e il General Post Office, dal 1933 al 1937. Per Grierson il d. doveva essere al servizio della propaganda, o se si vuole dell'informazione, senza cadere nelle trappole dell'estetica: donde conflitti con molti collaboratori, che spesso si discostarono da tali diktat realizzando film poi ricordati come i più riusciti della 'scuola inglese' (fra i quali, oltre quelli già citati, vanno ricordati The song of Ceylon, 1934, di B. Wright e i cartoons avanguardistico-pubblicitari dell'australiano Len Lye, come Trade tattoo, 1936, cm a colori).
Altra forma di documentarismo didattico è quello che deriva da un impegno sociale e politico. Negli Stati Uniti gruppi vicini, negli anni della Grande depressione, alla Works Progress Administration del presidente F.D. Roosevelt utilizzarono il d. con intenti progressisti di propaganda democratica, e a volte decisamente di sinistra. La Film and Photo League unì, fra il 1930 e il 1934, cineasti come Ralph Steiner, Strand, Hurwitz, Herbert Kline, Willard Van Dyke, per trasformarsi dal 1935 nella Frontier Films, cui partecipavano Strand, Hurwitz, Van Dyke e Irving Lerner, Sydney Meyers, Jay Leyda. In questo ambiente politicamente impegnato ruotarono e operarono anche cineasti noti come Ivens, con Power and the land (1939-40, mm), sull'elettrificazione delle campagne, e Flaherty, con The land. Più direttamente legati alla politica governativa, e anche stilisticamente meno innovatori, ma più famosi, sono i d. di Pare Lorentz, The plow that broke the plains (1936, cm) e The river (1937, cm).
Al decennio che vide definirsi la contrapposizione tra democrazie e regimi autoritari appartennero altre esperienze progressiste e militanti come quelle della Filmliga olandese, attiva fra il 1927 e il 1933 nella diffusione di opere d'avanguardia e impegnate e nella promozione di film; il Club de l'écran di Bruxelles, per cui Storck e Ivens realizzarono Misère au Borinage (1933, mm muto); quelle francesi del Groupe Octobre e di Ciné-Liberté; quelle inglesi della Workers' Film Association.
Il cinema fa propaganda. Nei regimi dittatoriali il d. si piegò in maniera più diretta e univoca alle esigenze propagandistiche. In Unione Sovietica, le esperienze avanguardistiche del muto e dei primi anni del sonoro vennero criticate in campo documentaristico forse più che in quello della finzione. Si lasciò mano abbastanza libera al globetrotter Ivens per Pesn′ o gerojach ‒ Komsomol (1932, Il canto sugli eroi, mm); ma Vertov ebbe enormi difficoltà, di cui risentì Tri pesni o Lenine (1934, Tre canti su Lenin), fino a essere ridotto a opere impersonali o al silenzio, destino che lo accomunò alla Šub. Fra i nuovi nomi si distinse Roman Karmen, che girò materiali durante la guerra di Spagna, poi montati dalla Šub (Ispanija, 1939, Spagna), e in Cina (V Kitaje, 1941, In Cina). La Cina, come la Spagna (Heart of Spain, 1937, cm di Hurwitz e Strand; Spanish Earth), attirò cineasti stranieri, fra cui Leyda, Lerner, Meyers e Ben Maddow (China strikes back, 1937) e Ivens (The 400 million). In Giappone, Tatakau heitai (1938, Soldati al fronte) di Kamei Fumio fu proibito e distrutto dalle autorità.
In Germania si manifestò lo straordinario talento di Leni Riefenstahl con Triumph des Willens (1935; Il trionfo della volontà) e Olympia (1936-1938) in due parti: Fest der Völker (Olimpia) e Fest der Schönheit (Apoteosi di Olimpia). Nel dopoguerra la regista respinse puntigliosamente, e inutilmente, le accuse di connivenza con il regime, rivendicando la propria indipendenza artistica; la sua resta tuttavia un'estetica del "fascino fascista" (S. Sontag), anche se di grande, e moderna, elaborazione tecnica e formale. Altrettanto ricercato, ai limiti dell'avanguardismo, e perciò poco gradito al regime, fu Das Stahltier (1935) di Willie Zielke (autore del prologo di Olympia), sulla storia delle ferrovie. Ignobile per il modo in cui costruisce la propria tesi antisemita mediante il montaggio, il commento e le ricostruzioni è Der ewige Jude (1940) di Fritz Hippler. Un altro veicolo della propaganda nazista, oltre al cinegiornale Deutsche Wochenschau, furono i 'Kulturfilme' (film educativi), riassemblati criticamente anni dopo in Deutschlandbilder (1983) di Hartmut Bitomsky e Heiner Mühlenbrock.
In Italia l'approccio propagandistico del d. fu in genere più morbido e meno efficace. Fra gli esempi migliori, Dall'acquitrino alle giornate di Littoria (1934, cm, produzione Istituto Luce), Il cammino degli eroi (1936), sulla guerra d'Africa, e Milizie della civiltà (1941, cm) sulla costruzione dell'E 42 (il quartiere, poi chiamato EUR, di Roma) di D'Errico, La battaglia dello Jonio (1940, cm prodotto dal Centro cinematografico della Marina promosso da De Robertis) e Mine in vista (1940, cm) di De Robertis. Estranei al clima di propaganda sono molti cortometraggi prodotti dalla Cines, dall'Istituto Luce e dalla Incom, come Il ventre della città (1933) di F. di Cocco, Fantasia sottomarina (1940) di Rossellini, Comacchio (1942) di Fernando Cerchio, Venezia minore (1942) di Francesco Pasinetti, Pronto!?! Chi parla? (1942), sul servizio telefonico, e La storia di ogni giorno (1942), su quello tramviario a Milano, di Mario Damicelli, Gente del Po (1943, edito nel 1947) di Michelangelo Antonioni.
Il documentario di guerra. ‒ La guerra offrì al d. un terreno propizio. Vi si combinarono l'urgenza dell'informazione, la spettacolarità degli eventi e la sfida estetica del 'colto sul vivo'. Dopo le prove generali della guerra d'Africa e di quella di Spagna, la Seconda guerra mondiale vide l'impiego strategico e altamente organizzato di cineasti al fronte (molto più di quanto era potuto avvenire nella Prima), soprattutto negli Stati Uniti e in Unione Sovietica.
Negli Stati Uniti vennero richiamati importanti cineasti hollywoodiani per realizzare, da militari, una serie di film di propaganda destinati sia alle truppe sia, in alcuni casi, ai civili. Frank Capra supervisionò per il Sig-nal Service Photographic Detachment dell'esercito la serie di medio e lungometraggi Why we fight (1942-1945), Know your ally ‒ Britain (1943, mm), Know your enemy ‒ Germany (1942, mm) e Know your enemy ‒ Japan (1945), questi ultimi due ritirati, e altri, come The negro soldier (1944, mm) di Stuart Heisler. Sono per un verso esemplari film di montaggio che utilizzano, manipolandoli abilmente, materiali girati al fronte da operatori statunitensi o alleati, o sequestrati al nemico (è il caso di The nazis strike, 1943), o anche inquadrature di film di finzione; per l'altro, essi hanno un intento didattico-propagandistico, come le circostanze imponevano. Fra i registi hollywoodiani coinvolti nel programma bellico vanno ricordati ancora Huston, William Wyler (Memphis bell, 1944) e John Ford (soprattutto con lo splendido, e assai personale, The battle of Midway, 1942, La battaglia di Midway, a colori, che vinse un Oscar).L'Unione Sovietica pagò un alto tributo al cinegiornalismo di guerra: più di cento operatori morirono al fronte (un eccezionale documento è il cortometraggio Frontovoj kinooperator, 1946, Un cineoperatore al fronte, di Marija E. Slavinskaja, che include riprese della morte in azione di Vladimir Sušinskij). Oltre a documentaristi come Karmen (Leningrad v borbe, 1942, Leningrado in lotta) e Leonid V. Varlamov (Razgrom Nemeckich vojsk pod Moskvoj, 1942, coregia di I. Kopalin, La disfatta dell'esercito tedesco presso Mosca, e Stalingrad, 1943) furono coinvolti anche in URSS registi di film di finzione, a volte per film di montaggio, come Aleksandr Dovženko (che supervisionò Bitva za našu Sovetskuju Ukrainu, 1943, La battaglia per la nostra Ucraina Sovietica, di Julija I. Solnceva e Ju. Avdeenko), Sergej I. Jutkevič (Osvoboždennaja Francija, 1944, La Francia liberata), Julij Ja. Rajzman (Berlin, 1945). Quasi tutti questi film conservano un epos non intaccato da intenti propagandistici, secondo la migliore tradizione sovietica.In Germania la propaganda fu pesante e sfacciatamente menzognera (Feuertaufe, 1940, di Hans Bertram; Feldzug in Polen, 1940, e Sieg im Westen, 1941, di Hippler, tutti con largo uso di repertorio).
In Italia fece notare l'attività del capitano di corvetta F. De Robertis, che promosse il Centro cinematografico del Ministero della Marina, realizzando o producendo, in accordo con l'Istituto Luce, una serie di film, già citati, di notevole interesse e quasi sempre privi di retorica, anche se di impianto militaristico.
Più domestica, rivolta al fronte interno, fu la produzione inglese, che risulta particolarmente preziosa come testimonianza di democrazia vissuta quotidianamente anche in situazioni limite: così negli straordinari d. di Jennings, ma anche in opere più legate alla guerra combattuta, come il 'documentario di finzione' Target for to-night (1941, mm) di Watt o film di montaggio come Desert victory (1943, premiato con l'Oscar) di Roy Boulting o The true glory (1945, premiato con l'Oscar) di Garson Kanin e Carol Reed.
Il dopoguerra e gli anni Cinquanta. ‒ Le cinematografie dei Paesi vincitori e vinti, dopo la guerra, si ritrovarono unite nella condanna di un'esperienza che aveva coinvolto combattenti e civili, aprendo gli occhi su una realtà nuova fatta di atrocità, sensi di colpa, miseria. L'innocenza dello sguardo, anche quando poteva diventare in buona fede propaganda, andò persa; un nuovo sguardo, e un nuovo realismo, accompagnarono gli anni della difficile ricostruzione. Nell'Italia sconfitta si parlò, con definizione francese, di Neorealismo.
Il cinema nei lager. Emblema di questo mutamento epocale fu la scoperta dei campi di concentramento nazisti. Il cinema fu in prima linea per testimoniare, con oggettività surreale, ciò che le truppe di liberazione scoprirono al loro arrivo. Forse per la prima volta le immagini cinematografiche vennero assunte come prove in un processo, quello di Norimberga. Compilate organicamente in alcuni film (Sud narodov, 1947, Il giudizio dei popoli, di Karmen; Nürnberg, 1948, di Stuart Schulberg e Lorentz) o lasciate allo stato di 'giornalieri' (come quelle girate a colori da George Stevens, D Day to Berlin, o quelle di Lord Sidney Bernstein, F3080, memory of the camps), queste immagini risultarono troppo atroci e deprimenti per le autorità, che le ritirarono dalla circolazione o le secretarono. Lo stesso avvenne con le immagini del disastro atomico (girate da un gruppo coordinato da Iwasaki Akira ed edite solo nel 1970 in un cortometraggio compilato da Erik Barnouw, Hiroshima-Nagasaki: August, 1945). Dopo alcuni anni, le immagini dei campi tornarono a circolare, con Nuit et brouillard (1955; Notte e nebbia, mm) di Resnais, The museum and the fury (1956, mm) di Hurwitz, e via via sempre più numerosi film in vari Paesi (fra cui va ricordato almeno il polacco Requiem dla 500.000, 1963, Requiem per 500.000, mm di Jerzy Bossak e Wacław Kazimierczack, sulla rivolta del ghetto di Varsavia). Una nuova generazione vide con i propri occhi ciò che molti sapevano ma non dicevano. La crudeltà di questi eventi, di questo cinema, segnò anche l'ingresso del d., privo ormai di innocenza, nella modernità.
Il vasto materiale archiviato dai militari alleati (quello, pubblico e 'privato', confiscato ai tedeschi sommato a quello dei cinegiornali) fu utilizzato in vari film di montaggio che ricostruirono criticamente la parabola nazista. Nella Repubblica democratica tedesca i coniugi Andrew e Annelie Thorndike realizzarono, attingendo spesso per la prima volta a tali archivi, Du und mancher Kamerad (1956), Urlaub auf Sylt (1957), Unternehmen Teutonenschwert (1958), in cui si servirono del cinema anche per denunciare crimini di guerra; il tedesco Erwin Leiser compilò in Svezia Den blodiga tiden/Mein Kampf (1959-60; Il dittatore folle); nel 1961, a Gerusalemme, Hurwitz riprese in video 2 pollici, un mezzo allora appena entrato nel mercato, le sedute del processo al criminale nazista A. Eichmann, materiale che fu utilizzato anni dopo per compilare Un spécialiste (1999; Uno specialista) di Elyan Sivan.
Per non dimenticare. Gli archivi servirono anche per riscoprire altri periodi della storia: Paris 1900 (1947) di Nicole Védrès, Cavalcata di mezzo secolo (1952) di Emmer, Das Lied der Ströme (1954) di Ivens, sul movimento sindacale mondiale, Nezabyvaemye gody (1957, Gli anni indimenticabili) di Kopalin, fino a All'armi, siam fascisti (1962) di Lino Del Fra, Cecilia Mangini, Lino Miccichè, Mourir à Madrid (1962; Morire a Madrid) di Frédéric Rossif, 14-18 (1962) di Jean Aurel, e molti altri. La riflessione sulla guerra venne affrontata anche per trarre dalle immagini della distruzione la forza per ricostruire, senza per questo perdonare: in Francia Le 6 juin à l'aube (1945) di Jean Grémillon e Le retour (1945-46, mm) di H. Cartier-Bresson, sul ritorno dai campi; in Italia Giorni di gloria (1945), con contributi di Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero e Luchino Visconti, coordinati da De Santis e Mario Serandrei; in Giappone Nihon no higeki (1946, La tragedia del Giappone) di Kamei Fumīo, proibito dagli occupanti americani; in Australia Indonesia calling (1946, cm) di Ivens; negli Stati Uniti Strange victory (1948) di Hurwitz, che è già un film-saggio sul riemergente razzismo interno.
Documentario formale. ‒ Allontanandosi dalla guerra, il d. ritrovò l'ambizione, ormai quasi dimenticata, di un realismo controllato dalla forma, dove montaggio, musica e voce fuori campo si intrecciano in composizioni altamente stilizzate. Vanno ricordati i cortometraggi di Luigi Comencini (Bambini in città, 1946), Dino Risi (Barboni, 1946), Antonioni (N.U. (Nettezza urbana), 1948; L'amorosa menzogna, 1949), Valerio Zurlini (Racconto del quartiere, 1953; Soldati in città, 1953), Carl Th. Dreyer (Kampen mod kræften, 1947, Lotta contro il cancro; De naade færgen, 1948, Presero il traghetto), Georges Franju (Le sang des bêtes, 1949; Hôtel des Invalides, 1951), Resnais (Toute la mémoire du monde, 1956; Le chant du styrène, 1958), Jacques Rozier (Blue jeans, 1958), Agnès Varda (Du côté de la côte, 1959), Arne Sucksdorff (Människor i stad, 1947, Gente di città), Colin Low e Wolf Koenig (City of gold, 1957), Bert Haanstra (Glas, 1959, Vetro), Kazimierz Karabasz (Muzykanci, 1960, I musicisti). In queste opere, specialmente in quelle dei registi francesi (molti dei quali costituirono il Groupe des Tren-te), la forma del cortometraggio raggiunse il suo apogeo, prima dell'arrivo della presa diretta, con contributi altamente qualificati per la musica e il commento. Fra i lungometraggi più famosi, Louisiana story (1948) di Flaherty e Det stora äventyret (1953, La grande avventura) di Sucksdorff si distinsero per l'intenso, lirico e quasi nostalgico senso della natura.
Ritorno alla realtà. Non è però in questo tipo di opere che è possibile cogliere preavvisi dell'imminente trasformazione del documentario. Al Festival di Cannes del 1946, non furono solo i film neorealistici italiani a colpire, ma anche Farrebique di Georges Rouquier, d. narrativizzato, in presa diretta, che segue per un anno intero una famiglia contadina nel villaggio omonimo della Francia centro-meridionale. È una realtà che il regista conosceva bene (la fattoria dove si svolge il film era quella della famiglia paterna) e le vicende furono ricostruite con le stesse persone che le avevano vissute. La verità veniva colta attraverso una finzione quasi inavvertibile. Parente prossimo di questo film fu Symphonie paysanne/Boerensymfonie (1942-1944), lungometraggio belga-fiammingo di Storck, che ha però il limite di un'estetica raffinata ma tradizionale e di un commento ridondante. In Rouquier emerge invece il sapore del vissuto, di una realtà colta sul farsi nonostante la ricostruzione. Nel 1983 Rouquier riuscì a tornare negli stessi posti verificando, a vari decenni di distanza, le trasformazioni nello splendido Biquefarre.
La realtà premeva nuovamente per essere 'colta sul fatto', dopo essere stata splendidamente 'inquadrata'. Forse l'esperienza della guerra aveva insegnato qualcosa. Vittorio De Seta girò in Sicilia, a colori, sette cortometraggi, senza musica né commento, ma con suoni registrati sul posto, su un mondo destinato di lì a poco a scomparire (come avrebbe verificato con l'inchiesta televisiva La Sicilia rivisitata, 1980). In Lu tempu di li pisci spata (1955), Surfarara (1955), Pescherecci (1958) e altri, la realtà irruppe con una presenza inedita sugli schermi italiani; da una prospettiva simile, Ermanno Olmi filmò la realtà emergente del mondo industriale in varie opere tra cui Tre fili fino a Milano (1959, cm) e Un metro è lungo cinque (1961, cm). Tra gli autori francesi Jean Rouch, ammiratore di De Seta, realizzò in Africa d. etnografici in 16 mm, che sopperiscono alla mancanza della presa diretta del suono con musica e commento, detto dalla voce dell'autore, e sempre più con una lingua che non ne cancella la cultura letteraria e poetica: per es., in Les maîtres fous (1955, cm); mentre in Moi, un noir (1959) accompagna con il commento il protagonista, che a sua volta si doppia fuori sincrono, dando al film il sapore di un'opera che riflette su sé stessa. Negli Stati Uniti, James Agee, Janice Loeb e Helen Levitt girarono con una cinepresa 16 mm nascosta, muto, In the street (1948-1952, cm), definito giustamente "la quintessenza del documentario" (K. Kelman). Agee come sceneggiatore e Meyers come regista realizzarono in 16 mm The quiet one (1948), un film di finzione su un bambino nero di Harlem, così dissimile per il suo realismo da quelli hollywoodiani da sembrare un documentario. Analoghi sono i film di Morris Engel, come The lit-tle fugitive (1953; Il piccolo fuggitivo, coregia di Ray Ashley e Ruth Orbin) e, girato in 35 mm con suono sincrono, Weddings and babies (1958). Fecero sensazione la crudezza con cui Lionel Rogosin filmò gli alcolizzati newyorkesi in On the Bowery (1956, mm) e la satira di Joseph Strick, B. Maddow e Meyers in The savage eye (1959). In Gran Bretagna, sotto l'etichetta Free Cinema (v.), si riallacciarono a questa tendenza ex critici come Lindsay Anderson (Every day except Christmas, 1957, mm su un mercato generale) e Karel Reisz (We are the Lambeth boys, 1959, mm sui ragazzi di un quartiere di Londra), che entrano con immediatezza nelle realtà urbane periferiche, grazie anche alla presa diretta e a una macchina da presa molto mobile, e nonostante la sovrapposizione di musica e commento.
Su un fronte diverso, il documentarismo approdò al moderno con le teorizzazioni di Cesare Zavattini, che prefigurò tendenze come il film diaristico e autobiografico, il cinema-verità e il film-saggio, e che nella pratica, a parte i suoi contributi di sceneggiatore, coordinò con Riccardo Ghione e Marco Ferreri L'amore in città (1953) e promosse Siamo donne (1953) che, pur essendo in massima parte film a episodi di finzione, propongono con la loro struttura un'idea di giornalismo o di inchiesta pretelevisiva e quasi autoriflessiva sul mezzo impiegato.
Nel 1958, con Lettre de Sibérie, girato in 16 mm, Chris Marker portò alle estreme conseguenze il dilemma verità/finzione del documentario. Il suo è un autentico "saggio documentato dal cinema" (A. Bazin) che si interroga sul senso delle immagini, anticipando di anni ciò che sarebbe diventato il punto nodale di questo tipo di film: l'immagine non garantisce più ciò che riproduce, le cose non sono solo ciò che appaiono. In India, nel 1957, R. Rossellini girò due opere complementari: un film in quattro episodi, India Matri Bhumi (1959) e un reportage televisivo in dieci puntate, J'ai fait un beau voyage/L'India vista da Rossellini (1959); il primo è un saggio poetico in forma di finzione, il secondo un diario di viaggio commentato in studio dall'autore: "l'immagine non è che il complemento dell'idea che la provoca" (Godard). La tendenza saggistica si fece strada anche nel film sull'arte (v.), dal citato Guernica a Le mystère Picasso (1956; Il mistero Picasso) di Henri-Georges Clouzot, a Picasso (1954, mm) di Emmer, rielaborato anni dopo in Incontrare Picasso (2000, mm).
Documentarismo in grande. Negli stessi anni operavano in direzione opposta cineasti che sfruttavano il d. per spettacolarizzarlo, a spese il più delle volte della verità. La realtà diventava sensazione e aveva successo di pubblico. Si andava dalla sua utilizzazione per promuovere il Cinerama (This is Cinerama, 1952, Questo è il Cinerama) e altri nuovi sistemi di megaproiezione, a produzioni Disney come The living desert (1953; Deserto che vive, premiato con l'Oscar) di James Algar, a Le monde du silence (1956; Il mondo del silenzio) di Jacques-Yves Cousteau e Louis Malle. Gli italiani diventarono specialisti del genere, con film come Sesto continente (1954) di Folco Quilici, Continente perduto (1955) di Leonardo Bonzi, Mario Craveri, Enrico Gras e Giorgio Moser, primo film italiano in cinemascope e suono stereofonico, L'impero del sole (1956) di Craveri e Gras, Europa di notte (1959) di Alessandro Blasetti, fino al trionfo pernicioso del fake documentary con Mondo cane (1962) di Paolo Covara, Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi. Ma il capolavoro del cinema di esplorazione, cui alcuni di questi film avrebbero aspirato, resta Les rendez-vous du diable (1956-1958) del vulcanologo francese Haroun Tazieff.
Il documentario moderno degli anni Sessanta. ‒ Il suono in presa diretta. Nel 1960 si assistette a una rivoluzione te-cnica in simbiosi con le esigenze creative. Il francese A. Coutant modificò con M. Mathot la macchina da presa 16 mm della Éclair, rendendola leggera (6 kg) e sufficientemente silenziosa per non interferire con la presa diretta del suono. Essa poteva essere utilizzata a mano e in collegamento via cavo con il magnetofono Nagra III, il primo ad avere un segnale pilota (che assicura il sincronismo fra i due motori), elaborato nel 1958 dal te-cnico svizzero S. Kudelski. Solo nel 1971 il Nagra IV acquisì il pilotaggio al quarzo, che rese macchina da presa e magnetofono indipendenti, mentre la Éclair-Coutant venne migliorata in leggerezza e silenziosità. Parallelamente, negli Stati Uniti e in Canada si facevano ricerche tecniche analoghe, con altri tipi di macchine da presa e di magnetofoni. J. Rouch utilizzò per primo la Éclair-Coutant con l'operatore canadese Michel Brault in Chronique d'un été (1960), per il quale il coregista e sociologo Edgar Morin coniò la locuzione cinéma vérité (v.); negli Stati Uniti, Richard Leacock, sostenuto dal produttore Robert Drew, filmò con una Auricon modificata alcune memorabili sequenze in presa diretta di Primary (1960, cm, coregia di Donn Alan Pennebaker e Terrence McCartney Filgate), sulle primarie nel Wisconsin di J.F. Kennedy e H. Humphrey; all'Office National du Film di Montréal si elaborò una macchina da presa leggera e insonora sulla base della Arriflex 16 mm tedesca. A completare i mezzi necessari per una definitiva libertà delle riprese sonore si aggiunsero pellicole più sensibili e obiettivi a focale variabile (zoom). Si parlava di candid eye, di living camera, di direct cinema. La destinazione naturale di questi film non era tanto la sala (con copie gonfiate a 35 mm) quanto la televisione, anche se agli inizi essa era reticente a trasmettere film impegnati e polemici. I festival svolsero un ruolo importante per farli conoscere alla critica; in Italia, si distinsero l'edizione della Mostra del cinema di Venezia dedicata al d. e soprattutto il Festival dei popoli di Firenze, fondato nel 1960. L'evidente novità dei d. del Cinéma vérité e del cinema diretto suscitò, per un momento, un ricco dibattito critico su un genere di solito trascurato. Il d. 'parlato' era diventato finalmente davvero 'parlante'. Le opere migliori di questa corrente sono, oltre le due citate, per Leacock Jane (1962, mm, coregia di Pennebaker), su Jane Fonda, The chair (1962, mm, coregia di Pennebaker), su un condannato alla sedia elettrica, e, senza più Drew, A happy mother's day (1963, cm, coregia di Joyce Chopra), sulla madre di cinque gemelli; per Pennebaker Don't look back (1966), su Bob Dylan, e Monterey pop (1968); per i fratelli David e Albert Maysles Showman (1963, mm), sul tycoon della distribuzione Joe Levine, Salesman (1968, coregia di Charlotte Zwerin), su dei piazzisti di bibbie, e Gimme shelter (1970, coregia della Zwerin), su un drammatico concerto dei Rolling Stones; nel Québec, la trilogia dell'Île aux Coudres di Pierre Perrault, Pour la suite du monde (1963, coregia di Brault), Le règne du jour (1967), Les voitures d'eau (1969), su una comunità di pescatori; a Toronto, Warrendale (1967) di Allen King, su un istituto per bambini disa-dattati; in Francia, il dittico Regard sur la folie/La fête prisonnière (1962) di Mario Ruspoli; di Marker Le joli mai (1962), su vari aspetti di Parigi in quel mese ("al cinéma-vérité degli altri, egli sostituisce oggi il ciné-ma-vérité [cine-mia-verità]", R. Tailleur, Parisiennes, in "Art sept", 2, avril-juin 1963), e À bientôt, j'espère (1967-68, mm), sullo sciopero in una fabbrica; di Rouch La chasse au lion à l'arc (1965); di Malle Calcutta (1968) e, per la televisione, L'Inde fantôme (1968). In Italia l'eco di queste innovazioni arrivò smorzato, data l'insensibilità al suono diretto provocata dalla pratica del doppiaggio e, nel d., dalla voce fuori campo. Le eccezioni sono i corto e mediometraggi di Gian Vittorio Baldi (La casa delle vedove, 1960), Gianfranco Mingozzi (La taranta, 1962), Luigi Di Gianni (Il male di San Donato, 1965), Raffaele Andreassi (Antonio Ligabue pittore, 1965), nei quali comunque il suono in presa diretta si mescola a commento e musica; già più 'puro' è Appunti per un film sul jazz (1965, mm) di Gianni Amico. Intanto, sia in televisione sia al cinema, si diffuse il film inchiesta (da L'Italia non è un paese povero, 1960, di Ivens a La via del petrolio, 1966, di Bernardo Bertolucci, da I misteri di Roma, 1963, coordinato da Zavattini, a I piaceri proibiti, 1963, di Andreassi). Nello spirito delle nouvelles vagues di quegli anni, erano poi sempre di più i film di finzione che facevano propri i metodi del cinéma vérité e del cinema diretto.Il documentario politico. La vitalità del documentarismo degli anni Sessanta era in sincronia con quanto avveniva sulla scena mondiale. Le lotte politiche del decennio trovavano le loro immagini in film di montaggio che riconducevano il fascismo riemergente alle sue radici storiche, con il citato All'armi, siam fascisti e con Obyknovenyj fašizm (1965, Il fascismo quotidiano) di Michajl Romm; lo statunitense Emile de Antonio si servì di materiali preesistenti, in genere televisivi, per assemblarli in saggi politici di rara forza ideologica (Point of order!, 1963, coregia di Daniel Talbot; In the year of the pig, 1969, sul Vietnam); l'argentino Fernando Ezequiel Solanas ricostruì la storia recente del suo Paese con intento militante nel monumentale La hora de los hornos (1968, L'ora dei forni coregia di Octavio Getino), come avrebbe fatto più tardi Patricio Guzmán in La batalla de Chile (1975-1978); il cubano Santiago Roman Álvarez fece pamphlet anche troppo schematici; Ivens intervenne in Vietnam (Le ciel, la terre, 1965, cm, e Le 17ème parallèle, 1967, coregia di Marceline Loridan, la quale lo spinse a utilizzare il suono in presa diretta) e in Laos (Le peuple et ses fusils, 1968-69, regia collettiva); sul Vietnam sono anche il film a episodi promosso da Marker, largamente di finzione, Loin du Vietnam (1967; Lontano dal Vietnam) e il bilancio di Peter Davis, Hearts and minds (1974). Dalle manifestazioni contro la guerra in Vietnam il passo fu breve verso quelle che anticiparono e poi caratterizzarono il Sessantotto: negli Stati Uniti gruppi di sinistra si organizzarono e fondarono con il coordinamento di Robert Kramer il cinegiornale 'libero' The newsreel; il cinema militante divenne quasi un genere in molti Paesi, e si organizzarono forme di distribuzione alternativa (come il gruppo Iskra promosso da Marker); in Giappone Ogawa Shinsuke girò una serie di film che documentavano la lunga ribellione alla costruzione del nuovo aeroporto di Narita, a cominciare da Nihon kaihō sensen ‒ Sanrizuka no natsu (1968, Fronte di liberazione del Giappone ‒ L'estate di Sanrizuka), e Tsuchimoto Noriaki militò per le rivolte studentesche in Paruchizan zenshi (1969, Preistoria dei partigiani) e per le vittime degli inquinamenti industriali in Minamata ‒ Kanjasan to sono sekai (1971, Minamata ‒ Le vittime e il loro mondo), anch'esso primo di una serie. Dal cinema di puro intervento, a volte disinteressato non solo al linguaggio del cinema ma anche all'uso accorto della tecnologia leggera e sincrona disponibile, si passò con Godard e il suo Groupe Dziga Vertov a un ripensamento del cinema politico con film-saggio in 16 mm che riproposero in maniera nuova le teorizzazioni del cineasta sovietico sulla forma, come British sounds (1969, mm) e Lotte in Italia (1970, coregia di Jean-Pierre Gorin, mm). Una summa e insieme una riflessione sul cinema militante fu Le fond de l'air est rouge (1977) di Marker.
Oltre il documentario. Sarebbe fuorviante prendere alla lettera l'etichetta, assai pubblicizzata, di 'cinema-verità'. La pretesa di oggettività che accompagnava il pragmatismo degli statunitensi già si mescolava alla soggettività degli europei. Si partiva dall'inchiesta per giungere alla 'mia' verità. Allora il d. si ibridava di finzione, di diario, di autobiografia, di saggio. La realtà, colta in diretta, veniva mediata dal punto di vista personale in fase di postproduzione. Difficile scindere ciò che è vero da ciò che è ricostruito in La pyramide humaine (1961), La punition (1962, mm), Gare du Nord (1964, episodio di Paris vu par…) di Rouch, il quale in Jaguar (1967) trasformò in diario di viaggio retrospettivo un materiale girato (muto, a colori, in 16 mm) nel 1954, facendolo commentare-doppiare ad anni di distanza dai protagonisti, procedimento in parte ripreso in Petit à petit (1970). Marker pose in discussione tutto ciò che filmava, proponendo saggisticamente un 'punto di vista documentato' in Description d'un combat (1960, mm su Israele), Cuba si (1961, mm) e Le mystère Koumiko (1965, mm sul Giappone), facendo saggistica pura con delle fotografie in Si j'avais quatre dromadaires (1966, mm) e spingendosi verso la finzione con i fotogrammi fissi di La jetée (1962, cm). Pasolini intuì magistralmente queste derive del d. nei suoi esperimenti a margine della più nota produzione di finzione: La rabbia (1963, primo episodio del film omonimo), Comizi d'amore (1965), Sopraluoghi in Palestina per Il Vangelo secondo Matteo (1963-1965, mm), Appunti per un'Orestiade africana (1968-1973) e altri. Che il d. non fosse più confinato alla 'documentazione' lo dimostrano molti film attratti da forme diaristiche e autobiografiche, a volte con modalità decisamente sperimentali. Il lituano naturalizzato statunitense Jonas Mekas, padre putativo del movimento Underground, montò i diari che andava girando dal 1949 in un grandioso work in progress dal titolo complessivo Diaries, notes and sketches, il cui primo 'capitolo' è Walden (1969); nello stesso ambito sperimentale l'austriaco Peter Kubelka sintetizzò magistralmente un viaggio in Africa in Unsere Afrikareise (1961-1966, cm), Jerome Hill rimontò alcuni suoi precedenti film amatoriali nella rie-vocazione autobiografica di Film portrait (1965-1971), Bruce Conner e Ken Jacobs inaugurarono una variante del film di montaggio, il found-footage film, deviando dal loro senso originale materiali 'trovati', il primo già dal 1958 con A movie e altri, il secondo analizzando al rallentatore un cortometraggio delle origini in Tom, Tom, the piper's son (1969); Shirley Clarke ritrasse la plurima emarginazione di un travestito nero e drogato in Portrait of Jason (1967); Jim McBride esplorò ironicamente e autoriflessivamente i confini tra vero e falso in David Holzman's diary (1967); Robert Frank, anche noto fotografo, seguì le vicende del fratello subnormale del poeta P. Orlovsky nel metafilm Me and my brother (1965-1968); Andy Warhol, infine, portò alle estreme conseguenze la 'veduta' dei Lumière nei lunghissimi e 'statici' Sleep (1963) ed Empire (1964).
Dagli anni Settanta in poi: le ibridazioni del documentario. ‒ Seguire nel suo insieme il percorso storico del d., cosa fin qui possibile sia pure in maniera sintetica, diventa impervio con gli anni successivi dato il proliferare a dismisura della produzione, complici l'agilità te-cnica del mezzo, la committenza della televisione, l'emergere di Paesi in cui il d., quando non lo stesso cinema, era rimasto una forma marginale di espressione, nonché l'uso crescente del video (v.), (disponibile fin dal 1963 come apparecchiatura portatile ma propagato a partire dagli anni Settanta). Si moltiplicarono i festival dedicati al d. (fra cui il più importante rimane forse Cinéma du réel a Parigi, nato nel 1979), ma diventava anche impossibile seguire nelle sue tante sfaccettature un cinema che oltretutto somigliava sempre meno a ciò che la tradizione aveva tramandato. Ogni tentativo di sintesi risulta quindi inevitabilmente parziale.
Una partizione utile è quella proposta da B. Nichols (1991), che distingue fra d. espositivo (expository), osservativo (observational), interattivo (interactive) e riflessivo (reflexive). Il primo è quello che si affida a una voce fuori campo, espositiva appunto, cioè quello più tradizionale, ancora molto diffuso in televisione; il secondo quello che osserva, apparentemente senza giudicare, come fa il cinema diretto; il terzo è quello dove la presenza del cineasta interagisce e provoca la realtà filmata, come in Chronique d'un été; l'ultimo è quello dove il cineasta riflette sul proprio operato, mettendosi in questione e mettendo in questione il linguaggio che impiega, e con ciò stesso la 'realtà' di ciò che filma, come nel caso di Godard e Marker. Si potrebbe anche dire che il d. può essere impersonale, in terza persona, dialogico e in prima persona: "si dice o si fa questo e quello"; "essi dicono o fanno"; "noi (io cineasta e tu 'attore' ovvero tu spettatore) diciamo o facciamo"; e infine "io dico o faccio". Il d. moderno tende, nelle sue forme più dinamiche, ad abbandonare le prime due strade per esplorare sempre di più le seconde. Ciò è dovuto anche al fatto che la crescente diffusione, leggerezza ed economicità della cine o videocamera sonora ne fa non più un 'mass' medium ma un 'group' o un 'self' medium.
A parte l'introduzione del video, l'innovazione tecnica più interessante è stata la macchina da presa Äaton del costruttore francese J.-P. Beauviala, prima in 16 poi in 35 mm, studiata per le esigenze creative dei cineasti, leggera, maneggevole e dotata di ciak elettronico, che consente di avviare la ripresa senza il fastidioso e rituale gesto meccanico indispensabile per il successivo sincronismo. Un'altra novità è stata la durata variabile dei film: si è passati dai classici cortometraggi (fino a 30 min), mediometraggi (da 31 a 60 min) e lungometraggi a standardizzazioni imposte dalla televisione (26 e 54 min, a 25 fotogrammi al secondo, cioè 30 e 60 min inclusa la pubblicità) o ad assenza di standard, con la comparsa di film lunghissimi, dove la durata è in accordo con le esigenze interne del film. Le durate abnormi di alcuni film (Le joli mai 165 min, La hora de los hornos, in tre parti, 225 min, Walden 180 min, per non parlare delle 6 ore e mezza di Sleep e delle 8 di Empire) anticipavano una tendenza crescente negli anni successivi, che ha poi coinvolto anche i film di finzione, come se anche il rituale della sala o del teleschermo fosse superato dalla possibilità di una visione parallela (cineclub ecc.) o domestica (videoregistratore) dei film.Cinema della realtà. Alcuni grandi cineasti hanno proseguito le esperienze del cinema diretto. Negli Stati Uniti il film-concerto, sottogenere fortunato, è esploso con due film: Woodstock (1969) di Michael Wadleigh e Cocksucker blues (prodotto nel 1972 e uscito nel 1979) di R. Frank, rimasto per anni invisibile per opposizione dei Rolling Stones; Frederick Wiseman ha costruito una sorta di enciclopedia sociale, dedicando ognuno dei suoi numerosi film a un tema di interesse pubblico attraverso l'osservazione approfondita di una comunità: dalla medicina (Titicut follies, 1967; Hospital, 1969; la miniserie Deaf and blind, 1986; Near death, 1989) alla scuola (High school, 1968, e High school II, 1994), dalla giustizia (Law and order, 1969; Juvenile court, 1973) all'assistenza sociale (Welfare, 1975; Public housing, 1997; Domestic violence, 2001), all'esercito (Basic training, 1971; Sinai Field Mission, 1978; Manoeuvre, 1979; Missile, 1987); Barbara Kopple ha seguito una strada analoga in Harlan County U.S.A. (1977), su uno sciopero di minatori, American dream (1990), sul lavoro in fabbrica, My generation (2000), su tre diverse edizioni del concerto rock di Woodstock; Ch. Zwerin, collaboratrice dei fratelli Maysles, si è de- dicata a ritratti di personalità dello spettacolo, come in Thelonius Monk: straight, no chaser (1988). In Francia Raymond Depardon, anche affermato fotografo, è penetrato analiticamente dentro realtà controverse come la campagna elettorale di V. Giscard d'Estaing (50,81%, 1974), gli ospedali (San Clemente, 1980; Urgences, 1987), il mondo del giornalismo (Numéros zéro, 1977; Reporters, 1980) e quello della giustizia (Faits divers, 1983; Délits flagrants, 1994; Muriel Leferle, 1996); Marcel Ophuls ha ricostruito la storia passata e recente con straordinari film-inchiesta come Le chagrin et la pitié (1971) e Hôtel Terminus (1988), sul collaborazionismo francese, e Veillées d'armes (1994), sui corrispondenti di guerra a Sarajevo; Claude Lanzmann ha raccolto testimonianze fra i sopravvissuti dell'olocausto nel monumentale Shoah (1985) e Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures (1979-2001); Jean-Louis Comolli si è immerso nella provincia francese, in particolare Marsiglia (Les deux marseillaises, 1968; Marseille de père en fils, 1989; Marseille en mars, 1993; Marseille contre Marseille, 1995). Hanno continuato a girare film alcuni grandi cineasti rimasti fedeli ai loro principi, come Ivens (Comment Yukong déplaça les montagnes, 1971-1976, dodici episodi di varia lunghezza girati in Cina, con suono in presa diretta), i fratelli Maysles (Grey Gardens, 1976; Islands, 1986; Christo in Paris, 1990), Perrault (Le goût de la farine, 1977; Le pays de la terre sans arbres ou Le Mouchouânipi, 1980; La bête lumineuse, 1982). Le esperienze del cinema diretto hanno influenzato cineasti della più varia provenienza, come il giapponese Imamura Shōhei, con film che svelano episodi rimossi dell'immediato dopoguerra (Nippon sengoshi ‒ Madamu Onboro no seikatsu, 1970, Una storia del Giappone del dopoguerra ‒ Il racconto di madame Onboro; Karayuki san, 1973); lo svedese Stefan Jarl, che ha seguito per anni la vita di due contestatori (Dom kallar oss mods, 1968, Ci chiamano capelloni, coregia di Jan Lindqvist; Ett anständigt liv, 1979, Una vita decente; Det sociala arvet, 1993, Il contratto sociale) e si è concentrato sul degrado della natura (Naturens hämnd, 1983, La vendetta della natura; Tiden har inget namn, 1989, Il tempo non ha nome); il polacco Krzysztof Kieslowski (molti cortometraggi e mediometraggi fra il 1966 e il 1988); il tedesco Werner Herzog, in film dove è sempre forte il coinvolgimento personale (Land des Schweigens und der Dunkelheit, 1971; Die Grosse Ekstase des Bildschnitzers Steiner, 1973, mm; La soufrière, 1976, mm; Gasherbrumm, der leuchtende Berg, 1984, mm); Antonioni (Chung Kuo ‒ Cina, 1972); Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli (Nessuno o tutti, 1974-75, noto anche nella versione corta, Matti da slegare), Daniele Segre, attento al mondo del lavoro e dell'emarginazione (Vite di ballatoio, 1984, mm video; Tempo di riposo, 1991, mm video; Dinamite, Nuraxi Figus, Italia, 1994, mm video; Asuba de su serbatoiu, 2001, video).
Non è infrequente, in questo cinema legato a una realtà osservata nel suo svolgersi, che il cineasta torni a filmarla più volte di seguito, oppure a distanza di anni. Ai casi già menzionati di Rouquier, De Seta, Perrault, Jarl, si possono aggiungere quelli di Comencini (I bambini e noi, 1970, e Tutti i bambini di Comencini, 1990), Jean Eustache (La rosière de Pessac, 1968 e 1979), Aleksandr Sokurov (Leto Marij Vojnovoj, 1978, L'estate di Marija Vojnova, cm, e Marija, 1988, mm), Robert M. Young (Cortile Cascino, 1962, coregia di Michael Roemer, e Un destino siciliano, 1991), Amos Gitai (Wadi, 1981; Wadi 1981-1991, 1991; Wadi Grand Canyon, 2001).Tra i cineasti partiti dalle esperienze innovative degli anni Sessanta per prolungarle in un itinerario personale è stata fondamentale l'attività dell'olandese Johan van der Keuken, il cui documentarismo è osservativo, interattivo e riflessivo, in film come De Platte Jungle (1978, La giungla piatta), De Weg naar het Zuiden (1981, La via verso il sud), I $ (1986), Face value (1991), Amsterdam global village (1996), De grote vakantie (2000, La grande vacanza). Simile è stato il percorso dello statunitense R. Kramer, che però alterna il d. alla finzione, spesso con contaminazioni reciproche, realizzando opere di prim'ordine come Route One/USA (1989), Point de départ/Starting place (1993), Walk the walk (1996).Un campo a sé è quello del cinema etnografico (v. etnografico, film), dove ha prevalso un consapevole intento scientifico di documentazione, anche se non alieno da derive autoriali, come, per es., quelle di Rouch o Robert Gardner. In questo campo si distingue la scuola australiana, con le opere realizzate da Ian Dunlop (Desert people, 1966-67, mm), David e Judith MacDougall (To live with herds: a dry season among the Jie, 1971; Kenya Boran, 1974; Wedding camels; 1977), Timothy e Patsy Asch e Linda Connor (Jero on Jero, 1980), Bob Connolly e Robin Anderson (First contact, 1983).Documentari senza etichette. Altri cineasti hanno seguito percorsi personali, un po' a distanza dalle tendenze altrove dominanti nel periodo. Molti di loro hanno operato non a caso in paesi ex comunisti: i russi Sokurov, con una serie di Elegie, a cominciare da Elegija (1985-1987, cm) e Vladimir M. Kobrin, che ha reinventato genialmente, su basi sperimentali che investono anche il video, il d. di divulgazione scientifica, in opere come 1991-tut (1991, 1991-qui, cm), Tret′ja real′nost′ I e II (1995-96, La terza realtà, cm), Absoljutno iz ničego (1997, Assolutamente da niente, cm video), Son pljašuščich čelovečkov (1997, Il sogno degli omini danzanti, cm video); il lettone Hercs Franck, con Aizliegta zona (1975, Zona proibita), Vecaks par 10 minutem (1978, Più vecchio di 10 minuti, cm), Augstaka tiesa (1987, Il giudizio supremo); il ceco Karel Vachek, con Spřízněni volbou (1968, Le affinità elettive), sulla 'primavera' di Praga, riemerso solo dopo la caduta del comunismo, e Novy Hyperion aneb volnost, rovnost, bratrství (1992, Il nuovo Iperione ovvero libertà, uguaglianza, fraternità), sorta di seguito del precedente, sulle elezioni postcomuniste del 1990; il tedesco orientale Jurgen Böttcher, con numerosi d. fra cui Rangierer (1984, cm) e Die Mauer (1990), sull'abbattimento del muro di Berlino; gli ungheresi Istvan Dárday e Györgyí Szalai, in particolare con Filmregény-Három növér (1976-77, Filmromanzo-Tre sorelle), che è in realtà un film di finzione, ma integralmente concepito con tecniche di improvvisazione o 'messa in situazione' tipiche del d., e in questo senso analogo ad altre esperienze, che nel periodo sono numerose, da quelle di John Cassavetes (Faces, 1968; Volti) a quelle di Baldi (Fuoco!, 1968, e ZEN-Zona Espansione Nord, 1988).
Molto personali sono i percorsi di cineasti così diversi come gli italiani Anna Lajolo e Guido Lombardi (D ‒ Non diversi giorni si pensa splendessero alle prime origini del mondo o che avessero temperatura diversa, 1970, mm; & ‒ Là il cielo e la terra si univano, là le quattro stagioni si ricongiungevano, là il vento e la pioggia si incontravano, 1972); gli statunitensi Gardner, da Dead birds (1964) a Rivers of sand (1974) a Forest of bliss (1986), che, indagando universi incontaminati, sembra proseguire la tendenza lirica di un Flaherty o di un Sucksdorff; il megalomane e sgradevole Godfrey Reggio (Koyaanisqatsi, 1983); Michael Moore (Roger and me, 1989; Bowling for Columbine, 2002, Bowling a Columbine); l'inglese Peter Watkins, dalle 'docufinzioni' di The war game (1966) e Punishment Park (1971) a The journey (1987), vasto reportage sui temi della pace; il tedesco Peter Nestler, che realizza film apparentemente osservativi di notevole rigore ideologico e saggistico (da Von Griechenland, 1965, mm, a Väntan, 1985, cm, a Löfotr, 1994, mm); i francesi Jean-Daniel Pollet (da Méditerranée, 1963, mm, a L'ordre, 1973, mm, da Pour mémoire, 1979, mm, a Dieu sait quoi, 1992-93, uscito nel 1997) e Jean-Claude Rousseau, che lavora in super8 con grande rigore formale (Jeune femme à sa fenêtre lisant une lettre, 1983-2001, mm; La vallée close, 1995-1998); l'iraniano Abbas Kiarostami, da Zang-e tafrih (1972, La ricreazione, mm) a Nemá-ye nazdik (1990; Close-up), ad ABC Africa (2001); la belga Chantal Akerman, con News from home (1976), "Un jour Pina a demandé…" (1983, mm), D'Est (1993, anche installazione, 1995), Chantal Akerman par Chantal Akerman (1996, video); il giapponese Koreeda Hirokazu (Kioku ga ushinawareta toki, 1997, Senza memoria; Wonderful life ‒ After life, 1998).Un erede delle teorizzazioni di Vertov sul montaggio nella nonfiction è l'armeno Artavazd Pelešjan, che in film come Načalo (1967, L'inizio), My/Menk (1969, Noi, cm), Vremena goda/Tarva yeghanaknère (1972, Le stagioni, mm), Naš vek/Mer dare (1982, Il nostro secolo, mm) ha praticato il 'montaggio a distanza', cioè un montaggio dove le varie inquadrature riecheggiano musicalmente fra di loro da un punto all'altro del film-partitura.Il post-documentarismo. Le tendenze più nuove e prolifiche manifestatesi a partire dagli anni Settanta sono quelle legate a un cinema riflessivo, che si possono ordinare in alcune categorie: il film di montaggio, il film autobiografico e diaristico, il film-saggio, il fake documentary, nonché in certe frange del cinema sperimentale. Dopo alcune anticipazioni già menzionate, all'inizio del decennio alcune opere possono essere considerate antesignane di tali tendenze: La société du spectacle (1973) del situazionista Guy Debord, che ha adoperato la te-cnica del détournement (deviamento) su materiali di repertorio; Swastika (1973) e Brother, can you spare a dime? (1974) dell'australiano Philippe Mora, che rievocano epoche storiche (nazismo e Grande depressione) con un rimontaggio innovativo di materiali documentari e di finzione; gli sperimentali Anonimatografo (1972, cm) di Paolo Gioli e Eureka (1974, cm) dello statunitense Ernie Gehr, che operano creativamente nel campo del found-footage film; Heroes (1971) dello statunitense Frederick Baker, che rielabora home movies; We can't go home again (1973), complesso film semiautobiografico realizzato, e mai veramente terminato, da Nicholas Ray con alcuni suoi studenti; F for fake di O. Welles, che impone il concetto di cinema saggistico e insieme quello del fake documentary; Zorns lemma (1970) di Hollis Frampton e La région centrale (1971) di Michael Snow che, in ambito sperimentalista, formulano ipotesi estreme, quasi matematiche, di film-saggio e di d. di esplorazione; L'ambassade (1973), cortometraggio in super8 muto di Marker, presentato come un objet trouvé nell'ambasciata sotto assedio di un Paese che potrebbe essere il Cile di quell'anno. A sua volta il video (territorio che meriterebbe una trattazione a parte, anche solo per quanto riguarda la sua utilizzazione nel d. tradizionale, moderno e postmoderno) è entrato in scena con Godard in commistione con la pellicola in Numéro deux (1975) e poi da solo in altri videosaggi come le serie televisive Six fois deux, noto anche come Sur et sous la communication (1976) e France tour/détour deux enfants (1977-78).
Film di montaggio. Questo genere risulta avere ormai a disposizione decenni di immagini, fra le quali può muoversi con maggiore disinvoltura di prima, anche grazie alla moltiplicazione delle proposte archivistiche (v. film d'archivio). Il loro semplice uso per la ricostruzione storica è integrato da indagini più personali, come in La guerre d'un seul homme (1981) dell'argentino trasferito a Parigi Edgardo Cozarinsky (che si è poi specializzato in film-saggio su vari aspetti della cultura, dalla musica al cinema), dove immagini della Francia occupata vengono montate in contrappunto ai diari di E. Jünger, o in Moeder Dao, de schildpadgelijkende (1989-1995, Madre Dao, a forma di tartaruga) dell'olandese Vincent Monnikendam, rimontaggio poetico di d. coloniali sulle ex Indie orientali.
È apparsa anche viva la tendenza a usare, in tutto o in parte, immagini di repertorio per riflettere saggisticamente sulla storia del cinema, come hanno fatto Marker in Le tombeau d'Alexandre (1992, video), sul russo Aleksandr I. Medvedkin; il francese Alain Fleischer in Un tournage à la campagne (1994), riassemblaggio dei 'giornalieri', fortunosamente ritrovati, di Partie de campagne (1936) di Renoir, e in Un monde agité (2000), combinatoria di frammenti di film dei primordi del cinema; il tedesco Thomas Tode in Im Land der Kinoveteranen: Filmexpedition zu Dziga Vertov (1995); o il russo Oleg Kovalov nell'inventivo Sergej Ejzenštejn. Avtobiografija (1995-96, Sergej Ejzenštejn. Autobiografia).Nel campo sperimentale del riuso del found-footage film si distingue la coppia Y. Gianikian-A. Ricci Lucchi, da Karagoez-Catalogo 9,5 (1979-1981) a Images d'Orient, tourisme vandale (2001), che, con ingrandimenti di particolari, rallentamenti, colorazioni, analizza immagini del passato per scoprirvi il senso nascosto e attuale; Morgan Fisher riflette sulla materia della pellicola servendosi di code e frammenti di film in Standard gauge (1984, mm); altre esperienze, satiriche o parodiche, sono quelle di The atomic cafe (1982) di Kevin e Pierre Rafferty e Jayne Loader, di Tribulation 99. Alien anomalies under America (1990, mm) di Craig Baldwin o dei video raffinatamente concettuali della serie Plagium, iniziata nel 1993, del gruppo catanese Cane CapoVolto.
Un altro impiego affascinante del materiale 'trovato' è quello che riguarda i film amatoriali (home movies, films de famille), che alcuni gruppi collezionano in vista di compilazioni per la televisione, come Inédits, che è stata fondata in Belgio da André Huet e dal 1991 è diventata associazione europea, e La Caméra Stylo in Germania; fra le opere più sorprendenti in questo campo si segnalano The family album (1986) e Intimate stranger (1991) dello statunitense Alan Berliner, le serie Familienkino (1978-79, video) e Das war Unsere Krieg (1993-94, video) dei tedeschi Michael Kuball e Alfred Behrens, la serie sull''Ungheria privata' di Péter Forgács, fra cui eccezionale è Az örvény (1996, Il gorgo, video), e Eine Geschichte der Bilder. Acht Found Footage Filme aus Österreich (1996) di autori vari.
Film autobiografici e diaristici. La diffusione del cinema e del video amatoriale, la perdita di aura e la leggerezza dello strumento, la consapevolezza dello slittamento del mass medium verso il self medium hanno incrementato questa tendenza, che offre ormai numerosi e straordinari esempi in tutto il mondo, intaccando perfino certi film ancora interni alla finzione come Caro diario (1993) e Aprile (1998) di Nanni Moretti. Si ricordino: negli Stati Uniti, la maggior parte dell'opera del grande sperimentalista Stan Brakhage; i carnet di viaggio di Warren Sonbert, da Carriage trade (1972) a Friendly witness (1989, cm); Dialogue with a woman departed (1972-1980) del veterano Hurwitz; Lightning over water ‒ Nick's film (1980-81; Nick's movie ‒ Lampi sull'acqua), Chambre 666 (1982, mm video), Tokyo-ga (1983-1985) e altri di Wim Wenders; The ties that bind (1984, mm) e Sink or swim (1990, mm) di Su Friedrich; He stands in a desert counting the seconds of his life (1985), fra gli altri Diaries di Mekas; Sherman's march (1981-1985) e Time indefinite (1993) di Ross McElwee; Thank you and good night (1991) di Jan Oxenberg; Obsessive becoming (1995, mm video) di Daniel Reeves; Trying to kiss the moon (1994-95) dello statunitense trapiantato a Londra Stephen Dwoskin; in Francia, Cinématon, serie di miniritratti di 3 minuti e 25 secondi (la durata di un caricatore super8) che Gerard Courant ha girato a ritmo quasi quotidiano dal 1978 (ne ha realizzati più di 2000); Mourir à trente ans (1982) di Romain Goupil; No sex last night (1992-1995), diario di viaggio di Sophie Calle con Gregory Shephard; Babel, lettre à mes amis restés en Belgique (1986-1992), À la recherche du lieu de ma naissance (1990) e Histoire de ma vie racontée par mes photographies (2002) del belga Boris Lehman; Eykh hifsaqti lefaḥed velamadeti leehov et Ariq Sharon (1997, Come ho imparato a superare le mie paure e ad amare Arik Sharon, video) dell'israeliano Avi Mograbi; Porto da minha infância (2001) di M. de Oliveira.Cinema saggistico. Il termine saggio viene accoppiato a quello di cinema, oltre che da Richter, da Alexandre Astruc, che nel suo famoso manifesto Naissance d'une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo (in "L'écran français", 30 mars 1948, 144), non a caso aperto da una frase di Welles ("Ciò che mi interessa al cinema è l'astrazione"), dichiara che il cinema è diventato ormai "un linguaggio, cioè una forma nella quale e per mezzo della quale un artista può esprimere il proprio pensiero per quanto astratto, o tradurre le proprie ossessioni, esattamente come avviene oggi per il saggio e il romanzo" (trad. it. in Leggere il cinema, a cura di A. Barbera, R. Turigliatto, 1978, p. 313); nel 1955 Jacques Rivette affermò: "C'era The river [Renoir, 1950], primo poema didattico: c'è adesso Viaggio in Italia [Rossellini, 1954] che, con perfetta nettezza, offre al cinema, fino ad ora costretto al racconto, la possibilità del saggio" (Lettres sur Rossellini, in "Cahiers du cinéma", avril 1955, 46, p. 20); e Pasolini definì La rabbia "un saggio polemico e ideologico sugli avvenimenti degli ultimi dieci anni" (dichiarazione a Carlo di Carlo, in A. Bertini, Teoria e tecnica del film in Pasolini, 1979, p. 147). La tensione che attraversa a momenti la storia del cinema, e di quello documentario in particolare, a superare la ontologica concretezza delle immagini per tentare di esprimere anche un pensiero astratto, come in un saggio, è diventata una vera e propria tendenza, fatta propria da molte opere, che hanno approfittato sempre di più della flessibilità del linguaggio cinematografico, potendo in più con il video, con il digitale, e con il DVD, manipolare e incrostare le immagini. Oltre ad autori che sono stati all'origine della tendenza, come Marker (che ha proseguito con i fondamentali Sans soleil, 1982, e Level 5, 1996, video), Debord (In girum imus nocte et consumimur igni, 1978), Godard (Scénario du film 'Passion', 1982, mm video; Puissance de la parole, 1988, cm video; le straordinarie Histoire(s) du cinéma, 1988-1998, video, uscite anche come libro nel 1998), Welles (Filming "Othello", 1978), altri hanno realizzato, all'interno di un'opera polivalente, film che possono essere ascritti a tale tendenza: il serbo Dušan Makavejev (Nevinost bez zaštite, 1968, Verginità indifesa); la statunitense Yvonne Rainer (Film about a woman who…, 1972); i francesi Danièle Huillet e Jean-Marie Straub (Fortini/Cani, 1976; Trop tôt, trop tard, 1980-81; Cézanne, 1988, mm); il tedesco Hans-Jürgen Syberberg (Hitler, ein Film aus Deutschland, 1977); il cileno Raúl Ruiz (Colloque de chiens, 1977, cm; Les divisions de la nature, 1978, cm); Boris Lehman (Magnum begynasium bruxellense, 1978; Leçon de vie, 1995); lo svizzero Richard Dindo (Max Frisch, Journal I-III, 1980); A. Varda (Documenteur, 1980-81; Ulysse, 1982, cm; Jacquot de Nantes, 1990, Garage Demy; Les glaneurs et la glaneuse, 2000); Snow (So is this, 1982, mm fatto di sole parole scritte); il sempreverde Ivens (Une histoire de vent, 1988, Io e il vento, coregia di Marceline Loridan); i tedeschi Alexander Kluge (Die Macht der Gefühle, 1982-83, La forza dei sentimenti, e dal 1985 programmi televisivi a cadenza settimanale come 10 vor 11 e News & stories), Bitomsky (Reichsautobahn, 1986; Der VW Komplex, 1989), Harun Farocki (Bilder der Welt und Inschrift des Krieges, 1988), Andrei Ujica (Out of the present, 1995, sulle imprese spaziali sovietiche); gli italiani Piero D'Onofrio e Fabio Vannini (Noistottus, 1987) e Gianfranco Pannone (L'America a Roma, 1998); il belga fiammingo Stefan Decostere, con molti video fra cui Charbon-velours (1987, in cinque parti), sul cinema, Travelogue 5: déjà vu (1994, mm), sul turismo postmoderno, Lessons in modesty (1995), sulle mutazioni del corpo nella nuova società elettronico-digitale; gli statunitensi Jon Jost (Plain talk & common sense ‒ Uncommon senses, 1987); Errol Morris (The thin blue line, 1989, La sottile linea blu; A brief history of time, 1992, Dal big bang ai buchi neri; Fast, cheap & out of control, 1996), Mark Rappaport (From the journals of Jean Seberg, 1995); il belga Eric Pauwels (Voyage iconographique: le martyre de Saint-Sébastien, 1989, mm; Les rives du fleuve, 1991, mm); l'inglese Patrick Keiller, con gli ironici saggi urbanistici London (1994) e Robinson in space (1997).Nel campo del video vanno almeno ricordati gli statunitensi Gary Hill (Ura Aru ‒ The backside exists, 1985-86, cm) e Bill Viola (I do not know what it is I am like, 1986), l'italiano Gianni Toti (SqueeZangeZaum, 1988; Planetopolis, 1994) e l'inglese David Larcher (Videøvoid ‒ The trailer, 1993, mm; Ich Tank, 1997, mm). Un caso particolare di cinema saggistico è quello di Rossellini che, pur servendosi di elementi di finzione, ha impostato il proprio cinema didattico, realizzato per la televisione, in funzione non di un'illusione narrativa ma di un percorso di apprendimento di grande rigore divulgativo: da L'età del ferro (1964) a Cartesius (1974).Le opere e gli autori menzionati sono comunque molto diversi fra di loro, anche se accomunabili per una analoga tendenza al superamento del d. in direzione saggistica, che non esclude peraltro incroci produttivi con altre tendenze prima descritte.
Fake documentary. La nozione di d., o anche di non-fiction, è diventata ormai così inadeguata da produrre i propri anticorpi parodici nella forma del fake documentary, che con le sue apparenze di 'verità' rivela i limiti dell'immagine realistica. A parte l'esperienza tutta italiana, diventata un fenomeno perverso di culto, quella di Mondo cane e analoghi, si va da trasmissioni televisive che sfruttano un po' subdolamente i principi del Cinéma vérité, come la serie televisiva di Nanni Loy Specchio segreto (1964), a operazioni più raffinate, come Premiers mètres (1984, cm) del francese Pierre-Oscar Lévy, sui pretesi primi film di grandi cineasti (ma uno è autentico); L'autre côté ‒ Documents interdits (1989), sei cortometraggi 'amatoriali' dal contenuto inquietante del francese Jean-Teddy Abdi-Filippe; Yes Sir! Madame… (1994, video), finto diario di un uomo di successo del canadese Robert Morin; o Forgotten silver (1996, mm), celebrazione di un geniale, e inesistente, pioniere del cinema neozelandese di Peter Jackson e Costa Botes.
Questi "passaggi dell'immagine" (R. Bellour) investono ormai non solo il d. o nonfiction che dir si voglia, ma la concezione stessa del cinema; sia pure ai margini di ciò che il pubblico continua a vedere nelle sale o in televisione, si annuncia una trasformazione radicale, anticipata da tante opere e riflessioni disperse del passato, che va in direzione di una ibridazione delle forme e delle tecniche, non più campi separati e 'specializzati', e di modi diversi di rivolgersi allo spettatore, non più convocato a uno spettacolo di massa. Il cinema del 21° sec. non è più il cinema, pur continuando a essere immagini e suoni in movimento, che possono ormai manifestarsi anche con modalità non lineari ma reticolari e interattive. La nonfiction, molto più del cinema di finzione, proprio perché fin dall'origine più svincolata da codici linguistici e da regole industriali, è il laboratorio dove questo nuovo cinema prende forma.
Bibliografia
Storie:
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Teorie:
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S. Bruzzi, New documentary. A critical introduction, London-New York 2000;
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Antologie:
The documentary tradition. From "Nanook" to"Woodstock", ed. L. Jacobs, New York 1971;
Il cinema allo specchio. Appunti per una storia del documentario, a cura di G. Bernagozzi, Bologna 1985;
Imagining reality. The Faber book of documentary, ed. K. Macdonald, M. Cousins, London-Boston 1996;
Ente Mostra internazionale del nuovo cinema, Il cinema e il suo oltre, 2. Le avventure della nonfiction, a cura di A. Aprà, Pesaro 1997.