Due papi un trono
Le dimissioni di papa Benedetto XVI non sono straordinarie da un punto di vista costituzionale o teologico. Lo sono perché hanno messo in primo piano la debolezza fisica di un uomo. E perché Francesco rinuncia al potere per cercare una nuova cattolicità nella globalizzazione.
Il problema in realtà è proprio la scomparsa del trono. Se il caso della successione pontificia fosse visto come quello di una delle tante monarchie che hanno costituito un tassello della storia dell’Occidente, l’interpretazione sarebbe certo più semplice. È vero che si tratta di una monarchia speciale, dell’unica monarchia elettiva rimasta dopo la fine del Sacro romano impero: ma i criteri di successione sono rimasti e rimangono ai nostri giorni sempre gli stessi, o la morte o la rinuncia al trono (vedi i casi ultimi dell’Olanda e del Belgio) da parte del regnante.
Nulla di eccezionale quindi, dal punto di vista delle grandi tradizioni, nelle dimissioni date da Benedetto XVI, Joseph Ratzinger, rese esecutive il 28 febbraio 2013. I vaticanisti e gli storici si sono dati molto da fare nella ricerca dei precedenti ma con scarsi risultati: la solita citazione delle dimissioni di Celestino V (il ‘gran rifiuto’ del 1294), le dimissioni-deposizioni di papi durante lo scisma d’Occidente nei concili di Costanza e di Basilea, nella prima metà del Quattrocento. Allora il peso delle nuove monarchie e i patti elettorali tra i cardinali rendevano queste successioni (anomale) del tutto conformi alla crisi della respublica christiana medievale e alla necessità di trovare nuovi equilibri all’interno dei meccanismi di una monarchia elettiva parallela a quella imperiale. Nei secoli successivi la fine della ‘cristianità’, con la frattura provocata dalla Riforma protestante e il consolidamento della monarchia papale, non diede luogo a fenomeni di questo tipo: si ebbe invece il consolidarsi di una specie di protettorato delle grandi potenze che si concretava nel diritto di veto al momento stesso dell’elezione (lo ius exclusivae) rimasto in vigore sino all’inizio del 20° secolo, con la celebre esclusione del cardinale Mariano Rampolla nel conclave del 1903, esclusione che portò poi all’elezione di papa Sarto, Pio X. Non è quindi possibile, a mio avviso, vedere nelle dimissioni di Benedetto XVI un’innovazione nella struttura costituzionale della Chiesa cattolica. Un ragionamento diverso va fatto sul piano teologico a proposito del dogma dell’infallibilità ex cathedra del magistero pontificio, sui temi riguardanti la fede e la morale, proclamata nel concilio Vaticano I del 1870. Ma anche questa proclamazione, pur nell’esaltazione della figura centrale del pontefice rispetto allo stesso episcopato cattolico, non toccò per nulla la struttura costituzionale precedente: anzi distingueva ancora maggiormente tra la persona fisica del pontefice e la sua figura istituzionale del papa-re proprio nel momento in cui Pio IX perdeva la sovranità temporale sul suo regno con l’annessione di esso al Regno d’Italia. Le definizioni del Vaticano I sottintendevano anzi come risposta alle sfide della modernità una distinzione netta tra la figura istituzionale del papa come responsabile dell’unità della dottrina della Chiesa universale e la sua persona concreta, umana: una distinzione tra l’autorità istituzionale-carismatica e quella fisica. Nella curia romana e nel rapporto della Santa Sede con gli Stati noi troviamo anche dopo il concilio Vaticano I una continuità assoluta sino ai nostri giorni, sia nella funzione del cardinale segretario di Stato (e dei nunzi rappresentanti della Sede romana presso gli Stati) sia nella politica concordataria che ha governato la disciplina ecclesiastica in uno stretto rapporto tra la gerarchia cattolica e i detentori del potere politico.
La novità delle dimissioni di Benedetto XVI non può essere quindi trovata, a mio avviso, nel campo storico e in quello teologico ma nelle sue motivazioni concrete e attuali. La prima è certo nel rapporto tra la dichiarata debolezza fisica del pontefice e il progresso attuale della medicina: per la prima volta nella storia la vita umana può essere prolungata come sopravvivenza (come lo stesso papato precedente di Giovanni Paolo II aveva dimostrato) al di là della capacità di mantenere le responsabilità di governo della Chiesa universale (con i conseguenti disordini derivanti dalle inevitabili lotte interne alla curia e dall’indisciplina causata dalla mancanza di una linea certa di governo). Un tempo si diceva ‘a ogni morte di papa’ per indicare un arco di tempo, in qualche modo naturale, in cui potevano iscriversi i fenomeni storici: oggi non più. La straordinaria intelligenza di Joseph Ratzinger (che non per nulla proviene da una formazione universitaria critica) è stata quella di valutare le sue forze e le sue responsabilità all’interno delle nuove dimensioni della scienza medica per la quale il corpo può continuare a vivere anche nel declino inarrestabile della coscienza.
La seconda novità è, invece, di carattere istituzionale e viene esaltata già in modo irreversibile dalle parole e dai gesti di papa Francesco nei primi mesi del suo pontificato: non esiste più il trono, come si diceva all’inizio. Francesco e i suoi successori in ogni caso non vivranno più in un mondo dominato dagli Stati, dai ‘troni’, ma in una società globalizzata in cui il legame tra le singole comunità cristiane e la prima sedes (il vescovo di Roma) non è più mediato dagli Stati e dovrà costruire la sua ‘cattolicità’ in un nuovo rapporto tra il centro e le periferie, tra il papato e le Chiese locali al di fuori di ogni similitudine col passato, saltando l’intermediazione tradizionale degli Stati. Senza trono, appunto.
Paolo Prodi
Papa Francesco s’è trovato innanzi un problema antico e uno nuovo: quello antico è quello di una istituzione che ‘produce’ magistero lentamente e che dunque, nel momento in cui inizia la sede vacante, lascia qualche incompiuta nei cassetti; quello nuovo è che l’autore dell’incompiuta era vivo e vegeto e avrebbe potuto giudicare, al pari di tutti gli altri che attendevano la terza enciclica a chiudere la triade fede-speranza-carità, una eventuale omissione o intervento. Il papa argentino non ha voluto fare come quei predecessori – il più clamoroso caso fu quello del passaggio Pio XI-Pio XII – che lasciarono cadere i temi elaborati in precedenza: e s’è ‘liberato’ molto rapidamente di un testo tutto ratzingeriano. Qualche cenno e qualche smussatura rispetto alla versione iniziale potrà infatti esserci nella Lumen fidei pubblicata con data del 29 giugno 2013: ma l’enciclica non è affatto ‘a quattro mani’, come s’è detto. Vi sono tutti i temi (relativismo, principi non negoziabili, moralità di chi agisce come se Dio ci fosse) del tempo di Benedetto XVI e ci sono piccolissimi inserti bergogliani (il creato, il precetto ‘non fatevi rubare la speranza’), in posizione marginale. Assumendo col suo nome la Lumen fidei papa Bergoglio ha dato un segno di rispetto per il predecessore, ma pubblicandola senza correzioni non ha mescolato il proprio registro con quello ratzingeriano. E non ultimo, nello stesso giorno, ha annunciato la beatificazione di Giovanni XXIII che (molto più di quella di Giovanni Paolo II) mette un sigillo procedurale e concettuale alla moda di beatificare i papi affiorata nel secondo Novecento.
Alberto Melloni
La rinuncia di Benedetto XVI e l’elezione di papa Francesco sono state precedute, accompagnate e seguite in Italia da una forte ripresa, con forme e contenuti in parte nuovi, del dialogo tra i cattolici e i cosiddetti ‘laici’. Tra i libri più rappresentativi di questa tendenza sono da segnalare almeno: Emergenza antropologica. Per una nuova alleanza tra credenti e non credenti di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca, nel quale i 4 studiosi di formazione marxista auspicano una maggiore condivisione dell’insegnamento della Chiesa cattolica sulla insopprimibile dignità della vita umana e sul primato della persona, con l’obiettivo di «rompere la spirale secolarizzazione-nichilismo facendo crescere un umanesimo condiviso» (G. Vacca); la nuova edizione aggiornata della lettera A un amico che non crede di monsignor Vincenzo Paglia, nella quale il confronto tra posizioni diverse è occasione per un reciproco arricchimento spirituale; e il dialogo tra Giovanni Reale e Umberto Veronesi sulla Responsabilità della vita. Un confronto fra un credente e un non credente, nel quale si propongono considerazioni condivise su un tema controverso come quello del ‘fine vita’. In seguito hanno avuto grande risalto il dialogo tra il pontefice emerito Joseph Ratzinger e il matematico Piergiorgio Odifreddi e quello tra papa Francesco e il giornalista Eugenio Scalfari.
Francesco Ursini