Papato
Nella storia del papato, il sec. XIII, da Innocenzo III (1198-1216) a Bonifacio VIII (1294-1304), ha visto la nascita della particolarissima entità politico-ecclesiastica, che, con una formula entrata nel linguaggio storiografico corrente, suole definirsi 'monarchia papale'. Nella prima metà del secolo, questo processo di lunga durata si è dovuto misurare con l'incombente presenza di Federico II sulla scena italiana (comuni centrosettentrionali, Patrimonio di S. Pietro, Regno di Sicilia, Regno di Torres e Gallura in Sardegna), europea (in particolare, nei Regni di Germania e di Borgogna) e mediterranea (Terrasanta e dintorni). Quattro dei cinque papi contemporanei dello Svevo (Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX e Innocenzo IV), che hanno avuto molto a che fare con lui e, almeno da un certo momento in avanti, lo ebbero, e gli furono, apertamente contro, hanno infatti esercitato un ruolo di primo piano nella fase di avvio del succitato processo di strutturazione organizzativa ed ideologica, consolidamento ed estensione del potere papale, con la conseguenza che il contesto politico in cui questa si è svolta ha lasciato su di essa un'impronta profonda, condizionando in parte gli sviluppi successivi del processo stesso e, addirittura, il suo esito finale.
Federico II fu un sovrano anomalo, ad un tempo imperatore medievale e re di un Regno, quello ex normanno di Sicilia, che, se non può essere definito senz'altro 'moderno', come si faceva sbrigativamente una volta, era pur sempre nel sec. XII, insieme al Regno d'Inghilterra, un esempio da tutti apprezzato, anche perché precoce, di solida e strutturata monarchia feudale. Esso era nato nel 1130, non come, sessantaquattro anni prima, il Regno inglese, in seguito a una vera e propria invasione in massa e conquista militare da parte dei normanni infranciosati del ducato di Normandia, ma per una penetrazione in tempi diversi di gruppi parentali di cavalieri anche loro normanni ‒ provenienti da quel ducato per lo più in veste di pellegrini di passaggio, e, dunque, dapprima non coordinati fra loro finché un capo non ne prese la guida ‒ in un territorio politicamente, culturalmente, religiosamente ultraframmentato, come l'Italia meridionale. Il nuovo Regno, a differenza dell'inglese, uscì pertanto arricchito dal non trascurabile apporto del triplice substrato culturale e amministrativo greco-bizantino, longobardo e arabo-musulmano, variamente presente nelle province continentali e nell'isola.
Si comprende perciò che Federico Barbarossa abbia avvertito come una spina nel cuore del potere imperiale la presenza a sud di Roma del Regno di Sicilia e come, dopo un primo momento in cui aveva meditato "la conquista armata del regno fuorilegge" (Abulafia), ad ogni buon conto abbia puntato nel 1186 sul matrimonio del figlio Enrico VI, designato suo successore nel 1167, con Costanza d'Altavilla, ultima figlia di Ruggero II, fondatore di quel Regno, ed erede, per il momento solo presunta, di esso (Guglielmo II non aveva figli, ma era sposato solo da tre anni). Una scelta che, al momento opportuno, risultò felice (Guglielmo morì nel 1189 senza lasciare figli), consentendo l'unio regni ad imperium, l'assorbimento, cioè, di quella spina nel corpo del potere imperiale, e, in apparenza, neutralizzandola, ma cambiando in tal modo il volto del potere imperiale medesimo, con la conseguenza di aprire un secondo fronte e un inedito contenzioso col papato, con effetti a breve termine devastanti per l'Impero e, a più lungo termine, per il suo storico antagonista, che uscì diso-rientato dall'insolito conflitto, che aveva combattuto e vinto contro Federico II. "Con lui ‒ scriverà Salimbene de Adam ‒ sarà finito anche l'impero, e se pure avrà successori [si era ancora in pieno interregno], non avranno né autorità né grado di imperatori romani. Queste sono parole di una certa sibilla, come dicono. Ma io non le ho trovate, né nella sibilla Eritrea, né nella sibilla Tiburtina. Non ho letto gli scritti delle altre; infatti le sibille furono dieci. Quanto veridico fosse questo vaticinio è chiaro sufficientemente, sia per quanto riguarda la Chiesa che per quanto riguarda l'impero".
È anche agevole comprendere come, da parte sua, il papato, che, fin dal sec. IX, aveva posto al centro della sua attenzione il Mezzogiorno, se non altro in quanto parte integrante della provincia ecclesiastica romana, avesse salutato con diffidenza e, addirittura, con ostilità l'ingresso nella regione dei nuovi venuti normanni. Dopo il fallimento, nel 1053, del tentativo intrapreso contro di loro da Leone IX con l'appoggio militare dei bizantini che dall'867 erano ritornati in forza nell'Italia meridionale, ma di concerto anche con Enrico III, che si concluse con la cattura dello stesso pontefice da parte di Roberto il Guiscardo, astro sorgente della diaspora normanna in quell'area, il papato fu però indotto ad accettare il fatto compiuto. Nell'agosto di sei anni dopo la sconfitta papale di Civitate del Fortore, Roberto, conte di Puglia, e Riccardo I Drengot, conte di Aversa, giurarono fedeltà alla Chiesa romana, ma, in cambio, Niccolò II confermò a quest'ultimo l'investitura del principato ex longobardo di Capua, conferitagli poco tempo prima dal suddiacono Ildebrando (il futuro Gregorio VII), in veste di legato papale, e investì il Guiscardo del ducato di Puglia, Calabria e Sicilia ‒ senza distinguere fra ciò che era stato conquistato dai suoi connazionali e ciò che restava loro ancora da conquistare a spese dei bizantini e dei musulmani di Sicilia, scismatici gli uni dal 1054, infedeli gli altri. La duplice causa dell'estirpazione della grecità monastico-ecclesiastica dall'Italia meridionale e della ricristianizzazione dell'isola veniva così messa dal papato nelle mani dei vincitori di Civitate, al tempo stesso che il Regno che essi si preparavano a creare era posto sotto la suzeraineté della Sede Apostolica. Il fondamento dell'infeudazione di Melfi era la clausola territoriale del Constitutum Constantini, rispolverato a Roma poco prima, dopo trecento anni di oblio, anche se territori corrispondenti quasi esattamente a quelli infeudati da Niccolò II erano stati concessi in feudo, sempre ai normanni, dagli imperatori Corrado II e Enrico III.
Il vincolo vassallatico-beneficiale, cui aveva fatto ricorso tardi e di rado per ciò che concerneva l'interno del Patrimonio di S. Pietro, il papato lo usò spesso, in sede, per così dire, di politica estera, per legare a sé i Regni di nuova costituzione con un rapporto che si sarebbe rivelato in effetti di svariata solidità a seconda dell'interesse e della disponibilità che le parti contraenti avevano, rispettivamente, a farlo rispettare e a sottostarvi. Nel caso del Regno di Sicilia, l'interesse romano a farlo valere fu subito evidente. Il fatto stesso che vi fossero in corso i processi di rilatinizzazione ecclesiastica e monastica, per ciò che riguardava il Mezzogiorno continentale, e, addirittura, di riconquista cristiana dell'isola, e che tutto questo avesse luogo in un'area che Roma riteneva da sempre di sua immediata pertinenza, spiega come l'atto del 1059 abbia acquistato nell'immediato e conservato nei secoli a venire un rilievo che non ebbero, per esempio, se non in misura minore, i vincoli analoghi che la Chiesa romana stabilì con la Polonia (990 ca.), con l'Ungheria (1001), con lo stesso Regno d'Inghilterra (una prima volta nel 1172 e una seconda nel 1213), ecc., divenendo "la più potente corte feudale d'Europa" (Ullmann), e facendo, almeno teoricamente, di s. Pietro il più riccamente dotato dei signori feudali.
Conquistate ormai da tempo da Roberto il Guiscardo e dal gran conte Ruggero, suo fratello minore, la Calabria bizantina e la Sicilia, Ruggero II, figlio di quest'ultimo, posto fine al periodo di anarchia che aveva tenuto dietro alla morte del Guiscardo (1085) e impadronitosi sistematicamente, a partire dalla Sicilia, del Mezzogiorno continentale, nel 1130 fu incoronato re a Palermo col beneplacito, oltretutto, di un antipapa, Anacleto II. Da quel momento il vincolo con Roma, stabilito a Melfi settant'anni prima in un contesto molto diverso, cominciò ad essere avvertito dalla controparte siciliana come un peso non più sopportabile, benché il 5 luglio 1098 Urbano II, che, eletto papa senza sostegno normanno, aveva cercato appoggio in quella direzione contro Enrico IV (incoronato imperatore a Roma dall'antipapa Clemente III nel marzo 1084), avesse concesso al gran conte Ruggero e ai suoi successori la legazia apostolica. Un privilegio questo, che, anche se in seguito sarà più volte disconosciuto da Roma, rimase in vigore addirittura fino al 1867 e costituì indirettamente un parziale correttivo del rapporto di dipendenza feudale, garantendo l'autonomia della Chiesa siciliana nei confronti della Santa Sede. Ma il peso restava, perché a essere astretto giocoforza ad esso era il re di un Regno particolare, molto 'particolare', che, per servirsi delle parole che, con grande lungimiranza e, al tempo stesso, con non minore imprudenza, avrebbe pronunciato a suo tempo Innocenzo III a proposito del re di Francia, era già sulla via di non riconoscere alcun superior sopra di sé e, quindi, di ritenersi imperatore del suo Regno.
Ciò si vide, per esempio, nel 1154, quando papa Adriano IV non aveva salutato Guglielmo I come re, ma solo come il "signore della Sicilia", mostrando di non riconoscergli il titolo regio che il padre Ruggero II gli aveva conferito da vivo, associandolo al trono, e che egli aveva poi assunto a pieno titolo alla morte del padre, senza il beneplacito del senior pontificio. Quando poi, col matrimonio di Enrico VI con Costanza d'Altavilla, che papa Celestino III aveva favorito pro bono pacis, e soprattutto con la morte, in quel momento non prevedibile, di Guglielmo II senza eredi maschi (1189), fu aperta la via perché Enrico VI, succeduto al padre l'anno dopo sul trono imperiale, salisse anche sul trono di Sicilia ‒ ciò che però avvenne a Palermo solo il giorno di Natale del 1194, una volta vinte le resistenze dei baroni normanni all'avvento di un sovrano straniero, a cui contrapposero la candidatura di Tancredi, figlio illegittimo di Ruggero II ‒, il vincolo posto alla sovranità di un ancora emergente capo normanno nel lontano 1059 venne così a gravare addirittura su un imperatore propriamente detto.
Nel 1157, poiché nel documento di cui era portatrice la legazione inviata da papa Adriano IV alla dieta imperiale di Besançon, presieduta da Federico Barbarossa, di cui faceva parte il cardinale Rolando, cancelliere della Chiesa romana (il futuro Alessandro III), per protestare contro l'arresto di un legato pontificio, si faceva incautamente riferimento ai beneficia ancora maiora che Roma era disposta a concedere all'imperatore nel caso che avesse riparato al malfatto, si intese, o si fece finta di intendere, la parola beneficium nel senso specifico da essa acquistato nel contesto del sistema vassallatico-beneficiale, e che il suo impiego sottintendesse in questo caso la pretesa della Santa Sede che un 'beneficio' fosse da ritenersi addirittura anche l'Impero, conferito da Adriano IV a Federico Barbarossa quando il 18 giugno 1155 lo aveva incoronato a S. Pietro. Ma persino Innocenzo III, che pure non avrebbe esitato ad affermare che "imperium principaliter [in quanto, con la translatio, Leone III lo aveva trasferito dai greci ai franchi] et finaliter [in quanto, una volta in imperatorem electus, col titolo di re dei Romani, dai principi tedeschi, e giudicato candidato idoneo dal papa, era il papa a incoronare il prescelto] ad sedem apostolicam pertinet", non giunse mai a considerare la consacrazione e l'incoronazione dell'imperatore né come un'indispensabile conferma, né, tanto meno, come un'investitura feudale.
I diretti interessati ‒ cioè, anzitutto i papi, ma di riflesso, si noti bene, anche gli imperatori ‒ furono subito posti di fronte alla quadratura del cerchio costituita dalle grandi difficoltà comportate dall'unione sulla stessa testa della corona imperiale e di quella di un Regno posto sotto la sovranità feudale della Chiesa e, a un tempo, più attento a garantire e a consolidare la propria autonomia di quanto non lo fossero altri Regni che non si trovavano nella stessa situazione. Sia gli uni che gli altri si trovarono all'improvviso spiazzati, essendo cambiati i termini del pur sempre mutevole rapporto, spesso conflittuale, in atto ormai da secoli fra le due potestà universali della cristianità occidentale. È vero che si erano moltiplicate nel frattempo anche le occasioni di incontro e di scontro fra il papato e i Regni particolari.
Basti pensare al conflitto insorto fra l'arcivescovo di Canterbury, Tommaso Becket, ed Enrico II a proposito delle costituzioni di Clarendon (1164), che tendevano a mettere un freno alla crescente autonomia della Chiesa inglese nei confronti della Corona ‒ conflitto durante il quale Alessandro III si mostrò dapprima tollerante con il re, per reagire poi duramente all'assassinio dell'arcivescovo, costringendolo a una penitenza pubblica, alla revoca degli articoli incriminati delle costituzioni e, anche in questo caso, al riconoscimento della dipendenza feudale del Regno d'Inghilterra dalla Chiesa di Roma. Ma un imperatore/re di Sicilia, a differenza di una vecchia conoscenza com'era per il papato l'imperatore/re d'Italia ‒ un Regno, che, nonostante il suo passato longobardo, era ormai un puro flatus vocis, tanto è vero che i re di Germania sulla via d'andata o di ritorno dall'incoronazione romana trascuravano per lo più di interrompere il viaggio per soffermarsi a cingerne la corona ‒, era un inedito mostro bifronte. Un ibrido, insomma, composto da un imperatore come Federico Barbarossa (col quale il papato si era misurato nel secolo precedente) e da un re di Francia come Filippo IV il Bello (col quale si sarebbe misurato alla fine del secolo e all'inizio del successivo). Nei suoi confronti i papi non avevano precedenti da far valere e alle sue spalle non c'erano esempi cui gli imperatori potessero ispirare la propria condotta.
Abbiamo, così, nell'ordine:
I) Clemente III. Alla morte di Guglielmo II, da lui obbligato nel 1188 a riconoscere per sé e i propri eredi la sovranità feudale della Chiesa sul Regno di Sicilia, sostenne, senza però pronunciarsi ufficialmente per lui, la causa di Tancredi contro la pretesa avanzata da Enrico VI di prenderne senz'altro possesso, sia in quanto marito di Costanza, che ne era la legittima erede, sia in base al diritto imperiale, rifiutandosi di riconoscere la 'sussovranità' della Sede Apostolica su di esso;
II) il suo successore Celestino III. Il 15 aprile 1191, cinque giorni dopo l'elezione, non poté evitare di incoronare imperatore Enrico, in attesa già da tempo davanti alle mura di Roma, a capo di un esercito pronto a marciare alla conquista del Regno meridionale, ma non mancò di trarre un respiro di sollievo quando ebbe notizia del fallimento della spedizione e, dopo avere tentato un'impossibile mediazione fra i due contendenti, concluse con il suo vassallo Tancredi un concordato a condizioni molto più favorevoli per il papato di quelle che gli erano state fatte dai suoi tre predecessori sul trono palermitano, salvo vedere tutto rimesso in gioco dalla morte, nel febbraio del 1194, di re Tancredi, che aprì la strada, ormai senza rimedio, a Enrico VI, il quale ascese al trono siciliano il giorno di Natale dello stesso anno, di modo che la paventata unio regni ad imperium divenne alfine realtà;
III) il successore di Celestino, Innocenzo III. Era stato eletto l'8 gennaio 1198, tre mesi e dieci giorni dopo che la morte di Enrico VI (avvenuta dopo tre anni dall'incoronazione, durante i quali la ricerca di un modus vivendi a tutto campo fra papa e imperatore/re era stata di continuo compromessa dalle ingerenze papali nella Chiesa siciliana) aveva aperto il problema della successione imperiale di per sé di difficile soluzione, e inferto, al tempo stesso, un colpo che, per il momento, sembrava mortale all'unione fra le due Corone, siciliana e imperiale, perché l'unico figlio del defunto imperatore, Federico, alla morte del padre aveva solo tre anni e aveva fatto appena in tempo a essere incoronato il 17 maggio del 1198 re di Sicilia, ancora viva, ma solo per poco, la madre (morì il 27 novembre dello stesso anno). Innocenzo si trovò allora ad avere inopinatamente in mano una carta che sembrava destinata a rivelarsi vincente, in quanto Costanza, prima di morire, nell'intento di assicurare la corona siciliana dei suoi avi materni al figlio ‒ tagliato fuori per evidenti ragioni dalla contesa in atto per la corona imperiale ch'era stata del padre ‒, si era risolta ad affidarlo alla tutela del papa, suo signore feudale, dichiarandosi pronta a riconoscere la permanente validità di tale vincolo e a rinunciare anche al privilegio della legazia apostolica. Ma, nonostante l'impegno messo nel fare sì che, vista la situazione favorevole che si era venuta a creare per la morte prematura di Enrico VI, il fantasma dell'unione all'Impero del Regno, da lui definito "Ecclesiae patrimonium speciale", non tornasse a turbare i sonni della Sede Apostolica (un impegno pari solo a quello da lui dispiegato per la crociata e la lotta contro l'eresia), Innocenzo non riuscì a esorcizzarlo. Anzi, per una sorta di eterogenesi dei fini, dopo che esso si era ripresentato con Ottone IV di Brunswick, cioè a dire inaspettatamente nella persona di colui che, non senza esitazioni e ripensamenti, aveva scelto come suo candidato alla successione imperiale, in contrapposizione a Filippo di Svevia, fratello di Enrico VI, assassinato per una vendetta personale nel 1208 ‒ ma che, incoronato a Roma nell'ottobre 1210, un mese dopo era partito alla conquista del Regno proibito, incorrendo nella già minacciata scomunica papale ‒, finì col favorirne, naturalmente senza proporselo, la reincarnazione proprio nella persona del puer Apuliae, suo ex pupillo.
Uscito di tutela nel 1208, e quindi a tutti gli effetti re di Sicilia, già l'anno successivo egli era entrato in conflitto con Roma per l'assegnazione della sede arcivescovile di Palermo. Ma, avendo rotto definitivamente con Ottone, Innocenzo indusse il diciassettenne Federico a raggiungere la terra avita, dove, con il suo assenso (gli avversari lo avrebbero chiamato con dileggio "re dei preti"!), un'assemblea di principi tedeschi lo elesse nel 1211 re dei Romani, fidandosi delle garanzie (incoronazione a re di Sicilia del figlio Enrico; omaggio feudale per il Regno prestato a un legato papale) che Federico gli aveva date prima di lasciare l'isola nel marzo 1212 per correre la grande avventura, di non perseguire l'obiettivo di ripristinare a suo favore l'unione del Regno di Sicilia all'Impero e di essere comunque disposto a ridurre l'influenza regia nel governo della Chiesa siciliana; e che avrebbe rinnovate nel 1216, un anno dopo essere stato incoronato una seconda volta nella cattedrale di Aquisgrana (la prima aveva avuto luogo a Magonza già il 9 dicembre 1212; v. Incoronazioni), impegnandosi a rinunciare, dopo essere stato incoronato imperatore, non solo alla Sicilia, ma anche alla patria potestà sul figlio.
IV) infine, Onorio III. Incoronando imperatore Federico (che era tuttora anche re di Sicilia!), il 22 novembre 1220 ‒ dopo che, nella primavera precedente, a dispetto della promessa fatta a Innocenzo, l'imperatore aveva fatto eleggere dai principi tedeschi re dei Romani anche il figlio Enrico, proiettando nel futuro quell'unione delle due (o tre) Corone che, senza questo tocco finale, rischiava di essere solo transi-toria ‒, Onorio sembrò mandare indietro di ventisei anni l'orologio della storia e creare le condizioni per cui, dopo qualche anno di convivenza pacifica e, addirittura, di collaborazione fra le due potestà universali, alla sua morte esse entrarono in un inevitabile conflitto le cui conseguenze avrebbero segnato profondamente il destino di entrambe, al di là della scomparsa di Federico che pure segnò la fine di quella unione fatale, a riprova, se di una riprova si sentisse davvero la necessità, della stretta connessione esistente fra di esse.
In conclusione, il papato ‒ e, in particolare, Innocenzo III ‒, benché con qualche incertezza ed errore anche grave di valutazione, fece dell'opposizione alla prospettiva dell'unio regni ad imperium un motivo dominante della sua politica nei confronti dell'Impero e, in genere, della sua politica. Di solito, si tende a dare della costanza di questo impegno una spiegazione di tipo geopolitico. Il suo pontificato, sempre nella prospettiva complessiva della costruzione della 'monarchia papale', segnò una svolta nella storia ormai plurisecolare del dominio temporale della Chiesa romana, che ne era uno degli elementi costitutivi. Essa si concretò in due direzioni complementari, ma distinte: da un lato, mutando il carattere del vecchio Patrimonium Sancti Petri, che si estendeva da Radicofani a Ceprano ‒ nato alla metà del sec. VIII in coincidenza con la conquista di Ravenna da parte dei longobardi e la fine del ducato bizantino di Roma, ma chiamato così solo dalla metà del sec. XII ‒, nel senso che la forma tradizionale del governo di esso, fondata su rapporti patrimoniali e, da un certo momento in poi, su legami vassallatico-beneficiali, lasciò il posto all'esercizio di quella che può essere definita una sorta di sovranità, soprattutto in seguito alla diffusione dell'istituto del "rettorato", esteso a tutte le provincie del Patrimonio stesso; dall'altro, dando inizio alla cosiddetta politica delle recuperationes, che aveva come obiettivo l'adempimento delle promesse di cessione di vaste regioni dell'Italia centrale (Umbria, Marche, Romagna), che erano state fatte alla Chiesa romana dai sovrani carolingi e che, salvo qualche immediato aggiustamento marginale, erano rimaste fino allora sulla carta, ma che la crisi dell'Impero dopo la scomparsa di Enrico VI aveva reso insperatamente realizzabili. È evidente che la politica delle recuperationes avviata da Innocenzo III finiva necessariamente con l'entrare in rotta di collisione con la prospettiva dell'unione del Regno di Sicilia all'Impero perseguita da Enrico VI e poi da Federico II, stante l'interesse che essa non poteva mancare di destare, a stabilire una contiguità territoriale fra terre da sempre almeno di diritto imperiali e terre regnicole di nuova acquisizione. È in questo senso che va intesa la fobia dell'accerchiamento del Patrimonio che avrebbe condizionato la politica papale. Ma, alla luce dell'intera parabola dei rapporti fra il papato e gli Svevi, da Federico Barbarossa a Corradino, complicatisi oltre ogni dire con Federico II (basti pensare al suo impegno per la crociata, prima differito, poi stravolto), una spiegazione di tipo puramente geopolitico non è sufficiente, anche perché presupporrebbe l'esistenza di frontiere lineari come le moderne, delle quali allora non c'era traccia.
L'atteggiamento del papato, di Onorio III prima e di Gregorio IX poi, nei confronti di Federico II nelle vesti di legislatore, a volta a volta, per l'Impero, pro utilitate omnium christianorum, e per il Regno, è oltremodo significativo delle difficoltà nascenti dall'avere a che fare con quello che abbiamo già definito un inedito mostro bifronte. In vista dell'incoronazione imperiale del 22 novembre 1220, l'interesse della Chiesa a che Federico emanasse, da imperatore ‒ e, quindi, da successore, aggiungiamo noi, di Giustiniano (il retaggio della 'Chiesa imperiale' tardoantica perdurava al di là di Gregorio VII) ‒, la Constitutio in basilica beati Petri, una serie di norme concernenti punti cui la Chiesa stessa attribuiva evidentemente una grande importanza (sanzioni contro gli eretici che assicurassero l'appoggio del braccio secolare all'applicazione della normativa canonica in materia, in particolare delle costituzioni 3 e 46 del IV concilio lateranense; punizione degli attentatori alla libertas ecclesiae, com'era il caso delle vessazioni che le magistrature di alcuni comuni italiani, tradizionali alleati della Chiesa, compivano nei confronti dei vescovi; eliminazione dagli statuti comunali, da sottoporre tutti a una sistematica revisione, delle norme contrarie alla libertas ecclesiae; protezione speciale per le categorie più a rischio, ecc.), tanto da mostrarsi disposta, nel complesso negoziato che precedette l'incoronazione, a concedergli, in cambio, il riconoscimento dell'elezione a re dei Romani del figlio novenne Enrico e dell'unione nella sua persona delle due Corone.
Ispirato allo spirito censorio mostrato da Onorio III nei confronti del diritto particolare delle città italiane, avallato nel 1220 senza riserve dal neoimperatore Federico, fu l'atteggiamento di diffidenza, se non anticipatamente negativo, di Gregorio IX ‒ l'autore del Liber Extra, anch'egli, dunque, un sovrano codificatore ‒ nei confronti del diritto particolare del Regno di Sicilia, che Federico medesimo si apprestava a codificare, in qualità questa volta di 'imperatore nel suo regno', nel Liber Constitutionum del 1231: "Di tua iniziativa o sedotto da cattivi consiglieri, ti proponi di emanare nuove leggi, donde segue necessariamente che ti si chiami persecutore della Chiesa e sovvertitore della libertà pubblica". "Il papa ‒ chiosa Zecchino ‒ si trovava nella incomoda situazione di dover invocare contro lo scriptor di leggi scandalose, che Federico stava approntando per il suo Regno di Sicilia, una norma da quest'ultimo emanata come imperatore per tutto l'Impero".
La minaccia di accerchiamento del Patrimonio di S. Pietro prodotta dall'unione del Regno all'Impero, era ben lungi dal costituire l'unica difficoltà al ristabilimento di una possibile convivenza fra le due potestà universali. La politica scolastica di Federico (si pensi non tanto all'animosità che nutrì nei confronti dello Studio di Bologna per ragioni di carattere prevalentemente politico, quanto alla particolarissima fisionomia che egli intese dare inizialmente allo Studio di Napoli, senza peraltro riuscire poi a mantenergliela) è un altro esempio, se paragonata a quella di tanto più ampio respiro europeo perseguita da Onorio III, di come il suo duplice status di imperatore universale e di re di un Regno particolare costituisse alla prova dei fatti una così palese negazione della logica che presiedeva a ciò che ancora sussisteva della Santa Romana Repubblica, da indurre il papato di Gregorio IX e di Innocenzo IV a bandire contro di lui una guerra senza quartiere che, insieme allo Svevo e all'Impero medievale, vide soccombere definitivamente anche quella.
fonti e bibliografia
V. Pfaff, Celestino III, in Enciclopedia dei Papi, II, Roma 2000, pp. 320-326.
W. Maleczek, Innocenzo III, ibid., pp. 326-350.
S. Carocci-M. Vendittelli, Onorio III, ibid., pp. 350-362.
O. Capitani, Gregorio IX, ibid., pp. 363-380.
A. Paravicini Bagliani, Innocenzo IV, ibid., pp. 384-393.