Papato
. Di una trattazione specifica del P. - in parallelo con quella dell'Impero, ampiamente illustrata nella Monarchia, nel Convivio e nella stessa Commedia - non è il caso di parlare, per D.: la stessa parola, papatus, ricorre due sole volte nell'opera dantesca, in Mn III XI 6 10, in un contesto che sembra piuttosto scontare una concezione consapevole e accettata in modo definito, almeno da parte di Dante.
Tutta la trattazione del capitolo XI del terzo della Monarchia insiste sul valore dei concetti correlativi di Papatus e Imperiatus, che nelle argomentazioni dei curialisti (v. per un rinvio alla Determinatio compendiosa e anche a Giovanni di Parigi il commento del Vinay al passo, p. 259) implicano un'equivalenza con papa e imperator: come tutte le cose che sono di uno stesso genere devono essere ridotte ad unum (tanquam ad mensuram omnium eorum, Mn III XI 1), anche il papa e l'imperatore oportet quod reducantur ad unum hominem; e poiché il papa non sit reducendus ad alium (§ 2), l'imperatore e gli altri uomini devono essere ‛ ridotti ' a lui. D. ribatte che il ragionamento è valido solo a patto di considerare il papa e l'imperatore in quanto uomini, non in quanto propriamente papa e imperatore, cioè per quel che concerne la loro ‛ forma accidentalis ' (la ‛ forma substantialis ' è il fatto di essere uomini, dal che traggono genere e differenza specifica). Ora la ‛ forma accidentalis ' di papa e d'imperatore è una relatio per quam sortitur spetiem quandam et genus, et reponitur sub genere ‛ ad aliquid ', sive ‛ relations ' (§ 5): le rispettive relazioni di papa e d'imperatore sono pertanto sub ambitu paternitatis e sub ambitu dominationis (§ 6). Ne consegue per D. che Papa et Imperator, in quantum huiusmodi, habent reponi sub praedicamento relations, et... reduci ad aliquod existens sub illo genere (§ 5). Ora questo aliquod o è la predicabilità dell'uno all'altro, che è impossibile in quanto non si può affermare che imperator est papa; o è una ‛ communicatio in spetie ', che è impossibile cum alia sit ratio Papae, alia Imperatoris, in quantum huiusmodi;. o è aliquid in quo habent uniri (§§ 8-9); e questo aliquid risulta evidentemente essere Dio, poiché Papatus et Imperiatus, cum sint relationes superpositionis, devono essere ricondotti a un principio generale di autorità senza caratteri particolari (Dio o un ente immediatamente inferiore a Dio, in cui " il principio generale di autorità si particolarizzi solo dal punto di vista del grado ", come traduce il Vinay, p. 265). Così come papa e imperatore sono dunque elementi correlativi, ma irriducibili l'uno all'altro, anche i concetti di P. e di Impero non ammettono una subalternanza.
Il Maccarrone (Il terzo libro..., pp. 93-94) e il Nardi (Dal Convivio..., pp. 263-272) si sono soffermati a considerare le possibili fonti e le occasioni della digressione dantesca sulla ‛ reductio ad unum ': un anonimo glossatore a Extravagantes V IX 1 avrebbe fornito l'argomento tratto dalla Elementatio theologica di Proclo, che non può, secondo il Nardi, essere assimilato, in questo punto, con Aristotele, pur citato dall'anonimo glossatore. Quanto a D., egli avrebbe respinto il sofisma della ‛ reductio ad unum ' ricorrendo a una distinzione di Pietro Ispano, che aveva parlato di " relativa secundum superpositionem ", si che " la dignità papale quanto la dignità imperiale sono due relazioni che si possono, sì, ridurre alla seconda specie di ‛ relativa '... ma che in se stesse sono diverse tra loro: poiché la dignità papale consiste nella superiorità che il padre ha sul figlio, ossia in un rapporto di paternità; invece la dignità imperiale consiste nella superiorità che il sovrano ha sul suddito, ossia in un rapporto di dominio " (Nardi, op. cit., p. 271).
Quanto è, in ogni caso, accertato, è il fatto che in questo capitolo della Monarchia D. pone un principio incontrovertibile alla base della distinzione tra P. e Impero, mostrando nettissimamente di rifiutare al P. ogni attribuzione di giurisdizione.
La critica dantesca non ha, in proposito, fatto distinzione tra Chiesa e P., nel commentare questo problema fondamentale del pensiero politico dantesco, assimilando i due termini, che in effetti sembra siano usati nella stessa accezione - pur in una netta prevalenza di Ecclesia, Chiesa - da parte dello stesso D.: ma proprio la constatazione testé fatta, circa il rifiuto esplicito di ogni idea di giurisdizione che potrebb'essere connessa con il P., può indurre a precisare ulteriormente. Il P. che D. ha sperimentato storicamente è un P. che risolve la sua funzione in maniera eminente nella dilatazione delle sue competenze di giurisdizione, portando la Chiesa a usurpare compiti non propri: ora questa usurpazione è determinata inequivocabilmente dal papa, come attestano, fra i tanti, passi notissimi della Commedia, quali: ed è giunta la spada / col pasturale, e l'un con l'altro insieme / per viva forza mal convien che vada (Pg XVI 109-111); o ancora: Dì oggimai che la Chiesa di Roma, / per confondere in sé due reggimenti, / cade nel fango, e sé brutta e la soma (vv. 127-129); o anche nell'episodio del carro colpito dall'aquila che scende nell'arca e la lascia di sé pennuta (XXXII 124-126), a tacer di If XIX 112-117, di cui si dirà a proposito della donazione di Costantino. La centralità di questo concetto è tale in D., se non c'inganniamo, che essa può venire assunta effettivamente quale elemento coordinatore dello sviluppo del suo pensiero politico, comunque si voglia affrontare e risolvere il problema delle cosiddette fasi della concezione che egli ha avuto della società del suo tempo e dei fini della medesima: e si veda, in ogni modo, quanto in proposito è riassunto alla voce IMPERO. Ci si renderà ancor più agevolmente conto di ciò ove si ponga mente alla circostanza che il P. non compare, sino alla Commedia, oggetto principale delle considerazioni di D.: egli appare preoccupato eminentemente di riconquistare - sul piano teorico - lo spazio proprio dell'Impero, più che di definire in tutte le loro articolazioni i rapporti tra le due massime autorità. Ne consegue che l'approccio alla trattazione che D. vien facendo del tema dell'Impero deve scontare un progressivo indugiare su aspetti logicamente successivi, non necessariamente su fasi cronologicamente dispiegate: il che può chiarire meglio di altre esegesi certi silenzi e certe insistenze, in un'opera, non riscontrabili, nella stessa misura, in opere successive. Non si vuole, evidentemente, proporre una tesi secondo la quale D. avrebbe costruito d'un sol colpo il suo ‛ sistema ', esposto, poi, in varie occasioni, indipendentemente da ogni sollecitazione che al suo pensare poteva venire dalla concreta situazione storica che egli viveva: ma si deve comunque ribadire che quelle sollecitazioni potevano operare solo nella direzione che l'idea d'Impero doveva e poteva suggerire. Se questo è vero, la correlazione fra i due concetti rimane, com'era tradizione nella trattatistica del tempo, ma ribaltata rispetto alla stessa: il punto di partenza non è il P., che condiziona gli ambiti di competenza e di giurisdizione dell'Impero, ma quest'ultimo che riconosce consapevolmente la propria definizione e le proprie finalità, fornendo al P. una dimensione e una funzione diverse. È la proposta di un nuovo tipo di dualismo: o se si vuole, com'è stato anche suggerito, la crisi del dualismo tradizionale, come vedremo.
È appena da dire che per un compito siffatto D. si trovava di fronte a tutta una serie di ‛ topoi ' obbligati della trattatistica, che egli accettava, peraltro, proprio ai fini della sua dimostrazione: i duo gladii, i due fini ultimi, i duo luminaria.
Quanto all'argomento dei duo gladii, è noto che D. (Mn III IX 1) respinge decisamente l'interpretazione allegorica di Luc. 22, 38, qual era stata assunta da Egidio Romano, dall'Ostiense e da tanti altri, teologi e canonisti, per i quali si potrà vedere sia quanto detto alla voce IMPERO, sia quel che riassumono gli studi del Vinay, del Maccarrone e del Nardi: il ricordo del ‛ gladio ' è l'annunzio delle prossime tribolazioni che attendono i discepoli, alla morte del Maestro, e, semmai si deve dare un senso allegorico al ‛ gladio ' quem duplicem ibi esse Petrus etiam respondebat, sarà da intendersi come verba... et opera che Cristo voleva che i suoi discepoli diffondessero (Mn III IX 19). Non segno di giurisdizione, quindi, ma di lotta e sofferenza che il cristiano deve affrontare per la verità. I gladii, in tal maniera, non si applicano al papa più di quanto non si applichino a ogni fedele, come si desume dal ricordo delle altre parole evangeliche menzionate nello stesso capitolo (§ 18; si tratta di Matt. 10, 34-35). E del resto Pietro, ricordato significativamente come Archimandrita (Mn III IX 17), è incapace d'intendere il significato profondo delle parole di Cristo: ma con ciò stesso, per la sua evidente puritas e simplicitas (§ 9), mostra la falsità dell'interpretazione allegorica fornita dalla tradizione teocratica (v. anche NARDI, Dal Convivio..., pp. 235-238). Nella misura in cui Pietro è significativo del papa e del P., allora, quest'ultimo trova nell'argomento dei duo gladii proprio l'esortazione a un impegno morale che nulla ha a che vedere con i problemi di giurisdizione temporale. Analogamente, a proposito dell'argomento dei duo magna luminaria (Mn III IV 12), il luminare maius (= P., Chiesa) ha un rapporto con il luminare minus solo per quel che concerne una più retta azione; una ‛ virtuosa operatio ' del medesimo luminare minus: dico quod regnum, temporale non recipit esse a spirituali, nec virtutem quae est eius auctoritas, nec etiam operationem simpliciter; sed bene ab eo recipit ut virtuosius operetur per lucem gratiae quam in coelo et in terra benedictio summi Pontificis infundit illi (§ 20). In nessun modo la ‛ virtuosa operatio ' che deriva dalla benedizione papale può essere assunta come un'auctoritas, come una giurisdizione. Più efficace, nell'esclusione di ogni forma di giurisdizione temporale, appare inoltre la confutazione dell'argomento delle chiavi. Pietro e il suo vicario, il papa, possono sciogliere e legare: omne quod ad istud offitium [di ostiario del regno dei cieli] spectabit solvere poteris et legare (VIII 9).
È da rilevare che vicario di Pietro o vicario di Cristo si alternano, nell'opera dantesca, senza un ordine e un significato particolari: troviamo vicario di Cristo in Pg XX 87 veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser catto; in Pd XXV 15 la primizia / che lasciò Cristo d'i vicari suoi; e anche un interessante graduazione in Ep V 30 Hic est quem Petrus, Dei vicarius, honorificare nos monet; quem Clemens, nunc Petri successor, luce Apostolicae benedictionis illuminat; così anche successore di Pietro in If II 24 u' siede il successor del maggior Piero, e Pg XIX 99 scias quod ego fui successor Petri. Col negare Pietro e Paolo, il papa nega la sua stessa funzione in Pd XVIII 136 ch'io non conosco il pescator né Polo, mentre in Mn III VI il papa è sempre Dei vicarius, nel contesto di una trattazione in cui, evidentemente, rafforza l'argomentare di D. il ricorrere a quell'espressione, più che a Cristi vicarium, che peraltro è presente in VII I. Ora va osservato che tale oscillazione non sembra essere casuale, alla luce di quanto vien detto sul concetto e sulle funzioni del vicario nel capitolo VII e più ancora nel precedente. Il vicario riceve, con l'ufficio suo proprio, un ambito di competenza specifica, che non l'identifica a chi quell'ufficio gli ha affidato, come avverrebbe per un ‛ nuntius ': cade l'argomento di coloro che affermano quod, quemadmodum illi Dei vicarius auctoritatem [si tratta di Samuele che depose Saul] dandi et tollendi regimen temporale et in alium transferendi, sic et nunc Dei vicarius, Ecclesiae universalis antistes, auctoritatem habet dandi et tollendi et etiam transferendi sceptrum regiminis temporalis; ex quo sine dubio sequeretur quod auctoritas Imperii dependeret ut dicunt (VI 2). Vicario di Dio, di Cristo, di Pietro non vengono così ad assumere significati particolari - pur non negandosi, come si è detto, una certa discrezionalità nell'uso - quanto a determinati contenuti di giurisdizione universale perché questi contenuti, indipendentemente dalla personalità di cui si è vicari, sono respinti dal concetto stesso di vicaria, che, in quanto tale, è commessa con una precisa limitazione.
Ecco allora acquistare tutto il valore centrale nel pensiero ecclesiologico dantesco la tesi di D. sulla donazione di Costantino, che fu matre di mal non in sé, ma per l'abuso che se ne fece (If XIX 115-117). Dov'è certamente da scontare che D. ritenesse valida quella donazione - di cui probabilmente non conosceva il testo - ma che egli intendeva come elargizione a pro' dei poveri di Cristo, di cui la Chiesa e per essa il P. dovevano preoccuparsi. Un P. che poteva pur ricevere in uso (non in proprietà) i beni della donazione, indipendentemente dall'impossibilità giuridica dell'Impero a diminuirsi, un P. che poteva inmoto... superiori dominio (Mn III X 16) dell'imperatore esercitare una sovranità nell'ambito del Patrimonium (v. per l'interpretazione concorde del Maccarrone e del Nardi, Dal Convivio..., p. 243), non può cessare di essere, per la donazione, costituito da pastores, l'appellativo più qualificante che sia nella Monarchia sia nella Commedia troviamo attribuito ai pontefici romani (cfr. Mn II X 3 Quid ad pastores tales?; Pd V 77 'l pastor de la Chiesa che vi guida; VI 16-17 'l benedetto Agapito, che fue / sommo pastore, a la fede sincera, per non ricordare i meno noti Cv IV XXIX 2 meritaro di ricevere la rosa dal romano Pastore, e Pg XIX 107 come fatto fui roman pastore). Beni come quelli elargiti alla Chiesa e al P., amministrati male, devono, pur prescindendo da ogni discussione su di una Chiesa povera, ritornare a chi li ha elargiti: Redeunt [o redeant?] unde venerunt (Mn II X 3).
Su questo passo, in seguito alla correzione proposta dal Ricci (p. 212) di un luogo tradizionalmente letto redeant unde venerunt, si è soffermata l'attenzione di B. Nardi (Redeant unde venerunt, pp. 58-62) che, con argomentazioni che ci paiono suasive, ha mantenuto la validità della lezione redeant, in forza di un ricordo preciso del Codex (VIII 56 De revocandis donationibus). In tale passo si prevede il caso di restituzioni di donazioni " propter ingratitudinem ", sì che, anche alla luce di Ep VI 5-7, che nega la possibilità di applicare la prescrizione a vantaggio della donazione di Costantino, la lezione esortativo-imperativa redeant apparirebbe con buon fondamento da mantenersi.
Il contrasto pastori-donazione di Costantino, che è poi contrasto tra funzione spirituale propria del P. e cupidigia di ricchezze, appare proprio in If XIX 106 Di voi pastor s'accorse il Vangelista: ed è argomento che il Nardi (Tre pretese fasi..., pp. 284-289) ha sottolineato per mostrare la sostanziale omogeneità del pensiero dantesco circa i compiti separati che hanno Chiesa e Impero, tra i quali intercorre un rapporto di collaborazione, ma su piani distinti, anche se non esattamente uguali per dignità: una dignità, una reverenza che è intatta anche nel momento in cui D. si scaglia contro l'avarizia di un Niccolò III (E se non fosse ch'ancor lo mi vieta / la reverenza de le somme chiavi / che tu tenesti ne la vita lieta, If XIX 100-102). Circostanza che forse, al di là di congetture testuali sempre ipotetiche e sempre pericolose (cfr. Nardi, Dal Convivio..., pp. 114 ss.; Vinay, Introduzione all'ediz. della Monarchia, p. XIX), potrebbe aiutare grandemente a spiegare il quodam modo celeberrimo che in Mn III XV 17 sembra subordinare la mortalis... felicitas all'immortalem felicitatem. Una subordinazione, o meglio una ‛ ordinatio ad ' che non implichi - D. è assai esplicito ! - ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat (§ 17). Ecco perché si può, col Vinay, attenuare di molto la ‛ laicità ' di D., senza diminuire la sua ferma convinzione di una nettissima distinzione tra papa e imperatore, tra Impero e P. (si veda quanto detto dal Vinay, Interpretazione..., e le osservazioni conclusive da noi fatte in Cultura e Scuola, pp. 736-737).
Per il Maccarrone (pp. 136 ss.) l'adozione del termine reverentia, come l'uso di espressioni quali quodam modo, rimandano a " precisi significati nella dottrina dei due poteri ", rimandano a Uguccione, a Remigio de' Girolami, a dottrine arieggianti la potestas indirecta. Ciò, tuttavia, se contribuisce a collocare la terminologia dantesca in un clima culturale più preciso, non implica, a nostro avviso, un adeguamento dantesco alle dottrine più moderate di certi autori scolastici e tomistici. Ha ragione il Vinay (Interpretazione..., p. 25), quando dice che " l'importante, in fondo, non è la subordinazione, ma il rilievo dei termini in gioco nello spirito di Dante ".
Un nuovo dualismo, allora? Uno studioso (cfr. M.J. Wilks, The problem, pp. 144 ss.) ha parlato di " via media " che consentirebbe di superare le aporie di un dualismo contraddittorio, quale in ultima analisi sarebbe quello di D., senza cadere nell'integralismo ierocratico dei controversisti di parte papale: tale " via media " sarebbe in sostanza una sorta di coesistenza dei principi - quello ierocratico e quello opposto - attenuati nella formulazione ed equilibrati da un atteggiamento di reciproca tolleranza. Una " via media " di cui si afferma l'esistenza solo a patto di considerare in prospettiva il modello di società che potrebbe suggerire un umanesimo cristiano (Wilks, p. 527): ma che non sembra in alcun modo attagliarsi alle concezioni dell'epoca di Dante. Le cui tesi, afferma il Wilks, sono contraddittorie, proprio in virtù del quodam modo e della dichiarazione di reverentia che l'imperatore deve avere per il papa: una siffatta reverentia s'identifica con una sottomissione (Wilks, p. 145 n. 4; si ricordano, oltre a Mn III XV 18, Cv IV XXIV e XXV: ma non si fa menzione di If XIX 100-102, che per noi è essenziale per la comprensione di ‛ reverenza '). Ora non sembra che l'equazione stabilita dal Wilks tra reverentia e sottomissione si possa accogliere e che il quodam modo finale rappresenti veramente " a complete breakdown of Dante's dualism " (Wilks, loc. cit.), perché il poeta è pienamente consapevole e del rapporto di reverentia filiale che collega l'imperatore al papa e della diversità di piano su cui si pone tale reverentia rispetto a impliciti vincoli di sudditanza o di sottomissione. C'è in proposito da rilevare un parallelismo testuale singolarissimo: Sic ergo dico quod regnum temporale non recipit esse a spirituali... sed bene ab eo recipit ut virtuosius operetur (Mn III IV 20); e Illa igitur reverentia Caesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem: ut luce paternae gratiae illustratus virtuosius orbem terrae irradiet (XV 18). Ci sembra che la natura intima della ‛ superiorità ' che si stabilisce, a vantaggio del padre, nel rapporto col figlio, risieda tutta e unicamente nel virtuosius: che è avverbio senza contenuti giurisdizionali di sorta !
E allora sarà nel senso di un rapporto totalmente diverso da quello che, contemporaneamente a D., venivano profilando ierocratici, canonisti e teologi, per definire giuridicamente i vincoli del medesimo, che si potrà parlare di un dualismo. Ma non il dualismo di cui si discorre ogni qualvolta si pensa d'indicarne i contorni più o meno accentuati nella casistica dei possibili interventi papali, nella potestas indirecta, nell'opposizione che può venire da questo o quel pubblicista agli estremismi di Alano Anglico o dell'Ostiense (ci permettiamo di rimandare ad alcune osservazioni fatte nella relazione letta alle celebrazioni del VII centenario del conclave di Viterbo, il 5 giugno 1971; si veda anche lo stimolante saggio del Watt, The Theory...): bensì un dualismo che, riscattando pienamente lo spazio che nella società deve avere l'Impero, diversifichi qualitativamente il Papato. Nella voce ‛ Chiesa ' (v.), il Brezzi concludeva, giustamente, che c'è da scoprire tutta una dimensione ecclesiologica del pensiero di D.: ed è vero specie perché, a differenza da tutta la trattatistica dei curialisti suoi contemporanei - che erano impegnati, non bisogna dimenticarlo, non solo a svuotare il senso e i contenuti giurisdizionali dell'Impero, ma a costruire un'ecclesiologia giuridica - D. la respinge a priori: Pd IX 133-135 Per questo l'Evangelio e i dottor magni / son derelitti, e solo ai Decretali / si studia, sì che pare a' lor vivagni; Ep XI 16 Iacet Gregorius tuus in telis aranearum; iacet Ambrosius in neglectis clericorum latibulis, iacet Augustinus abiectus, Dionysius, Damascenus et Beda; et nescio quod ‛ Speculum ', Innocentium et Ostiensem declamant. Cur non? Illi Deum quaerebant, ut finem et optimum; isti census et beneficia consecuntur. Un Remigio de' Girolami o un Guglielmo da Sarzano (che non ci par proprio possa essere il primo oppositore della Monarchia: v. l'edizione del suo Tractatus de potestate summi pontificis, a c. di R. Del Ponte, con una nostra Nota introduttiva, in Studi Medievali s. 3, XII 2 [1971] 997-1094) o un qualsiasi altro scrittore si muovono sempre su di un piano che è escluso in partenza dalla considerazione ‛ politica ' di D.: e ciò aiuta anche a capire perché, in fondo, una sua concezione del P. sia da cogliere piuttosto ‛ per negativum ', anziché in una compiuta trattazione. E così comprendiamo anche meglio che l'atteggiamento di D. nei riguardi della donazione di Costantino - a parte la circostanza assodata che egli non conosceva il testo nella sua integrità (cfr. Nardi, Nel mondo di D., pp. 109-159; Dal Convivio..., pp. 219-236; D. e il " buon Barbarossa ") - nasce da una volontà che è propriamente di giudicare tutta la storia. Il P., nella sua realizzazione storica concreta - che è però, a partire da un momento preciso, quella appunto della donazione di Costantino, un'occasione mancata - è, in questa prospettiva, ovviamente presente nella Commedia, più che nelle altre opere speculative di D.: perché è appunto nella Commedia che si formula il giudizio su tutta la storia. Ma tale giudizio sarebbe assolutamente incomprensibile se non lo si collegasse come a fase logica necessaria alla Monarchia.
Quali i pontefici romani presenti a Dante? L'elenco è stato più volte fatto negl'indici delle opere dantesche: ma prima di muovere alcune considerazioni proprio sulla natura di questo elenco, sarà opportuno richiamarlo alla memoria: Adriano I, Adriano V, Agapito I, Anastasio II, Benedetto V, Benedetto XI (?), Bonifazio VIII, Callisto I, Celestino V, Clemente IV, Clemente V, Cleto, Giovanni XXI, Giovanni XXII, Gregorio Magno, Innocenzo III, Innocenzo IV, Leone VIII, Lino, Martino IV, Niccolò III, Onorio III, Pio I, Silvestro I, Sisto I, Urbano I. Di tutti questi solo Adriano I, Leone VIII e Benedetto V sono menzionati nella Monarchia: gli altri si trovano ricordati nelle Epistole e nella Commedia. C'è anche da osservare che, per quanto concerne Adriano I, Leone VIII e Benedetto V (i ‛ papi della Monarchia ') il loro ricordo non assume significato storico-profetico; essi non sono significativi di un dover essere della Chiesa (o di un non dover essere che è la stessa cosa), ma assumono solo il valore di una constatazione nel contesto del ragionamento di D.: e sono - starei per dire proprio per ciò! - altomedievali (Silvestro fa caso a sé); gli altri papi - tutti nella Commedia, del resto - si dispongono in una prospettiva di giudizio-profezia. Innocenzo III (Pd XI 92) e Onorio III (XI 98) trovano una loro diversa funzione come strumenti dello Spirito Santo nell'approvazione degli ordini mendicanti. Benedetto XI (?), Bonifazio VIII, Celestino V, Clemente IV, Clemente V, Giovanni XXII, Innocenzo IV, Martino IV, Niccolò III sono tutti coinvolti, in vario modo (v. alle singole voci) in una valutazione negativa: e si collocano cronologicamente dopo la morte di Federico II.
Così non è necessario che - muovendo dalle premesse di cui si è detto - D. s'impegni in una serena valutazione di tutti i papi, di tutte le manifestazioni storiche del P., di tutti i casi in cui questo P. abbia mostrato di agire nella storia in modo conseguenziario a quegl'ideali che per il poeta erano propri dell'istituzione o in modo a essi diametralmente opposto: D. non ha preoccupazioni storiche, ma morali. Se si pensa che il nome di Gregorio VII non ricorre mai nell'opera dantesca, pur potendo la vicenda storica del grande papa del sec. XI fornire abbondante materia alla polemica, non si potrà non convenire che la stessa maggiore insistenza ed ‛ esemplarità ' che si constata nei riguardi di pontefici della seconda metà del sec. XIII si collega per un verso alla convinzione che la crisi dell'Impero dopo Federico II - per quello che tale istituto rappresentava per D. - fosse determinata proprio dalle prevaricazioni del P.; per un altro, con l'intima certezza di vivere un momento conclusivo della storia del mondo. Da ciò lo schiacciamento della ‛ fenomenologia ' del P. per quel commisurare tutta la sua storia ai pontificati di Lino e di Cleto, nel giudizio-profezia di Pietro, in Pd XXVII 22-24 (Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio), e 40-42. Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, / per essere ad acquisto d'oro usata. Un giudizio-profezia, peraltro, che presenta due volti: per quanto duro, puntuale, generalizzante si mostra nel suo aspetto di valutazione morale del P., verso i pastori degenerati in lupi rapaci (Pd XXVII 55), per tanto esso si risolve in vaticinio " in forma estremamente indeterminata " (Sapegno) circa la riforma della Chiesa e, di conseguenza, circa l'azione che potrebb'essere svolta da un diverso P., circa lo stesso posto che dovrebbe occupare il P. non tralignante in alternativa a quello dei Guaschi e dei Caorsini.
Al di là delle discussioni circa possibili e pretese ‛ fonti ' dantesche in Gioacchino (per cui v. GIOACHINO dA FIORE e le osservazioni del Nardi, Dal Convivio..., pp. 363-369); al di là della validità, in ogni caso relativa, della tesi delle fasi cronologiche dello sviluppo del pensiero dantesco, che, dopo le delusioni del fallimento dell'impresa di Enrico VII avrebbe ‛ riportato ' la funzione preminente della Chiesa - sia pur una Chiesa riformata - come suprema guida della società umana per la salvezza, rimane incontrovertibile che questa riforma della Chiesa e, più ancora, come si è detto, la funzione di un P. in essa, non si presentano come alternative concretamente delineate. Il veltro, la Provvidenza (o difesa di Dio, perché pur giaci?, Pd XXVII 57; Ma l'alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, / soccorrà tosto, sì com'io concipio, vv. 61-63) non soltanto rimangono paradigmi dai contorni labili, ma si presentano anch'essi come elementi negatori del male presente. Non è nemmeno possibile insistere molto sull'immagine di una Chiesa primitiva che parrebbe tra l'altro suggerire If XIX 90-95 (Deh, or mi dì: quanto tesoro volle / Nostro Segnore in prima da san Pietro / ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa? / Certo non chiese se non " Viemmi retro ". / Né Pier né li altri tolsero a Matia / oro od argento), poiché essa stessa ha eminentemente, se non esclusivamente, un volere polemico, come del resto era nella tradizione stessa di questo tema ecclesiologico. Rimane, certo, la possibilità di un rapporto tra le aspettative e le profezie dantesche e la tematica dell' ‛ Ecclesia spiritualis ', propria del mondo francescano e in particolar modo di Pietro di Giovanni Olivi. È stato merito del Manselli (D. e l'Ecclesia spiritualis) di aver proposto nuovamente i termini di questo collegamento, il quale non può in alcun modo essere inteso come rapporto stretto e preciso fra i contenuti escatologici di un determinato francescanesimo e gli atteggiamenti di Dante. C'è un'indubbia fascia di consonanze (la povertà della Chiesa, la raffigurazione della Chiesa romana come la bestia dell'Apocalissi, la necessità ‛ fatale ' di una riforma): ma non si può andare molto al di là; il profetismo di D., osserva il Manselli, " non è una voce isolata d'un utopista sognatore, ma è partecipazione viva ad un ideale diffuso e sofferto che nel suo tempo veniva considerato come sicuro, vicino ad attuarsi " (p. 126). Ma detto questo, rimane, come rileva lo stesso Manselli, il diverso atteggiamento nei riguardi dell'Impero, al quale gli spirituali, anche i più radicali, erano sostanzialmente indifferenti. Ora in questo esclusivismo degli spirituali è forse ancora possibile, al limite dell'utopia, ravvisare una certa alternativa da ‛ ultimi tempi ', per la società dell'epoca; ma per D., che non riesce a concepire una nuova Chiesa se non insieme con un Impero ‛ restaurato ' nei suoi pieni diritti, è difficile dire che cosa potesse e dovesse concretamente essere un nuovo Papato. E forse è inutile chiederselo poiché, così come il poeta non era mosso nel guardare alle vicende del P. da nessuna vocazione storica, anche nel profetare una nuova Chiesa e un nuovo P., verosimilmente, non portava l'animus del politico, con i suoi programmi, con le sue ipotesi di nuove strutture e di nuovi disegni unitari: la sua ecclesiologia è, in fondo, la speranza di un'alta coscienza morale
Bibl.-Le opere più recenti, più significative, che abbiamo costantemente tenute presenti, sono: F. Ercole, Le tre fasi del pensiero politico di D., in " Giorn. stor. " suppl. 19-21 (1921) 397-504; B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944; M. Maccarrone, Il terzo libro della Monarchia, in " Studi d. " XXXIII (1955) 5-142; B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960; G. Vinay, Interpretazione della Monarchia di D., Firenze 1962; M.J. Wilks, The Problem of Sovereignty in the Later Middle Ages, Cambridge 1964; J.A. Watt, The Theory of papal Monarchy in the XIIIth Century, Londra 1965; R. Manselli, D. e l'Ecclesia spiritualis, in D. e Roma, Firenze 1965, 115-135; O. Capitani, Monarchia, il pensiero politico, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 722-738; B. Nardi, Redeant unde venerunt, in " L'Alighieri " VI (1965) 58-62; ID., D. e il " buon Barbarossa ", ibid. VII (1966) 3-27; ID., Tre pretese fasi del pensiero politico di D., in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967. Una menzione particolare comunque devono avere A. Passerin d'Entrèves, D. politico ed altri saggi, Torino 1955; É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1953; C.T. Davis, D. and the Idea of Rome, Oxford 1957; e infine i commenti di G. Vinay a Monarchia, Firenze 1950, e di N. Sapegno alla Commedia, Milano-Napoli 1957.