VOLTERRA, Edoardo
– Nacque a Roma il 7 gennaio 1904, da Vito, matematico di fama mondiale, e da Virginia Almagià, figlia di Edoardo, uno dei grandi imprenditori dell’Italia postunitaria.
Alla sorella maggiore, Luisa, avrebbero fatto seguito altri due fratelli: Enrico e Gustavo. Allevato nella casa paterna, in via Lucina, egli, dopo i regolari studi presso il liceo Torquato Tasso, s’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Roma, dove ebbe tra i suoi diretti insegnanti alcuni dei più importanti giuristi dell’epoca. Sebbene si laureasse in diritto romano con Pietro Bonfante, sin da allora fu particolarmente legato al maestro di lui, che dominava gli studi giuridici dell’epoca, Vittorio Scialoja, di cui risentì profondamente l’influenza e alla cui memoria restò legatissimo per tutta la vita.
Nei suoi anni universitari si erano già avuti i primi riflessi della svolta politica segnata dall’avvento della dittatura fascista contro cui, con grande decisione e fermezza, s’era schierato il padre, impegnandosi con tutto il suo prestigio internazionale e la sua autorità di grande patriota e senatore del Regno. Ciò, da un lato, contribuì a orientare anche le amicizie personali di Volterra (fu in quegli anni che si formarono tra l’altro alcune delle incrollabili amicizie con Giorgio Amendola e poi con Emilio Sereni, Arturo Carlo Jemolo e Tullio Ascarelli), dall’altro lo espose all’ostilità dei gruppi fascisti che s’erano imposti anche nell’università, sino a sfociare nell’aggressione fisica da parte di alcuni scalmanati subita proprio nella sede dei suoi studi. Da allora, con coraggio e coerenza morale, egli si conservò fedele al suo giovanile impegno antifascista e ai valori liberali incarnati nella sua tradizione familiare.
Questo non gli impedì di perseguire, dopo la laurea, una rapida carriera, sotto la guida di Scialoja e di Bonfante. Professore incaricato all’Università di Cagliari di storia del diritto romano e di diritto romano dal novembre del 1926, nel 1929 fu chiamato a coprire l’insegnamento di istituzioni di diritto romano nell’Università di Parma. In quello stesso anno il giovane accademico si sposò con Nella Levi Mortera, appartenente a un’importante famiglia ebraica residente in Alessandria d’Egitto. Dalla giovane coppia, nel 1930, nacque la prima figlia, Laura.
Vinto il concorso alla cattedra di diritto romano bandito dall’Università di Modena, fu chiamato nel 1931-32 all’Università di Pisa, per passare poi a coprire, a soli ventotto anni, l’insegnamento di istituzioni di diritto romano presso l’Università di Bologna. E a Bologna, dove si trasferì con la famiglia, egli iniziò anche a praticare l’avvocatura nello studio di Eugenio Jacchia, un’altra figura di antifascista, il cui figlio, Mario, grande amico e compagno di lotta di Volterra, fu ucciso dai nazifascisti nell’agosto del 1944.
Alla carriera accademica percorsa in quegli anni corrispose un’intensa attività scientifica, chiaramente influenzata dal dibattito sorto nel contesto culturale dell’Istituto di diritto romano di Roma. Esso infatti era stato arricchito in quegli anni dalla chiamata dei diretti allievi di Scialoja e Bonfante, tra cui spiccavano le personalità di Pietro De Francisci e Salvatore Riccobono. Fu allora che Volterra iniziò a occuparsi anche dei diritti delle antiche civiltà mesopotamiche, impadronendosi degli indispensabili strumenti filologici e storici alla scuola dei grandi orientalisti della facoltà di lettere dell’Università di Roma: Ignazio Guidi, Carlo Alfonso Nallino e Giorgio Levi della Vida. Malgrado le distanze politiche tra Volterra e De Francisci, molti furono i punti d’incontro tra i due: dall’interesse per le fonti orientali e tardoimperiali allo studio delle costituzioni imperiali. E, infatti, Volterra partecipò in prima persona all’iniziativa assunta da Riccobono e da De Francisci per la realizzazione di una palingenesi delle costituzioni imperiali.
Per la ricchezza e varietà della sua produzione scientifica, verso la metà degli anni Trenta, il giovane cattedratico bolognese si collocava tra i più interessanti e autorevoli esponenti di una nuova generazione di romanisti. E tuttavia questa carriera di successo s’interruppe bruscamente con la promulgazione delle leggi razziali che sradicarono Volterra non solo dalla certezza della sua posizione accademica, ma dalle stesse condizioni per praticare il suo lavoro di ricerca. S’aprì per lui, come per molti altri professori ebrei, la via dell’esilio; sin dal settembre del 1938, potendo appoggiarsi ai familiari della moglie, egli si recò in Alessandria d’Egitto, dove tuttavia non riuscì a ottenere una posizione stabile, in quell’università o a Il Cairo, talché successivamente rientrò in Europa per fruire di borse di ricerca a Parigi, a Bruxelles e a Leiden, dove venne a trovarsi in stretti rapporti con altri due colleghi tedeschi, anch’essi esuli per motivi razziali: Fritz Schulz e Fritz Robert Pringsheim.
Lo scoppio della guerra portò a nuove scelte e a un più diretto impegno personale di Volterra nella lotta antifascista. Rientrato in Italia fu però arrestato a Bologna nel 1943 e liberato solo il 26 luglio, dopo la caduta di Benito Mussolini. Già in collegamento con le forze antifasciste (Amendola, impegnato in prima persona, era nascosto in casa sua a Bologna), egli si spostò a Roma per passare alla guerra partigiana, mentre la madre, la moglie e la figlia erano nascoste, come tanti altri, nei conventi romani. Ancora nel dopoguerra, chi scrive ha raccolto da alcuni suoi vecchi compagni di lotta la memoria viva del coraggio di questo professore, di cui s’ha riscontro nelle due croci di guerra e nella medaglia d’argento al valor militare a lui conferite.
Giunto, insieme alle prime truppe alleate, a Bologna, e reintegrato nell’insegnamento universitario, gli fu attribuita la funzione di rettore che egli assolse tra il 1945 e il 1947, riuscendo a rimettere in piedi l’istituzione e a ricostruirne materialmente gran parte degli edifici che la guerra aveva devastato. In questa impresa s’avvalse di un solido rapporto con le ricostituite autorità civili e, in particolare, con il sindaco, Giuseppe Dozza, peraltro riaffermando un forte senso dell’autonomia delle istituzioni universitarie anche rispetto al comando militare alleato, cui pur doveva la sua nomina iniziale. D’altra parte, proprio il rigore e l’incisività del suo governo non dovettero essere estranei a far maturare in molti suoi colleghi la tendenza a chiudere rapidamente questa stagione, talché, con una lieve maggioranza, essi, nel 1947, evitarono di rieleggerlo a tale carica.
Volterra, in rappresentanza dell’Emilia-Romagna, fu chiamato a far parte della Consulta nazionale per il Partito d’azione e, nella campagna per il referendum, s’impegnò attivamente a favore della repubblica. In seguito, tuttavia, egli rifiutò qualsiasi ulteriore diretto coinvolgimento nella vita politica attiva, tornando appieno al suo lavoro universitario. Questo non significa però che egli non avesse conservato profondi e durevoli rapporti con la classe politica emersa della Resistenza e destinata ad assumere un ruolo di primo piano nei decenni successivi, sebbene collocata ormai in schieramenti politici diversi e talora opposti. Seppure notevoli e varie erano le sue relazioni con il mondo cattolico e con non pochi dirigenti democristiani, anche in ragione di tante comuni storie accademiche, è nello schieramento di sinistra e, in particolare, nei dirigenti del Partito comunista italiano che egli ebbe i suoi riferimenti più forti. Unito da rapporti di stima con il dirigente socialista Riccardo Lombardi, era però un’antichissima amicizia quella che lo legava ad Amendola e a Sereni (che egli aveva personalmente liberato con un incredibile marchingegno legale dalla prigionia in mano tedesca), ma anche ad altri dirigenti di primo piano come Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte, Ugo Pecchioli. Dall’anteguerra si deve anche ricordare come la sua collocazione intellettuale, oltre che la ricchezza delle sue relazioni sociali e familiari, lo avessero posto al centro di una gamma abbastanza straordinaria di rapporti d’amicizia, tra gli altri, con Simone e André Weil, con Carlo Levi e con Piero Sraffa.
Chiamato all’Università di Roma nel 1951, per più d’un ventennio Volterra fu il titolare della cattedra di istituzioni di diritto romano, pur svolgendo anche l’insegnamento specialistico dei diritti dell’antico Oriente mediterraneo: un settore di grande importanza, sia per il rilievo delle civiltà mesopotamiche sia per l’enorme documentazione disponibile, ma in Italia praticato da pochissimi studiosi. Questa stagione di totale dedizione agli studi gli permise di raggiungere un prestigio eccezionale nella romanistica e nelle scienze dell’antichità italiane ed europee, divenendo il referente di una innumerevole serie di studiosi che a lui fecero riferimento, a livello internazionale, come del resto fanno fede i numerosi riconoscimenti accademici (dottore honoris causa delle università la Sorbona di Parigi e in quelle di Praga, di Bruxelles, di Louvain e di Cracovia) e istituzionali, con la Légion d’honneur francese e la commendatura dell’Ordine della Polonia restituta. Socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei dal 1947, ed effettivo dal 1958, egli è stato anche membro dell’Institut di Parigi.
I suoi studi nell’ambito dei diritti dell’antico Oriente mediterraneo, anzitutto con la sua opera Diritto romano e diritti orientali (Bologna 1937; rist. a cura di D. Piattelli, Napoli 1999) hanno segnato in modo durevole gli orientamenti metodologici e gli orizzonti di questo settore di studi. Nel campo del diritto romano, sin dai suoi primi anni di studio, spicca il corpo d’indagini sul diritto familiare romano e sui rapporti matrimoniali, insieme a una crescente attenzione per la storia delle fonti giuridiche antiche.
Uno dei contributi più importanti e precorritori in questo campo è stato il suo tentativo di realizzare una compiuta raccolta delle fonti relative alle delibere senatorie di cui resti memoria, un’impresa impossibile per le forze individuali e restata incompiuta, anche se, per merito di Pierangelo Buongiorno, i risultati da lui conseguiti sono oggi a disposizione della comunità scientifica (Senatus consulta, a cura P. Buongiorno - A. Gallo - S. Marino, Stuttgart 2017 e Materiali per una raccolta dei senatusconsulta (753 a.C.-312 d.C.), a cura P. Buongiorno - A. Terrinoni, Roma-Münster 2018).
A partire dal secondo dopoguerra un nuovo campo d’indagine, relativo alla pluralità e al possibile conflitto tra ordinamenti nel mondo antico e nell’ambito del sistema imperiale romano, fu da lui affrontato a più riprese e con successo. Ma, soprattutto, nella stagione della sua maturità, il settore di studi dove la sua opera avrebbe lasciato la traccia più profonda investe le problematiche relative al funzionamento della Cancelleria imperiale e alla produzione normativa degli imperatori romani.
Attraverso una faticosa e paziente analisi di un vasto ed eterogeneo materiale documentario, Volterra ha infatti potuto cogliere la genesi e la progressiva elaborazione, a opera di una nuova generazione di giuristi al vertice del sistema imperiale, di una diversa idea di legalità come espressione necessaria del potere sovrano, rappresentato come il titolare ultimo del potere legislativo. Una costruzione concettuale che costituì un importante legato lasciato alle società a venire.
Un altro lascito scientifico di Volterra è la sua straordinaria collezione di libri di diritto, comprensiva di tutte le più importanti opere giuridiche apparse nell’Europa continentale a partire dal Tardo Medioevo. Per volontà delle figlie essa è ora resa accessibile agli studiosi presso la biblioteca dell’École française, in palazzo Farnese a Roma.
Nel 1973 il presidente della Repubblica Giovanni Leone lo designò a far parte della Corte costituzionale italiana: un incarico non ricercato da Volterra, giacché avrebbe segnato il suo distacco – definitivo, data l’età – da quell’università cui aveva dedicato la vita.
La scelta tuttavia era ineludibile, anche perché fortemente apprezzata dall’arco dei partiti di sinistra, in quanto garanzia di una continuità negli equilibri politici di tale consesso. Nei nove anni di mandato Volterra svolse un ruolo importante in alcuni passaggi fondamentali nella storia della Corte, che garantirono le svolte nel campo dei diritti di libertà che l’Italia conobbe nei tardi anni Settanta. Egli ebbe a occuparsi direttamente di alcuni casi relativi alla tutela dei diritti di libertà, o che riflettevano una mutata concezione dei rapporti personali o familiari rispetto alle regole tradizionali. Non meno importanti furono alcune sentenze di cui fu estensore dove entrarono in gioco aspetti fondamentali dei rapporti sindacali e dell’organizzazione del lavoro.
Scaduto dalla carica egli non poté fruire di molto tempo per completare le sue ricerche, che pur erano proseguite anche negli anni della Corte. Un grave male, per il quale fu operato nel 1983, lo portò alla morte, avvenuta a Roma il 19 luglio 1984.
Fonti e Bibl.: M. Talamanca, E. V. (1904-1984), in Bullettino dell’Istituto di diritto romano, LXXXVIII (1985), pp. IX-XCIV; L. Capogrossi Colognesi, Una storia accademica, ibid., CIII-CIV (2000-2001), pp. 737-757; E. Cortese, V. bibliofilo ed erudito, ibid., pp. 758-764; M. Liverani, La riscoperta dei diritti cuneiformi, ibid., pp. 770-781; D.J. Osler, E. V. (1904-1984). A Catalogue of the early printed book in his library, now in the École française de Rome, Frankfurt am Main 2006; L. Capogrossi Colognesi, V., E., in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, pp. 2067-2069; P. Buongiorno, ‘Ricordi di anni lontani e difficili’. Romanisti a Leiden nella lunga estate del 1919, in Index, XXVIII (2015), pp. 143-156; Id., Die Ethik eines Juristen. E. V. zwischen der Palingenesia Codicis, den Senatus Consulta un dem italienischen Faschismus, in Acta diurna, a cura di B. Forschner - C. Willems, Wiesbaden 2016, pp. 47-60.