Vedi Egitto dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Il triennio 2011-13 ha rappresentato per l’Egitto un periodo di grandi trasformazioni politiche: dopo trent’anni di presidenza, nel febbraio 2011 Hosni Mubarak è stato costretto a rassegnare le dimissioni in seguito alle proteste di massa che avevano attraversato il paese a partire dal 25 gennaio.
Dopo circa un anno e mezzo di convulso processo di transizione governato dal Consiglio supremo delle forze armate, il 17 giugno 2012 si sono svolte le prime elezioni presidenziali del nuovo corso democratico del paese, che hanno consacrato la vittoria dell’esponente della Fratellanza musulmana Mohammed Mursi. Il governo del primo presidente eletto è durato all’incirca un anno ed è stato caratterizzato da un contesto politico, economico e sociale estremamente polarizzato. A fomentare gli animi hanno contribuito alcuni errori commessi dall’esecutivo islamista e dallo stesso Mursi, come la dichiarazione costituzionale che delegava al presidente per un periodo temporale limitato tutti i poteri e l’approvazione di una contestata Costituzione sul finire del 2012. Tutto ciò ha alimentato il malcontento popolare, catalizzato in giugno nei movimenti dei Tamarrud (i ribelli). Le grandi manifestazioni e l’ostinato rifiuto del presidente ad aprire un dialogo con le forze politiche dell’opposizione hanno portato a un nuovo intervento dei militari, che, il 3 luglio, hanno deposto Mursi.
Il ritorno sulla scena dei militari e, in particolare, l’accresciuto ruolo del capo di stato maggiore dell’esercito e ministro della difesa Abdel Fattah al-Sisi hanno aperto una nuova stagione nel processo di transizione egiziano. Presidente ad interim è stato nominato il presidente della Corte costituzionale Adly Mansour, mentre alcuni esponenti del Fronte di salvezza nazionale, la principale piattaforma dei partiti di opposizione, e del partito salafita al-Nour sono stati collocati in importanti posizioni governative e nella commissione dei 50 saggi incaricata di redigere il nuovo testo costituzionale.
Nonostante i tentativi di normalizzazione del clima politico, la repressione dell’agosto 2013 e la decisione del governo di dichiarare la Fratellanza musulmana ‘organizzazione terroristica’ a seguito di alcuni attentati avvenuti nel paese – sebbene questi siano stati poi rivendicati da Ansar Bayt al-Maqdis, sigla jihadista operativa nel Sinai –, hanno alimentato le tensioni e aggravato lo scontro tra gli islamisti e i militari.
Dopo il golpe militare del luglio 2013 anche le relazioni internazionali del paese sono mutate, conservando però alcuni tratti di continuità con il passato mubarakiano. Sul piano regionale i rapporti con Hamas e la Striscia di Gaza hanno conosciuto un nuovo stop, con la chiusura dei valichi di confine nel Sinai e la fine dell’alleanza instaurata nei mesi preceden ti. Le relazioni con Israele rimangono convergenti e mirate al mantenimento dello status quo, in particolare nell’area strategica del Sinai, divenuta negli ultimi anni il cuore dell’instabilità per entrambi i paesi. Anche il dialogo con Qatar e Turchia, principali sponsor politici ed economici del precedente regime, è andato deteriorandosi in favore di un riavvicinamento alle monarchie di Arabia Saudita, Uae e Kuwait, le quali sono subentrate ai precedenti donatori con ingenti finanziamenti (12 miliardi di dollari) e promesse di nuovi aiuti e investimenti.
Sul piano internazionale, invece, il rapporto con gli Stati Uniti vive una nuova fase, anche in considerazione delle critiche espresse da Washington all’esecutivo sulla mancata scarcerazione del deposto Mursi e sulla dura repressione della Fratellanza musulmana. All’indomani degli incidenti di Rabaa al-Adawiya al Cairo il 14 e 15 agosto 2013, gli Usa hanno annullato le consuete esercitazioni militari con giunte e soprattutto hanno congelato parte degli 1,3 miliardi di dollari annualmente devoluti all’Egitto dopo gli Accordi di Camp David del 1979. In risposta a ciò l’Egitto ha iniziato ad espandere la sua rete di relazioni con alleati non tradizionali come l’India, la Cina e la Russia. In particolare con quest’ultima, il governo del Cairo ha avviato un nuovo dialogo strategico che ha portato, nel novembre 2013, alla firma di un importante memorandum del valore di 2 miliardi di dollari per la fornitura di armi.
La relazione più solida nella fase di transizione appare quella con l’Unione Europea, nonostante le tensioni estive per il golpe militare. Negli anni l’Egitto ha sviluppato intensi rapporti con Bruxelles, con cui dal 2004 è in vigore l’Accordo di associazione per la liberalizzazione degli scambi dei prodotti industriali nell’ambito del partenariato euromediterraneo.
Assieme agli altri partner mediterranei il paese è stato ammesso nella politica europea di vicinato e dal 2008 nell’Unione per il Mediterraneo, di cui ha detenuto la copresidenza di turno, assieme alla Francia, fino alla caduta di Mubarak.
L’instabilità politica attraversata pone anche un problema di sicurezza e di stabilizzazione dei confini, soprattutto nei confronti di Libia e Sudan. Se una Libia stabile risulta fondamentale per l’Egitto in considerazione del lungo confine condiviso, il mantenimento di buone relazioni col Sudan è ugualmente di vitale importanza negli interessi del Cairo, vista la posizione chiave che esso ricopre nell’afflusso e nella contesa delle acque del Nilo, crisi riesplosa il 29 maggio 2013 quando l’Etiopia ha dato ufficialmente il via ai lavori di costruzione dell’imponente Diga del millennio sul Nilo Azzurro.
Ordinamento istituzionale e politica interna
Dopo la caduta di re Farouk nel golpe militare del 1952, l’Egitto è stato trasformato in una repubblica, sebbene da allora nel paese sia stato in vigore un regime autoritario sostenuto dai militari. La Costituzione del 1971 – più volte emendata – conferiva al presidente ampi poteri: oltre al comando delle forze armate, al capo dello stato spettava la nomina del primo ministro e del consiglio dei ministri, nonché dei governatori provinciali, dei comandi delle forze armate e di sicurezza, delle più importanti figure religiose e dei giudici dell’alta corte. A ciò si aggiungeva anche un diritto di veto sulle leggi. Il processo di scrittura della nuova Costituzione a seguito della caduta di Mubarak ha subito vicende alterne, a cominciare dal referendum del marzo 2011, che ha confermato alcuni cambiamenti costituzionali voluti dalla giunta militare in quel momento al potere.
Dopo la deposizione di Mursi il nuovo governo provvisorio ha promesso una revisione radicale della Costituzione approvata sul finire del 2012, criticata perché espressione esclusiva delle forze islamiste e dunque poco rappresentativa delle altre anime della società. Dopo settimane di trattative e scontri anche al suo interno, l’assemblea costituente egiziana ha approvato il 4 dicembre 2013 una bozza del testo della nuova carta fondamentale. Il testo, passato anche il vaglio referendario nonostante la bassa affluenza alle urne sembra essere una riedizione della Costituzione del 1971. Il documento rafforza il ruolo preminente delle forze armate (artt. 203, 204 e 234): i tribunali militari possono giudicare i civili; pieni poteri di controllo del budget da parte dell’esercito; autonomia del consiglio supremo delle forze armate nella nomina del ministro della difesa (per otto anni). In più sono proibiti i partiti religiosi ed è confermata la sharia (art. 2) alla base del diritto egiziano, ma vengono tuttavia aboliti gli artt. 4 e 219 che riguardavano il ruolo della religione nel diritto e nell’esercizio del potere statale. Nel testo viene, inoltre, fissato un calendario per le elezioni parlamentari e presidenziali. L’art. 32 ha permesso un cambio di rotta nella road map fissata dai militari, consentendo di anticipare le elezioni presidenziali rispetto a quelle parlamentari. La nuova Costituzione, sebbene conferisca ai militari uno status privilegiato, ponendoli al di sopra della legge, contiene, tuttavia, elementi positivi sul piano della laicità dello stato e del diritto rispetto al precedente testo.
Popolazione e società
Il graduale processo di liberalizzazione dell’economia, se da una parte ha favorito la crescita economica, dall’altra ha prodotto un rialzo dei prezzi e una caduta dei salari che, di fatto, hanno peggiorato le condizioni di vita della popolazione, un quarto della quale vive al di sotto della soglia di povertà.
A ciò si aggiunge il problema della disoccupazione, nonostante i dati ufficiali l’attestino al 13,6% (2013). Prima delle rivolte che hanno portato alla caduta di Mubarak, l’Egitto era stato teatro di dure manifestazioni contro il governo, tra le quali la ‘rivolta del pane’ del 2008, provocata dal rialzo del prezzo dei cereali. Il paese non è estraneo neanche a tensioni di carattere religioso tra la maggioranza musulmano-sunnita e la minoranza cristiano-copta, che conta circa il 10% della popolazione.
Gli Egiziani, circa il 94% della popolazione, sono il gruppo etnico dominante. Il restante 6% è costituito da Beduini, che abitano nei deserti a est del Nilo e nel Sinai, da Berberi, che si concentrano nell’Oasi di Siwa a ovest del Nilo, e dai Nubiani, che vivono nell’Alto Nilo. Nel corso degli ultimi decenni in Egitto è confluito anche un numero difficilmente quantificabile di rifugiati politici provenienti dall’Iraq, dal Sudan, e più recentemente dalla Siria, che si sono aggiunti ai rifugiati palestinesi affluiti qui dal 1948.
Libertà e diritti
La fase di avvicinamento alle elezioni presidenziali del 2011 aveva accentuato il controllo autoritario sulla vita politica del paese da parte di Mubarak. Ciò aveva comportato restrizioni alla partecipazione politica, che in Egitto si attestava su livelli più elevati rispetto ad altri paesi arabi, determinando un declassamento del paese nei ranking mondiali per indici di democraticità, come confermato, per esempio, in quello dell’Economist Intelligence Unit in cui l’Egitto aveva perso 19 posizioni dal 2008, collocandosi al 139° posto su 167 paesi nel 2010. In un contesto caratterizzato da repressione e controllo capillare, la protesta politica, la disaffezione nei confronti del regime e le istanze di apertura democratica degli egiziani hanno spesso trovato espressione su Internet, che in Egitto non è soggetto a filtro, sebbene non siano mancati il blocco e l’oscuramento di alcuni siti considerati sensibili.
Sono così stati sempre più frequenti i siti e i blog di esponenti delle opposizioni laiche ma anche religiose, oltre che di intellettuali indipendenti, tanto che la rete sembrava essere diventata lo strumento più naturale per aggirare la censura di stato. La rilevanza di questa ‘vitalità virtuale’, d’altra parte, è emersa con tutta le sue potenzialità proprio durante le proteste antiregime di inizio 2011, in cui social network come Facebook e Twitter si sono dimostrati mezzi fondamentali per diffondere la mobilitazione all’interno del paese, specie tra le fasce più giovani della popolazione, e per darne visibilità al di fuori.
Sotto il regime di Mubarak, lo stato ha sempre dominato i media e mantenuto il monopolio della stampa e della distribuzione delle pubblicazioni: non sono stati rari i casi di giornalisti che hanno subito persecuzioni e arresti. Alle forti limitazioni della libertà di stampa e di informazione si è unito negli ultimi anni un aumento dei casi di tortura all’interno delle carceri. In Egitto è stata in vigore fino alla fine del regime di Mubarak la legge di emergenza nazionale, che limitava le garanzie costituzionali, attribuendo alla polizia ampi poteri discrezionali nel reprimere manifestazioni pubbliche, arrestare e detenere cittadini anche in mancanza di accuse o prove precise, nonché condurre indagini e perquisizioni senza autorizzazione. Il periodo di transizione è stato in generale caratterizzato da maggiori aperture per quanto riguarda i diritti civili e le libertà di espressione. Numerose manifestazioni e scioperi hanno avuto luogo dalla deposizione del vecchio dittatore e sono state fondate molte testate indipendenti. Nonostante ciò non sono mancati, specialmente nel periodo dominato dalla giunta militare, sanguinose repressioni e arresti di giornalisti e attivisti per i diritti umani. Ancora oggi, anche a causa del perdurare dell’instabilità politica, il quadro generale dei diritti civili e politici nel paese non è migliorato. In tal senso, l’approvazione da parte del governo di una nuova legge molto restrittiva sul diritto di manifestazione che vieta qualsiasi corteo non autorizzato e punisce con il carcere i suoi partecipanti, rende ancora più aspra la contrapposizione non solo tra islamisti e militari, ma anche tra questi e società civile liberale e secolare. Il livello di corruzione (il paese si trova alla 118° posizione su 176 secondo il Trasparency International Index) all’interno delle istituzioni e della pubblica amministrazione rimane un grande problema, sia per quanto riguarda i danni al bilancio statale, sia per il malessere potenzialmente destabilizzante che crea fra la popolazione. Da esso, e più in generale dal miglioramento del sistema di redistribuzione e di giustizia sociale, dipende il successo o il fallimento del nuovo governo e della transizione egiziana verso la democrazia.
Economia
Alla buona performance economica dell’Egitto negli ultimi anni hanno contribuito le riforme economiche in senso liberista avviate a partire dal 2004. Nel 2008 il paese compariva tra i primi dieci ‘top reformer’ nella classifica di 183
paesi stilata da Banca mondiale nel rapporto Doing Business. La progressiva liberalizzazione dell’economia ha favorito l’afflusso di investimenti diretti esteri (ide) in Egitto che, nel periodo di boom (2003-08) degli ide verso la sponda sud del Mediterraneo, è stato il principale paese di destinazione degli investimenti, provenienti soprattutto dagli stati del Golfo e dall'Europa.
Tuttavia, lo scoppio delle rivolte interne e l’instabilità politica che ne è seguita dal 2011 a oggi hanno bloccato la ripresa della crescita economica, la quale si è attestata su un ben più modesto 1,8%. Il forte calo delle attività economiche
ha avuto un inevitabile impatto negativo sul quadro macroeconomico, evidenziando una forte contrazione degli investimenti e il conseguente deterioramento della bilancia dei pagamenti, che ha causato una repentina emorragia di riserve valutarie, le quali dai 32 miliardi di dollari di fine 2010 sono passate a poco più di 11 miliardi nel 2012.
Finché la situazione politica interna non si stabilizzerà appare invece più lento il rilancio del settore turistico che, con introiti nel 2009-10 pari a 11,6 miliardi di dollari, costituisce una buona fetta del pil egiziano.
In tale contesto, il proseguimento del processo di riforme economiche e delle liberalizzazioni, così come del piano di investimenti nel settore infrastrutturale attraverso partnership pubblico-private, non è tra le priorità del governo, maggiormente concentrato invece sulla fornitura di beni e servizi essenziali e sulla creazione di nuovi posti di lavoro attraverso progetti nel settore dei lavori pubblici. Se da un lato ciò potrebbe contribuire ad affrontare il problema della disoccupazione, dall’altro, unito all’incremento della spesa in sussidi, farà aumentare il deficit fiscale, appesantito soprattutto dall’estesa politica di sussidi su beni di prima necessità quali alimenti e carburante. Infrastrutture
Gli sviluppi economici futuri dipendono molto da una possibile ripresa delle trattative tra il Fondo monetario Internazionale e il governo egiziano per l’elargizione di un prestito agevolato da 4,8 miliardi di dollari. Ciò, oltre a dare fiato alle riserve valutarie, dovrebbe essere accompagnato da garanzie da parte dell’esecutivo egiziano, che dovrebbero tranquillizzare gli investitori esteri e far riprendere i flussi finanziari verso il paese. Sebbene i costi delle rivolte e della transizione siano elevati e il clima generale rimanga incerto e volatile, la situazione politica in Egitto sembra avviarsi verso una forma di stabilità che potrebbe favorire nel lungo periodo una certa ripresa economica del paese.
Alla composizione del PIL egiziano concorrono principalmente il settore manifatturiero (16,2%), petrolio e gas (14,1%), l’agricoltura (13,6%), la vendita al dettaglio e all’ingrosso (10,8%), il turismo e i trasporti (8,3%), i servizi finanziari (7,6%). Importanti sono anche il settore delle costruzioni (4,6%) e gli introiti del Canale di Suez (3,7%). Nonostante solo il 3% del territorio egiziano sia fertile, l’Egitto esporta prodotti agricoli (principalmente frutta, riso e cotone) per un valore di circa due miliardi di dollari all’anno.
Tra i paesi del Nord Africa, l’Egitto è fra i primi produttori di petrolio e di gas. Nonostante un costante calo nei livelli della produzione di petrolio – 720.000 barili al giorno, mentre alla fine del 2012 le riserve si attestavano ormai a 4,4 miliardi di barili – l’estrazione del greggio continua a rappresentare una voce importante dell’economia egiziana. L’impoverimento dei giacimenti del Golfo di Suez ha portato all’avvio di attività esplorative nelle aree di frontiera, come il Deserto occidentale al confine con la Libia, le aree off-shore del Mediterraneo e i territori del Sinai. Le esplorazioni sono state intraprese da compagnie straniere (in primis Bp e Eni) in collaborazione con la compagnia statale Egyptian General Petroleum Corporation (Egpc). Un’importante infrastruttura per l’esportazione del petrolio è la Suez-Mediterranean Pipeline (Sumed), detenuta al 50% dall’Egitto. Essa rappresenta una via di transito alternativa e complementare rispetto al Canale di Suez per il petrolio proveniente dal Mar Rosso e destinato al Mediterraneo. Il calo della produzione di petrolio è compensato dalle riserve di gas naturale, stimate in circa 2190 miliardi di metri cubi (2011).
Il governo, che incoraggia nuove esplorazioni, ha incentivato l’utilizzo del gas naturale, in particolare per le centrali elettriche, anche concedendo licenze ad aziende private che si occupano dell’estensione della rete di trasmissione e di distribuzione del gas. Ben oltre la metà della produzione giornaliera di gas – proveniente prevalentemente dal delta del Nilo e dal Deserto occidentale – viene utilizzata per generare elettricità.
Il governo egiziano, inoltre, ha provveduto a sviluppare un’articolata rete per l’esportazione del gas naturale. Attraverso l’Arab Gas Pipeline il gas egiziano giunge in Israele, Giordania, Siria e Libano e in prospettiva dovrebbe arrivare anche in Turchia. A partire dal 2005 il gas egiziano viene esportato anche come gas naturale liquefatto (gnl), di cui l’Egitto è oggi tra i primi dieci maggiori esportatori al mondo. Infine, il paese sta puntando sullo sviluppo delle energie rinnovabili. Secondo gli obiettivi stabiliti dal governo prima della caduta di Mubarak, entro il 2020 il settore delle energie rinnovabili dovrebbe coprire circa il 20% della produzione totale di energia: più della metà dovrebbe essere rappresentata dall’eolica.
Difesa e sicurezza
L’Egitto, grazie alla sua posizione geografica strategica, ha svolto un ruolo chiave nella politica e nella sicurezza mediorientale a partire dalla Prima guerra mondiale. Nel corso del Novecento potenze come il Regno Unito, l’Unione
Sovietica e da ultimo gli Usa hanno considerato il paese come attore di grande importanza nelle loro strategie a livello regionale e mondiale. In particolare, il Canale di Suez si è rivelato cruciale non solo per la sicurezza del Golfo, ma anche delle rotte del commercio tra l’Asia e l’Europa. Dopo le guerre contro Israele del 1956, 1967 e 1973, il presidente al-Sadat ha inaugurato un nuovo corso nella politica regionale egiziana, sfociato nella firma degli Accordi di Camp David nel 1978 e del Trattato di pace con Israele nel 1979. E si è impegnato, in particolare negli ultimi due anni, nella messa in sicurezza dell’area strategica del Sinai. Se il riavvicinamento a Tel Aviv, da un lato, ha portato alla rottura delle relazioni diplomatiche con gli stati arabi e all’espulsione dalla Lega Araba dal 1979 al 1989, dall’altro è valso all’Egitto la concessione di aiuti economici e militari statunitensi per 1,3 miliardi di dollari all’anno.
Dalla fine degli anni Settanta, l’Egitto si è adoperato per assicurare la stabilità e la pace regionale. Il paese ha contribuito alla forza internazionale contro l’Iraq durante la guerra del Golfo del 1990-91 con 35.000 effettivi, il contingente più numeroso dopo quelli statunitense e britannico. Allo stesso modo, l’Egitto ha fornito il proprio sostegno logistico agli Usa per l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003, benché Mubarak fosse contrario al rovesciamento del regime di Saddam Hussein per il timore di ricadute negative sulla stabilità regionale e di un ridimensionamento della partnership con gli Usa, nonché del flusso di aiuti provenienti da Washington.
L’enfasi sulla stabilità regionale, cui è improntata la politica di difesa egiziana, spiega i diversi tentativi di mediazione condotti dall’Egitto sia tra Arabi e Israeliani sia, più di recente, tra le diverse fazioni palestinesi. Esse sono state riprese sia dal deposto presidente Mursi, sia dall’attuale governo transitorio, dimostrando la volontà di muoversi su una linea di continuità rispetto a questi temi.
Per oltre un trentennio le relazioni bilaterali USA-Egitto si sono caratterizzate per un rapporto di reciprocità strategica (il paese nordafricano è stato da un lato il baluardo dell’Occidente contro la penetrazione sovietica in Medio Oriente e in Africa orientale, dall’altro, un avamposto per la proiezione delle forze USA nel Golfo). Oggi invece nell’attuale contesto post-Mubarak è difficile supporre che Il Cairo possa ancora assurgere a quel ruolo di pilastro/cardine designatogli da Washington nella sua politica estera mediorientale. Alcune prove di tale ridefinizione nel rapporto bilaterale erano giunte nel 2011 con le Primavere arabe e in particolare con l’elezione a presidente dell’islamista Mohammed Mursi nel 2012. Il golpe militare del 3 luglio 2013 e, soprattutto, la repressione dei Fratelli musulmani nell’agosto dello stesso anno da parte dei militari tornati nuovamente al potere hanno definitivamente imposto una pausa di riflessione nelle relazioni tra USA-Egitto.
Il cambio di rotta si è palesato ufficialmente il 10 ottobre 2013 quando la Casa Bianca ha sospeso una parte degli aiuti militari e finanziari (circa 560 milioni di dollari) – decisione, questa, revocata sul finire del 2013 – previsti dagli Accordi di Camp David del 1979, favorendo di fatto un avvicinamento del Cairo alla Russia di Vladimir Putin.
Così il 14 e 15 novembre 2013, i ministri degli esteri e della difesa russi hanno incontrato in una visita storica al Cairo le rispettive controparti egiziane con le quali hanno firmato un rilevante accordo di cooperazione e fornitura militare. Da parte sua Mosca, pur non aspirando a sostituirsi a Washington come attore principale nella regione, ha approfittato della ridefinizione della politica estera mediorientale USA per ampliare anche in altri teatri (per esempio in Algeria, in Libia, in Siria e in Iraq) il proprio export militare e la propria influenza politica.
Il 4 novembre 2013 é iniziato al Cairo il processo al deposto presidente Mohammed Mursi di altre 14 persone del Partito libertà e giustizia – braccio politico legato alla Fratellanza musulmana – accusate di «istigazione alla violenza, teppismo, tortura e uccisione di sette manifestanti dinanzi al palazzo presidenziale di al-Ittihadiyah a Heliopolis (Il Cairo) il 5 dicembre 2012». Secondo varie fonti legali, il processo potrebbe richiedere diversi mesi perché sono oltre 30.000 i faldoni e i documenti da esaminare. Oltre a queste accuse sono giunte a carico di Mursi nuove imputazioni: tentata evasione dal carcere nel 2011 durante le prime rivolte anti-Mubarak e spionaggio a favore di Hamas. Per quest’ultima accusa rischia la pena di morte. Secondo il procuratore generale del Cairo, Hesham Barakat, l’ex presidente dovrà rispondere di «cospirazione con organizzazioni straniere finalizzata al compimento di atti di terrorismo e rivelazione di segreti a uno stato estero». Stessi addebiti per altre 35 persone, compresi Mohamed Badie e Saad al-Katatni, leader rispettivamente dei Fratelli musulmani e del Partito per la libertà e la giustizia. Destituito da un golpe militare il 3 luglio 2013, Mursi era stato posto immediatamente agli arresti nella prigione di Torah, al Cairo, dov’era imprigionato assieme agli altri leader della Fratellanza musulmana, mentre da novembre si troverebbe nel penitenziario di Borg el-Arab ad Alessandria.
Negli ultimi dieci anni lo sfruttamento delle acque del Nilo è stato oggetto di contesa tra i dieci paesi rivieraschi. In particolare, i paesi dell’Africa orientale in cui nascono il Nilo Blu e il Nilo Bianco lamentano i privilegi di cui godono l’Egitto e il Sudan sul controllo delle acque del fiume. In virtù degli accordi firmati dal Regno Unito nel 1929 con l’Egitto e nel 1959 con il Sudan, ai due paesi spetterebbe circa l’87% delle acque del Nilo, oltre a un diritto di veto sulla costruzione di dighe, stazioni di pompaggio e sistemi di irrigazione volti a ridurre o a modificare a loro sfavore il flusso di acqua. Al contrario degli altri paesi rivieraschi, che possono contare anche su altre risorse idriche quali le abbondanti piogge, il Nilo – che fornisce il 90% dell’acqua – è una risorsa vitale per l’Egitto. Temendo una riduzione del proprio approvvigionamento idrico, l’Egitto assieme al Sudan si è opposto all’accordo firmato a maggio 2010 da Etiopia, Tanzania, Ruanda e Uganda per una ripartizione più equilibrata delle acque del fiume tra tutti i dieci paesi. Il nuovo accordo – cui hanno aderito altri paesi rivieraschi – eliminerebbe il diritto di veto egiziano e sudanese. Sul piano pratico sostituisce l’Iniziativa del bacino del Nilo con una Commissione permanente del bacino del Nilo, deputata alla risoluzione delle controversie.
I copti d’Egitto sono la più ampia comunità cristiana del Medio Oriente e rappresentano la minoranza religiosa più consistente nel paese. Attualmente sono fra i sei e gli otto milioni di fedeli, concentrati soprattutto nelle regioni
meridionali. La Chiesa copta ortodossa è stata guidata dal 1973 al 2012 da papa Shenouda III che, oltre a essere la guida religiosa, ha svolto un ruolo politico non solo a favore della propria comunità, ma anche come mediatore
tra Egitto ed Etiopia nella controversia sulle acque del Nilo. Alla fine del 2012 alla guida della comunità è stato eletto il vescovo Tawadros II, che ha davanti a sé l’arduo compito di riformare la Chiesa e le istituzioni copte nel paese. Nonostante non vi sia repressione da parte del governo, i copti sono di fatto discriminati rispetto alla maggioranza musulmana. Sono sottorappresentati nelle posizioni di governo, a livello politico e nelle forze armate. Nell’ultimo decennio le divisioni interne si sono acuite sfociando sempre più di frequente in episodi di violenza, soprattutto ai danni dei cristiani (vedi l’attentato di Capodanno 2011 ad Alessandria e i sanguinosi incidenti del Maspero durante l’autunno 2011).
A partire dalla caduta di Mubarak, lo stato della sicurezza nella Penisola del Sinai ha subito un netto peggioramento. Il collasso degli apparati di sicurezza a seguito della caduta del dittatore ha portato allo scoppio di rivolte delle tribù beduine autoctone e a infiltrazioni da parte di gruppi terroristici legati ad al-Qaida. Il governo di Hamas nella Striscia di Gaza ha cercato di approfittare dell’anarchia presente nel Sinai per intensificare i traffici attraverso il confine con l’Egitto. Il governo di Mursi ha avviato – senza fortuna – trattative con le tribù locali per riportare la situazione sotto
il controllo delle istituzioni. Nonostante ciò si ripetono con regolarità attacchi contro i checkpoint militari e delle forze di polizia, in particolare nella zona tra il villaggio di Sheikh Zuweyyd, al-Arish e Rafah, vicino al confine israeliano e la Striscia di Gaza, dove sono attive numerose cellule qaidiste e jihadiste. Nel tentativo di riportare ordine e stabilità nella Penisola, dall’agosto 2013 le autorità centrali cairote hanno lanciato una vasta operazione militare nel Nord Sinai.