Epilessia
di Franco Angeleri e Zdenæk Servít
Epilessia
Sommario: 1. Introduzione. 2. Fisiopatologia (patogenesi) dell'epilessia: a) patogenesi della crisi epilettica; b) patogenesi del processo epilettico. 3. Aspetti clinici dell'epilessia: a) predisposizione ed ereditarietà; b) correlazioni anatomo-elettrocliniche; c) epilessie a scatenamento o ad arresto sensoriale; d) terapia dell'epilessia. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L'epilessia può essere definita in modo diverso a seconda dell'obiettivo di ricerca che ci si propone. Dal punto di vista medico è utile una definizione clinica, nel tentativo di delimitare e distinguere l'epilessia da altre malattie che hanno sintomi simili. In questo senso essa risulta una malattia che si manifesta prevalentemente con crisi a differenti intervalli di tempo. Una crisi epilettica è caratterizzata da un improvviso e transitorio disturbo dell'attività cerebrale, accompagnato da un insieme di sintomi parossistici che, separatamente o in varie combinazioni, possono interessare ogni funzione neurologica o psichica.
Scopo della definizione fisiopatologica (o patogenetica) è quello di chiarire i meccanismi della genesi della malattia e dei suoi sintomi. Una simile definizione evidentemente è condizionata dalle conoscenze scientifiche su tali meccanismi. In base a quanto oggi noto, la crisi epilettica può essere definita come espressione di un'attività automatica parossistica e ritmica di estese popolazioni di cellule nervose, escluse così dall'attività fisiologica del cervello.
Sia dal punto di vista clinico sia da quello fisiopatologico è importante distinguere una crisi epilettica dalla ‛malattia epilessia' la cui base fisiopatologica è un processo epilettico. Le componenti fondamentali di questo processo sono rappresentate da una progressiva modificazione della predispozione alle crisi e dalla formazione di focolai epilettici secondari (v. cap. 2, È b).
La storia dell'epilessia riflette non soltanto il livello di sviluppo della medicina (sia sul piano clinico sia su quello fisiologico), ma anche gli aspetti sociologici e filosofici che tale malattia ha chiamato in causa per la strana e drammatica sintomatologia delle sue crisi (compromissione o perdita di coscienza, convulsioni o altri comportamenti involontari che colpiscono il paziente improvvisamente, mentre sembra essere perfettamente normale).
Nell'antichità, nel Medioevo e oltre, questi sintomi, per la loro stessa natura, indussero a una interpretazione magica della crisi, come espressione di un intervento di forze esterne e irrazionali. Sono facilmente immaginabili le conseguenti implicazioni sociali e ideologiche. La storia dell'epilessia dall'antichità al tempo presente è stata passata in rassegna in modo completo nella monografia di O. Temkin (v., 1945).
La seconda metà del sec. XIX è stata contrassegnata da una svolta importante nelle ricerche sull'epilessia, soprattutto a causa delle scoperte neuroanatomiche. La struttura ma- cr0- e microscopica del cervello veniva gradualmente a chiarirsi mentre lentamente si conducevano le prime ricerche sulle funzioni cerebrali. In questo contesto hanno particolare importanza i contributi di Fritsch e Hitzig (v., 1870) sull'eccitabilità della corteccia, gli studi sperimentali di Ferrier (v., 1873) e la concezione fisiopatologica di Jackson (v., 1870) secondo la quale una convulsione è ‟una scarica del tessuto nervoso sui muscoli, occasionale, eccessiva e disordinata".
Nel sec. XX la fisiologia e l'anatomia funzionale (per es., la descrizione dell'anatomia cerebrale macro- e microscopica da un punto di vista funzionale) hanno contribuito in modo decisivo alla ricerca sull'epilessia. Ciò è stato reso possibile anche dal perfezionarsi dei metodi di indagine, specialmente con l'affermarsi e lo svilupparsi dell'elettrofisiologia (v. elettrofisiologia; v. Brazier, 1961), di alcune tecniche di biochimica (specialmente quelle di citochimica) e di microscopia elettronica (v. De Robertis, 1967).
Il progresso nella fisiopatologia dell'epilessia è stato influenzato specialmente dalle seguenti scoperte o ipotesi: il concetto di epilessia centroencefalica (v. cap. 2, È a, 3; v. cap. 3, È b, 3; v. Jasper, 1965), le correlazioni tra sintomi delle crisi e localizzazione cerebrale (v. cap. 2, È a, 5; v. cap. 3, È b; v. Penfield e Jasper, 1954), l'estesa applicazione dell'elettroencefalografia clinica e sperimentale (v. Berger, 1929; v. Adrian, 1934; v. Bremer, 1949; v. Gibbs e altri, 1935), la scoperta del sistema reticolare ascendente, cioè di un doppio sistema afferente al cervello (v. cap. 2, È a, 1; v. Jasper, 1949; v. sistema reticolare ascendente), la delucidazione dei meccanismi eccitatori e inibitori a livello cellulare (v. cap. 2, È a, 1; v. Eccles 1964 e 1969) e gli studi delle sinapsi al microscopio elettronico (v. De Robertis, 1967).
2. Fisiopatologia (patogenesi) dell'epilessia
Il cervello di qualsiasi vertebrato (compreso quello dell'uomo sano) può reagire a un certo stimolo e a certe condizioni con una crisi epilettica. La predisposizione alla crisi può essere favorita da determinate circostanze. In tal caso le crisi possono essere scatenate da differenti stimoli o persino intervenire senza alcuna causa apparente. Le crisi spesso si originano in una determinata regione cerebrale che viene definita come focolaio epilettico. Quando le crisi si ripetono, e a maggior ragione se sono ricorrenti, la predisposizione a esse spesso si modifica, aumentando o diminuendo. In tal modo si può sviluppare nell'organismo, soprattutto a carico del cervello, un processo patologico, il processo epilettico, che è la base fisiopatologica della malattia epilettica.
a) Patogenesi della crisi epilettica.
1. Basi fisiologiche dei fenomeni epilettici. - Nel XX secolo le conoscenze sulla morfologia e sulla funzione dell'elemento fondamentale del tessuto nervoso, il neurone, si sono arricchite notevolmente. La microelettrofisiologia, per mezzo di registrazioni microelettrodiche (intra- ed extracellulari) dell'attività elettrica di singoli neuroni, ha dato importanti informazioni sulla genesi dell'impulso nervoso. Il potenziale elettrico cellulare insorge quando sulla membrana si realizza un certo grado di depolarizzazione. Per certe circostanze (dovute per es. a fattori metabolici o farmacologici) il livello di polarizzazione della membrana può essere inizialmente più elevato o più basso. Ad esempio la membrana può essere parzialmente depolarizzata per uno squilibrio del metabolismo ossidativo, cioè per mancanza di ossigeno o di glucosio (v. Tower, 1960; v. È b, 3).
Una membrana parzialmente depolarizzata si trova allora più prossima a quel livello di depolarizzazione capace di generare un impulso nervoso, oppure - se viene raggiunto tale livello - da essa si generano impulsi automaticamente, in assenza cioè di una eccitazione sinaptica. Questa situazione è particolarmente importante nella genesi dei fenomeni epilettici.
È stato inoltre dimostrato che in alcune condizioni l'attività elettrica di una estesa popolazione di neuroni può divenire sincrona. In tal caso può essere registrata anche da macroelettrodi posti sulla superficie del cuoio capelluto (elettroencefalografia; v. elettrofisiologia). L'attività sincrona parossistica di estesi aggregati neuronali (‛aggregati neuronali epilettici'; v. Ajmone-Marsan, 1961) è espressione tipica della presenza di attività epilettica nel cervello. Ne consegue che le anormalità bioelettriche registrabili con la elettroencefalografia rappresentano sintomi importanti dell'epilessia (v. punto 4; v. cap. 3, È b).
Da ricerche condotte negli ultimi anni risulta che nella genesi della sincronizzazione dei potenziali elettrici di aggregati neuronali epilettici può giocare un ruolo importante un disturbo dell'equilibrio del doppio feedback dei neuroni cerebrali (v. Dichter e Spencer, 1969). L'esistenza di questo doppio feedback è stata messa in evidenza in strutture corticali relativamente semplici (per es., nell'ippocampo); sembra comunque che esso possa essere considerato quale principio funzionale generale di tutte le strutture nervose (v. Eccles, 1969). Esso è schematizzato in modo semplice nella fig. 1. La cellula piramidale (B) è un importante elemento strutturale della corteccia cerebrale. Le cellule piramidali sono disposte nella corteccia a strati (A); i loro dendriti apicali (B, d.a.), paralleli, risultano verticali rispetto alla superficie corticale. I feedbacks si realizzano per mezzo delle cosiddette ‛collaterali ricorrenti' (B, c.r.). Una fibra collaterale ricorrente di tipo eccitatorio (C, c.r.e.) ha contatti sinaptici con diverse cellule. Ciò rappresenta un'importante base strutturale per la sincronizzazione. In tal modo infatti l'impulso in uscita da una cellula può indurre la simultanea attivazione di un certo numero di altri neuroni. Le fibre ricorrenti collaterali di tipo inibitorio (c.r.i.) entrano in contatto sinaptico con i neuroni inibitori (n.i.), che, insieme alle cellule piramidali, rappresentano un altro elemento importante nella struttura corticale. Gli assoni delle cellule inibitrici stabiliscono delle giunzioni sinaptiche di tipo inibitorio con il soma delle cellule piramidali (s.i.). Il feedback inibitorio controlla l'attività delle cellule piramidali agendo, tra l'altro, come un freno di sicurezza, per prevenire o arrestare la loro attività ritmica automatica.
L'attività normale, ben bilanciata, del neurone piramidale dipende quindi in particolar modo da due condizioni: dal livello basale intrinseco della polarizzazione della sua membrana e dalla funzione proporzionale dei feedbacks eccitatono e inibitorio. Il neurone piramidale agisce come integratore degli impulsi eccitatori e inibitori che lo raggiungono mediante le sinapsi eccitatorie e inibitorie. Questi messaggi gli sono convogliati dalle fibre afferenti provenienti sia dai neuroni di altri centri encefalici, sia dai recettori che mediano stimoli estero- e intracettivi.
La neurofisiologia del XX secolo ha dimostrato che le vie afferenti che stabiliscono sinapsi con le cellule nervose sono di due tipi, quelle specifiche e quelle aspecifiche (v. fig. 1, C, v.a.s. e v.a.a.; v. Moruzzi e Magoun, 1949). Le afferenze specifiche probabilmente terminano in maggioranza in prossimità del soma cellulare. Esse mediano informazioni specifiche, per esempio una sensazione somestesica relativa a una determinata area della superficie corporea. Le afferenze aspecifiche terminano con tutta probabilità sui dendriti apicali, lontano dai corpi cellulari; in maggioranza prenderebbero contatto sinaptico con le ramificazioni dei dendriti apicali che nella corteccia cerebrale occupano gli strati superficiali. Esse non conducono informazioni specifiche, modulano invece il livello basale di reattività dei neuroni, probabilmente elevando o diminuendo il grado di polarizzazione della loro membrana. In questo modo le afferenze aspecifiche partecipano in modo sensibile al controllo sia dello stato di vigilanza sia della convulsività del cervello. Ciò spiega, ad esempio, perché spesso le crisi epilettiche nell'uomo siano legate al ritmo veglia-sonno.
2. Fattori patogenetici fondamentall dell'epilessia. - I fattori patogenetici dell'epilessia possono essere schematicamente suddivisi in tre gruppi: a) la predisposizione alle crisi (convulsività); b) il focolaio epilettico; c) lo stimolo epilettogeno.
La convulsività è condizionata da uno stato della membrana neuronale facilitante l'attività ritmica automatica e da una facilitazione verso l'attività sincrona e ritmica di estese popolazioni neuronali. A questo riguardo assume importanza fondamentale l'equilibrio del doppio feedback dei neuroni cerebrali (v. punto 1). Dal punto di vista funzionale ogni altra componente cerebrale può influenzare la convulsività: per esempio, l'esistenza di vie preformate o predisposte che sono sfruttate dall'attività epilettica del focolaio primario per propagare in altre strutture, talora verso regioni distanti ed estese dell'encefalo, oppure l'attività del sistema aspecifico che può influenzare la predisposizione verso crisi generalizzate (v. punto 1; v. cap. 3, È c).
Il focolaio epilettico è il punto reale o potenziale di origine e di propagazione della crisi; è localizato nella corteccia o in altre strutture cerebrali (degli aspetti clinici si dirà nel cap. 3, È b, 1). Nell'area che lo delimita la predisposizione alle crisi è aumentata. Di tanto in tanto i potenziali elettrici dei neuroni in essa compresi vanno incontro a una sincronizzazione il cui corrispettivo elettrofisiologico è rappresentato dall'attività epilettica focale che può essere registrata talora anche dal cuoio capelluto (spikes elettroencefalografici focali). A livello cellulare essa corrisponde a un'improvvisa e transitoria depolarizzazione della membrana accompagnata da una scarica di impulsi (spikes cellulari). Questa scarica è generalmente interrotta da una ripolarizzazione o iperpolarizzazione della membrana neuronale indotta principalmente dal feedback inibitorio (v. punto 1; v. Ajmone-Marsan, 1961).
Nella patologia umana la causa più frequente di un focolaio epilettico è rappresentata da un trauma cerebrale o da lesioni infiammatorie o circolatorie del tessuto nervoso (v. cap. 3, È b). Negli esperimenti su animali è possibile provocare un focolaio epilettogeno per mezzo di alcune sostanze (applicazione locale di penicillina, idrossido di alluminio, cobalto, ecc.). Recenti ricerche morfologiche su questi focolai sperimentali, eseguite al microscopio elettronico (v. Fischer, 1969), hanno dimostrato che nell'area attiva di un focolaio epilettico è possibile spesso osservare neuroni privi di sinapsi esclusivamente o prevalentemente nel soma, cioè nella zona dove probabilmente è situata la maggioranza delle sinapsi inibitorie. Si può quindi supporre che in tali neuroni sia disturbato il feedback inibitorio; ma essi sono anche privati del contatto con cellule di altro tipo, le cellule della nevroglia (astrociti) che rappresentano un'altra importante componente del tessuto nervoso. Esse partecipano al metabolismo dei neuroni contribuendo al mantenimento del normale livello di base della polarizzazione della loro membrana. Nelle cicatrici cerebrali gli astrociti sono rimpiazzati da un diverso tipo di cellule gliali (glia fibrosa) alle quali con tutta probabilità mancano le proprietà metaboliche sopra riferite. Complessivamente tutto ciò contribuisce a un notevole calo della polarizzazione della membrana neuronale, depolarizzazione che giunge così a valori assai prossimi al livello responsabile di un'attività autoritmica (v. Trachtenberg e Pollen, 1970; v. Pollen e Trachtenberg, 1970).
In esperimenti su animali è stato dimostrato che è possibile scatenare la scarica di un focolaio epilettico per mezzo di stimoli epilettogeni adeguati (stimolazione di un recettore sensoriale, stimolazione elettrica di una via afferente). Focolai localizzati nelle varie regioni cerebrali risentono dei diversi stimoli scatenanti a seconda dei rapporti che contraggono con le vie nervose afferenti. I contributi sperimentali di ricercatori italiani (v. Amantea, 1920; v. Clementi, 1929) sono stati, in questo settore, particolarmente significativi. La scarica epilettica talvolta è scatenata in modo predominante o esclusivo da certi organi di senso. Anche nell'epilessia umana talvolta certi stimoli acquistano un ruolo francamente epilettogeno, decisivo cioè nello scatenamento di una crisi (epilessia sensoriale riflessa; v. cap. 3, È c), ma quest'ultima è più frequente negli animali. Può essere, ad esempio, indotta in alcuni ratti, topi e conigli per mezzo di forti stimolazioni acustiche (epilessia audiogenica dei Roditori; v. Bevan, 1955) o da stimoli ottici in alcune specie di scimmie (epilessia fotogenica dei babuini; v. Killam, 1969).
Si può infine supporre, sulla base sia dei dati sperimentali sia delle conoscenze cliniche, che impulsi afferenti possano influenzare l'attività di un focolaio epilettico e l'origine delle crisi anche quando queste ultime non sono scatenate da uno stimolo costante. Abbiamo già ricordata l'influenza del sistema aspecifico sul grado di convulsività cerebrale (v. punto 1). Alcuni risultati sperimentali suggeriscono che anche una deafferentazione parziale di una certa zona cerebrale può aumentarne la convulsività (v. Stavraky, 1961; v. Echlin, 1959). Sembra che, quando l'attività dei neuroni non è sufficientemente stimolata da impulsi afferenti, in essi si realizzi una tendenza all'attività automatica spontanea.
3. Propagazione della crisi. - In molti casi la scarica epilettica rimane limitata alla zona del focolaio epilettico. Ciò può osservarsi nell'epilessia umana e può essere riprodotto sperimentalmente nell'animale. Comunque per certe condizioni l'attività epilettica si propaga dal focolaio ad altre regioni cerebrali, talora interessando vasti distretti degli emisferi cerebrali e in modo particolare del diencefalo (propagazione e generalizzazione delle scariche epilettiche). Questo fenomeno è stato ampiamente studiato con ricerche sperimentali. È stato così dimostrato che le scariche e la crisi si propagano in modo preferenziale attraverso alcune vie preformate dell'encefalo. Anche la convulsività delle diverse regioni cerebrali non è uguale. Oltre alla corteccia cerebrale anche alcune regioni sottocorticali hanno una maggiore convulsività (v. cap. 3, È b, 1). Vie importanti per la propagazione delle scariche sono le connessioni interemisferiche, il corpo calloso ed altre commissure (v. emisferi cerebrali: Interazioni interemisferiche cerebrali).
Alcune regioni encefaliche sembrano avere speciale importanza nella propagazione e generalizzazione delle crisi nei due emisferi. Esse sono rappresentate in specie da alcuni distretti diencefalici; in particolare dal talamo. Le connessioni tra la corteccia cerebrale e il talamo (circuiti talamo-corticali) senza dubbio giocano un ruolo importante nella genesi delle oscillazioni ritmiche dei potenziali elettrici registrati dall'EEG (v. elettrofisiologia), per esempio nella sincronizzazione dell'attività elettrica di estese popolazioni di neuroni. Tali strutture partecipano anche alla sincronizzazione dell'attività elettrica dei due emisferi. In elettroencefalografia ed elettrofisiologia esse sono indicate come pacemakers, cioè come promotrici di certi ritmi (v. cap. 3, È b, 2). Un altro importante pacemaker, oltre quello talamico, si trova nella regione del setto (v. Petsche e altri, 1962). Esso sembra avere un'influenza importante sull'attività ippocampale nella regione dei lobi temporali. Le regioni con funzione di pacemaker interverrebbero anche nel controllo dello stato di coscienza. Essendo tutte situate alla base dell'encefalo lungo la linea mediana ne formano quasi il centro topografico. Da ciò deriva il termine di ‛crisi centroencefaliche' con il quale sono state spesso indicate quelle crisi che si sviluppano con una sincronia biemisferica. Il termine è stato introdotto da Penfield e Jasper (v., 1954; v. Jasper, 1965; v. anche cap. 3, È b, 2).
Va tenuto presente comunque che la sincronizzazione dei potenziali elettrici cerebrali non coinvolge mai tutti gli elementi di una regione, come dimostrano precise misure elettrofisiologiche. Gli stessi neuroni compresi in un'area cerebrale o quelli appartenenti ai suoi differenti strati non partecipano in egual misura al fenomeno di sincronizzazione. È stato dimostrato inoltre che il pacemaker talamico non è indispensabile al realizzarsi di un sincronismo biemisferico, bastando a ciò le commissure interemisferiche. Nondimeno alle strutture con funzione di pacemaker deve essere attribuita una notevole importanza nella generalizzazione dell'attività epilettica.
4. Elettrogenesi delle alterazioni parossistiche nell'elettroencefalogramma. - Nelle ultime due decadi numerosi studi elettrofisiologici sono stati dedicati al problema dell'elettrogenesi dei potenziali elettroencefalografici, in particolare di quelli epilettici.
L'EEG dell'uomo a riposo è caratterizzato da alcuni ritmi fondamentali. Caratteristica delle alterazioni epilettiche (parossistiche) è in genere una maggiore ampiezza dei potenziali e una loro evidente maggiore ritmicità (v. fig. 2). Frequenze a 10 c/s, 4-5 c/s e 3 c/s si riscontrano molto spesso. Un'espressione assai tipica di epilessia nell'EEG è rappresentata dai complessi punta-onda con frequenza sui 3 c/s. Tale attività può essere facilmente provocata (quale fenomeno epilettico) in esperimenti su animali per mezzo di differenti tecniche e ciò non solo nei Mammiferi ma anche in animali con struttura cerebrale filogeneticamente più bassa (v. Servít e altri, 1965; v. Servít, 1965). Tale attività epilettica sembra dunque un aspetto basale e generale della reattività cerebrale.
Attraverso metodi elettrofisiologici è stato possibile correlare potenziali epilettici, derivati da macroelettrodi posti sulla superficie della corteccia cerebrale, con l'attività di singole cellule nervose (attività unitaria) comprese nella stessa regione. È stato così dimostrato che l'elettrocorticogramma di superficie è la risultante di una sincronizzazione dell'attività elettrica di vaste quantità di neuroni.
Comunque non tutti i neuroni di una certa regione partecipano in egual misura all'attività del tracciato macroelettrodico nè essi influenzano in modo eguale le modificazioni che risultano nel campo elettrico (v. Ajmone-Marsan, Microstructural..., 1965; v. Sawa e altri, 1968; v. Morrell, 1969). Alla genesi delle modificazioni del campo elettrico, derivabili con macroelettrodi persino dal cuoio capelluto, concorrono in particolar modo le cellule piramidali con i loro lunghi dendriti apicali disposti in parallelo. Da simile disposizione si generano dipoli elettrici, cioè differenze di potenziali tra corpo cellulare e terminazioni dendritiche apicali, campi elettrici discretamente intensi che insorgono durante la sincronizzazione dell'attività di tali neuroni.
Nel corso di una crisi epilettica interviene una progressiva e profonda depolarizzazione della membrana dei neuroni coinvolti nella crisi. A tale depolarizzazione si associa una temporanea eliminazione del meccanismo neuronale a feedback di tipo inibitorio che verosimilmente ne è anche la causa (v. punto 1). Questo problema è stato recentemente approfondito da Dichter e Spencer (v., 1969) anche per mezzo di modelli elettronici.
5. Correlazioni tra quadri clinici ed elettroencefalografici delle crisi epilettiche. - L'attività ritmica e automatica che caratterizza la crisi epilettica impedisce ai neuroni interessati di esplicare la loro funzione, spiccatamente differenziata; in tal modo essi vengono eliminati dai processi normali di informazione che si svolgono nel cervello. Ciò sembra un fattore importante nel determinismo dei sintomi clinici della crisi. I quadri clinici accessuali variano in rapporto alla localizzazione delle scariche e alla funzione dei neuroni coinvolti (v. cap. 3, È b).
Se la regione interessata dalla crisi epilettica non è molto estesa e se essa è abbastanza distante dal cuoio capelluto, può succedere che la crisi clinica non si accompagni a modificazioni dell'EEG. Al contrario quando la regione coinvolta dalla crisi è prossima al cuoio capelluto e di dimensioni tali da non compromettere funzioni cerebrali importanti, si verifica un fenomeno opposto, cioè la ricorrenza di crisi elettriche subcliniche rivelate dall'EEG. In molti epilettici si verifica in realtà che numerose crisi elettriche siano palesi solo alla registrazione elettroencefalografica.
Nel periodo iniziale della ricerca elettroencefalografica sono stati compiuti molti sforzi per individuare correlazioni elettrocliniche (v. Gastaut, 1954); confrontando criticamente quadri clinici ed EEG, in un primo tempo si concluse ottimisticamente per un rapporto abbastanza costante tra gli uni e gli altri. Tuttavia successive osservazioni cliniche e sperimentali hanno dimostrato che tali correlazioni non possono essere accettate come regola generale. La sintomatologia critica clinica è determinata principalmente dalla localizzazione delle scariche epilettiche. Tale localizzazione può condurre a particolari quadri elettroencefalografici che per altro non sempre indicano la stessa focalità (v. cap. 3, È b, 4).
b) Patogenesi del processo epilettico.
Abbiamo già accennato come da un punto di vista patogenetico sia importante distinguere la crisi epilettica dal processo epilettico. Solo quando quest'ultimo fenomeno si verifica si può parlare di epilessia come malattia. Anche sulla base della semplice esperienza clinica è possibile concludere che una crisi epilettica isolata non è necessariamente espressione di malattia epilettica. Una crisi isolata, infatti, può essere indotta anche in un cervello perfettamente sano per mezzo di particolari tecniche. Negli ultimi decenni la ricerca sperimentale, sulla falsariga dell'esperienza clinica, elettroencefalografica e neurochirurgica, ha offerto alcuni dati che delucidano i meccanismi del processo epilettico.
1. Propagazione dell'attività focale e origine di focolai secondari. - Registrazioni elettroencefalografiche seriate nell'epilessia umana documentano che un focolaio epilettico, localizzato in una regione di un emisfero cerebrale, molto spesso provoca l'origine di un altro focolaio epilettico nella regione speculare dell'emisfero opposto. Questo ‛focolaio speculare' (mirror focus) talora diviene un ‛focolaio secondario indipendente o autonomo', cioè rimane attivo anche quando il focolaio primario sia stato rimosso chirurgicamente. Focolai speculari e più in generale focolai secondari indipendenti sono riproducibili con relativa facilità anche nell'epilessia sperimentale. Nei Mammiferi il fenomeno è stato ampiamente studiato nel gatto e nelle scimmie (v. Udvarhelyi e Walker, 1965). Da tali ricerche è scaturito come primo dato fondamentale che la formazione di focolai secondari è favorita da una predisposizione di alcune strutture (ippocampo, amigdala e certe regioni corticali) e da alcune vie preformate (per es., le vie commissurali interemisferiche).
Ancor oggi l'origine di un focolaio autonomo secondario può essere spiegata solo in via ipotetica. Si sospetta che due meccanismi entrino in gioco nella sua patogenesi: a) una deafferentazione parziale dell'area interessata, conseguente all'interruzione delle normali afferenze che dovrebbero pervenire dalla regione del focolaio primario; b) un intenso e iterativo bombardamento di impulsi sincronizzati che provengono da questo alla regione del focolaio secondario. In quest'ultima potrebbero verificarsi anche processi inquadrabili nell'ambito della traccia mnesica (v. Morrell, 1960). Certo è che lo sviluppo di un focolaio secondario autonomo, a parte i suoi meccanismi patogenetici, rappresenta una tappa importante del processo epilettico.
2. Modificazione progressiva della predisposizione alle crisi. - Nel corso di un processo epilettico può realizzarsi una progressiva modificazione della predisposizione alle crisi, non soltanto nella sede dei focolai epilettici ma anche in più estese regioni cerebrali dove si verifica una propagazione delle scariche, come dimostrano alcune ricerche sperimentali. Analogamente si può sospettare che a modificare la predisposizione concorra una variazione delle reattività delle regioni con funzione di pacemaker (v. È a, 3). È infine verosimile che alterazioni metaboliche tissutali provocate dal processo epilettico inducano a loro volta modificazioni in senso epilettico sulla polarizzazione della membrana neuronale (v. È a, 3; v. cap. 3, È b, 3).
3. Biochimica dell'epilessia. - Negli ultimi cinquant'anni sono stati compiuti ripetuti tentativi per ricondurre l'epilessia a un disordine metabolico primario e per dare una definizione dei caratteri specifici di tale disturbo.
Una completa rassegna dei problemi concernenti i meccanismi biochimici che stanno alla base della patogenesi dell'epilessia è offerta dai lavori di Tower (v., 1960 e 1969) ai quali si rimanda per ulteriori informazioni bibliografiche. Certamente molti problemi rimangono ancora insoluti. Allo stato attuale delle nostre conoscenze può essere stabilito quanto segue.
L'ultimo anello di ogni influenza metabolica o biochimica capace di modificare la predisposizione epilettica è rappresentato dal livello di polarizzazione della membrana del neurone o, in altri termini, dalla differenza di potenziale tra l'interno e l'esterno della cellula (v. È a, 1; v. cap. 3, È a, 3). Numerosi e assai differenti fattori metabolici possono agire su tale bersaglio finale. Non è stato possibile invece scoprire un disturbo metabolico specifico dell'epilessia.
Il livello di polarizzazione della membrana neuronale è mantenuto dal trasporto attivo di ioni, specialmente di quelli sodio e potassio. Costantemente vi è un passaggio dello ione sodio all'esterno della membrana assicurato da un meccanismo noto come ‛pompa del sodio'. La principale sorgente dell'energia necessaria per assicurare il gradiente di membrana è rappresentata dal processo di ossidazione del glucosio. Una depolarizzazione della membrana può essere provocata da un'insufficienza relativa della pompa del sodio con conseguente accumulo di ioni sodio nell'interno del neurone. La membrana può inoltre essere depolarizzata, ripolarizzata ed iperpolarizzata dall'azione delle sinapsi eccitatorie e inibitorie (v. È a, 1; v. fig. 1). I segnali sinaptici sono trasmessi da mediatori chimici; tra essi l'aceticolina è impiegata in prevalenza dalle sinapsi eccitatorie e l'acido gamma-ammino-butirrico (GABA) è, con tutta probabilità, il mediatore delle sinapsi inibitorie. Queste inducono una iperpolarizzazione della membrana, mentre quelle eccitatorie la depolarizzano.
Gli agenti biochimici epilettogeni possono interferire su ognuno di questi meccanismi fondamentali della polarizzazione della membrana neuronale. Ciò spiega perché, ad esempio, la soglia epilettica può essere abbassata da differenti condizioni patologiche che diminuiscono l'apporto al tessuto nervoso di ossigeno o di glucosio, sostanze indispensabili per il metabolismo generatore dell'energia necessaria al trasporto attivo di ioni. In campo clinico si descrivono vari casi nei quali si verificano crisi epilettiche in conseguenza di insufficienza o arresto di circolazione ematica cerebrale, di ipossia cerebrale (eccessiva altitudine) o di ipoglicemia (terapia con insulina, adenomi del pancreas, ecc.).
La catena metabolica preposta alla sintesi del GABA sembra avere una speciale importanza nella biochimica dell'epilessia. Tale sostanza, oltre a svolgere funzioni di mediatore chimico ad effetto inibitorio, concorre al metabolismo ossidativo del glucosio, garantendo una alternativa al ciclo ossidativo di Krebs o rappresentandone un processo collaterale, e pertanto concorre alla produzione neuronale di energia. La piridossina (vitamina B6) entra nel ciclo metabolico del GABA. La grave ipovitaminosi B6 da carenza dietetica, o la cattiva utilizzazione metabolica di tale sostanza, sono talora causa di epilessia.
Fattori metabolici, farmacologici o tossici possono inoltre interferire con la sintesi, il deposito, l'attivazione e l'inattivazione dei mediatori chimici delle sinapsi favorendo di conseguenza i processi epilettici. Per esempio il diisopropilfluorofosfato (DFP) e il tetraetilpirofosfato (TEPP) bloccano l'inattivazione provocando crisi epilettiche.
Altri fattori metabolici possono direttamente influenzare il trasporto di ioni attraverso la membrana neuronale. Ciò può realizzarsi ad esempio a seguito di disordini del ricambio idrosalino che s'accompagnano ad alterazioni ormoniche e metaboliche (v. anche cap. 3, È a, 3). In particolare tutte le condizioni cliniche che inducono una ritenzione di acqua e di NaCl nell'organismo possono favorire o indurre accessi convulsivi.
Recentemente sono state offerte prove convincenti sul difettoso funzionamento della pompa del sodio nei neuroni epilettici e sulla capacità dei farmaci anticonvulsivi (specialmente dintoina e suoi derivati) nel migliorare tale funzione (v. Woodbury, 1969). Ulteriori delucidazioni dei meccanismi biochimici coinvolti nella genesi dell'epilessia sicuramente contribuiranno a far progredire la terapia farmacologica di questa malattia.
4. Diminuzione della predisposizione alle crisi, meccanismi di difesa antiepilettica. - Oltre ai meccanismi che creano e mantengono il processo epilettico, e distinti da essi, devono essere ricordati altri meccanismi che possono rientrare nella definizione di ‛meccarnsmi di difesa antiepilettica'. Di essi in realtà si conosce assai poco, ma la loro esistenza è assai probabile. Il cervello è un organo con una elevata omeostasi (capacità di mantenere uno stabile stato di equilibrio funzionale e metabolico). Numerosi meccanismi cerebrali ed extracerebrali controllano tale omeostasi. Poiché un focolaio epilettico altera tale equilibrio, vi devono pur essere alcune reazioni regolatrici.
Ciò è confermato dall'esperienza clinica. Un focolaio epilettico elettroencefalografico, anche se accompagnato da crisi elettriche, induce crisi cliniche solo in alcuni casi. Casi di epilessia postraumatica, anche con crisi cliniche, presentano una tendenza spontanea alla remissione, avendosi parallelamente un miglioramento del quadro elettroencefalografico nel quale le alterazioni vengono a circoscriversi al focolaio primario e dal quale infine possono anche scomparire.
In questo senso si può dare una spiegazione degli effetti favorevoli della terapia anticonvulsiva. In linea generale si ritiene che i farmaci antiepilettici svolgano una influenza diretta o indiretta sulla polarizzazione della membrana neuronale. La relativa specificità degli effetti dei farmaci può essere spiegata dal fatto che le membrane dei differenti neuroni risultano sensibili o accessibili in modo diverso alla loro azione. Il miglioramento della predisposizione alle crisi che si instaura nel modo indicato crea certamente condizioni favorevoli per l'intervento di più profondi meccanismi omeostatici del cervello (per gli aspetti clinici della terapia v. cap. 3, È d).
3. Aspetti clinici dell'epilessia
Ai fini della discussione che segue è sufficiente distinguere da una parte epilessie primarie e secondarie (suddivisione eziologica), dall'altra crisi generalizzate e crisi parziali (suddivisione sintomatica).
Le epilessie primarie (sinonimi: idiopatiche, genuine, essenziali, genetiche, asintomatiche, criptogenetiche, endogene) sul piano clinico sono definite: a) dall'inizio delle crisi nell'infanzia o adolescenza; b) dall'assenza di cause neonatali e postnatali che possano in qualche modo giustificarle; c) dalla negatività obiettiva neurologica e strumentale per l'esistenza di lesioni cerebrali. Le epilessie secondarie possono conseguire a una noxa cerebrale da cause extracerebrali (intossicazioni eso-endogene, ipossia, ipoglicemia, ecc.) o a lesioni cerebrali (epilessie lesionali).
Le due suddivisioni proposte (eziologica e sintomatica) non sono in alcun modo esattamente sovrapponibili. Infatti confrontando ciascun membro della prima con quelli della seconda si osserva che: 1) le epilessie primarie sono caratterizzate più spesso da crisi generalizzate, ma possono accompagnarsi anche solo a crisi parziali come nell'epilessia rolandica dell'infanzia e adolescenza (v. Y. Gastaut, 1952) o in altre epilessie focali la cui familiarità indica una ereditarietà (v. Bray e Wiser, 1965; v. Rodin e Gonzales, 1966). Una simile evenienza si può realizzare anche indirettamente sulla base di una predisposizione, come nel caso dell'epilessia del lobo temporale che consegue a convulsioni febbrili (v. Ounsted e altri, 1966); 2) le epilessie secondarie spesso sono caratterizzate da crisi parziali, ritenute espressione della localizzazione della lesione focale (epilessie lesionali), ma con altrettanta frequenza esse possono esprimersi sul piano elettroclinico soltanto con crisi generalizzate; per le epilessie lesionali ciò si realizza con il bisincronismo secondario (v. Penfield e Jasper, 1954) o con le lesioni diffuse corticosottocorticali (epilessie reticolo-corticali di Gloor; v., Generalized..., 1968) e in campo sperimentale con lesioni corticali biemisferiche (v. Marcus e altri, 1968); quanto alle epilessie sintomatiche da cause extracerebrali (intossicazioni eso-endogene, ipossia, ipoglicemia, ecc.) esse notoriamente danno luogo più spesso a crisi generalizzate.
Non è tra gli scopi del presente lavoro l'analisi completa e dettagliata delle classificazioni proposte per le epilessie. Informazioni di tal genere possono reperirsi nei testi di neurologia, elettroencefalografia ed epilettologia (v. Jasper e Kershman, 1949; v. Penfield e Jasper, 1954; v. Lennox e Lennox, 1960; v. Bates, 1963; v. Gastaut e altri, 1964; v. Janz, 1969; v. Sutherland e Tait, 1969; v. Niedermeyer, 1970).
Sebbene le classificazioni anatomo-elettrocliniche non possano essere considerate una soluzione definitiva al problema (v. È b, 4), esse si fondano su basi neurologiche indiscutibili e continuano ad essere una pietra miliare lungo il cammino delle nostre conoscenze sull'epilessia. Per questo, con il solo scopo di richiamare i quadri critici clinici che corrispondono alle varie localizzazioni cerebrali, le crisi di più frequente riscontro clinico sono state riassunte nella fig. 3. Nella fig. 2 possono essere osservati anche alcuni quadri elettroencefalografici che caratterizzano le crisi generalizzate e parziali. Tenendo presenti questi principi si può procedere a un breve esame di alcuni punti fondamentali per lo studio clinico delle epilessie.
a) Predisposizione ed ereditarietà
La predisposizione convulsiva è stata dimostrata da Amantea (v., 1920) e da Clementi (v., 1929) negli animali con il modello dell'epilessia sperimentale di Baglioni e Magnini (v., 1909) e di Baglioni e Amantea (v., 1914). Non è difficile metterla in evidenza anche nell'uomo (v. Longo, 1952). In tema di predisposizione convulsiva si pongono tre direttrici di indagine: a) il suo riconoscimento clinico; b) la sua trasmissione genetica; c) le sue implicazioni cerebrali ed extracerebrali.
1. Diagnosi di predisposizione. - Appare ormai ben documentato da una serie di ricerche che il quadro elettroencefalografico della punta-onda 3 c/s diffusa e sincrona rappresenta l'aspetto più tipico di un fattore di predisposizione epilettica. Tale quadro infatti non necessariamente esprime la malattia in atto (v. Metrakos e Metrakos, 1970). In questo stesso ambito sono da ricordare anche i quadri di poli-punta-onda diffusi e sincroni. Nei soggetti predisposti all'epilessia gli uni e gli altri possono essere presenti spontaneamente nel tracciato di veglia o attivati dal sonno, da iperpnea, da stimolazione luminosa intermittente o da ipossia indotta da inalazione di azoto.
Le alterazioni elettroencefalografiche possono rimanere infracliniche o tradursi in crisi cliniche di tipo convulsivo (grande male, attacchi mioclonici massivi) o di tipo non convulsivo (assenze, crisi amiotoniche). Le cause capaci di scatenare le crisi sono sempre di intensità molto bassa, talora comprese nell'ambito delle funzioni fisiologiche (epilessia catameniale ed epilessia al risveglio, ad esempio).
Oltre a questi casi con una obiettività subclinico-clinica, ve ne sono altri in cui la predisposizione risulta ancora ben evidente, ma certamente di grado inferiore. In tali condizioni l'EFG risulta normale o con alterazioni aspecifiche sia in stato di veglia che nel sonno. Le comuni attivazioni non inducono alterazioni apprezzabili, ma è invece presente una bassa soglia convulsiva che si può evidenziare con l'attivazione fotocardiazolica. Tali soggetti vanno incontro con facilità a convulsioni febbrili nell'infanzia, mentre nella vita adulta possono presentare crisi sporadiche in seguito ad aggressioni cerebrali di un certo rilievo (iperazotemia, eclampsia, ecc.). Del modo in cui una simile predisposizione può dar luogo ad epilessie lesionali si è già detto più sopra. Comunque una identica convulsività è stata riscontrata anche in soggetti con affezioni non epilettiche (isterismo, startie disease, fotosensitività, schizofrenia; v. Gastaut, 1969).
2. Ereditarietà della predisposizione. - Sul problema della ereditarietà delle epilessie il fronte degli studiosi è, sin dal secolo scorso, diviso tra sostenitori e oppositori. Appartengono al primo gruppo A.-L. Foville (i cui studi vennero pubblicati nel 1868), J. Grasset e Razier (1879), J. Dejerine (1866), Feré (1890) e W. R. Gowers (v., 1881); al secondo, J. H. Jackson (v., 1873) e P. Marie (1887). Il dialogo è continuato in questo secolo anche se mai alcuna delle opposte tesi è stata radicalizzata: così ad esempio Abadie (v., 1932), Marchand (v., 1952) e Penfield e Jasper (v., 1954) insistono soprattutto sul ruolo eziologico della lesione cerebrale relegando in sottordine la predisposizione, mentre Conrad (v., 1936), Nachtsheim (v., 1940), Hall (v., 1947), Longo (v., 1952) sottolineano l'importanza della predisposizione e degli elementi genetici sia nell'instaurarsi sia nell'evoluzione della sindrome.
Con l'avvento dell'elettroencefalografia e il miglioramento delle possibilità di diagnosi nei singoli casi, il problema dell'ereditarietà dell'epilessia è stato affrontato con maggior precisione soprattutto valutando l'incidenza familiare di alcune forme, quella idiopatica in particolare, gli aspetti che esse assumono in coppie di gemelli mono- ed eterocoriali e le alterazioni elettroencefalografiche infracliniche specifiche dell'epilessia riscontrabili in un alto numero di familiari degli epilettici (per una rassegna bibliografica, v. Gastaut e altri, 1969). Ai dati così acquisiti hanno fatto seguito considerazioni statistiche entro gruppi di forme particolari di epilessia e tra famiglie di epilettici e famiglie di non epilettici (v. Sorel, 1969).
Studi e considerazioni di questo genere, che non possono essere qui riferiti per esteso, hanno definitivamente fatto luce sull'esistenza di una trasmissione ereditaria della predisposizione all'epilessia nell'uomo. Parallelamente essa è stata dimostrata anche in alcune specie animali (Nachtsheim, Hall). Negli ultimi anni solo Alström (v., 1950) si è opposto a tale conclusione, ma la sua ricerca non appare convincente anche se riesce apprezzabile il suo sforzo di non rinfrancare prevenzioni e preclusioni sociali verso gli epilettici. Le acquisizioni teoriche devono ovviamente servire a far comprendere meglio la malattia senza danneggiare i malati; inoltre altro è parlare di ereditarietà, altro è stabilire il rischio reale di progenie epilettica per il singolo caso di epilessia. Sorel, per esempio, ha calcolato che tale rischio è valido solo per una parte delle epilessie genuine che, a loro volta, rappresentano il 7,5% di tutte le epilessie. I casi di epilessia genuina che hanno un rischio effettivamente superiore di progenie epilettica rispetto alla popolazione generale sono quelli con altri casi di epilessia nella famiglia, in particolare fratelli.
Qualche discordanza, nell'ambito della riconosciuta ereditarietà di una predisposizione all'epilessia, esiste a proposito della natura di tale predisposizione e delle forme di epilessia nelle quali essa risulta operante. H. Gastaut (v., 1969), per esempio, distingue una predisposizione all'epilessia e una predisposizione convulsiva. La prima sarebbe espressa dai quadri elettroencefalografici e clinici sopra descritti: punta- e polipunta-onda diffuse e sincrone, grande male, mioclonie massive, assenze, amiotonie, crisi tutte provocate da noxae cerebrali minime e anche da situazioni fisiologiche. Solo per essa, molto rara in realtà, può essere invocata una trasmissione monogenetica, cioè un'eredità monomerica a penetranza irregolare quale quella stabilita da J. D. e K. Metrakos (v., 1960, 1961 e 1970).
Le indagini di questi autori, condotte in famiglie di epilettici con crisi generalizzate, hanno infatti dato prove convincenti sull'esistenza di un gene responsabile della trasmissione delle scariche generalizzate intercritiche presenti in molti membri di tali famiglie; si tratterebbe di un gene autosomico la cui espressione clinica varia con l'età, essendo molto debole alla nascita, quasi completa tra i 4 e i 6 anni e di nuovo via via più debole negli anni successivi.
A tale predisposizione epilettica Gastaut contrappone la predisposizione convulsiva (clinicamente espressa da convulsioni febbrili o da altre valide aggressioni cerebrali e da bassa soglia convulsiva). Quest'ultima sarebbe espressione di una eredità multifattoriale, corrispondente a una semplice variazione di un carattere normale (un soggetto, in altre parole, sarebbe più o meno predisposto alla convulsione, nello stesso modo in cui è più o meno alto o più o meno intelligente). In tal modo si nega che possa esistere una ereditarietà per le epilessie focali, con la sola eccezione di quelle sindromi neurologiche ereditarie che conducono a lesioni cerebrali epilettogene (malattia di Crouzon, di Sturge-Weber, ecc.) nelle quali evidentemente l'epilessia è solo epifenomeno. Le casistiche che riportano una familiarità per epilessie lesionali (v. Bray e Wiser, 1965; v. Rodin e Gonzales, 1966) devono essere spiegate alla luce delle lesioni focali che possono essere provocate da una semplice predisposizione convulsiva.
Recentemente J. D. e K. Metrakos (v., 1970) hanno insistito sul fatto che un fattore genetico di predisposizione è il comune denominatore sia delle epilessie cosiddette centroencefaliche, sia delle convulsioni febbrili e sia infine dei casi di epilessia focale. Se ciò è vero, allora gli aspetti subclinici e clinici, distinti da Gastaut in predisposizione epilettica e predisposizione convulsiva, più verosimilmente sarebbero espressione solo quantitativamente diversa dello stesso fattore genetico. È inoltre plausibile che quest'ultimo, nel suo estrinsecarsi, risulti evidente clinicamente in modo maggiore o minore a seconda del suo differente grado di penetranza e della sua interazione con l'intero genotipo e con le stesse condizioni ambientali che su di esso agiscono.
3. Implicazioni umorali della predisposizione. - Ricerche in questa direzione cominciarono in Italia (v. Longo, 1952) con lo studio endocrino e umorale di animali che dimostravano una predisposizione epilettica con il metodo di Baglioni e Amantea. Successivamente le segnalazioni di modificazioni endocrine, umorali e metaboliche nell'epilessia umana sono divenute così numerose che non è pensabile di poterle qui riassumere e nemmeno semplicemente citare. Talora esse rappresentano acquisizioni cliniche di notevole interesse anche per le implicazioni biochimiche ed ereditarie (come per es. i quadri di epilessia fenilpiruvica, o le epilessie sensibili al trattamento piridossinico), tuttavia nel loro insieme esse rappresentano una enorme congerie di segnalazioni dalle quali riesce difficile trarre un filo conduttore o una ricostruzione che direttamente conduca all'intima comprensione della eziopatogenesi della crisi epilettica. Né è facile stabilire quanto sia da attribuirsi a fattori ereditari, quanto a fattori acquisiti e quanto infine sia epifenomeno della stessa epilessia e della terapia prolungata che essa impone.
Con riferimento a quanto detto nel paragrafo relativo alla biochimica dell'epilessia (v. cap. 2, È b, 3) è evidente che i molteplici processi che conducono alla crisi epilettica finiscono per incidere sulla membrana cellulare e sulla sua trasmissione. Ne consegue che anche l'elemento genetico responsabile delle epilessie nel senso più sopra indicato deve trovare il suo ultimo anello eziopatogenetico a tale livello. Per questo molto interessante appare il recente contributo di McKhann e Shooter (v., 1969) anche come importante ipotesi di lavoro per future ricerche: essi hanno passato in rassegna vari modelli mediante i quali fattori genetici potrebbero indurre modificazioni proteiche capaci a loro volta di alterare la soglia di trasmissione delle membrane neuronali. Sfortunatamente una conoscenza biochimico-genetica di tal natura è ben lungi dall'essere completa nei suoi dettagli, almeno per ciò che concerne il neurone.
b) Correlazioni anatomo-elettrocliniche.
Un intenso lavoro di selezione elettroclinica e anatomo-elettroclinica (v. Hill, 1953 e 1963) e ricerche e osservazioni su materiale di diagnostica preoperatoria in neurochirurgia (v. Hill, 1953; v. Brazier, 1956; v. Bickford, 1956; v. Walker e Ribstein, 1957; v. Angeleri e altri, 1961 e 1964; v. Bancaud e altri, 1965) hanno consentito di acquisire un patrimonio di conoscenze diagnostiche di notevole valore pratico. Non va taciuto che a una simile ricostruzione anatomo-elettroclinica hanno concorso ricerche anatomo-fisiopatologiche e soprattutto i risultati tratti da numerosi modelli di epilessia sperimentale (v. Gastaut e Fischer-Williams, 1959). Anzi, dal continuo confronto dei dati sperimentali con le osservazioni cliniche sono derivati alcuni concetti fondamentali per la comprensione stessa dei fenomeni osservati (v. figg. 2 e 3).
1. Il focolaio epilettico. - Tralasciamo di parlare dei focolai funzionali e delle modificazioni stabili che in essi si possono verificare (v. cap. 2, È b, 1) nè ci soffermiamo sulle implicazioni istopatologiche, neurochimiche e fisiopatologiche a livello neuronale relative ai focolai lesionali (v. cap. 2, È a, 2). Da un punto di vista clinico per questi ultimi è importante prendere in considerazione i seguenti elementi: a) la causa che li produce; b) la loro topografia ed estensione; c) le tecniche e la diagnostica idonee a porli in evidenza nel malato; d) l'evoluzione in senso epilettico del focolaio organico (intervallo tra lesione e insorgenza di scariche elettroencefalografiche intercritiche o di crisi elettrocliniche, frequenza delle crisi, scatenamento di esse, ingravescenza o remissione nel tempo).
I focolai epilettogeni delle forme lesionali di epilessia umana sono rappresentati da danni tissutali localizzati o diffusi, primitivi o secondari alla stessa epilessia, di origine degenerativa, tossica, ischemica, infiammatoria, neoplastica, traumatica o parassitaria. È evidente che molte delle affezioni comprese nei gruppi di tale elenco rappresentano, indipendentemente dall'epilessia cui possono dare origine, malattie neuropsichiatriche così importanti da far passare in secondo piano la stessa epilessia.
In questi casi, ai fini clinici, è essenziale sapere non solo che le epilessie molto spesso (sempre nei casi di epilessia tardiva) sono espressione di altra affezione neurologica, ma sapere anche, con buona approssimazione, per quali è frequentemente sintomo inaugurale o tardivo, quando è segno localizzatorio, quando non lo è. Utili in questo senso sono i contributi clinico-statistici sul differente grado di convulsività dei vari tipi di processi espansivi endocranici e in particolare delle differenti neoplasie cerebrali (v. Penfield e Jasper, 1954).
I focolai che più frequentemente stanno alla base delle forme di epilessia in cui essa è disturbo predominante o esclusivo sono le sequele cerebrali da traumi, ischemie o flogosi. Penfield descrive numerosi quadri anatomo-patologici che o sono già presenti (malformazioni) o si realizzano alla nascita oppure sono sequele di molte affezioni endocraniche che hanno rappresentato una malattia preminente dell'infanzia, dell'adolescenza e della vita adulta.
La latenza tra l'instaurarsi della lesione e la comparsa delle crisi epilettiche varia in rapporto a molti fattori. Talora essa dura molti anni e dipende anche dalla convulsività dei settori cerebrali coinvolti dai focolai anatomici del tipo sopra descritto. È noto che la soglia convulsiva aumenta progressivamente a partire dalle strutture archi-paleopalliali, passando a quelle neocorticali associative e motorie sino a quelle sottocorticali (v. Ajmone-Marsan, A newly proposed..., 1965). Questa differente suscettibilità epilettica zonale è condizionata dalla citoarchitettonica (v. cap. 2, È a, 1) e aggravata da particolari condizioni di angiotettonica (per es., l'ippocampo risente precocemente di alterazioni anche non gravi del circolo cerebrale).
D'altra parte il concetto di focolaio organico è accettabile, a livello fisiopatologico, solo se ad esso viene attribuita una terza dimensione. È noto che una cicatrice epilettogena di un'area corticale specifica necessariamente coinvolge i circuiti talamo-cortico-talamici corrispondenti e che crisi ippocampali sempre propagano all'amigdala ipsilaterale (v. Angeleri e altri, 1961). Tuttavia su questi sistemi, precocemente interessati a causa delle proiezioni del focus, agiscono altri meccanismi cerebrali non direttamente coinvolti dalle scariche epilettiche. Un esempio in questo senso è offerto dallo studio delle scariche elettrocliniche nella corteccia motoria rolandica quando si registrino i potenziali negli strati corticali a differente profondità e si valutino i quadri elettrici e quelli clinici nella veglia e in narcosi (v. Penfield e Jasper, 1954). Simili dati sottintendono implicazioni relative a importanti problemi fisiopatologici, quali la propagazione e/o generalizzazione delle scariche, i loro meccanismi di arresto e le loro correlazioni elettrocliniche (v. cap. 2, È a, 5 e È b, 4).
Infine la funzione e le connessioni di una determinata area cerebrale sono fondamentali al quadro clinico finale che conseguirà dopo l'insorgenza di un focolaio epilettogeno in tale sede. È noto, per esempio, che lesioni epilettogene della corteccia interemisferica (aree limbiche anteriori) conducono con estrema facilità a un bisincronismo secondario (v. Penfield e Jasper, 1954).
2. Crisi generalizzate (bisincronismo primario e secondario). - L'ipotesi di Penfield e Jasper (1954) formulata sui risultati sperimentali di Jasper e Drogleever Fortuyn (v., 1946), ampiamente confermata successivamente (v. Pollen, 1968), propone l'esistenza di un pacemaker talamico e reticolare (sistema talamico aspecifico e formazione reticolare ascendente del tronco encefalico - ARAS) responsabile della generalizzazione simultanea della crisi all'intero encefalo in alcune forme di epilessia (epilessie centroencefaliche) le cui scariche avrebbero inizio in tali strutture (bisincronismo primario) e si generalizzerebbero per le caratteristiche funzionali intrinseche ad esse (sistema a proiezione diffusa). In particolare i nuclei aspecifici del talamo sono interessati nella genesi dei complessi punta-onda a differenza dell'ARAS, che può essere importante nel controllare l'attività dei nuclei talamici aspecifici, ma non è in grado di evocare nè complessi punta-onda nè fenomeni di reclutamento bilaterali e sincroni (Pollen; v. anche cap. 2, È a, 3).
Casi di epilessia focale delle regioni corticali mediali interessanti le aree limbiche realizzano precocemente quadri elettroencefalografici con potenziali punta-onda diffusa e sincrona che spesso mascherano l'attività intercritica e critica focale. Questo interessamento secondario del sistema centroencefalico è stato indicato come bisincronismo secondario (v. Tückel e Jasper, 1952). Esso può essere invocato non solo a spiegazione dei casi nei quali vi è una evoluzione stabile verso una forma generalizzata, tale sovente da mascherare la focalità, ma anche per quelli assai più numerosi in cui i due tipi di crisi e di alterazioni elettroencefalografiche (focali e generalizzate) si associano, nonché per le crisi parziali a più o meno rapida successiva generalizzazione.
Contro l'ipotesi di Jasper e Penfield stanno altri risultati sperimentali. Quadri punta-onda diffusa e sincrona sono stati evocati con vari tipi di stimolazione, anche dopo distruzione del sistema talamico aspecifico o dopo completa talamotomia (v. Angeleri, 1958; v. Marcus e Watson, 1964; v. Servít e altri, 1965). Lesioni corticali biemisferiche (v. Marcus e Watson, Bilateral..., 1966; v. Marcus e altri, 1968) o sottocorticali multiple nella scimmia (v. Udvarhelyi e Walker, 1965) sono sufficienti a produrre alterazioni elettroencefalografiche di tipo epilettico diffuse e sincrone; tale sincronismo è mantenuto dall'integrità delle commissure interemisferiche. A ciò si aggiunge che con la stimolazione del talamo aspecifico non è possibile evocare scariche epilettiche autointrattenute (v. Ralston e Ajmone-Marsan, 1956).
In campo clinico altre obiezioni all'ipotesi del pacemaker talamico derivano dalle osservazioni stereoelettroencefalografiche in casi di epilessia generalizzata primaria. In essi sono stati dimostrati focolai frontali profondi (v. Bickford, 1956; v. Bancaud e altri, 1965) ippocampali e limbici (v. Angeleri e altri, 1961 e 1964; v. Rossi e altri, 1968), corticali e sottocorticali diffusi (v. Walker e Marshall, 1964). In casi di epilessia dello stesso tipo, la stimolazione cadenzata di nuclei talamici aspecifici non ha mai evocato scariche diffuse e sincrone; talora invece è stata in grado di interromperle (v. Angeleri e altri, 1961 e 1964; v. Bancaud e altri, 1965). Su questa linea altre obiezioni di carattere clinico vengono avanzate: in primo luogo l'assenza della massa intermedia talamica così spesso documentabile con la pneumoencefalografia proprio negli epilettici con crisi generalizzate e inoltre il fatto che nessuna affezione del talamo ha mai prodotto crisi epilettiche generalizzate (v. Williams, 1965).
Interessanti a questo punto le conclusioni di Gloor (v., 1968) derivate da una serie di ricerche istopatologiche su casi di encefalopatie diffuse caratterizzate da anormalità elettroencefalografiche bilaterali e sincrone (anche se non necessariamente tipo punta-onda) e dallo studio di casi di epilessia con scariche diffuse nei quali si era proceduto all'introduzione endocarotidea o endovertebrale di Amytal sodico o di convulsivanti. Le conclusioni di Gloor sembrano superare la contradditorietà delle osservazioni sperimentali e cliniche più sopra riferite. Da esse scaturisce come nuova ipotesi un controllo cortico-sottocorticale (in particolare delle strutture talamiche aspecifiche e dell'ARAS) dell'elettrogenesi cerebrale. Una rottura di tale integrazione o bilanciamento cortico-sottocorticale produrrebbe i quadri elettroencefalografici e clinici di epilessia con crisi generalizzate che Gloor denomina epilessie ‛cortico-reticolari', le quali comprendono sia forme primitive sia secondarie (v. fig. 4).
3. Scariche e crisi epilettiche nell'infanzia e adolescenza. - Alla nascita e per tutto il periodo evolutivo la sintomatologia epilettica di ordine clinico e i quadri elettroencefalografici sono condizionati dal grado di maturazione cerebrale. Nei primi mesi di vita ad esempio non si osservano crisi tonico-cloniche, assenze del piccolo male, automatismi del lobo temporale né attacchi di tipo jacksoniano. Nell'uomo, a differenza di quanto si verifica in altri Mammiferi, il cervello del neonato manca ancora delle funzioni che condizionano la propagazione intraemisferica e intracorticale, manca ancora il bisincronismo interemisferico. Dopo i primi mesi di vita vi e una tendenza alla sincronizzazione dei bioritmi cerebrali con un accresciuto potere di diffusione delle scariche epilettiche (v. Angeleri e altri, 1958; v. Massa e Niedermeyer, 1968). Espressione elettroencefalografica dell'immaturità anatomo-funzionale sono la tendenza alla sincronizzazione dei potenziali cerebrali (quindi una maggiore convulsività), una più facile propagazione e diffusione delle scariche epilettiche e una loro minore stabilità nei circuiti nervosi (v. Gibbs e altri, 1954; v. Kellaway, 1954; v. Pinelli, 1954). In definitiva da tali caratteristiche e dalla capacità dei centri nervosi di organizzare certe risposte conseguono: a) quadri elettroclinici particolari dell'epilessia dell'infanzia; b) certe età obbligate per l'insorgenza di crisi epilettiche del tipo osservabile nell'adulto; c) certe dissociazioni tra quadri elettroencefalografici e sintomatologia clinica.
Nel neonato e nei primissimi mesi di vita le crisi più frequenti sono di tipo clonico; iniziano di solito in un'emifaccia o in un arto, si diffondono poi ad altre regioni ipsilaterali, presentano il fenomeno di waxing and waning e non sembrano determinare una compromissione della vigilanza del bambino.
Più rare sono le crisi emiconvulsive che divengono invece dominanti dopo i primi mesi. Determinano uno spasmo adversivo della testa e degli occhi contemporaneo all'interessamento di un emicorpo che può essere alternativamente di un lato o dell'altro. Raramente le crisi focali sottendono un processo patologico cerebrale circoscritto, sono invece spesso espressione di condizioni dismetaboliche (ipocalcemia, ipomagnesemia, ipo- e ipernatriemia, deficienza o dipendenza piridossinica, ipoglicemia, amminoaciduria). Le crisi emigeneralizzate, emicloniche, più raramente emitoniche, specie se a ricorrenza subentrante o in forma di stato di male, a causa dell'ipossia ed edema cerebrale che inducono determinano una lesione ischemica secondaria: si inizia con emiconvulsioni, si finisce con emiplegia ed epilessia (sindrome H.H.E. di H. Gastaut e altri; v., 1959-1960).
Altre crisi caratteristiche del periodo neonatale e dei primissimi mesi di vita sono le scariche erratiche o migratorie che investono settori limitati degli emisferi trasferendosi da una regione all'altra e determinando movimenti clonici che interessano ora un arto ora l'altro anche in differenti lati del corpo; se la migrazione è rapida con successivo interessamento dei 4 arti, può essere simulato un accesso generalizzato. In questo stesso periodo possono ricorrere anche crisi ‛minime', caratterizzate cioè da brevi periodi di apnea associata a lievi contrazioni toniche o a tremori di uno o più arti, o a brevi deviazioni degli occhi con scialorrea. L'indagine elettroencefalografica è di fondamentale aiuto nella diagnosi dei quattro tipi di crisi descritte e serve anche dal punto di vista prognostico. Si osservano quadri elettroencefalografici multifocali, tracciati periodici o parossistici e tracciati piatti. Questi ultimi insieme alle crisi ‛minime' sono di significato prognostico gravissimo per la stessa vita del piccolo o per il suo successivo sviluppo psicomotorio.
Il quadro elettroclinico dell'ipsiaritmia (v. Gastaut e altri, 1964), che inizia nei primi 6 mesi di vita, dà luogo a mioclonie massive e brevi ed evolve sfavorevolmente se non trattato. Una possibile evoluzione epilettica può essere la sindrome di Lennox (v. Lennox e Davis, 1950) per la quale però si prospettano cause molteplici. Essa è considerata come esempio tipico di bisincronismo secondario, insorge tra il primo e il sesto anno di età, dà luogo ad assenze atipiche (con automatismo) e a crisi generalizzate toniche per lo più notturne. La sua prognosi è sfavorevole sia per l'evoluzione epilettica, sia per la grave compromissione psicomotoria. Favorevole invece è il decorso dell'epilessia rolandica: insorge a 7-8 anni, recede alla pubertà e si manifesta con focalità intercritica rolandica e crisi parziali che intervengono specie nel sonno (v. Y. Gastaut, 1952; v. Bancaud e altri, 1958; v. Nayrac e Beaussart, 1958).
Anche il piccolo male tipico è una forma caratteristica dell'infanzia; scariche organizzate da complessi punta-onda a 3 c/s diffusi e sincroni non sono per altro osservabili prima dei tre anni. Spesso esse sono infracliniche; l'età in cui più frequentemente insorgono assenze è quella scolare.
Le convulsioni febbrili dell'infanzia ricorrono in una percentuale elevata di bambini (3-7%) tra i 6 mesi e i 5 anni, con massima incidenza tra i 9 e i 20 mesi. Hanno carattere ereditario ed evoluzione differente dall'epilessia, dalla quale vanno tenute distinte, pur rappresentando una condizione che la favorisce, di solito creando una condizione epilettogena stabile (v. Ounsted ed altri, 1966). Al momento della prima o delle prime crisi convulsive febbrili non esistono criteri validi di previsione per quei casi destinati a trasformarsi nella sindrome più grave.
Le crisi caratteristiche dell'adulto non sono state osservate prima di una certa età. Così le crisi di grande male, nella loro caratteristica successione tonica e clonica, fanno la loro comparsa solo dopo i 3-4 anni; precedentemente si hanno crisi o toniche o cloniche generalizzate o emigeneralizzate. Ancor più tardiva è la comparsa di crisi jacksoniane (intorno ai 7-9 anni). La sintomatologia delle crisi psicomotorie e del lobo temporale è scarsa e poco elaborata nella prima infanzia, assumendo le sue caratteristiche parallelamente al processo della maturazione anatomo-funzionale del cervello.
Una terza espressione elettroclinica del particolare substrato anatomo-funzionale del cervello in maturazione è rappresentata dalla discordanza tra sintomi accessuali e quadri elettroencefalografici e dalla migrazione dei foci epilettici descritta per la prima volta da Gibbs e altri (v., 1954). Le dissociazioni elettrocliniche sono assai frequenti: crisi generalizzate in alcuni casi presentano un tracciato intercritico focale e viceversa. La fig. 5 ne mostra un esempio.
4. Limiti del criterio localizzatorio anatomo-elettroclinico. - I dati clinici e fisiopatologici sino ad oggi acquisiti sull'epilessia si basano anche sulla conoscenza dei limiti dei mezzi di indagine con cui sono stati raggiunti e delle ipotesi formulate su essi. Tali aspetti negativi sono d'altronde stimolanti per perfezionare tecniche e metodiche e per formulare nuove ipotesi di lavoro.
Pochi esempi sono forse sufficienti a dimostrare la complessità del problema. Un primo gruppo di limitazioni nel campo della ricerca clinica può essere considerato di ordine tecnico. Ciò che offre l'elettroencefalografia di superficie è una rappresentazione parziale e distorta dell'attività elettrica cerebrale (v. Abraham e Ajmone-Marsan, 1958). Non solo scariche intercritiche parossistiche possono non essere raccolte dalla registrazione dal cuoio capelluto, ma anche crisi cliniche possono mancare di un correlato elettrico o perché investono un settore corticale troppo ristretto o perché si svolgono prevalentemente nel polo profondo del focolaio. La registrazione dal cuoio capelluto raccoglie solo una parte dell'attività elettrica cerebrale, essendo fuori della sua portata la maggior parte della sostanza grigia. Infine, la lettura visiva degli stessi tracciati elettroencefalografici consente di estrarre solo una minima parte delle informazioni che essi contengono.
Alcuni di questi limiti sono superabili in condizioni particolari. In campo clinico solo in caso di interventi chirurgici è consentito di registrare direttamente dalla corteccia cerebrale o da strutture grigie profonde (corticografia e stereoelettroencefalografia), mentre con attrezzature elettroniche più o meno complesse si cerca di superare i limiti della semplice lettura visiva dei tracciati (analizzatore di frequenza di Gray-Walter, toposcopio di Petsche o di Rémond, ecc.; v. Storm van Leeuwen e Magnus, 1961).
Trattandosi di condizioni privilegiate, rimane il fatto che il maggior numero di informazioni sull'epilessia dell'uomo proviene da registrazioni dal cuoio capelluto; su di esse si è spesso costretti a risolvere i problemi diagnostici del singolo caso e su di esse sono spesso basate considerazioni di ordine generale. Ciò naturalmente non esclude il costante, talora implicito, confronto di tali informazioni con i dati più completi offerti dalle metodiche cliniche avanzate, nè la loro valutazione critica alla luce di quanto offrono i modelli dell'epilessia sperimentale.
Anche la metodologia impiegata nelle registrazioni elettroencefalografiche sottintende implicazioni non sempre chiare. È noto, ad esempio, che le scariche epilettiche critiche e intercritiche possono essere attivate o deattivate in modo diverso nella veglia e nelle differenti fasi del sonno. Ciò può dipendere dal tipo e distribuzione delle scariche, ma anche dalla topografia del focolaio. Per contro, veglia e fasi del sonno possono a loro volta modificare morfologia e distribuzione delle scariche intercritiche e delle stesse crisi elettrocliniche (v. Angeleri, 1968). Tutto ciò dimostra la stretta compenetrazione tra dinamica dei processi epilettici e meccanismi cerebrali. Siccome tali interdipendenze sono lungi dall'essere chiare, le interpretazioni dei differenti quadri elettroencefalografici rimangono spesso ipotetiche.
Considerazioni in parte analoghe valgono per i risultati che si ottengono con le metodiche speciali di attivazione, tra le quali più comuni quelle con farmaci convulsivanti (bemegride, metrazol, ecc.). La mancanza, o quasi, di inconvenienti (se eseguite lege artis) e la rapidità con cui si ottengono le informazioni elettrocliniche che dovrebbero servire alla diagnosi hanno consentito un largo impiego di tali metodiche. Tuttavia già da tempo si è sottolineato che con esse non è possibile andare molto oltre la semplice diagnosi di epilessia. Esaltando globalmente la convulsività cerebrale, ma in particolare quella di alcune strutture, si deforma notevolmente la realtà clinica del singolo caso. Trarre conclusioni particolari o generali da tali registrazioni è pertanto erroneo (per ulteriori dati e bibliografia, v. Andrioli e altri, 1966). Secondo l'esperienza di chi scrive, con le attivazioni da convulsivanti non solo si verifica un mascheramento delle crisi focali per una più o meno precoce generalizzazione (v. figg. 6 e 7), ma anche, nel singolo caso, si realizza un polimorfismo elettroclinico che non corrisponde a quello delle crisi spontanee.
Un terzo gruppo di limiti alla valutazione dei dati elettroencefalografici investe l'aspetto teorico del problema; al di là dell'elettroencefalografia tale aspetto coinvolge lo stesso problema patogenetico dei processi epilettici. In primo luogo deve essere citato il dubbio significato localizzatorio delle scariche elettriche. Sia in campo clinico (v. Ajmone-Marsan e Lewis, 1960; v. Scherman e Abraham, 1963; v. Madsen e Bray, 1966) sia in campo sperimentale (v. Ralston, 1961) è dimostrato che ristrette lesioni organiche epilettogene possono manifestarsi con alterazioni parossistiche diffuse, senza alcun segno localizzatorio o di lateralizzazione. Parimenti l'‛attivazione a distanza', dimostrata sperimentalmente e ricorrente anche in clinica (possono essere ricordati a titolo di esempio certi quadri di attivazione epilettica della corteccia del lobo temporale per foci rinencefalici), rende talora impossibile stabilire se una certa scarica è realmente fenomeno locale o indotto a distanza da un processo generatosi altrove. Infine, un'area potenzialmente epilettogena può mancare di manifestarsi con segni elettrici tipici, mentre inequivocabili scariche epilettiche non sempre corrispondono a un processo epilettico locale, almeno a un processo che necessariamente si manifesterà con crisi cliniche (v. i contributi di Ajmone-Marsan, 1965).
Altro aspetto importante è rappresentato dalle correlazioni tra scariche elettriche e sintomatologia clinica della crisi. Attivazione, inibizione o interferenza ed esaurimento dell'area investita dalla scarica epilettica sono termini che non hanno ancora una interpretazione fisiopatologica soddisfacente e non spiegano perché si verifichi ora l'uno ora l'altro effetto (attivazione o inibizione) per scariche elettriche apparentemente identiche, anche se è noto che certe regioni prediligono l'uno piuttosto che l'altro fenomeno. Inoltre per certe regioni, come il lobo temporale, riesce assai difficile stabilire quanto della sintomatologia clinica dipenda da attivazione di alcuni settori o da loro liberazione (in senso jacksoniano) per inibizione critica o estinzione postcritica di altri.
Sotto tutti questi punti insoluti deve necessariamente nascondersi la spiegazione delle numerose apparenti contraddizioni tra dati elettroencefalografici, clinici e localizzazioni anatomiche: a) perché, ad esempio, si possano osservare crisi cliniche parziali e concomitanti scariche critiche elettriche generalizzate; b) perché certi epilettici abbiano solo crisi generalizzate pur presentando quadri elettroencefalografici esclusivamente focali nei periodi intercritici; c) perché l'asportazione chirurgica del focolaio non sia sempre seguita dalla scomparsa delle crisi; d) perché vi siano soggetti con quadri elettroencefalografici differenti nel tempo, ora solo focali ora esclusivamente generalizzati (v. Strobos e Kavallinis, 1968); e) perché addirittura si possa realizzare una migrazione delle scariche, come dimostrato dai Gibbs, nell'infanzia.
In realtà l'insieme di queste osservazioni non indica soltanto i limiti dell'indagine elettroencefalografica, ma pone in discussione anche il problema dei rapporti tra focolaio lesionale, scariche elettroencefalografiche e sintomatologia critica. Senza rinunciare alle acquisizioni sin qui raggiunte, è compito dell'indagine futura rivedere tali correlazioni per dar loro un'interpretazione più valida alla luce di quanto oggi appare contradditorio, ma che in realtà potrebbe essere la chiave per la soluzione dell'intero problema.
c) Epilessie a scatenamento o ad arresto sensoriale.
Il modello di epilessia sperimentale di Amantea e Clementi lascia sospettare un ruolo importante delle afferenze sensitivo-sensoriali nello scatenamento delle crisi nel focolaio epilettico (v. anche cap. 2, È a, 2). La risposta epilettica ottenibile in alcune specie di animali con determinati stimoli, ad esempio la crisi audiogena del ratto albino e la risposta fotomioclonica del babbuino (Papio papio) riscontrate in un alto numero di adolescenti e giovani soggetti (v. Killam e altri, 1966), dimostrano che vi è anche una predisposizione di specie.
Quanto all'epilessia umana occorre subito precisare che, per ciò che concerne le epilessie ‛riflesse' da abnormi stimolazioni periferiche o midollari, la casistica è andata riducendosi con il passare degli anni e con il perfezionarsi della diagnostica, tanto che oggi può esserne messa in dubbio l'esistenza (v. Tassinari, 1968). Il Tassinari sottolinea invece che si sono moltiplicate le segnalazioni di epilessia con crisi a scatenamento sensitivo-sensoriale o emozionale. Le innumerevoli varietà di situazioni-stimolo possono essere raggruppate come segue: a) crisi epilettiche provocate da situazioni stimolo complesse (leggere, ascoltare una musica, fare un calcolo, ecc.); b) crisi provocate da stimolazioni sensoriali e propriocettive indipendenti da ogni reazione di sorpresa; c) crisi scatenate dagli stessi stimoli sensitivo-sensoriali, ma in quanto realizzano una reazione di sorpresa; d) crisi di coreo-atetosi parossistica a scatenamento emotivo-sensoriale la cui natura epilettica per altro è posta in dubbio.
Altrettanto numerose, anche se non così varie, sono le situazioni-stimolo capaci di arrestare una crisi al suo inizio (v. anche cap. 2, È a, 2).
Un dato molto importante ai fini della valutazione del ruolo eziopatogenetico degli stimoli è l'osservazione clinica che la maggioranza delle epilessie cosiddette ‛riflesse' sono di tipo generalizzato. Ciò dimostra che non vi è corrispondenza tra settore cerebrale raggiunto dalle afferenze e inizio delle crisi.
Questo fatto, insieme a quello che nega la possibile genesi di una epilessia da stimolazioni afferenti abnormi (se esistono, tali casi sono rarissimi; la letteratura non possiede sicure dimostrazioni in tale senso), dimostra che il meccanismo di scatenamento sensitivo-sensoriale ed emozionale nell'epilessia umana deve essere relegato nella sua giusta posizione nel lungo elenco di fattori intrinseci ed estrinseci capaci di un'attivazione critica di un focus epilettico. H. Gastaut (v., 1963) enumera i seguenti fattori estrinseci: a) quelli che modificano l'eccitabilità corticale (modificazioni del circolo cerebrale con conseguente ischemia e ipossia, stati tossici esogeni o endogeni o fattori ormonali, stati funzionali del cervello quali sincronizzazione o desincronizzazione dei suoi potenziali elettrici); b) quelli che attivano il focus aumentandone l'eccitabilità (impulsi di origine centrale convergenti sul focus, impulsi afferenti provenienti dalla periferia che raggiungono il focus attraverso le vie specifiche o che agiscono tramite strutture sottocorticali, tra cui quelle aspecifiche). Oltre ai fattori estrinseci ve ne sono molti altri intrinseci al focolaio che vengono omessi per brevità. Complessivamente dunque lo scatenamento sensitivo-sensoriale è solo un aspetto parziale del complesso meccanismo che può entrare in gioco nello scatenamento della crisi. Ciò nonostante esso rappresenta un modello clinico di epilessia interessante per le sue implicazioni fisiopatologiche e per i suoi possibili accostamenti con analoghi modelli di epilessia sperimentale.
d) Terapia dell'epilessia.
Con riferimento all'epilessia come processo sindromico, le indicazioni terapeutiche di ordine chirurgico o medico richiedono una diagnosi eziologica e localizzatoria quanto più esatta possibile e una valutazione della gravità e della frequenza delle crisi.
Sebbene i primi tentativi razionali di interventi chirurgici in casi di epilessia (riservati a quella postraumatica) risalgano alla seconda metà del secolo scorso (v. Horsley, 1887-1888), la moderna neurochirurgia si è sviluppata negli ultimi quarant'anni con le sue équipes neurofisiologiche e neuroradiologiche preposte alla diagnosi pre- e intraoperatoria (v. Bates, 1963).
Alcuni interventi hanno subito ormai il vaglio dei controlli postoperatori su casistiche abbastanza ampie. Essi sono rappresentati da topectomie corticali su cicatrici meningo-cerebrali o su focolai atrofici, da lobectomie temporali o da ippocampectomie in casi di epilessia del lobo temporale e infine da emisferectomie in bambini o giovani con cerebropatia lateralizzata ed estesa a un emisfero (v. Walker, 1965; v. Rasmussen, 1969).
Altri interventi sono ancora in una fase interlocutoria, anche se fondati su interessanti ipotesi teoriche (né deve essere trascurato il notevole contributo che hanno dato alla fisiopatologia delle epilessie). A titolo di esempio ricordiamo alcuni interventi che sono stati definiti di ‛neurochirurgia funzionale' come la coagulazione di alcuni nuclei talamici aspecifici (v. Spiegel e Wycis, 1950), della amigdala temporale (v. Angeleri e altri, 1961) e di commissurotomia interemisferica (v. Sperry, 1966). Tuttavia i loro risultati terapeutici restano incerti.
I vari tipi di intervento non possono essere discussi in questa sede. I risultati che sono stati riferiti sono condizionati da numerosi fattori, tra i quali in primo luogo: a) la scelta dei malati; b) la definizione fisiopatologica che di ciascuno di essi è stata data. Bancaud e Talairach (v., 1970) insistono in particolare su quest'ultimo punto. Solo un adeguato studio spazio-temporale delle scariche epilettiche, eseguito mediante stereoelettroencefalografia, può dare precise informazioni sulla dinamica del focolaio e quindi consentire di compiere - se possibile - exeresi razionali, capaci cioè di interrompere le vie principali del traffico epilettico. Prima ancora però dello studio stereoelettroencefalografico, che deve essere considerato già un tempo operatorio, si impone un'accurata scelta dei casi sulla base di indagini preoperatorie assai complesse (v. Andrioli e altri, 1966).
Sta di fatto che anche nei casi di maggior successo chirurgico non può essere abbandonato un successivo discreto trattamento farmacologico anticonvulsivo. Pertanto l'indicazione chirurgica nel trattamento dell'epilessia deve seguire sempre quella medica comprendente regole igieniche, internistiche, psicoterapiche e infine l'impiego di farmaci anticonvulsivi o antiepilettici. Accenniamo solo a questi ultimi, che sono l'aspetto di gran lunga più importante della terapia antiepilettica dal punto di vista pratico.
Sebbene l'impiego del bromo e dei bromuri risalga al secolo scorso, si può affermare che l'era della terapia anticonvulsiva rientra nel nostro secolo. Essa è iniziata con l'impiego del fenobarbital (v. Hauptmann, 1912) ed è in pieno sviluppo.
I farmaci di cui oggi si dispone sono numerosi e numerosi anche i dati di farmacologia clinica che ne valutano efficacia, effetti secondari e tossicità (v. De Jong e Magee, 1965). Purtroppo nessuno di tali farmaci è frutto di una ricerca inizialmente diretta contro l'epilessia; al contrario il loro impiego è stato ed è del tutto empirico, anche se il loro meccanismo di azione a livello del tessuto nervoso è ipotizzato su basi scientifiche accettabili (v. cap. 2, È b, 4).
Al momento della scelta del farmaco o dei farmaci (giacchè vengono usati anche in associazione) occorre avere in mente tre principî fondamentali: a) vi è una selettività di efficacia di un farmaco verso forme particolari di epilessia; b) vi possono essere effetti secondari sfavorevoli tali da imporre la sospensione di farmaci utili nel loro effetto primario; c) in alcuni soggetti si possono verificare effetti tossici, anche gravi; tali pericoli sono maggiori per alcuni tipi di farmaci.
La concentrazione ematica di un farmaco dipende dalla quantità somministrata, dalla quota assorbita dall'intestino, dalla quantità della sua distribuzione nel sangue e nei tessuti e infine dalla quota di eliminazione di esso per mezzo del metabolismo e per mezzo dell'escrezione con gli emuntori. L'assorbimento intestinale rappresenta una barriera lenta, l'equilibrio sangue-tessuti si realizza più rapidamente.
La principale via di escrezione dei farmaci anticonvulsivi è rappresentata dal rene; il fegato è invece l'organo prevalentemente interessato alla loro metabolizzazione. Con la sola eccezione della fenitoina, il grado di eliminazione dei farmaci antiepilettici è proporzionale alla loro concentrazione nel siero, cioè l'eliminazione segue una cinetica di primo grado.
Quando vengono somministrate dosi ripetute, a intervalli più lunghi del tempo richiesto per la totale eliminazione dal sangue di un farmaco, le concentrazioni ematiche subiscono oscillazioni che vanno da zero a valori di poco inferiori al rapporto tra dose (mg/kg) e ‛volume di distribuzione'. Se invece il farmaco non è stato completamente eliminato al momento di ciascuna successiva dose, si verifica un accumulo di esso nel sangue. La concentrazione ematica aumenta con ciascuna dose successiva sino a un equilibrio che viene detto ‛livello ematico' e che è caratterizzato da un'eliminazione giornaliera uguale alla dose ingerita. Più basso è il grado di eliminazione più elevato risulta il livello ematico.
Acido fenilbarbiturico e dintoinici sono le sostanze a più ampio spettro di azione (crisi di grande male, crisi parziali a semeiologia elementare elaborata o complessa). Risultano però del tutto inefficaci contro le assenze del piccolo male. Il primidone (Mysoline) è efficace sia nelle crisi di grande male sia in quelle del lobo temporale. Il 5-carbamil-5H-dibenz-(bf)azepina (Tegretol) e l'acido N-(4′-sulfamoilfenil)-1,4-butansultame (Ospolot) sono efficaci soprattutto in queste ultime. Succinimmidici e dionici hanno efficacia contro le assenze del piccolo male ma nessun effetto sulle crisi generalizzate e parziali convulsive. Il Diazepam è efficace nelle assenze atipiche del bisincronismo secondario (per es., sindrome di Lennox). Le mioclonie massive della sindrome di West sono dominate dall'ACTH, che è efficace nel combattere anche gli altri sintomi di questa encefalopatia: il farmaco ha pertanto un meccanismo di azione diverso dagli anticonvulsivi, così come la piridossina in certi casi di epilessia ad essa sensibili.
L'elenco potrebbe continuare, ma non rientra tra gli scopi del presente scritto dare indicazioni dettagliate su questa materia, indicazioni che tra l'altro dovrebbero essere integrate dai dosaggi. L'uso corretto dei farmaci anticonvulsivi si basa su una esperienza, talora anche individuale, che non può essere riferita in poche righe.
Tra gli effetti collaterali indesiderabili devono menzionarsi in particolare: astenia psicofisica e sonnolenza (specie con Luminal e dintoinici); vertigini, vomito, cefalea (Mysoline, Tegretol, ecc.); eruzioni cutanee di tipo allergico (Luminai, dintoinici, ecc.); fotofobia (dionici). Talora questi effetti possono scomparire con la sola riduzione dei dosaggi, tuttavia in tal caso occorre valutare se per posologie ridotte viene conservato un efficace effetto anticonvulsivo.
Ben più importanti gli effetti tossici che sono abbastanza frequenti per alcuni farmaci. In particolare ricordiamo quelli causati da Fenurone, dionici e Tegretol (agranulocitosi, anemia, degenerazione epatica), senza tacere che anche per gli altri esistono tali possibili effetti negativi, donde la necessità di controlli seriati clinici e di laboratorio (per es., emocromo, prove di funzionalità epatica, ecc.).
Altri problemi terapeutici sono quello del trattamento dello stato di male epilettico, quello del significato degli esami elettroencefalografici seriati nella valutazione a distanza dell'efficacia delle cure e, per contro, il problema degli effetti tossici a distanza e dell'assuefazione.
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