Abstract
L’analisi è destinata ad evidenziare le caratteristiche della fase esecutiva, attivata al fine di dare attuazione al comando sanzionatorio contenuto nel provvedimento giurisdizionale che ha acquisito il valore di giudicato, gli organi giudiziari legittimati a promuovere l’esecuzione, secondo modalità differenziate in ragione della sanzione da eseguire, e le occasioni determinanti l’intervento giurisdizionale sia in funzione di controllo sul titolo esecutivo, che sul trattamento penitenziario.
Con l’adozione di un provvedimento giurisdizionale di condanna che acquisisce definitività si riconosce, in modo tendenzialmente irreversibile, la responsabilità penale dell’autore. L’esaurimento del processo di cognizione con il conseguente superamento della presunzione di non colpevolezza determina la condizione indispensabile per l’apertura del procedimento destinato ad attuare quanto deciso con il provvedimento di condanna (Corso, P.M., Principi costituzionali e normativa penitenziaria, in Corso, P.M., a cura di, Manuale dell’esecuzione penitenziaria, Bologna, 2013, 1).
Seppur sia automatico ricondurre l’esecuzione del comando sanzionatorio alla stretta connessione esistente tra il binomio «giudizio - condanna», è pur vero che, per un verso, il giudizio di colpevolezza non rappresenta l’unico epilogo del processo penale e, per altro, che la stessa attivazione del processo è naturalmente fonte di afflizione per il destinatario dell’accertamento penale (Carnelutti, F., Principi del processo penale, Napoli, 1960, 55; Dalia, A.A.-Ferraioli, M., Manuale di diritto processuale penale, VIII ed., Padova, 2013, 729).
Salvo non si verta nell’ambito cautelare, l’esecutività del provvedimento giurisdizionale presuppone la sua irrevocabilità che, a sua volta, si concretizza mediante l’esaurimento della giurisdizione di cognizione. La conseguente formazione del giudicato determina la creazione del presupposto necessario per l’apertura della fase esecutiva.
Si tratta di una fase autonoma, poiché distinta, rispetto a quella cognitiva, ma, di regola, ad essa conseguente, in quanto la forza esecutiva dei provvedimenti giurisdizionali dipende dalla loro irrevocabilità (art. 650 c.p.p.) e quest’ultima pretende che un giudizio si sia concretizzato mediante l’esercizio della funzione giurisdizionale, nel rispetto dell’eventuale ricorso al doppio grado di giurisdizione anche di merito (art. 648 c.p.p.).
In estrema sintesi, può affermarsi che l’esecuzione penale, così come disciplinata nel libro X del codice di rito, comprende l’attuazione di tutti quei provvedimenti – in capo agli organi, di volta in volta, legittimati – diretti all’attuazione del comando sanzionatorio contenuto nel titolo esecutivo (Corbi, F.-Nuzzo, F., Guida pratica all’esecuzione penale, Torino, 2003, 4), costituente la cosa giudicata, alla risoluzione delle questioni attinenti al titolo stesso e, infine, al controllo della rispondenza tra contenuto sanzionatorio e scopo rieducativo della pena (Kalb, L., L’attuazione del titolo esecutivo, in Kalb, L., a cura di, Trattato di procedura penale, VI, Esecuzione e rapporti con autorità giurisdizionali straniere, Torino, 2009, 76).
Nell’ambito dei rapporti con autorità giudiziarie straniere, i meccanismi esecutivi conseguono all’attivazione del procedimento di estradizione “attiva” ovvero dall’estero (artt. 720 ss. c.p.p.) o all’emissione di mandato di arresto europeo (con procedura attiva ex artt. 28-33 l. n. 69/2005) vale a dire mediante l’operatività di procedure destinate ad ottenere la consegna della persona nei cui confronti la sanzione penale deve essere eseguita.
Nel rispetto di quanto consacrato tanto nelle Carte internazionali dei diritti fondamentali quanto nella Costituzione italiana, l’esecuzione della sanzione penale deve avvenire secondo modalità idonee a favorire, al suo termine, il reinserimento del condannato nella comunità sociale. In via prioritaria, queste modalità esecutive non possono intaccare la dignità della persona né, pertanto, consistere in trattamenti disumani e degradanti. Benché ciò rappresenti l’indefettibile presupposto di qualsiasi società civile, il controllo giurisdizionale in sede sovranazionale ha censurato più volte l’attuale situazione penitenziaria nazionale (C. eur. dir. uomo, 16.7.2012, req. n. 22635/03; C. eur. dir. uomo, 8.1.2013, req. n. 43517/09).
Si allude al fenomeno del “sovraffollamento carcerario” – documentato dall’enorme divario tra la capienza massima e quella effettiva esistente all’interno degli istituti penitenziari – determinante per la Corte europea condizioni di vita ritenute integranti la violazione di cui all’art. 3 CEDU (Corso, P.M., Condanna giusta ma rimedi incerti per il sovraffollamento delle carceri, in Il quotidiano giuridico, 10.1.2013; Kalb, L., La riforma possibile, anzi doverosa…, in Dir. pen. e processo, 2013, 132).
In ragione della “messa in mora” conseguente alle ultime condanne della Corte europea, il legislatore ha apportato, in via di urgenza, riforme all’ordinamento in grado di incidere efficacemente sul fenomeno. Al di là di quelle operanti all’interno del procedimento cautelare (art. 1 d.l. 1.7.2013, n. 78, conv. dalla l. 9.8.2013, n. 94; d.l. 23.12.2013, n. 146, conv. dalla l. 21.2.2014, n. 10), destinate a ridurre l’incidenza della misura coercitiva nel circuito penitenziario, il legislatore è intervenuto in materia di sospensione dell’esecuzione delle pene detentive, estendendone l’ambito di operatività (art. 656, co. 4-bis e 5, c.p.p.; v. d.l. n. 78/2013, conv. dalla l. n. 94/2013), di misure alternative alla detenzione, innalzando il limite di pena per l’affidamento in prova a quattro anni (art. 47, co. 3-bis, ord. penit.; v. d.l. n. 146/2013, conv. dalla l. n. 10/2014) e ampliando l’operatività della detenzione domiciliare (art. 1 l. 26.11.2010, n. 199; v. d.l. n. 146/2013, conv. dalla l. n. 10/2014), nonché di liberazione anticipata prevista dall’art. 54 ord. penit., aumentando la detrazione a settantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata (art. 4 d.l. n. 146/2013, conv. dalla l. n. 10/2014). La stessa cassazione non ha mancato di sottolineare la stretta connessione esistente tra tali istituti e il fenomeno del sovraffollamento (Cass. pen., 11.12.2013-10.2.2014, n. 6138, in relazione alla detenzione domiciliare come funzionale all’alleggerimento del carico carcerario).
Il rispetto delle fonti sovranazionali, nel più ampio quadro di cooperazione giudiziaria prevista all’interno dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, impone però altri necessari adeguamenti del nostro ordinamento. Se alcuni sono stati soddisfatti in vista del perseguimento degli obiettivi programmati in sede europea – come nel caso del d.lgs. 7.9.2010, n. 161, al fine di favorire un’effettiva risocializzazione del condannato mediante l’esecuzione della condanna nel luogo di residenza, oppure dell’attuazione della Carta dei detenuti (d.m. 5.12.2012) o ancora dell’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale (l. 20.12.2012, n. 237) – altri tuttora non si sono perfezionati, nonostante i solleciti provenienti dai vari organismi sovranazionali (COM 2014 57; Martufi, A., La Commissione europea denuncia il ritardo degli Stati membri nell’attuazione della disciplina comune in tema di detenzione, in Dir. pen. contemp., 26.2.2014) e i moniti contenuti nelle recenti decisioni del giudice di legittimità (Cass. pen., 5.2.2014, n. 5728).
È pur vero che il panorama normativo è destinato ulteriormente a cambiare in modo significativo, a seguito dell’approvazione della delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie (reclusione e arresto domiciliari) e dell’entrata in vigore della riforma riguardante la sospensione del processo con messa alla prova (l. 28.4.2014, n. 67).
Il giudicato è il provvedimento giurisdizionale irrevocabile ed esecutivo determinante l’attivazione dell’esecuzione penale. La sentenza diviene irrevocabile sia nell’ipotesi in cui non è ammissibile alcun mezzo di impugnazione ordinario, sia a seguito dell’esperimento dei mezzi di gravame diversi dalla revisione, sia in conseguenza dell’inutile decorso del tempo previsto per proporre il mezzo di impugnazione ordinario o quello stabilito per impugnare l’ordinanza che l’ha dichiarato inammissibile. Qualora sia stato depositato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che ha dichiarato inammissibile o ha rigettato il ricorso. L’irrevocabilità del decreto penale di condanna è subordinata alla mancata, tempestiva, presentazione dell’opposizione o dell’impugnazione dell’ordinanza che l’ha dichiarata inammissibile (art. 648 c.p.p.).
Non possono assumere il connotato dell’irrevocabilità, invece, le sentenze di non luogo a procedere adottate all’esito dell’udienza preliminare, atteso che sono passibili di revoca ai sensi dell’art. 434 c.p.p.
Il provvedimento giurisdizionale divenuto “cosa giudicata”, in quanto irrevocabile, acquista forza esecutiva (art. 650 c.p.p.) ed è destinato a produrre effetti sia nel giudizio civile o amministrativo di danno (artt. 651 e 652 c.p.p.), in quello disciplinare (art. 653 c.p.p.) e negli altri giudizi civili o amministrativi (art. 654 c.p.p.), nonché pure in altro processo penale, ai fini della prova di fatto accertato in sentenza (art. 238 bis c.p.p.) (v. Giudicato penale).
Non va dimenticato, però, che la condanna con sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato l’assenza di equità del processo all’esito del giudizio definitivo neutralizza l’esecuzione del titolo (Cass. pen., 18.1.2011, n. 6559) e costituisce ora nuovo presupposto per l’istanza di revisione del processo, a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 630 c.p.p. (C. cost., 4.4.2011, n. 113; Geraci, R.M., Sentenze della Corte E.D.U. e revisione del processo penale, Roma, 2012).
Infine, va aggiunto che il condannato o il sottoposto a misura di sicurezza con sentenza passata in giudicato, nei cui confronti si sia proceduto in assenza per tutta la durata del processo, può chiedere la «rescissione del giudicato» qualora provi che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo (art. 625 ter c.p.p.). In caso di accoglimento, la Cassazione revoca la sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado.
L’attivazione della fase esecutiva presuppone l’iniziativa dell’ufficio del pubblico ministero e comporta, ove necessitino provvedimenti sul titolo esecutivo e/o sul trattamento penitenziario, l’intervento di specifici organi giurisdizionali.
Come precisato dall’art. 655, co. 1, c.p.p., è l’ufficio del pubblico ministero che «cura l’esecuzione dei provvedimenti», procedendo “senza ritardo” dopo aver ricevuto dalla cancelleria l’estratto del provvedimento esecutivo (art. 28, co. 4, reg. esec.).
L’organo legittimato è individuabile sulla scorta del principio generale, secondo il quale l’iniziativa spetta all’ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente, vale a dire quello dell’esecuzione che, a sua volta, come prescritto dall’art. 665, co. 1, c.p.p., è il giudice che ha deliberato il provvedimento da eseguire (v. Giudice dell’esecuzione).
Dal complesso delle funzioni risultanti nel libro X del codice di rito penale è possibile delineare la figura dell’ufficio in tale fase: oltre che organo “promotore” dell’esecuzione penale, al pubblico ministero spetta il compito di procedere al calcolo della custodia cautelare, subita per lo stesso o per altro reato, e delle pene espiate senza titolo, sempre che la restrizione sia avvenuta «dopo la commissione del reato per il quale deve essere determinata la pena da eseguire» (art. 657 c.p.p.); al cumulo delle sanzioni, ai sensi dell’art. 663 c.p.p.; alla revoca o all’eliminazione di benefici che possono derivare dall’esame della posizione processuale di ciascun condannato, nonché alla regolare tenuta dei fascicoli dell’esecuzione.
Le funzioni di pubblico ministero dinanzi alla magistratura di sorveglianza sono esercitate dal procuratore generale presso la corte di appello (se la competenza è del tribunale di sorveglianza) o dal procuratore della Repubblica (se la competenza è del magistrato di sorveglianza) (art. 678, co. 3, c.p.p.).
La giurisdizione esecutiva è esercitata dal giudice dell’esecuzione – fino ad estendersi alla rideterminazione della stessa sanzione penale (Cass. pen., S.U., 7.5.2014, n. 18821) – il cui intervento è volto a garantire il rispetto dei presupposti e delle condizioni legittimanti le attività di attuazione del comando, e dagli organi della magistratura di sorveglianza (magistrato e tribunale di sorveglianza), ai quali è affidato il compito di verificare il permanere della rispondenza tra contenuto sanzionatorio del comando e fine rieducativo ad esso assegnato.
Per quanto concerne l’esecuzione nei confronti di minorenni, la particolare specializzazione del giudice naturale giustifica l’attribuzione, in capo al tribunale per i minorenni e al magistrato di sorveglianza per i minorenni, delle competente assegnate alla magistratura di sorveglianza. Tale competenza cessa al compimento del venticinquesimo anno di età da parte del condannato (art. 3, co. 2, d.P.R. 22.9.1988, n. 448; Spangher, G., Il processo penale minorile, in Spangher, G., a cura di, La pratica del processo penale, I, Padova, 2012, 404), mentre le modalità esecutive espressamente previste per i minorenni operano entro il ventunesimo anno di età (art. 24, co. 1, d.lgs. 28.7.1989, n. 272; Kalb, L., L’esecuzione penale a carico dei minorenni, in Corso, P.M., a cura di, Manuale dell’esecuzione penitenziaria, cit., 468). In relazione, invece, all’ufficio del pubblico ministero occorre sottolineare che mentre la procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni costituisce un ufficio autonomo con legittimazione esclusiva, la procura generale è investita anche dei procedimenti ordinari.
Il panorama normativo evidenzia modalità esecutive differenziate in ragione della diversa tipologia sanzionatoria.
Per quanto concerne l’esecuzione delle pene detentive, l’iniziativa dell’ufficio del pubblico ministero comporta l’adozione di un ordine di esecuzione – che va consegnato all’interessato – mediante il quale si dispone la carcerazione del condannato (art. 656, co. 1, c.p.p.). Se quest’ultimo è già detenuto, l’ordine di esecuzione è comunicato al Ministro della giustizia e notificato all’interessato.
Al fine di assicurare la necessaria informazione, in linea con quanto oggi preteso dalla direttiva UE 2010/64, è previsto che copia del provvedimento costituente titolo di custodia sia inserito nella cartella personale del detenuto e che il direttore dell’istituto penitenziario accerti, ove occorra con l’ausilio dell’interprete, che l’interessato abbia precisa conoscenza del provvedimento (art. 94, co. 1-bis, disp. att. c.p.p.). È altresì previsto che il direttore consegni al detenuto, nel corso del primo colloquio o all’atto del suo ingresso in istituto, la Carta dei detenuti (d.m. 5.12.2012) per «consentire il migliore esercizio dei suoi diritti ed assicurare la maggiore consapevolezza delle regole che conformano la vita nel contesto carcerario».
Contestualmente all’ordine, l’ufficio del pubblico ministero emette il decreto di sospensione della stessa esecuzione ogni qualvolta la pena detentiva, pur se costituente residuo di maggior pena, non risulti superiore a tre anni o quattro, nell’ipotesi di detenzione domiciliare, oppure sei, qualora si tratti di condannato tossicodipendente o alcooldipendente nei confronti del quale, in ragione di questo stato, possono applicarsi particolari misure alternative di esecuzione (Cass. pen., 15.6.2001, in CED Cass., n. 219808).In caso di cumulo con precedenti titoli esecutivi, l’ufficio del pubblico ministero trasmette preventivamente gli atti al magistrato di sorveglianza affinché provveda all’eventuale applicazione della liberazione anticipata (art. 656, co. da 4-bis a 4-quater, c.p.p.).
L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio (art. 656, co. 5, c.p.p.).
Il meccanismo sospensivo è giustificato dall’esigenza di evitare il transito per l’istituto penitenziario nei confronti di quei condannati che si trovano nelle condizioni per poter ottenere dal tribunale di sorveglianza la concessione di una misura alternativa alla detenzione (affidamento in prova, detenzione domiciliare, detenzione domiciliare speciale) (Cass. pen., 9.2.2005, in CED Cass., n. 230963).
Condizioni ostative alla sua operatività sono espressamente individuate dal legislatore in situazioni che denotano una particolare pericolosità desunta dal tipo di delitto commesso e dall’attualità della misura custodiale in carcere per il fatto oggetto della condanna (art. 656, co. 9, c.p.p.) (Cass. pen., 18.9.2012, n. 43117). A ciò si aggiunge l’impossibilità di usufruire della sospensione più di una volta per la stessa condanna (art. 656, co. 7, c.p.p.).
Questo meccanismo sospensivo si differenzia da quello che compete al magistrato di sorveglianza (art. 47, co. 4, l. 26.7.1975, n. 354), operante, innanzitutto, nel corso dell’esecuzione (Cass. pen., 14.4.2000, in CED Cass., n. 216490), anche con riferimento ad altre situazioni determinanti, ex lege, il differimento obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p.
In sede applicativa si è pure precisato che, se il condannato si trova nelle condizioni per essere ammesso alle misure alternative alla detenzione, ha diritto solo alla sospensione prevista dall’art. 656 c.p.p. e, ove il beneficio gli venga negato dal tribunale di sorveglianza, l’interessato non può usufruire di una seconda sospensione, quale quella prevista dall’art. 1 l. n. 199/2010, ai fini dell’esecuzione di pena detentiva non superiore a diciotto mesi presso il proprio domicilio su provvedimento del magistrato di sorveglianza (Cass. pen., 10.12.2012, n. 47859).
La disciplina è composita, risultando, in parte, dalle previsioni codicistiche (art. 660 c.p.p.) e, in parte, dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (d.P.R. 30.5.2002, n. 115: t.u. sp. giust.), anche a seguito di una declaratoria di illegittimità pronunciata dalla Corte costituzionale (C. cost., 4-18.6.2003, n. 212, in Cass. pen., 2003, 3692).
Il procedimento relativo al recupero delle pene pecuniarie, delle spese processuali penali, delle sanzioni amministrative pecuniarie, delle spese per il mantenimento dei detenuti, nonché delle spese nei casi di ammissione al patrocinio a carico dello Stato, è costituto da due fasi: la prima, meramente amministrativa, attribuita alla cancelleria del giudice dell’esecuzione; la seconda, eventuale, di competenza del magistrato di sorveglianza, relativa alla rateizzazione o alla conversione per insolvibilità (Cass. pen., 22.5.2009, n. 22780).
A seguito del passaggio in giudicato del provvedimento giurisdizionale che comporta l’obbligo, è notificato al condannato l’invito al pagamento dell’importo dovuto. Decorso il termine di un mese, la cancelleria procede all’iscrizione a ruolo dell’importo ed alla conseguente investitura dell’ente o del concessionario dei servizi di riscossione. Entro venti giorni dalla ricezione della prima comunicazione dell’infruttuoso pignoramento, la cancelleria investe il magistrato del pubblico ministero che trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione.
In caso di insolvibilità, l’organo giurisdizionale può disporre la rateizzazione della pena, qualora non disposta nella sentenza di condanna, oppure differire la conversione della pena per un periodo non superiore a sei mesi, trascorso il quale, se lo stato di insolvenza perdura, il magistrato di sorveglianza può disporre un nuovo differimento od ordinare la conversione in libertà controllata o in lavoro sostitutivo (art. 136 c.p. ed art. 102 l. 24.11.1981, n. 689).
Per i relativi procedimenti, spetta al giudice di pace competente per l’esecuzione (art. 40 d.lgs. 28.8.2000, n. 274) provvedere in materia di rateizzazione o di conversione della pena pecuniaria, in quanto a quest’organo è attribuito l’accertamento sulla effettiva insolvibilità del condannato (art. 42 d.lgs. n. 274/2000).
Ai fini dell’esecuzione delle pene accessorie il magistrato del pubblico ministero trasmette l’estratto della sentenza di condanna agli organi di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza, indicando le sanzioni da eseguire (art. 662, co. 1, c.p.p.); al giudice civile competente, qualora l’esecuzione riguardi l’interdizione legale, la decadenza o la sospensione della «responsabilità genitoriale» (artt. 32 e 34 c.p.); al giudice dell’esecuzione ogni qualvolta si tratti di pene accessorie che, predeterminate dalla legge nella specie e nella durata, pur conseguendo di diritto ad una sentenza di condanna, non hanno avuto esecuzione.
Per quanto concerne le misure sostitutive della semidentenzione e della libertà controllata, il naturale organo promotore dell’esecuzione trasmette l’estratto della sentenza di condanna al magistrato di sorveglianza (art. 661 c.p.p.).
Quest’ultimo, con ordinanza, indica le modalità esecutive, dando mandato alle forze di polizia (ufficio di pubblica sicurezza del comune in cui il condannato risiede o, in mancanza di questo, al comando dell’arma dei carabinieri territorialmente competente) di darvi esecuzione mediante consegna di copia dell’ordinanza al condannato libero o la sua trasmissione al direttore dell’istituto penitenziario in cui il condannato sia detenuto.
L’ufficio del pubblico ministero del circondario ove ha sede l’ufficio del giudice di pace individuato quale giudice dell’esecuzione (art. 40 d.lgs. n. 274/2000) promuove, altresì, l’esecuzione delle sanzioni della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità.
Ricevuta la trasmissione della sentenza irrevocabile da parte della cancelleria, l’ufficio del pubblico ministero emette ordine di esecuzione e lo invia, unitamente all’estratto della sentenza di condanna contenente le modalità esecutive, all’ufficio di pubblica sicurezza del comune in cui il condannato risiede oppure al comando dell’arma dei carabinieri territorialmente competente.
Il provvedimento è consegnato al condannato con l’ingiunzione di attenersi alle prescrizioni impartite; se detenuto o internato, copia dell’ordine di esecuzione è notificato al direttore dell’istituto penitenziario. In tal caso la pena comincia a decorrere dal primo giorno di permanenza domiciliare o di lavoro sostitutivo successivo a quello della dimissione dall’istituto (art. 43 d.lgs. n. 274/2000).
La disciplina individua legittimazioni differenziate in ragione della misura e del momento in cui la sanzione è applicata.
Per quanto concerne la confisca, si procede alla vendita a cura della cancelleria del giudice dell’esecuzione; diversamente il giudice dispone la distruzione delle cose confiscate (art. 86 disp. att. c.p.p.).
Se si tratta di misure di sicurezza personali ordinate con sentenza, la legittimazione è dell’ufficio del pubblico ministero presso il magistrato di sorveglianza competente, investito dall’ufficio del pubblico ministero presso il giudice dell’esecuzione (art. 658 c.p.p.).
Qualora, invece, le misure siano state adottate in via provvisoria, nel corso del procedimento, all’esecuzione provvede l’ufficio del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento, previa comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza (artt. 658 e 659, co. 2, c.p.p.).
L’obiettivo di un’efficace risocializzazione dell’autore del fatto, svincolata dall’esecuzione del comando sanzionatorio contenuto nel giudicato sulla responsabilità penale, va ricollegato pure a nuove modalità di definizione del procedimento penale introdotte dalla l. 28.4.2014, n. 67. Il presupposto è costituito dall’accertamento sull’esito positivo della “messa alla prova” dell’imputato, previa sospensione del processo, così come previsto già nel procedimento a carico dei minorenni (artt. 28 e 29 d.P.R. n. 448/1988) e ora anche in quello nei confronti degli adulti (artt. 464 bis-464 nonies c.p.p.).
In tal ultimo caso il percorso risocializzante è collegato all’esecuzione di plurime attività la cui messa in atto determina il giudizio positivo da parte del giudice sulla “prova” offerta dall’imputato. La decisione favorevole alla “messa alla prova” è adottata previo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 c.p., una volta reputato idoneo il programma di trattamento presentato dall’imputato ed escluso che possa commettere ulteriori reati (art. 464 quater c.p.p.).
Nell’ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice stabilisce il termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi alle condotte riparatorie o risarcitorie imposti devono essere adempiuti e può, altresì, con il consenso della persona offesa, autorizzare il pagamento rateale delle somme eventualmente dovute a titolo di risarcimento del danno. L’ufficio di esecuzione penale esterna, a cui il provvedimento è immediatamente trasmesso, deve prendere in carico l’imputato (art. 464 quinquies c.p.p.).
Decorso il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene che la prova abbia avuto esito positivo (art. 464 septies c.p.p.). Tale risultato presuppone la verifica di quanto stabilito con la messa alla prova ovvero «la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato» e ancora «l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma» e, infine, «la prestazione di un lavoro di pubblica utilità» (art. 168 bis c.p.).
Di regola l’intervento del giudice dell’esecuzione è provocato dalla richiesta formulata dal magistrato del pubblico ministero, dall’interessato o dal difensore, mediante l’attivazione di idoneo procedimento in camera di consiglio (art. 666, co. 1, c.p.p.).
L’iniziativa della parte interessata non vincola l’organo giurisdizionale competente a fissare comunque l’udienza camerale, poiché il giudice è legittimato, in alcune ipotesi, a decidere senza formalità, con ordinanza comunicata all’ufficio del pubblico ministero e notificata all’interessato.
Si tratta della c.d. procedura de plano cui si ricorre in tutte quelle ipotesi nelle quali il legislatore ha inteso assicurare un intervento giurisdizionale con modalità più snelle, al fine di garantire la tempestività della decisione.
Se il giudice o il presidente del collegio non ritiene la richiesta manifestamente infondata, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio, facendone dare avviso alle parti e ai difensori (Cass. pen., 11.11.2011, n. 43095).
La specificità dell’oggetto della cognizione giustifica l’attuazione di un contraddittorio qualificato: l’udienza si svolge con la partecipazione necessaria del difensore e del magistrato del pubblico ministero (art. 666, co. 4, c.p.p.) e l’interessato è sentito solo se ne fa richiesta.
Ove sia detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice, il contraddittorio risulta garantito attraverso un meccanismo meritevole di particolare attenzione, atteso che il condannato viene sentito, prima del giorno dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo, salvo che il giudice ritenga di dover procedere alla traduzione.
Garantita l’eventuale assunzione di strumenti probatori, il procedimento si chiude con ordinanza, ricorribile per cassazione. L’eventuale ricorso non sospende l’esecuzione dell’ordinanza, salvo che il giudice non disponga diversamente.
Sia il magistrato di sorveglianza che il tribunale di sorveglianza, rispettivamente nelle ipotesi di propria competenza, procedono – di ufficio o su richiesta di parte – con le forme dell’udienza camerale.
Gli organi della giurisdizione, territorialmente competenti ai sensi dell’art. 677 c.p.p., esercitano la propria funzione secondo modalità procedimentali analoghe a quelle previste per il procedimento di esecuzione, alla cui disciplina si rinvia (art. 678, co. 1, c.p.p.).
A seguito di una recente riforma (d.l. n. 146/2013, conv. in l. n. 10/2014) si sono ulteriormente specificate le modalità di intervento giurisdizionale. In particolare, il tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza, e il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti ai ricoveri previsti dall’art. 148 c.p., alle misure di sicurezza e alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere procedono, a richiesta del pubblico ministero, dell’interessato, del difensore o di ufficio, a norma dell’art. 666 c.p.p. Tuttavia, quando vi è motivo di dubitare dell’identità fisica di una persona, procedono a norma dell’art. 667, co. 4, c.p.p.
Si ricorre pure a quest’ultima modalità, per le decisioni del magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti alla rateizzazione e alla conversione delle pene pecuniarie, alla remissione del debito e alla esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata, e per quelle del tribunale di sorveglianza, nelle materie relative alle richieste di riabilitazione ed alla valutazione sull’esito dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche in casi particolari.
Nell’ipotesi in cui si procede nei confronti di persona sottoposta ad osservazione scientifica della personalità è assicurata la consulenza dei tecnici del trattamento.
La decisione viene adottata con ordinanza, ricorribile per cassazione (v. Procedimento di sorveglianza).
Artt. 27 Cost.; artt. 464 bis-464 nonies, 648-678, 720 c.p.p.; artt. 32, 34, 146, 147, 168 bis c.p.; art. 3, co. 2, d.P.R. 22.9.1988, n. 448; art. 86 d.lgs. 28.7.1989, n. 271; art. 24, co. 1, d.lgs. 28.7.1989, n. 272; art. 28, co. 4, d.m. 30.9.1989, n. 334; artt. 40-43 d.lgs. 28.8.2000, n. 274; art. 47, co. 4, l. 26.7.1975, n. 354; d.p.R. 30.5.2002, n. 115; artt. 28-33 l. 22.4.2005, n. 69; d.m. 5.12.2012; l. 20.12.2012, n. 237; art. 1 d.l. 1.7.2013, n. 78, conv. dalla l. 9.8.2013, n. 94; art. 2 d.l. 23.12.2013, n. 146, conv. dalla l. 21.2.2014, n. 10; l. 28.4.2014, n. 67.
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