Altavilla, famiglia
I documenti disponibili non permettono di stabilire se sia stata la famiglia Altavilla a dare il nome al piccolo insediamento Hauteville-le-Guichard che si trova oggi nel cantone di Saint-Sauveur Lendolin, nel dipartimento della Manche o, come è più probabile, siano stati gli Altavilla ad assumere la denominazione del loro casato dal luogo di residenza. La più antica notizia su questa famiglia è registrata da Goffredo Malaterra, il quale, nella sua cronaca redatta a Catania e dedicata ad Angerio, abate del monastero benedettino e vescovo della città, ricostruiva, per incarico del conte Ruggero I, la conquista normanna della Sicilia. Come era abitudine del tempo, e come è precisato nella cronaca, ricostruiva la conquista col compito di esaltare la figura del committente e della sua famiglia e di tramandarne le imprese, le virtù, lo spirito di sacrificio, l'ascesa e il consolidamento del potere. Cioè per fondarne il mito, affinché "tutti sappiano con quanta fatica e pena il conte Ruggero sia assurto dal profondo della miseria ai fastigi della ricchezza e della gloria" (Goffredo Malaterra, 1925-1928, I, 25, p. 20). La cronaca inizia con un riassunto dell'insediamento di Rollone in Normandia e prosegue con alcune notizie sugli Altavilla.
Il primo degli Altavilla di cui si conosce il nome è Tancredi, padre del conte Ruggero e signore appunto di Hauteville-le-Guichard, piccolo feudo di dieci cavalieri. Si sa che la sua prima moglie si chiamava Muriella, dalla quale aveva avuto parecchie figlie e cinque figli: Guglielmo, detto poi Braccio di Ferro, Drogone, Umfredo, Goffredo, Serlone. Sposatosi una seconda volta con una normanna di nome Fredesenda, diveniva padre di molte figlie e di sei figli: Roberto, detto poi Guiscardo, Maugerio, ancora Guglielmo, Alveredo, Tancredi, Uberto, Ruggero.
Di Fredesenda, che era "di nobili costumi", Malaterra offre un rapido profilo e mette in evidenza un modo di essere e di pensare che era lo specchio fedele della condizione femminile di quel tempo. L'unico merito, l'unica virtù della seconda moglie di Tancredi era l'aver dato al marito moltissimi figli, averli allevati accuratissime et materno affectu, essere rimasta attaccata con tanto amore ai figli di primo letto del marito: "difficilmente si sarebbe potuto individuare quale figlio fosse suo e quale no; per questo ancor più era amata dal marito e apprezzata moltissimo dai familiari" (ibid., I, 4, p. 9).
Anche di Tancredi Goffredo Malaterra ricostruisce il profilo e offre l'immagine di un cavaliere in cui convergevano le capacità operative del condottiero, gli slanci emotivi del guerriero, l'afflato religioso, il radicato senso di virtù familiare. Rimasto vedovo, scrive il cronista, poiché "l'età ancora verde gli negava la continenza", e "detestando gli amplessi disonesti, Tancredi contrasse nuove nozze, preferendo avere una legittima moglie piuttosto che macchiarsi del lercio amplesso delle concubine, memore di quel detto apostolico: 'ognuno prenda moglie per evitare la fornicazione'" (ibid.).
Delle vicende degli Altavilla in Normandia non si conosce altro, anche perché il modesto patrimonio di cui disponevano non lasciava certo spazi operativi degni di rilievo. È del resto significativo che solo quelli che abbandonarono il luogo di residenza raggiunsero, chi più chi meno, risonanza storica. Nessun riferimento documentario sulla data delle prime emigrazioni. Qualche indizio permette però di supporre i motivi dell'espatrio avviato dal primogenito dei figli di Tancredi. Un espatrio da considerare senz'altro fenomeno migratorio a causa dell'aumento di densità demografica in Normandia e delle modeste condizioni economiche di una famiglia di piccola nobiltà le cui esigue rendite erano insufficienti a garantire il decoro e il rango dei numerosi figli. Ma anche a causa del diffuso desiderio di avventura dei cavalieri in quegli anni attorno al Mille caratterizzati dalla disgregazione dei poteri pubblici.
Proprio in Puglia, dove l'insofferenza verso i bizantini diveniva sempre più generale, e dove gruppi di normanni si erano già inseriti nella dinamica delle lotte intestine, giungeva Gugliemo Altavilla, detto Braccio di Ferro, seguito subito dai fratelli Drogone e Umfredo. La data dell'arrivo non è certa, ma è probabile coincidesse col progetto di Rainulfo Drengot, da poco signore di Aversa, di incrementare il processo migratorio di altri normanni. Infatti nel 1034 Guglielmo doveva già fare parte del gruppo di cavalieri che, guidati da Rainulfo, aveva combattuto per Guaimario IV, principe di Salerno, contro Pandolfo IV, principe di Capua. Abbandonato Rainulfo, Guglielmo passava alle dipendenze di Guaimario V, successo nel frattempo al principato di Salerno, che lo inviava, agli ordini di un tal Arduino, vassallo di S. Ambrogio di Milano, in aiuto del contingente bizantino sbarcato in Sicilia per strappare l'isola ai musulmani. Le notizie su questa campagna di riconquista condotta da Giorgio Maniace sono frammentarie e i dettagli riferiti dai cronisti bizantini spesso contraddicono le situazioni descritte dai cronisti normanni, i quali, nell'enfatizzare il ruolo dei compatrioti, attribuiscono a Guglielmo il comando del contingente che, si sa con certezza, era invece di Arduino, e indicano come punto centrale e unificante della campagna militare i cavalieri giunti da Salerno, alle cui azioni ascrivono le imprese più clamorose. Al di là comunque delle varie fasi della guerra in Sicilia ‒ che dopo la destituzione di Maniace si sarebbe conclusa con un insuccesso bizantino ‒ si sa che Guglielmo rimase nell'isola dal 1038 al 1040 e partecipò a uno scontro alle pendici dell'Etna, fra Randazzo e Troina. E, se si deve credere a Malaterra (ibid., I, 7, p. 11), si sa anche che la sua forza e il suo coraggio erano tali da giustificare il soprannome di Braccio di Ferro con cui veniva indicato e da imporsi all'ammirazione e al rispetto di tutti.
Abbandonata la Sicilia a causa di discordie sorte nell'armata bizantina, Guglielmo rientrava a Salerno e subito dopo si recava in Puglia dove era esplosa una rivolta contro il basileus non più in grado di contenere le spinte centrifughe degli indigeni e le infiltrazioni normanne. A tal proposito sembra esplicito quel passo del Chronicon Casauriense (1726, IV, 21, col. 859) in cui è posto in evidenza che i normanni erano divenuti potenti non per il numero e le virtù loro, ma per le colpe e le discordie degli altri. Guglielmo infatti ‒ che contribuiva coi suoi cavalieri alle vittorie di Venosa (17 marzo 1041), di Montemaggiore (4 maggio 1041) e di Montepeloro (3 settembre 1041) ‒ acquistava una forza e una preminenza tali da imporsi su tutti gli altri, divisi nei rapporti di potere e nelle strategie militari. Nel 1042 veniva eletto conte, ma per consolidare e legittimare la sua nuova posizione si rivolgeva al principe di Salerno del quale, in cambio dell'omaggio e del matrimonio con una nipote dello stesso principe, si dichiarava vassallo attraverso una investitura che pone in evidenza come neanche Guglielmo Braccio di Ferro riuscisse ad assumere, in forza di quel vincolo con Guaimario V, il potere di unico dominusloci nei confronti dei compagni associati all'impresa.
Questo tipo di investitura è fondamentale per comprendere il sistema di controllo normanno nel Mezzogiorno d'Italia, caratterizzato dal tentativo dei vari capi di ridimensionare l'autorità di Guglielmo in una convergenza di poteri dal cui equilibrio scaturiva solo quello di primus inter pares. Amato di Montecassino (1935, II, 29, pp. 94-95) lo pone bene in evidenza quando precisa che Guaimario non investiva solo Guglielmo di tutte le terre conquistate e da conquistare, ma investiva "chascun", infeudava cioè ogni singolo cavaliere. Dalla precisazione del cronista, se emerge in modo chiaro che si era proceduto secondo il meccanismo feudale imposto dalle tradizioni normanne e dalla forza delle cose, è altrettanto evidente che Guglielmo non veniva collocato in un rango definitivamente più elevato di quello dei compagni. Dopo l'investitura egli muoveva contro Bari, controllata ancora dai bizantini, ma con scarsi risultati. Spostava allora il suo raggio d'azione verso la Calabria e nel 1044 faceva costruire il castrum di Stridula, la cui collocazione esatta è però sconosciuta ma da identificare, in base a recenti scavi archeologici, con Scribla, dove si vedono ancora due torri che controllano lo spazio della diocesi di Cassano, nei pressi di Castrovillari, nel punto in cui si trova la stazione ferroviaria di Spezzano Albanese (Noyé, 1979, p. 210). Moriva tra maggio e settembre del 1046.
Degli altri figli di primo letto di Tancredi si hanno poche e frammentarie notizie. Di Serlone si sa solo che andò in Inghilterra e che ebbe un figlio dello stesso nome trasferitosi più tardi in Sicilia. Di Goffredo si conoscono invece più particolari: arrivato in Italia nel 1053, si alleò subito con Umfredo e nel 1054, già signore di vari feudi, divenne conte di Capitanata. Trovatosi in difficoltà a causa di una rivolta, riuscì a sedarla grazie all'aiuto di Roberto il Guiscardo. Non è nota la data della sua morte, avvenuta forse nel 1063, se sono vere le notizie riferite dal Chronicon breve Nortmannicum (1724, pp. 278-280).
Di Drogone e di Umfredo, giunti al Sud assieme a Guglielmo Braccio di Ferro, le fonti forniscono varie e spesso contraddittorie notizie. Drogone, che nel 1042, dalle ripartizioni delle conquiste pugliesi fra i dodici capi normanni, aveva ottenuto Venosa, nel 1045 occupava Bovino, e nel 1046, dopo la morte di Braccio di Ferro, veniva eletto conte di Puglia. Elezione rinsaldata dall'investitura di Guaimario e dal matrimonio con una figlia del principe di Salerno. Nel 1047, con una scelta politica sul cui significato non tutti sono d'accordo, prestava omaggio all'imperatore Enrico III e assumeva il titolo di "dux et magister totius Italiae co-
mesque Normannorum totius Apuliae et Calabriae" (Leone Marsicano, 1846, p. 683), titolo che gli permetteva comunque di rafforzare la propria posizione personale e di progettare la conquista di altre terre, specie in Calabria.
La sua autorità ‒ "sage chevalier" lo qualifica Amato di Montecassino (1935, II, 35, p. 101) ‒ è comunque confermata dalla lettera inviatagli da papa Leone IX, che lo invitava "a ridurre all'obbedienza i più turbolenti fra i suoi compagni" e a contribuire al ristabilimento, nel Mezzogiorno, della "libertas Ecclesiae" (Chalandon, 1907, I, pp. 126-129). È probabile che ci sia stato un incontro col papa, quel che comunque si sa è che la situazione era abbastanza difficile e che Drogone il 10 agosto 1051, giorno di S. Lorenzo, veniva ucciso, forse da congiurati assoldati dal 'catapano' Argiro, mentre usciva da una cappella del castrum di Monteilaro, presso Bovino. Veniva sepolto nella chiesa abbaziale della Ss. Trinità di Venosa.
Anche Umfredo, giunto nel Mezzogiorno assieme a Braccio di Ferro, prendeva parte alle operazioni guidate dal fratello ed è probabile che abbia partecipato alla spedizione di Maniace in Sicilia. Il suo nome non è comunque incluso fra i dodici cavalieri che nel 1042 si ripartivano a Melfi le conquiste pugliesi. Heskel (1891, p. 38, n. 16) e Chalandon (1907, I, p. 82), per giustificarne l'esclusione datano il suo arrivo tra il 1043 e il 1045. Le fonti, comunque, lo registrano nel 1046 come signore di Lavello, nel 1047 come principale alleato dei baresi insorti contro i bizantini, nel 1048 come protagonista della conquista di Troia e di Vaccarizza.
Nominato duca di Puglia dopo la morte di Drogone, Umfredo organizzò spedizioni contro i congiurati che avevano fatto assassinare il fratello e sostenne i ribelli baresi che si opponevano ai bizantini, assai sensibili, in quegli anni, alla politica pontificia nel Mezzogiorno. Presente, il 18 giugno 1053, alla vittoria di Civitate, accompagnò Leone IX a Benevento e instaurò col papa rapporti che avrebbero modificato gli atteggiamenti della Chiesa di Roma verso i normanni. Sposò una sorella di Guido, zio di Gisulfo di Salerno, ma si impegnò in una politica tesa a scardinare il principato longobardo. Morì nel 1057 e fu sepolto nella Trinità di Venosa, lasciando suo erede il figlio Abelardo.
Negli stessi anni cominciavano a giungere nel Mezzogiorno i figli di secondo letto di Tancredi. Di nessuno di essi si conosce con precisione l'anno di arrivo. Neanche di Roberto, detto il Guiscardo, che in antico francese significava astuto, fine, scaltro: "perché era più sottile di Cicerone e più accorto di Ulisse", spiega Guglielmo di Puglia (1961, II, vv. 129-130, p. 138). Era, riferisce Anna Comnena, "grande di corporatura sì da superare gli altri; rubicondo, biondo, spalle larghe, occhi cerulei, agile nei movimenti, bello dal capo ai piedi" (1937-1945, I, 1, X/4, pp. 37-38).
Giunto in Italia con soli cinque cavalli e trenta pedoni, e in una data probabilmente da collocare fra il 1046 e il 1047 ‒ quando i fratelli e gli altri cavalieri normanni si erano già in qualche modo sistemati e non dimostravano simpatia per il nuovo arrivato ‒ era costretto a vivere da ladrone. Malaterra racconta con ricchezza di particolari le sue razzie in Calabria (1925-1928, I, 16, pp. 16-17), e Amato di Montecassino riferisce che, privo di denaro e di alimenti, e costretto "a bere solo acqua di fonte", viveva rubando buoi, giumente, maiali e pecore e sequestrando persone facoltose che liberava dietro consistente riscatto (1935, III, 9, p. 122). Azioni che rientravano certo in un codice morale che consisteva, precisa Malaterra (1925-1928, I, 5, p. 9), nel cercare lucro militariter, che vuole dire appunto "facendo cavalleria", ma che Amato di Montecassino (1935, I, 8, pp. 15-16), ben noto per la sua concettuale adesione anche alle imprese normanne più spregiudicate e più raccapriccianti, sente il bisogno di sottolineare, se non proprio di giustificare. La fortuna politica del Guiscardo si fonda su quelle prime scelte della sua carriera ispirate da un modo di essere legato anche alla natura e all'ispirazione del processo migratorio normanno più che a scelte e ragioni politiche. Furono quelle scelte a consentire al Guiscardo la sopravvivenza in ambiente straniero e ostile e a offrirgli la possibilità di reclutare volontari per affiancarsi, in Calabria, ai fratelli normanni impegnati nella lotta contro i bizantini.
Proprio le imprese e le conquiste di Calabria gli consentirono del resto di raccogliere, nell'agosto 1057, l'eredità e il titolo comitale di Umfredo e di riunire nelle sue mani la signoria delle terre di Calabria e di Puglia. Sposava nel frattempo Alberada, che sembra sia stata figlia di Gherardo di Buonalbergo, un barone di Puglia. Necessità prioritaria rimaneva però il completamento del processo espansionistico in Calabria. Tentò, assieme al fratello Ruggero, un colpo di mano su Reggio e, nel giugno 1059, "al tempo delle messi" precisa Malaterra (1925-1928, I, 34, p. 23), con l'occupazione delle città e delle più importanti fortezze circostanti, concludeva le operazioni nella regione.
A Reggio, per iniziativa dell'esercito che lo acclamava sul campo, assunse il titolo ducale. Titolo che poneva subito in primo piano, col problema dell'organizzazione e dell'unificazione dei vari stanziamenti in Puglia e in Calabria, la necessità di rivedere "la mappa dei domini" già concordata a Melfi e di subordinare a una sola jurisdictio gli altri signori normanni. E proprio a Melfi nell'agosto 1059, attraverso il concordato con Niccolò II, Guiscardo giurava fedeltà al pontefice e veniva riconosciuto "per grazia di Dio e di San Pietro duca di Puglia e di Calabria e duca futuro di Sicilia".
Un concordato che, al di là degli equivoci, delle contraddizioni e dei risvolti ancora aperti, rafforzava Roberto sia sul piano internazionale che su quello interno, anche in rapporto agli altri normanni. Le seconde nozze con Sichelgaita, figlia di Guaimario e sorella di Gisulfo, principe di Salerno, erano state del resto ‒ nell'intenzione di Guiscardo, che aveva divorziato da Alberada, madre del primo suo figlio Boemondo ‒ una scelta sul piano delle solidarietà familiari col più importante organismo politico del Mezzogiorno.
Urgente era comunque la necessità di completare la conquista dell'intero territorio meridionale, tanto più che i bizantini avevano recuperato talune importanti città. Nel 1060, dopo aver consolidato il controllo di Taranto e di Brindisi, il Guiscardo coordinava col fratello Ruggero la campagna per l'occupazione della Sicilia. Nel Mezzogiorno comunque, con la capitolazione di Bari (16 aprile 1071), tutto il Sud era in mano normanna, anche se, a causa degli endemici contrasti fra il Guiscardo e tanti altri cavalieri, il processo di unificazione si presentava assai tormentato. Anche i rapporti con la Chiesa romana risentivano dell'ambiguità del concordato del 1059 e dello scontro fra Enrico IV e Gregorio VII. Con quest'ultimo però, grazie alla mediazione di Desiderio, abate di Montecassino, si arrivò all'accordo di Ceprano del 29 giugno 1080 dove il Guiscardo ripeté il giuramento di fedeltà al pontefice che gli riconosceva i diritti del 1059. I rapporti però rimanevano sempre difficili, anche perché il Guiscardo non poteva e non voleva impegnarsi nella lotta contro Enrico IV. Solo nel maggio 1084, dopo il rientro dall'Oriente, e quando già l'imperatore aveva saccheggiato Roma e deposto il papa, il duca di Puglia accorse in aiuto della Santa Sede. Morì improvvisamente per infezione tifoidea nella piccola baia detta del Fiscardo, nei pressi di capo Alther, a Cefalonia. Era il 17 luglio 1085 e ad assisterlo c'era Sichelgaita.
La salma, conservata nel sale e riportata in Italia, veniva seppellita vicino a quelle dei fratelli, nella chiesa abbaziale della Ss. Trinità di Venosa. Lasciava suo erede nel ducato di Puglia e di Calabria e nel principato di Salerno il figlio minore Ruggero, natogli da Sichelgaita e detto Borsa, forse per la sua abitudine a contare e ricontare il denaro. Boemondo, il figlio avuto con Alberada e signore di Taranto, partiva per la crociata e diveniva principe di Antiochia, il fratello Ruggero rimaneva in Sicilia e controllava de facto l'isola. Così la famiglia Altavilla, dopo un trentennio dagli arrivi al Sud dei suoi primi componenti, risultava costituita da tre rami principali: il calabro-pugliese, l'antiocheno, il siciliano.
Il primo ramo, quello territorialmente più esteso, era rappresentato da Ruggero Borsa, che era stato eletto duca per imposizione di Sichelgaita in quanto, ella faceva notare, essendo per metà longobardo sarebbe stato meglio accetto agli indigeni. La sua posizione però era alquanto precaria e a indebolire il suo potere contribuivano vari fattori, non ultime le pretese del fratello Boemondo e le tensioni e i disordini in Puglia e in Calabria. La partenza di Boemondo e di tanti piccoli e medi cavalieri turbolenti e senza beni per la crociata solo in apparenza rinsaldava la posizione del duca. Malgrado riuscisse infatti a ottenere l'omaggio di Riccardo II di Capua, Ruggero Borsa perse il controllo di Amalfi e di numerosi castelli periferici e subì un pervasivo estendersi dell'influenza dello zio Ruggero che, in cambio del sostegno contro le frequenti rivolte, strappava privilegi in Calabria e in Sicilia e diritti giurisdizionali persino su Napoli.
Dopo la morte dello zio e durante la reggenza di Adelasia, che allentava il sostegno al ducato di Puglia, il potere di Ruggero Borsa doveva aver raggiunto un alto livello di vulnerabilità se i centri più importanti sfuggivano di fatto al suo controllo. Le fonti relative agli ultimi anni del suo ducato tramandano solo notizie di pie donazioni a chiese e monasteri e testimoniano lo spessore di un capo più sensibile ad atteggiamenti di misticismo che di operatività politica. Romualdo Salernitano (1909-1935, pp. 205-206) lo descrive d'altronde "di bella corporatura e di buoni costumi, prudente, cortese, affidabile, protettore delle chiese, umile verso i pastori di Cristo e molto riverente verso il clero". Morì il 22 febbraio 1111 e fu seppellito a Salerno, nella cattedrale che il padre suo aveva fatto costruire in onore di s. Matteo. Il sarcofago è tuttora nella navata meridionale. Gli succedeva il piccolo Guglielmo, l'unico superstite dei tre figli avuti da Alaina di Fiandra, che assunse la reggenza. La situazione del ducato era drammatica e in molti constatavano che, da quando nel Mezzogiorno erano giunti i normanni, le guerre non avevano avuto stasi, le devastazioni di città e centri abitati erano state frequenti, quasi continue le distruzioni dei raccolti.
Guglielmo, divenuto maggiorenne e ricevuta a Ceprano da Pasquale II l'investitura del ducato, si mostrò sostanzialmente incapace di controllare il territorio. Per impedire le usurpazioni dei propri vassalli divenne via via sempre più dipendente dallo zio Ruggero II. Morto improvvisamente senza figli nel 1127, lasciava aperta una difficile e assai contrastata successione, sulle cui modalità di soluzione i cronisti risultano assai ambigui e reticenti.
Il ramo antiocheno della famiglia Altavilla era rappresentato da Boemondo I, che il Guiscardo aveva avuto, probabilmente nel 1054, dalla prima moglie Alberada. Egli si distinse presto, per la sua abilità di cavaliere, in vari campi di battaglia e Anna Comnena lo presenta "largo di spalle, massiccio di torso, carnagione chiara, capelli biondissimi, immensa statura che una leggera incurvatura delle spalle non celava affatto" (1937-1945, II, X, III/5, p. 197). Anna Comnena precisa che quando era a cavallo "era realmente un miracolo della natura" perché "in lui corpo e anima erano tali da fondere ardimento e passione". Della sua giovinezza si sa poco. Le prime concrete notizie si riferiscono alla campagna in Oriente, dove era stato inviato dal padre. Aveva ventisette anni e in poco tempo si impadronì del porto di Valona e del territorio circostante. Raggiunto dal padre, nel maggio 1081 si spostò a Corfù, la conquistò e puntò su Durazzo, lungo la Via Egnazia che, attraverso la Macedonia e la Tracia, conduceva a Costantinopoli. Un'improvvisa tempesta travolse però la flotta normanna e così i bizantini, grazie anche al sostegno veneziano e all'uso del 'fuoco greco', riuscirono a ribaltare la situazione a loro favore. Il 21 febbraio 1082 però, dopo alterne vicende, l'armata normanna ‒ col Guiscardo, Sichelgaita e Boemondo ‒ entrava a Durazzo e dilagava verso Kastoria.
Le rivolte in Puglia costringevano però il Guiscardo a rientrare in Italia, seguito subito dopo da Boemondo. Quest'ultimo riusciva più volte a mettere in difficoltà il fratello Ruggero Borsa, a imporgli, nel 1086, la concessione di alcuni territori ‒ fra i quali Oria, Otranto, Gallipoli, Brindisi e Conversano ‒ e a farsi riconoscere il titolo di principe di Taranto. Nel 1096 Boemondo partì per la crociata e si impose a tutti per le capacità di combattente, le qualità diplomatiche, la buona conoscenza della lingua greca. Insediatosi ad Antiochia, ne divenne il signore. Morì nel 1111, qualche settimana dopo il fratello Ruggero, lasciando il figlioletto sotto la reggenza di Costanza di Francia, figlia di re Filippo I, che aveva sposato nel 1105. Fu sepolto nella cattedrale di Canosa; il suo mausoleo è la più antica tomba normanna conservata in Italia.
Diverso, e per molti aspetti l'unico ramo normanno vincente, era quello di Sicilia che faceva capo a Ruggero I. Il più piccolo dei fratelli Altavilla era giunto nel Mezzogiorno forse nel 1057, quando già il Guiscardo aveva raccolto l'eredità e il titolo comitale di Umfredo e assunto il comando delle operazioni militari nella guerra contro i bizantini. In quel tempo Ruggero I aveva probabilmente ventisei anni ed era, scrive Malaterra (1925-1928, I, 19, pp. 18-19), "giovane assai bello, di alta statura e di proporzioni eleganti, pronto di parola, saggio nel consiglio, lungimirante nel trattare gli affari, sempre di carattere piacevole e allegro e dotato di grande forza fisica e di grande coraggio nei combattimenti. E in virtù di questa qualità [conclude il cronista] si guadagnò il favore di tutti". È questo, senza dubbio, il ritratto convenzionale presentato da un intellettuale cortigiano, ma con molti riscontri nella realtà: Ruggero I non mancò di dare prova in più occasioni del corpo agile e muscoloso e dell'amore per la guerra. Mandato da Guiscardo sul fronte calabrese, mise subito in luce le capacità militari e diplomatiche, e con tale successo che Guiscardo, costretto spesso a tornare in Puglia per sedare delle rivolte, gli affidò il comando e il compito di rappresentarlo. Le fonti registrano comunque non pochi contrasti fra i due fratelli, che solo dopo una lunga frattura che stava per indebolire la conquista riuscirono a trovare un accordo in base al quale Ruggero ottenne metà dei territori da lui conquistati.
Delle sue capacità militari e diplomatiche Ruggero dette prova soprattutto in Sicilia, la cui ultima resistenza saracena venne travolta a Noto nel 1091. Si ignorano quasi del tutto i criteri di assestamento della conquista. Si è parlato di confische e ripartizioni di terre messe in opera più da guerrieri che da giuristi. Per gli spazi adiacenti alle città e per le aree occidentali dell'isola, dove più lunga e più accanita era stata la resistenza e più frequenti le rese concordate, è possibile ricostruire la continuità di proprietari musulmani e bizantini che erano riusciti a conservare tutti o buona parte dei possessi. Dalla documentazione superstite non è comunque da escludere che Ruggero abbia effettuato la ridistribuzione delle proprietà fondiarie e dei territori dell'isola in base alla forza contrattuale che fra i suoi cavalieri si era andata coagulando durante l'impresa militare, cioè sul modello di una gerarchia che, all'interno e all'esterno dell'armata, lo aveva seguito e sostenuto dichiarandosi pronta ad assecondarlo. Al di là di ogni considerazione è però da sottolineare l'attenzione prestata da Ruggero I affinché confische e ridistribuzione dei territori venissero portate avanti in modo da non sconvolgere l'ordine sociale costituito, che rimaneva ancorato alla struttura latifondista della proprietà fondiaria e legato alla continuità dei vincoli giuridici ed economici cui erano obbligate le popolazioni rurali. Ruggero I, insomma, per tradizione e mentalità, si limitò a incorporare al suo demanio talune vaste aree patrimoniali e, nella maggiore parte delle altre, a sostituire con suoi fedeli la preesistente classe di potere. Questo avvenne però in modo da privilegiare quel che era o stava per diventare il suo concetto feudale di potere unitario e di sovranità personale, teso a evitare, o almeno ridurre, la probabilità di confusione fra potere unitario, appunto, e rapporto di partecipazione e di consenso del sistema feudale: scoraggiare cioè ogni polarizzazione di forze autonome e alternative.
Le trasformazioni più profonde si ebbero però nella geografia ecclesiastica, nella cui area di dislocazione strategica, dopo il concordato di Melfi che aveva strettamente intrecciato interessi politici e interessi religiosi, stava la chiave di sicurezza del potere degli Altavilla. In tal senso Ruggero I contribuì alla rifondazione e dotazione di monasteri greci e latini e all'impianto di una chiesa di frontiera con vescovati affidati a prelati cattolici fatti venire dall'Italia e dalla Francia e a lui legati. Sull'elezione e investitura dei vescovi Ruggero I si scontrò con la sede di Roma, dalla quale, durante il pontificato di Urbano II, ottenne a Capua (1098) la legazia apostolica (v.), cioè il riconoscimento, ad personam e in esecuzione delle disposizioni della sede di Roma, della capacità di potere e di controllo delle istituzioni e funzioni ecclesiastiche dell'isola. Ciò dimostra in qual misura fossero cresciuti forza e prestigio di Ruggero I. Molti principi e monarchi accettavano di buon grado, addirittura sollecitavano, la sua parentela. Riuscì infatti a fare sposare le figlie, alle quali elargì consistenti doti, con esponenti delle famiglie principesche più potenti del tempo.
Della sua vita privata, a parte il profilo di Malaterra, non sappiamo molto: raggiunto in Calabria da Giuditta d'Évreux con la quale coronava un sogno dell'adolescenza sbocciato in Normandia, sposò in seconde nozze Eremburga, figlia di Guglielmo de Mortain, e in terze nozze Adelasia del Vasto. Amava la musica e aveva una generica disponibilità per la cultura, ma anche per un linguaggio volgare e da caserma e per gesti scurrili. Non disdegnava le cerimonie ufficiali, il piacere della tavola, l'ebbrezza del vino, le gioie della carne: le fonti gli attribuiscono numerosi figli illegittimi, ma evidenziano pure la componente affettiva del rapporto con la giovane Giuditta che, "timorosa e riluttante" (Malaterra, 1925-1928, II, 29, p. 39), lo aveva seguito a Troina. Qui, durante le drammatiche vicende della rivolta dei cristiani greci contro i normanni, Ruggero I e la moglie (ibid., p. 40), mancavano di vino, di cibo, di fuoco, e "non disponendo che di una sola cappa in due se ne servivano a turno, a seconda di chi ne aveva maggiore bisogno". Malaterra tendeva certo a suscitare emozioni, oltre che immagini, ma le considerazioni sul progressivo crescere del figlioletto nel grembo di Adelasia e sulla nascita di Simone evidenziano, nel conte di Sicilia, una squisita e acuta sensibilità paterna. La stessa in fondo che il cronista coglie per la scomparsa di Giordano, il figlio naturale morto nel fiore degli anni per febbre violenta: "molti si commuovevano più per il dolore del padre che per la morte di Giordano", precisa infatti Malaterra (ibid., IV, 18, pp. 97-98), e aggiunge: anche i saraceni, che pur ci consideravano spiritualmente inquinanti, erano spinti al pianto "non tanto per amore, ma perché si vedevano profondamente scossi dal dolore". È un contesto, un atteggiamento, una concreta adesione di sentimenti fra cristiani e saraceni che aiuta in parte a comprendere il significato delle formule religiose augurali di stile islamico presenti nei documenti di cancelleria normanni nei quali, per la morte di Ruggero I, si scriveva: "Allah santifichi il suo spirito e illumini il suo sepolcro" (North, 1981-1982, pp. 126-127). Quando morì a Mileto, il 22 giugno 1101, Ruggero I aveva settanta anni. Venne sepolto nella chiesa dell'abbazia benedettina della Ss. Trinità che egli stesso aveva fatto costruire. Il sarcofago, salvato dalle rovine del terremoto del 1783, si trova al Museo Archeologico di Napoli.
Non è certo possibile esporre, in questa sede, le vicende di ognuno dei numerosi componenti degli Altavilla nell'ampio arco di tempo in cui, da Gugliemo Braccio di Ferro a Costanza, madre di Federico II, questa famiglia fu protagonista, e non solo nel Regno di Sicilia. Si ricordano: Abelardo, figlio di Umfredo, in continuo scontro col Guiscardo che lo aveva spogliato di ogni possesso, e morto forse nel 1082 a Bisanzio, dove si era rifugiato. Alfonso, secondogenito di Ruggero II e di Elvira di Castiglia che, nominato nel 1135 principe di Capua e nel 1140 duca di Napoli, partecipò accanto al padre a varie azioni militari e a trattative diplomatiche; morì, probabilmente il 10 ottobre 1144, nei pressi di Rieti, durante alcune operazioni contro il Papato. Giordano, figlio illegittimo di Ruggero I, partecipò alla conquista dell'isola, ma nel 1081, durante una breve assenza del padre, organizzò una rivolta che venne però duramente repressa; perdonato da Ruggero I, partecipò all'assedio di Siracusa (1086) e, nel 1091, all'occupazione di Noto; designato erede alla successione, si ammalò di lebbra e morì a Siracusa fra il 18 e il 19 settembre 1092. Guido, figlio del Guiscardo e di Sichelgaita, partecipò alla battaglia di Durazzo; rimasto in Oriente dopo la morte del padre, divenne funzionario del basileus e prese parte alle trattative fra i cavalieri della prima crociata e Alessio Comneno; tornato in Italia, morì a Salerno il 5 luglio 1108. Riccardo, detto del Principato, partecipò, con Boemondo, alla prima crociata, combatté in Anatolia e in Sicilia e fu presente allo scontro per il possesso di Antiochia; dopo varie vicende, fra le quali un lungo periodo di prigionia a Neocesarea, nel 1104 combatté in Siria, nel 1106 nella città di Maras, della quale sembra sia stato signore, ma fino al 1108; morì probabilmente nel 1112. Roberto, figlio di Goffredo, conte di Capitanata, partecipò, con Desiderio di Montecassino, al piano politico ed economico teso all'appropriazione dei possessi del monastero di S. Clemente di Casauria; Gregorio VII lo scomunicò nel marzo 1075; dopo il 1076 le fonti lo registrano come conte di Loretello e nel 1080 partecipò all'investitura del Guiscardo a Ceprano; non si conosce la data della morte. Serlone, figlio del Serlone che Tancredi aveva avuto con Muriella e che era emigrato in Inghilterra, partecipò con lo zio Ruggero I alla conquista di Sicilia; le fonti registrano la sua presenza a Castrogiovanni, alla battaglia di Cerami del 1063, alla conquista di Palermo del 1071; caduto in un'imboscata fra Cerami e Nicosia (estate 1072), i saraceni lo uccisero, ne straziarono il cadavere estirpandone il cuore e, precisa Malaterra (1925-1928, II, 46, p. 54), sembra che se ne cibassero per acquisire l'energia giovanile e l'audacia del cavaliere normanno; la testa, infilzata in un palo, venne portata in trofeo per le piazze della città.
Molto poco si sa delle donne di casa Altavilla. Di Elena, figlia del Guiscardo e di Sichelgaita, le fonti registrano che assunse quel nome nel 1076, quando arrivò a Bisanzio ed entrò nel gineceo imperiale in attesa di sposare Costantino, figlio del basileus Romano Diogene e fratello di Michele VII, successo al padre. Nel marzo 1078 Niceforo Botoniate depose Michele VII e rinchiuse Elena in un monastero dove, dopo qualche tempo, morì. Costantino sposò Anna Comnena. Di Emma, una delle sorelle di Guiscardo, le fonti registrano l'arrivo nel Mezzogiorno avvenuto forse nel 1080, comunque quando gli Altavilla avevano già consolidato la conquista. Nel 1089 sposò un tal Oddone "Marchisius", che doveva appartenere alla famiglia di Adelasia del Vasto, l'ultima moglie di Ruggero I. Non è nota la data di morte, ma è del 1126 un documento trascritto da Francesco Trinchera (Syllabus Graecarum membranarum, Neapoli 1825, doc. 98, pp. 128-129) che riferisce di donazioni in memoria fatte da una Sichelgaita registrata come vedova di Oddone. Di alcune figlie di Ruggero I sono noti i nomi e anche i mariti: Maximilla, per esempio, andò sposa a Colomon, re d'Ungheria; Costanza a Corrado, figlio di Enrico IV imperatore del Sacro Romano Impero; Giuditta sposò Roberto di Basunville, conte di Conversano; Matilde si unì in matrimonio con Raimondo IV di Saint-Gilles, conte di Tolosa; Flandina al conte Enrico Aleramico, fratello di Adelasia; Emma, promessa a Filippo I re di Francia, accettò poi di contrarre matrimonio con Guglielmo III conte di Clermont. Le fonti registrano un'altra figlia di Ruggero di nome Matilde, andata sposa a Rainulfo, conte di Avellino. E se si deve credere a quel che scrive Alessandro di Telese (1991, Prologus, p. 2 e II, 14-15, pp. 29-30) ‒ il quale riferisce di aver composto l'opera su commissione di Matilde ‒ sembra "che i legami di parentela siano stati, in questa donna, più forti dell'amore per il marito" (Caspar, 1904, p. 100). Infatti durante lo scontro fra Rainulfo e Ruggero II abbandonò il marito e si rifugiò presso il fratello che la accolse e la condusse in Sicilia. La donna più nota degli Altavilla è comunque Costanza (v.), figlia postuma di Ruggero II e madre di Federico II, che il 27 gennaio 1186 sposò Enrico VI.
Il ramo degli Altavilla più fortunato, più duraturo e più famoso, e con il quale, dopo anni di dure lotte, si sarebbe compiuto il difficile processo di unificazione politica, fu quello di Sicilia, iniziato da Ruggero I. Gli succedeva il più giovane dei figli, il solo sopravvissuto, anch'egli di nome Ruggero. Della sua infanzia ‒ era nato da Adelasia il 22 dicembre 1095 ‒ si conosce poco, forse nulla. Nessun documento conferma la tradizione che lo vorrebbe battezzato da s. Bruno di Colonia, fondatore dell'Ordine dei Certosini. Anche le notizie riferite da Alessandro di Telese sui "giochi guerrieri" col fratello Simone evidenziano particolari che, annota lo stesso cronista, sono sempre stati caratteristici di ogni bambino. La madre, durante la reggenza, aveva trasferito la corte da Mileto a Messina. Non è noto in quale momento Adelasia abbia successivamente fissato la residenza a Palermo, ma nel 1112, quando il piccolo Ruggero, raggiunta la maggiore età, "veniva fatto cavaliere", la cerimonia dell'investitura si svolse nel capoluogo siciliano. Lo si ricava da un diploma del 12 giugno dello stesso anno, redatto in Palermo, "in thalamo superioris castri nostri", in cui, accanto ad Adelasia, firmava Ruggero, "jam miles, jam comes Siciliae et Calabriae", e taluni dei più noti prelati, baroni e magistrati della contea (ibid., doc. 21, pp. 449-450).
Neanche dei primi anni di governo di Ruggero II si sa molto. Tuttavia le nozze della madre con Baldovino I di Fiandra, re di Gerusalemme, potrebbero suggerire scelte politicamente orientate. Dal matrimonio, che l'età di Adelasia faceva sperare senza figli, Ruggero II si attendeva un regno. E infatti ai plenipotenziari presentatisi a Palermo per condurre in porto la missione, Adelasia aveva posto una sola condizione alle nozze: che in mancanza di figli la corona passasse a Ruggero. Che le cose siano poi andate diversamente perché Baldovino aveva già moglie e Adelasia doveva tornare in Sicilia in conseguenza dell'annullamento del matrimonio, non significa che le scelte di Ruggero II non puntassero sull'eventualità di una successione al trono di Gerusalemme. Non è del resto privo di significato che il conte normanno, facendo trasportare la madre a S. Giovanni d'Acri da una nave che aveva prora, poppa e antenne incastonate d'oro, d'argento e pietre preziose, avesse voluto offrire un'immagine della potenza della sua contea e anticipare le direttrici mediterranee del suo governo. Il 25 aprile 1117 Adelasia tornò in Sicilia, si chiuse in un monastero e il 16 aprile 1118 morì. Fu sepolta a Patti, nella cui cattedrale si trova ancora oggi la sua tomba.
Dal 1114 al 1123 Ruggero II si impegnò, con scarsa fortuna, nella politica africana. Le vicende di Puglia lo costrinsero però a spostare l'attenzione sul Mezzogiorno peninsulare, dove, dopo la morte senza figli del duca Guglielmo (25 luglio 1127), le fazioni baronali, che non avevano rinunciato al principio che il sovrano fosse solo un primus inter pares, rendevano difficile la successione e acceleravano il collasso dell'apparato statuale. Le fonti non permettono di sapere se Ruggero II sia stato designato alla successione; registrano però che il conte di Sicilia pose con energia la sua candidatura. Occupò Salerno, costrinse all'omaggio, in cambio di talune garanzie, la popolazione e ottenne da Alfano, vescovo di Capaccio, l'unzione sacra grazie alla quale, proclamato duca di Puglia, acquisì la superioritas su ogni altro barone normanno. La resistenza del pontefice Onorio II, e di alcuni capi normanni a lui aggregati, si sfaldò però ben presto, e la sera del 22 agosto 1128, fuori le mura di Benevento, Ruggero II, che aveva trentadue anni, prestò omaggio al papa che lo investì del ducato di Puglia, di Calabria, di Sicilia. Nel settembre 1129 il nuovo duca convocò un'assemblea a Melfi, ricevette l'omaggio, impose la sua jurisdictio e precisò l'ambito di poteri fra duca e baroni.
La morte di Onorio II (febbraio 1130) e l'avvio di uno scisma, che poneva l'uno contro l'altro Innocenzo II e Anacleto II, permisero a Ruggero II di imprimere una svolta decisiva ai suoi progetti. Offrì infatti il suggello del suo peso politico ad Anacleto II che, nel settembre 1130, ad Avellino, concesse a lui, al figlio e agli eredi del figlio la dignità regia per la Sicilia, la Calabria e la Puglia. Alterata così la struttura del ducato e riassorbite disfunzioni e irrequietezze attraverso un'autorità che, de jure, lo poneva al vertice di ogni potere, a Palermo, nella cattedrale che era già stata moschea, la notte di Natale del 1130 Ruggero II ricevette dal cardinale di S. Sabina, inviato di Anacleto II, l'unzione col sacro olio e dalle mani del principe di Capua la corona regia.
I baroni non avevano però disarmato ed esplosero qua e là, nel Regno, resistenze e rivolte, piegate da Ruggero II con sapienti accordi separati, ma anche con spietate repressioni per le quali vennero mobilitate guarnigioni saracene. La morte di Anacleto II (25 gennaio 1138) pose fine allo scisma e accentuò le difficoltà del sovrano normanno, che subì attacchi di varia natura da parte di Innocenzo II. Lo scontro però si risolse a favore di Ruggero II, che sconfisse le truppe pontificie al Garigliano (21 luglio 1139) e fece prigioniero il papa. A Mignano, il 27 luglio, Ruggero II ottenne finalmente il riconoscimento ufficiale di Innocenzo II che lo confermò rex Siciliae, ducatus Apulie et principatus Capue, con l'obbligo però di tenere nell'isola la sede della corte. Centro dinamico e organizzativo del Regno era dunque la Sicilia, e soprattutto Palermo da dove muoveva l'azione politica di Ruggero II, tesa specialmente a consolidare un potere unitario e centralizzato. Dalle Assise di Ariano (v.), promulgate nel 1140 con lo scopo di proclamare l'autorità regia su tutti i territori del Regno, emerge, con l'insistenza sulla sacralità del potere del re, la preoccupazione di Ruggero II per le costanti tendenze centrifughe del prepotere baronale. Al di là comunque delle secolari discussioni sul tipo di potere realizzato da Ruggero II, tutti gli studiosi concordano ormai sulla presenza, nel Mezzogiorno e in Sicilia, di un sistema politico e militare da ricondurre al feudalesimo e dalle cui gerarchie di fedeltà vassallatiche la monarchia di Ruggero II finì col trarre ‒ in termini concreti di sostegno economico e militare e di affinità di interessi e cultura ‒ la propria forza e il cemento, nelle campagne e nelle città, con le leve locali del potere.
Ambigua e raffinata, la politica ecclesiastica di Ruggero II era tesa a creare una situazione di equilibrio col Papato ma decisa a integrare quanto più possibile nel suo sistema di potere l'episcopato che Roma cercava di sottrarre al controllo regio. Ruggero II dimostrò però particolare generosità con chiese e monasteri e sostenne il costituirsi di una geografia ecclesiastica che, specie nelle campagne, rappresentava il serbatoio di persuasione e di regolazione del controllo sociale e il veicolo più immediato e più incisivo sui fatti di costume.
Al di là delle molte polemiche, e pressioni diplomatiche e militari, Ruggero II, pur se considerato 'tiranno' da molti, era ritenuto sovrano di notevole prestigio perché era stato in grado di dare al suo Regno, collocato al centro del Mediterraneo, una struttura statale efficiente. Tale giudizio è registrato non solo da cronisti siciliani come Ugo Falcando e da cronisti di Normandia, ma persino da polemisti particolarmente ostili come s. Bernardo o come gli ambienti cluniacensi, ai quali quella del re di Sicilia appariva "potenza superiore a quella degli altri re" (Pietro di Cluny, 1853, VI, ep. 16, col. 424). A ciò aveva senz'altro contribuito la sua disponibilità alla crociata. Nell'autunno 1147, approfittando dei dissensi all'interno dell'Impero bizantino, attaccò, con una flotta guidata da Giorgio d'Antiochia, le coste greche, conquistò Corfù, saccheggiò il Peloponneso, risalì fino a Eubea e, con improvvisa inversione, fece razzie ad Atene e dintorni spingendosi fino a Tebe, dove, con la seta, i damaschi, i broccati che quel rinomato centro manifatturiero produceva, caricò sulle navi le donne ebree che vi lavoravano e che Beniamino di Tudela (1840, I, p. 47) giudicava "le più abili artefici della seta e del panno di porpora del tempo". L'arrivo a Palermo di quelle operaie coinciderebbe con la raffinata attività produttiva delle filande del palazzo reale, dove venne fra l'altro tessuto il manto di Ruggero II, capolavoro di arte tessile e di ricamo oggi conservato a Vienna. Ruggero II era assai sensibile alla scienza, all'arte, alla cultura, come confermano numerose testimonianze. Basti ricordare l'incarico dato a Edrisi di compilare, su osservazione diretta dei fenomeni, un trattato, noto come Libro di Ruggero, su ciò che oggi chiameremmo organizzazione e funzionalità dello spazio e inquadramenti paesistici del Regno, nonché le numerose traduzioni e rielaborazioni di testi antichi, soprattutto quella della Sintax di Tolomeo, nota col titolo arabizzato di Almagesto.
Poche e contraddittorie le fonti che riguardano gli ultimi anni di Ruggero II, durante i quali la sua politica si trovò invischiata in scelte destinate ad accrescere la tensione fra musulmani e cristiani. In questo contesto va anche letta la condanna dell'eunuco Filippo di Mahdia, che era successo nell'ufficio di ammiraglio a Giorgio d'Antiochia. Ruggero II moriva una settimana dopo l'esecuzione di quella condanna, a cinquantotto anni, il 26 febbraio 1154. Gli succedeva Guglielmo, l'unico sopravvissuto della numerosa prole avuta da Elvira di Castiglia, sua prima moglie. Dalla seconda moglie, Sibilla di Borgogna, che morì di parto nel 1151, non aveva avuto altri figli. Beatrice di Bethel, terza moglie, partorì la figlia postuma Costanza.
Di Guglielmo I, detto il Malo, non è nota la data di nascita. Si sa però che l'8 aprile 1151, nella ricorrenza della Pasqua, il padre lo associò al trono. Gli anni del regno di Guglielmo I si contano infatti dal 1151. Dal febbraio 1154 rimase solo alla guida della monarchia. Aveva probabilmente trentaquattro anni, era di aspetto piacevole, con nera e folta barba e talmente robusto da piegare un ferro di cavallo. Il 4 aprile 1154, giorno di Pasqua, alla presenza di un gran numero di vassalli, fu incoronato nella cattedrale di Palermo. Nei primi anni si mosse lungo i processi lineari della politica paterna con l'appoggio degli stessi gruppi che avevano sostenuto Ruggero II. Emergono subito, però, differenze di statura politica e un modo di governare non gradito al ceto baronale, il quale mal digerì la nomina regia di Maione alla carica di 'grande ammiraglio'. Grazie a Maione, senza dubbio una delle menti più lucide del Regno, Guglielmo I conseguì vari risultati, e prima di tutto portò a termine, nel 1156, il concordato di Benevento col quale riuscì a staccare il papa dalla coalizione antinormanna e ad allontanare le minacce di Federico Barbarossa. L'Impero rappresentava infatti il maggior pericolo per il Regno normanno e in tal senso, nel senso cioè di una politica tesa a rafforzare la monarchia e a sradicarla da un pericoloso isolamento, bisogna intendere la decisione di Guglielmo I di abbandonare i domini africani e di accordarsi con Venezia nel 1155 e con Genova nel gennaio 1156, e soprattutto con la Chiesa. Era proprio il recupero di quell'alleanza che travolgeva tante speranze e interessi di baroni e città del Regno, dove, fra gli stati sociali ed etnici più diversi, e specie fra la nobiltà, presero corpo varie rivolte, represse tutte con spietata durezza da Guglielmo I. Molti baroni vennero uccisi, tanti, evirati e accecati, sbattuti in prigione, Bari "ridotta a un cumulo di macerie" (Ugo Falcando, 1897, 8, pp. 21-22).
Nel biennio 1159-1161 in Sicilia si coagulavano però più gravi tensioni, specie a causa degli inasprimenti fiscali. Il 10 novembre 1160 a Palermo veniva accoltellato Maione e subito dopo da taluni ambienti baronali si stabilì di spingere la rivolta fino alla sostituzione o addirittura all'eliminazione fisica del re. Il 9 marzo 1161 Guglielmo I, insieme alla regina e ai figli, venne preso prigioniero da un gruppo di congiurati che, penetrati nel palazzo reale, avevano spalancato le porte ai complici che aspettavano fuori. Le prigioni vennero subito aperte, la reggia saccheggiata, bruciati gli archivi in cui erano conservati i registri del catasto, scomparso il planisfero d'argento su cui Edrisi aveva disegnato la mappa della Terra. L'alto clero non era però disposto a seguire i congiurati fino al ribaltamento della monarchia e nemmeno fino alla sostituzione del re. Esauritasi la carica emotiva dei rivoltosi, si addivenne a un accordo. Guglielmo I fu liberato e, grazie ad abili scelte, adeguate alleanze e disponibilità di notevoli forze militari, riuscì ad avere ovunque ragione delle rivolte. La tranquillità ritornò nel Regno, garantita però da feroci repressioni e da una pesante atmosfera di sospetti e di terrore.
Negli ultimi anni del regno Guglielmo I, precisa Ugo Falcando, "ripiombava nel suo ozio voluttuoso fatto di lusso e di piacere" (ibid., 25, p. 87). Si dedicava fra l'altro al progetto della Zisa, il fastoso palazzo fatto costruire vicino Palermo e la cui architettura non solo suggerisce l'atmosfera islamica di cui il re amava circondarsi, ma conferma il progressivo distacco della corte dal paese. Verso la fine di febbraio 1166, aggravatasi la malattia a lungo dissimulata, designò suo erede il secondogenito Guglielmo II, di tredici anni, con la reggenza di Margherita di Navarra, sua moglie. Morì il 27 marzo 1166. Seppellito in forma privata nella Cappella Palatina, riposa nel chiostro di Monreale.
La situazione del Regno era delicata e non pochi erano i risentimenti, le diffidenze e i sospetti verso la monarchia. Il 17 maggio 1166 il piccolo Guglielmo II veniva consacrato re nel duomo di Palermo. Nono-stante la reggente si orientasse verso una politica di clemenza nei confronti di quanti erano stati colpiti nelle persone e nei beni, la situazione generale rimaneva pesante. Non si conoscono purtroppo i dettagli di questa delicata fase della vita del Regno, caratterizzata dalla presenza di Stefano di Perche. Nel dicembre 1171 Guglielmo II, raggiunta la maggiore età, incominciò a regnare da solo. Pietro di Blois (1855, 66, col. 195), che era stato suo maestro, lo definiva "inconsultissimo adolescente", Pietro da Eboli (1904-1910, v. 35, p. 11) lo diceva formosus, Riccardo di San Germano (1936-1938, p. 4) lo presentava elegans e Ugo Falcando (1897, 25, p. 89) ce lo faceva vedere mentre a cavallo percorreva, il giorno dell'incoronazione, le vie di Palermo, "così bello che sarebbe stato impossibile trovarne non solo uno più bello, ma neppure uguale", con una descrizione cioè in cui si tendeva a sottolineare una bellezza edificante che esercitava fascino sui sudditi ed era l'elemento principale della simpatia verso questo monarca, il cui volto si può vedere raffigurato nei mosaici del duomo di Monreale. Le fonti insistono quindi su un aspetto figurativo che combacia con l'immagine del re giusto, pio e buono, e che vorrebbe essere una consacrazione, pure somatica, del ruolo che molti coevi e la tradizione hanno attribuito a Guglielmo II, che rimane il sovrano normanno più ambiguo anche per quel che si riferisce alle sue abitudini musulmane di vita e al contemporaneo attaccamento alla Chiesa cattolica. Le più recenti ricerche hanno in parte ridimensionato la tradizione di un re che ha regnato solo di nome. Da una lettura delle poche fonti emerge invece che spesso le scelte politiche erano rimaste sue prerogative, e il fatto che manchi, come al tempo del padre e della reggenza, una direzione unica dell'ufficio di cancelleria e del governo regio potrebbe essere indicativo della volontà del sovrano di non lasciarsi trascinare da forze di attrazione dimostratesi sempre pericolose per la stabilità interna.
Si deve a Guglielmo II la fondazione, nel 1174, del monastero benedettino di S. Maria la Nuova di Monreale. La sua rapida costruzione, la generosa dotazione e la sua elevazione al rango vescovile (1183) proprio ad portas di Palermo, rispondevano a considerazioni politiche di ordine interno. A parte talune perplessità la politica di Guglielmo II dà quindi netta la sensazione di essere riuscita a mantenere un sostanziale equilibrio fra i vari poteri e a garantire, nel Regno, un periodo di tranquillità i cui benefici effetti apparivano tanto maggiori quanto più tumultuosi e drammatici erano stati gli anni precedenti. Ancora in età sveva Riccardo di San Germano (1936-1938, p. 4) rimpiangeva i tempi di Guglielmo II, quando "le leggi e la giustizia si mantenevano in vigore". Al di là però di un rimpianto per un'epoca che tante volte era più della fantasia che della realtà, non mancano le fonti che registrano, per quegli anni, tensioni sociali e insurrezioni contadine.
Per quanto si riferisce ai problemi di politica estera è da sottolineare, accanto al dispendioso programma di espansione nel Mediterraneo e nel Levante, l'impegno contro Federico Barbarossa, col quale, durante l'inverno 1183-1184, si avviarono trattative destinate a concludersi con una soluzione che solo apparentemente presentava connotati di alleanza. La svolta di Guglielmo II non stava infatti solo nell'alleanza fra Impero e Regno normanno, ma nella possibilità che la corona di Sicilia potesse passare al futuro imperatore germanico. Possibilità resa drammatica e inevitabile dalla prematura morte di Guglielmo II che, a soli trentasei anni, finiva la sua vita terrena in Palermo il 18 novembre 1189. Il re di Sicilia infatti, che dalle nozze con Giovanna d'Inghilterra non aveva avuto figli, aveva acconsentito allo sconsiderato matrimonio fra la più che trentenne Costanza, figlia postuma di Ruggero II ed erede alla corona, ed Enrico di Hohenstaufen, il diciannovenne figlio di Federico Barbarossa.
Alla successione di Costanza, e quindi al passaggio del Regno alla casa sveva, si opponeva Tancredi, figlio naturale della badessa Emma, dei conti di Lecce, e di Ruggero, duca di Puglia, e quindi nipote di Guglielmo I. L'unico in fondo di sangue reale in grado di garantire la continuità della dinastia e della famiglia Altavilla.
La sua prematura scomparsa (20 febbraio 1194) fece crollare ogni possibilità di resistenza a Enrico VI, che dilagò nel Regno e il 25 settembre 1194 fu incoronato nella cattedrale di Palermo re di Sicilia. Alla solenne cerimonia erano stati costretti a partecipare Sibilla, vedova di Tancredi, e il piccolo Guglielmo III, suo figlio, l'unico che avrebbe potuto avanzare diritti sul Regno.
Proprio per questo, il 29 dicembre, con l'accusa di tramare complotti, la famiglia reale e numerosi baroni sospetti furono arrestati, accecati, evirati, mandati in Germania. Nessuna fonte permette di conoscere cosa sia accaduto del piccolo re. È probabile, come si ricava da qualche lettera di papa Celestino III, che il piccolo Guglielmo III, ultimo discendente degli Altavilla, sia morto nel 1198. La Sicania Regni Corona, che per oltre un sessantennio era stata sul capo degli Altavilla, passava alla dinastia germanica degli Hohenstaufen, che controllava anche l'Impero e il Regno d'Italia.
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Notizie preziose si possono leggere in molte relazioni incluse negli Atti delle giornate normanno-sveve, I-XIV, Bari 1973-2002.