FASCISMO
Storia
di Roberto Vivarelli
A differenza di altri ismi contemporanei (ad esempio, liberalismo, socialismo, comunismo) il termine fascismo deriva da un sostantivo, 'fascio', il quale di per sé non possiede nessuna connotazione qualitativa. 'Fascio' significa infatti un insieme di elementi quali che siano e solo assai relativamente affini tra loro. Nel linguaggio politico il termine ricorre con frequenza già nel corso del XIX secolo per indicare una qualsivoglia coalizione di forze. Ne deriva che nella vita pubblica il termine 'fascio' assume un significato puramente strumentale e l'azione che esso è chiamato a svolgere acquista un contenuto solo rispetto al fine particolare che il 'fascio', via via, si propone di perseguire. Nella storia d'Italia precedente la prima guerra mondiale l'esempio più noto è quello dei Fasci siciliani (1892-1894). Rispetto a questi caratteri generali la concreta esperienza storica che chiamiamo fascismo, e che occupa il quadro europeo tra le due guerre mondiali, non fa eccezione.
I Fasci di combattimento, cioè il movimento politico fondato a Milano da Benito Mussolini il 23 marzo 1919 e che rimarrà in vita sino all'aprile 1945, cioè sino all'uccisione di Mussolini stesso, è un movimento di reazione nel senso letterale del termine. Esso nasce, sulla spinta di un patriottismo esasperato dai pregiudizi di un diffuso nazionalismo, non per affermare ma per negare, cioè per opporsi con la forza a quella che si riteneva una svalutazione della vittoria e una mortificazione delle vaghe ma intense speranze che la guerra aveva sollevato. Anche in un secondo momento, quando l'azione fascista sarà soprattutto azione antisindacale, non perciò verranno meno le motivazioni iniziali, in quanto i fascisti continueranno a identificare nei loro avversari i nemici della nazione. In questo senso l'elemento più caratteristico del fascismo è uno stato d'animo, comune a tutti coloro, per altri aspetti ben diversi tra loro, che aderi scono ai Fasci; stato d'animo che ha la sua matrice nella guerra, senza la cui esperienza non sarebbe spiegabile. Se, tuttavia, oltre queste relativamente chiare finalità negative, si ricerchi nell'azione fascista quali concreti obiettivi politici essa si proponesse di raggiungere, subito emergeranno gravi ostacoli dovuti alle contraddizioni e alle ambiguità che caratterizzano i programmi fascisti. Ed è proprio il carattere ambiguo del movimento fascista, il suo prestarsi a fungere da centro di aggregazione di forze disparate e a divenire il contenitore di programmi diversi, i quali mutano nel tempo a seconda dei cangianti obiettivi politici che il suo fondatore via via si pone, a fare di questo movimento soprattutto lo strumento di azione di Mussolini. Attraverso il quale prima egli assume nella vita pubblica italiana un ruolo di primo piano, poi conquista il potere, e successivamente attua un vero e proprio regime politico, di cui non esisteva in precedenza nessun progetto definito ma che del fascismo dichiarerà di essere l'attuazione.
Giustamente, perciò, è stato suggerito (v. De Felice, 1975) che nell'insieme del fenomeno fascista vadano distinte due componenti: il movimento e il regime. Ma il rapporto tra queste due componenti pone dei problemi. Di per sé il regime fascista ha una rilevanza storica ben maggiore che non il semplice movimento, sicché, in prospettiva, nel fascismo si riconosce soprattutto quel sistema di potere, che Mussolini costruisce col suo governo a partire dall'ottobre 1922; e tuttavia, nel suo corso storico, il regime è stato strettamente dipendente dal movimento fascista, che ne ha consentito la nascita e condizionato l'immagine. D'altra parte, anche se il movimento fascista in quanto tale ha avuto una sua particolare storia e sembra quindi mantenere una sua autonomia, indipendentemente dal regime, si tratta di una autonomia più apparente che reale in quanto, al pari del regime, anche il movimento fascista è stato in gran parte frutto della volontà del suo fondatore, che nel fascismo occupa dunque una posizione chiave. In realtà nell'insieme del fenomeno fascista il Duce, il movimento, il regime, rappresentano i tre elementi costitutivi, che si sovrappongono e si intrecciano secondo combinazioni le quali variano nel tempo. E, come in un caleidoscopio, proprio queste diverse combinazioni rendono l'immagine del fascismo così varia e sfuggente.Questo cangiante aspetto del fenomeno fascista, che è riconoscibile solo a chi abbia la pazienza di ripercorrerne la storia, è un indice della sua complessità, ed è anche ciò che talvolta induce chi lo osservi troppo sommariamente a errate valutazioni.
Nel ripercorrere la storia del fascismo sul terreno suo proprio, che è quello italiano, converrà suddividerla in sette periodi.
Per comprendere che cosa significasse la fondazione dei Fasci di combattimento (23 marzo 1919), cioè del primo nucleo del movimento, occorre porla in relazione sia con la biografia di Benito Mussolini, sia con il contesto della storia d'Italia in quel particolare momento. Dopo la rottura traumatica, nell'ottobre del 1914, sul tema della guerra, con il Partito Socialista, di cui come direttore dell'"Avanti!" era l'effettivo leader, Mussolini aveva continuato a occupare un certo spazio nella vita pubblica italiana con il suo nuovo quotidiano, "Il Popolo d'Italia", che aveva iniziato le pubblicazioni nel novembre 1914, e che rimarrà suo personale strumento sino al luglio 1943. Dalle colonne di questo giornale egli aveva prima svolto una energica campagna a favore dell'intervento dell'Italia in guerra, raccogliendo intorno a sé le diverse voci di coloro che, pur militando nelle file della sinistra, non si riconoscevano nel neutralismo. Poi, tra il maggio 1915 e il novembre 1918, il quotidiano di Mussolini aveva sostenuto lo sforzo del paese in guerra, esortando i governi al massimo rigore per mantenere unito il fronte interno, gradualmente accostandosi, specialmente a partire dalla fine del 1917, alle posizioni di un vario nazionalismo. Un indizio di questa metamorfosi era stato, nell'agosto del 1918, il mutamento del sottotitolo del giornale da "quotidiano socialista" a "quotidiano dei combattenti e dei produttori". Ma il terreno sul quale le posizioni assunte da Mussolini nell'ultimo anno di guerra emergevano con maggiore chiarezza fu quello della politica estera e della dibattuta questione dei nostri confini orientali, dove contro le aspirazioni, peraltro ugualmente eccessive, della nascente Iugoslavia, Mussolini verrà gradualmente a schierarsi a favore del più estremo programma di espansione (patto di Londra più Fiume), quello stesso che, pochi mesi dopo la fine della guerra, porterà al disastro diplomatico dell'Italia alla Conferenza di pace di Parigi, e al drammatico precipitare della questione adriatica. Proprio queste posizioni venivano da Mussolini riconfermate con sempre maggiore enfasi nella prima metà del 1919. Non sorprende perciò che alla loro nascita i Fasci si presentassero come una delle molte iniziative del tempo per esaltare le più estreme aspirazioni nazionali, nate nel crogiolo della guerra, e per opporsi anche con la violenza alla montante offensiva dei socialisti, che sempre più suggestionati dagli sviluppi della Rivoluzione russa dichiaravano di volerne seguire l'esempio, assumendo posizioni apertamente eversive e antipatriottiche. Pochi mesi dopo, quando D'Annunzio occuperà Fiume alla testa di reparti militari italiani, i Fasci si schiereranno al fianco di D'Annunzio, di cui Mussolini esalterà la figura e l'opera.
Le cose muteranno nel corso del 1920 quando, in conseguenza delle elezioni politiche del novembre 1919 (che segneranno per Mussolini una cocente sconfitta), la politica interna riprenderà il sopravvento. Per la sua variegata composizione e il prevalere di forze politiche nuove o rinnovate (popolari e socialisti) tra loro inconciliabili, la nuova Camera era incapace di garantire la stabilità di un qualsiasi governo. Intanto, tra la fine del 1919 e per tutto il corso del 1920, il paese, sia nelle industrie che nelle campagne, era scosso da agitazioni sociali, senza precedenti per numero e per intensità, le quali, accompagnandosi alla sempre più minacciosa offensiva dei socialisti, turbavano profondamente l'ordine, producevano negli animi dei cittadini e nella pubblica opinione grande impressione, e sembravano talora mettere in pericolo la stessa stabilità delle istituzioni. Il definitivo superamento della questione adriatica si ebbe nel novembre del 1920 con la firma del trattato di Rapallo. Poche settimane più tardi le forze militari italiane costringevano D'Annunzio ad abbandonare Fiume. Ma, a eccezione di alcuni dissidenti che rimarranno fedeli alla causa dannunziana, in questi mesi Mussolini e i Fasci si erano già assestati su nuove posizioni. Si veniva preparando quella nuova stagione del movimento fascista che fu lo squadrismo, e che imprimerà ai Fasci quel carattere nuovo che rimarrà come una delle loro note più originali.Lo squadrismo fascista nasce come reazione antisindacale e soprattutto antisocialista. Reazione armata, che si organizza appunto in squadre, seguendo gli schemi di un elementare ordinamento militare e mettendo a frutto le esperienze della guerra. Le squadre nascono dapprima là dove le lotte sociali hanno assunto maggiore asprezza. Di esse si era avuto un precedente, sin dall'estate, nella Venezia Giulia, ma si era trattato di una situazione particolare, legata ai conflitti di nazionalità tra Italiani e Slavi e alla questione di Fiume.
Nel resto d'Italia una accelerazione allo squadrismo viene semmai dalle elezioni amministrative dell'autunno 1920, nelle quali molte amministrazioni locali sono conquistate dai socialisti all'insegna di un programma antinazionale e fortemente provocatorio.
Il primo episodio squadristico di rilevanza nazionale sarà costituito appunto dai fatti di Bologna del novembre 1920, dove le squadre fasciste si scontrano con la manifestazione socialista, indetta per l'insediamento del nuovo consiglio comunale. Il cruento conflitto che ne seguì, con numerose vittime, portò allo scioglimento del consiglio comunale stesso, segnando quindi una vittoria fascista. Dopo di allora il modello squadristico si diffonderà in tutte le regioni dell'Italia settentrionale e centrale, e in molte zone dell'Italia meridionale. Alla guida delle squadre fasciste si formerà una struttura gerarchica, in genere su base provinciale, all'interno della quale emergeranno uomini nuovi, capaci di esercitare un forte potere locale e perciò ben presto denominati ras. Così a Bologna Dino Grandi, a Ferrara Italo Balbo, a Cremona Roberto Farinacci, a Pavia Cesare Forni, a Firenze Dino Perrone Compagni, a Bari Giuseppe Caradonna, ecc. Anche se la nascita delle squadre fu spesso il frutto di iniziative locali, Mussolini seppe abilmente coordinare l'insieme del movimento inquadrandolo in una struttura nazionale, e farsene il capo, anzi, come ben presto si disse, il 'Duce'.
Tra la fine del 1920 e la prima metà del 1921 lo sviluppo del nuovo movimento fascista fu impetuoso, e i Fasci diventarono in breve una delle più consistenti forze politiche del paese. In essi, e specialmente nelle prime formazioni squadriste, erano certamente confluiti uomini ai margini della delinquenza, avventurieri, o comunque persone specialmente votate alla violenza. Di questa componente i Fasci manterranno a lungo il segno; e tuttavia essa diverrà ben presto secondaria. Con il loro crescere, le file del movimento fascista acquistavano una composizione assai varia: molti gli ex combattenti, molti gli studenti, ma si può dire che complessivamente nessuna categoria sociale vi rimaneva estranea, anche se la prevalenza era di ceti medi.
L'obiettivo che i Fasci ben presto si prefissero fu quello di una sistematica occupazione del territorio, spazzando via le forze avversarie, organizzazioni sindacali e amministrazioni locali, attraverso incursioni (le cosiddette spedizioni punitive) che muovevano per lo più da un centro urbano e miravano alla devastazione di sedi e alla intimidazione di uomini. Il successo di questi metodi violenti non sarebbe stato possibile senza talora il concorso, spesso la connivenza, quantomeno la tolleranza dei pubblici poteri. Una quasi naturale intesa si ebbe, intanto, tra Fasci e forze militari; anche forze di polizia e carabinieri mostrarono spesso simpatia per le azioni dei fascisti rivolte proprio contro coloro che dalla fine della guerra si erano presentati come i nemici dell'ordine; la stessa magistratura, in più di una occasione, dimostrerà verso i fascisti grande indulgenza. Tutto ciò era in gran parte il frutto di uno spontaneo consenso, che accompagnò il sorgere della reazione fascista per più di una ragione. Ma si trattò anche di un problema politico, cioè dell'atteggiamento del governo. Nei primi mesi del 1921, cioè nello stesso momento in cui maturava l'offensiva squadrista, sperando di riuscire in tal modo a risolvere la paralisi parlamentare, il presidente del Consiglio Giolitti decise di sciogliere la Camera e indire nuove elezioni. Per evitare il frazionamento delle forze costituzionali, il governo promosse liste di coalizione (i cosiddetti blocchi) nelle quali furono accolti anche i candidati fascisti. Pertanto i Fasci venivano a essere considerati alleati del governo.
Alle elezioni del maggio 1921 furono eletti 35 deputati fascisti, tra cui Mussolini. Da quel momento il suo problema fu quello di gestire la nuova forza politica fascista, emersa in modo inaspettato e assai squilibrata tra Camera e paese, quali obiettivi generali porle, quale immagine dare del fascismo stesso. Un tentativo, nell'estate, di limitare la violenza squadrista attraverso un patto di pacificazione che avrebbe dovuto normalizzare la situazione, fallì clamorosamente portando anzi ad una momentanea rottura tra Mussolini e una parte del movimento fascista.
La crisi fu superata al Congresso di Roma (novembre 1921), nel quale il movimento si trasformava in Partito Fascista; questo incorporava al suo interno le squadre armate, dando il primo esempio, nel quadro di istituzioni rappresentative, di un partito politico che ufficialmente faceva della violenza un metodo di lotta. Mussolini era riconfermato il Duce del fascismo. La questione di che cosa il nuovo partito si proponesse di fare era più che mai aperta.
Il fatto stesso che si consentisse ad un partito politico di avere una sua forza armata significava che il paese era senza governo. In effetti le elezioni del 1921 non avevano affatto risolto quella paralisi parlamentare che privava ogni governo in carica della necessaria autorità. In questa situazione la violenza fascista, che dall'autunno del 1921 era ripresa su ancor più larga scala, procedeva ormai incontrastata. Se un anno prima i nemici dell'ordine erano potuti apparire i socialisti, sicché la reazione fascista era sembrata restauratrice, ora la situazione si era rovesciata. La legalità veniva sistematicamente infranta dall'azione delle squadre fasciste, che non incontrava più alcuna resistenza. Così, nel corso del 1922, impotenza parlamentare e violenza squadrista venivano a svolgere ruoli complementari per consegnare il governo nelle mani di Mussolini. Da un lato, infatti, non trovando più sulla sua strada alcun serio ostacolo, era naturale che l'offensiva fascista si ponesse obiettivi sempre più ambiziosi, sino alla conquista del potere. Dall'altro lato, una classe politica ormai allo sbando sempre più si veniva convincendo che, per riportare il paese alla normalità e ristabilire l'ordine, l'unico modo fosse quello di dare ai fascisti stessi responsabilità di governo. In questo clima matura, alla fine di ottobre, la cosiddetta marcia su Roma, cioè la ripetizione in scala maggiore del modello di spedizione squadrista, contro la stessa capitale del regno. Essa fece precipitare una crisi politica già in atto, per uscire dalla quale il re decise di affidare allo stesso Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo.
Mussolini formò un gabinetto al quale oltre a tre fascisti (Aldo Oviglio, Alberto De Stefani, Giovanni Giuriati), a un nazionalista (Luigi Federzoni) e a un indipendente (Giovanni Gentile), partecipavano sia alcuni tra i più alti gradi militari (Armando Diaz, Paolo Thaon de Revel), sia i rappresentanti di quelle stesse forze politiche che avevano composto i governi precedenti. Indi si presentò ai due rami del parlamento per ottenere la fiducia e i pieni poteri in materia finanziaria e amministrativa, e l'una e gli altri gli furono concessi con ampia maggioranza, nonostante le sprezzanti parole pronunciate alla Camera ("Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli"). Da un punto di vista formale, perciò, non vi fu violazione della legalità istituzionale. Tuttavia è dubbio che dopo il 28 ottobre 1922 si possa ancora parlare per lo Stato italiano di regime liberale. Intanto, la violenza che aveva accompagnato la conquista del potere da parte di Mussolini non cessò affatto, come mostrarono già i sanguinosi fatti di Torino del dicembre e una miriade di episodi successivi. All'inizio del 1923, inoltre, Mussolini varò due provvedimenti che trasformavano di fatto la natura dello Stato. Il primo fu la costituzione del Gran Consiglio del Fascismo. Questo nuovo organo riuniva insieme uomini detentori di cariche pubbliche e uomini detentori di cariche all'interno del Partito Fascista, trasformando quest'ultimo da associazione privata in pubblica istituzione. Il secondo provvedimento costituì all'interno dello Stato una nuova forza armata, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), nella quale confluivano le squadre fasciste. In tal modo, dopo la conquista del governo, Mussolini si apprestava alla conquista fascista dello Stato, presentando se stesso e il suo movimento non come rappresentanti di una parte politica, ma della nazione tutta. La facilità con cui Mussolini conseguì questi risultati senza incontrare alcun serio ostacolo richiede qualche spiegazione.Non si trattò soltanto di forza, bensì anche di un vasto e assai diffuso consenso.
Le ragioni di questo consenso furono assai varie. Posto che nessuno dei contemporanei era allora in grado di sapere che cosa il fascismo fosse e dove avrebbe condotto il paese, queste ragioni furono in parte negative, in parte positive. Le prime consistevano soprattutto nel disgusto per le forze politiche presenti sulla scena parlamentare le quali, sia al governo sia all'opposizione, si erano mostrate assolutamente incapaci di gestire la cosa pubblica o di suggerire credibili vie alternative. La necessità di un radicale ricambio della classe politica era perciò fortemente sentita e assai paventata l'ipotesi di un qualsiasi ritorno al precedente malgoverno. Le seconde ragioni consistevano soprattutto nelle simpatie che il movimento di Mussolini era riuscito a guadagnarsi tra molti strati di cittadini, e specialmente tra i ceti medi, non tanto per la difesa da esso assunta di interessi materiali offesi, quanto e soprattutto presentandosi come il legittimo erede della tradizione nazionale. Ciò era stato in gran parte facilitato dal fatto che ambedue i maggiori partiti politici italiani, il socialista e il popolare, sia per scelta sia per i modi della propria storia, erano forze estranee, se non ostili, all'eredità risorgimentale. Inoltre, poiché l'insieme della tradizione nazionale era apparso riassunto nella guerra, e poiché la stessa esperienza fascista era maturata sul terreno della difesa della guerra, di quella tradizione il fascismo poteva facilmente presentarsi come il legittimo erede. Questa apparenza nascondeva il fatto che, dall'interventismo in avanti, i sostenitori della guerra, e cioè l'insieme di quelle forze che sembravano rappresentare la tradizione nazionale, lungi dall'essere uniti tra loro si erano sempre più divisi intorno alla questione dei fini della guerra, distinguendosi in nazionalisti e democratici. E in realtà il fascismo non rappresentava affatto l'insieme di quelle forze politiche che la guerra aveva voluto e sostenuto; di esse, esso rappresentava soltanto la parte nazionalista, e cioè solo quella parte che ben poco aveva a che fare con i principî ispiratori del Risorgimento.
La pretesa del fascismo di ergersi a erede della tradizione nazionale era pertanto priva di fondamento e costituiva una vera appropriazione indebita, cioè un inganno. Tuttavia, ben difficilmente questo inganno sarebbe stato possibile se già in precedenza, e specialmente a partire dal 1887, non si fosse consumata nello spirito pubblico del paese una vera e propria metamorfosi, secondo la quale i valori della tradizione risorgimentale si erano venuti gradualmente a scolorire, il patriottismo trasformandosi in nazionalismo. Non sorprende perciò che nel febbraio del 1923 il movimento nazionalista venisse ufficialmente assorbito nelle file del Partito Fascista.
Oltre quelle iniziative con le quali egli aveva mirato a consolidare il suo potere, venendo con ciò a conferire al fascismo stesso una più precisa definizione, Mussolini seppe imprimere all'opera del suo governo un ritmo nuovo. Assunto direttamente il controllo, con il dicastero degli Interni, dell'ordine pubblico, il governo Mussolini si distinse sul piano interno soprattutto per aver proseguito, con il ministro De Stefani, l'opera di restaurazione finanziaria dei precedenti gabinetti, risanando il bilancio, e per aver attuato, con il ministro Gentile, una significativa riforma della scuola. Sul piano internazionale l'esordio di Mussolini, che deteneva anche il dicastero degli Esteri, fu meno convincente, dimostrando già nell'estate del 1923, in occasione di un incidente con la Grecia, la sua propensione all'avventurismo (occupazione di Corfù). Malgrado gli indubbi successi e una consistente misura di consenso, Mussolini avvertiva il pericolo della sua debolezza parlamentare. Perciò, attraverso la cosiddetta legge Acerbo, egli si propose di correggere il meccanismo elettorale eliminando la frantumazione della rappresentanza prodotta dalla proporzionale e introducendo un forte premio di maggioranza, tale da assicurare la stabilità del governo.
Le resistenze della Camera all'approvazione di questa legge furono vinte sia con l'intimidazione, sia grazie all'intervento della Curia volto a superare l'opposizione del Partito Popolare con il forzato allontanamento del suo segretario, don Luigi Sturzo. Le nuove elezioni si tennero nell'aprile 1924. Anche se la campagna elettorale fu condotta in un clima di violenza e gli arbitri commessi furono innumerevoli, la misura del successo fascista (64,9% dei voti), raggiunto per lo più con una lista di forze coalizzate dove la vecchia classe politica si mescolava con le nuove leve fasciste (il cosiddetto listone), dimostrò quanto quella violenza fosse in gran parte gratuita. Ma essa era parte costitutiva e del carattere di Mussolini e del suo movimento. Pochi giorni dopo l'apertura della nuova Camera (24 maggio), il deputato socialista Giacomo Matteotti, uomo di grande coraggio fisico e integrità morale, che aveva denunciato le violenze elettorali dei fascisti e promesso di produrre ancor più ampia documentazione, fu rapito da una squadra fascista e ucciso. Il rapimento avvenne il 10 giugno, il corpo martoriato fu ritrovato soltanto il 16 agosto; ma fu subito chiaro che si trattava di un crimine e di che parte fossero gli autori. L'emozione nel paese fu fortissima, sicché per alcune settimane parve che il governo Mussolini potesse essere rovesciato. Ma l'insipienza dimostrata, ancora una volta, dalle opposizioni e il sostegno che continuarono a dargli le forze istituzionali, Corona, Senato, Camera dei deputati, consentirono a Mussolini di superare anche questo momento di crisi, certamente il più grave da quando aveva assunto il potere e sino al luglio 1943. A sostegno di Mussolini si rinnovò nel paese la mobilitazione delle squadre fasciste, riprendendo e gradualmente accentuando il clima di violenza e di intimidazione contro tutti gli oppositori. Ogni incertezza venne poi definitivamente superata con il discorso parlamentare di Mussolini, il 3 gennaio 1925, in cui egli si assumeva ogni responsabilità politica e morale di quanto avvenuto, sfidando gli oppositori, se ne erano capaci, a porlo in stato di accusa.
Con il 3 gennaio 1925 inizia la vera e propria dittatura fascista. Essa si verrà attuando prima sul piano dei fatti, con una drastica riduzione dei poteri del Parlamento, con l'impedire ogni libertà di stampa, col costringere al silenzio ogni voce di opposizione, con ciò mettendo fine alla stessa vita politica. Ma di lì a poco la dittatura acquistò una veste legale, attraverso una serie di leggi che da un lato ponevano fine a quelle libertà, di parola, di stampa, di associazione, sancite dallo Statuto albertino, che pur rimaneva formalmente in vigore, sicché i cittadini venivano riportati allo stato di sudditi; e che, dall'altro lato, accrescevano smisuratamente il potere di Mussolini. Questo processo di trasformazione dello Stato si protrasse nel tempo e subì, almeno sino alla guerra, una serie di correzioni, ma le basi del nuovo regime vennero solidamente poste tra il 1925 e il 1926. Le sue tappe fondamentali furono: la legge 24 dicembre 1925, sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, con la quale non solo si sottraeva il potere esecutivo al controllo parlamentare, ma istituendo la nuova figura del capo del governo si concentravano nelle sue mani pressoché tutti i poteri, limitando anche l'iniziativa legislativa del Parlamento e perciò rimettendo di fatto nelle sue mani anche la facoltà di fare le leggi; la legge sulla stampa, del 31 dicembre 1925, che introduceva su tutto quanto si pubblicasse un pesante controllo politico; nel corso del 1926, le leggi che ponevano fine alle elezioni per la formazione delle amministrazioni locali e istituivano a capo dei comuni la figura del podestà di nomina governativa. Il ciclo si chiuse, in un certo senso, con la legge 25 novembre 1926 per la difesa dello Stato. Essa non solo rendeva illegale ogni manifestazione di dissenso, ma consentiva di privare della libertà personale in base al semplice sospetto, istituiva nuove pene detentive quali il confino di polizia, e sottraeva il giudizio dei reati politici alla magistratura ordinaria affidandolo sia alle autorità di polizia, sia al nuovo Tribunale speciale, il quale poteva anche applicare la pena di morte.
Perciò, a partire dalla fine del 1926, lo Stato fascista sarà anche formalmente uno Stato di polizia. La dittatura troverà il suo completamento nella legge elettorale del 17 maggio 1928, la quale introduceva la lista unica, sostituendo con ciò alla libera scelta elettorale il sistema plebiscitario.Nel corso di quei due fatidici anni (1925 e 1926), l'unica lotta politica di cui in Italia si possa parlare fu combattuta all'interno del fascismo stesso. Si trattò di uno scontro molto significativo, che ebbe come contendenti da una parte Roberto Farinacci, il quale dal febbraio 1925 era il segretario nazionale del Partito Fascista, dall'altra alcuni personaggi di un fascismo per così dire revisionista (Giuseppe Bottai, Camillo Pellizzi, Ermanno Amicucci); e mentre alle spalle del primo stavano alcuni tra i più irriducibili ras squadristi, alle spalle dei secondi stava lo stesso Mussolini. La posta in gioco era il ruolo del Partito Fascista nella gestione del potere, e cioè la parte che il movimento fascista stesso era chiamato a svolgere all'interno del nuovo regime. Sommariamente i termini della partita si misuravano all'interno di ciascuna provincia nel confronto tra il potere del segretario federale fascista, espressione del partito, e i poteri del prefetto, espressione dell'amministrazione statale. Ma le implicazioni generali erano più vaste, giungendo, ad esempio, ad investire la questione del rapporto tra milizia fascista ed esercito regio. In un certo senso, ed è un punto della massima importanza, il contrasto riguardava il rapporto stesso tra il movimento fascista e Mussolini. Questi sin dal 1923 (c'è una sua circolare ai prefetti, del 13 giugno) aveva chiaramente mostrato la sua preferenza, nella gestione del potere da poco conquistato, a servirsi piuttosto dei tradizionali organi dello Stato che non dei meno affidabili capi fascisti. Tra il 1924 e il 1925, tuttavia, la situazione era cambiata, perché l'intervento del rinato squadrismo aveva avuto una parte considerevole nel permettere a Mussolini di superare indenne la crisi Matteotti. La nomina alla segreteria del Partito di Farinacci, uno dei più estremisti tra i capi fascisti e sostenitore di una sorta di 'rivoluzione permanente', era il riconoscimento di questo debito.
Per oltre un anno il terreno della contesa fu la libertà di iniziativa delle squadre fasciste, che continuarono a imperversare, e poiché dal giugno 1924 Mussolini aveva lasciato il dicastero degli Interni, l'interlocutore diretto di Farinacci fu il nuovo ministro Federzoni. Questi, anche se poco dopo fu messo da parte, ebbe di fatto partita vinta. Ma il vincitore vero fu Mussolini. Nel novembre 1926, una volta che con le nuove leggi il suo potere personale si era rinsaldato, egli riprendeva nelle sue mani le redini di quel dicastero degli Interni, che era una posizione chiave per la gestione di un potere largamente basato sulla repressione. Frattanto, il 30 aprile 1926, Farinacci veniva rimosso dalla segreteria del partito e al suo posto veniva nominato un ben più docile personaggio, Augusto Turati. Da allora in poi il ruolo del Partito e di tutte le organizzazioni fasciste, che si estenderanno in una rete capillare il cui fine era quello di coinvolgere il maggior numero possibile di persone, sarà sempre più limitato al compito di mediatore del consenso, attraverso opere di assistenza, iniziative culturali e sportive, attività ricreative, gestione della propaganda, e tutte quelle manifestazioni coreografiche nelle quali si incarnava l'immagine del fascismo. All'insegna del motto "credere, obbedire, combattere", il movimento fascista perdeva così ogni originario attivismo per assumere come propria virtù cardinale quella di una sottomessa disciplina. L'iniziativa politica restava intera nelle mani di Mussolini e il potere di imporre le regole della dittatura nelle mani della polizia di Stato.
In tal modo Mussolini riuscì abilmente a costruire il suo regime con una nuova e assai radicale operazione di trasformismo. Rimanendo il re capo dello Stato, rimanendo le strutture della pubblica amministrazione formalmente invariate, Mussolini poté facilmente far credere che la cosiddetta rivoluzione fascista si fosse limitata a correggere, nei rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, quelle storture che avevano impedito allo Stato risorgimentale di essere un vero Stato nazionale. E nel quadro di questo regime, ben oltre i limiti angusti dell'originario movimento, il termine fascista si dilatava sino a includere tutti coloro disposti a riconoscere quale bene supremo l'interesse nazionale, cioè di fatto quanto Mussolini stesso indicava come tale. Lungo questa strada, che mirava a raccogliere sotto le ali del fascismo ogni qualsivoglia componente significativa di una storia nazionale che prendeva le mosse dall'Impero romano, Mussolini, allargando quanto più possibile la sfera del consenso, si propose il riavvicinamento alla Chiesa, cioè il superamento anche formale della questione romana e la sistemazione dei rapporti tra Curia e Stato italiano. Fu la cosiddetta riconciliazione, sancita dagli accordi sottoscritti l'11 febbraio 1929. Anche l'Italia cattolica veniva in tal modo fascistizzata.
Dopo questa svolta poté tanto più sembrare che i due termini 'italiano' e 'fascista' fossero sinonimi.Nasceva su queste basi lo Stato 'totalitario' che, a differenza di quanto avveniva o avverrà altrove, ebbe in Italia un carattere particolare. La sua istanza fondamentale era che la vita privata venisse quanto più possibile assorbita in quella pubblica, e che la vita pubblica si svolgesse interamente nell'ambito dello Stato fascista. In realtà la vita privata mantenne un suo margine di autonomia e anche quella pubblica un suo margine di indipendenza, se non di libertà, almeno in alcuni settori, come quello della stampa. Se, infatti, i quotidiani erano rigidamente controllati, su libri e periodici la censura fascista non fu priva di indulgenza. Dove lo Stato fascista condusse con successo una sistematica occupazione di tutti gli spazi fu nel tessuto della società civile. Istituzioni culturali e ricreative, organizzazioni professionali, settori chiave dell'apparato produttivo del paese, enti sanitari e assistenziali, in aggiunta naturalmente a tutti quegli organismi, come la scuola in tutti i suoi gradi, che direttamente o indirettamente già erano o verranno a cadere sotto il controllo pubblico, tutto doveva gravitare nell'orbita del fascismo. Ciò significava che sia sul piano dell'occupazione sia su quello del prestigio e dell'ascesa sociale, nessuno era in grado di farsi strada senza un atto di sottomissione al fascismo. Una sottomissione per lo più soltanto formale, che non implicava necessariamente una partecipazione attiva alla vita del regime e un'adesione sincera al suo credo; ma una sottomissione che quanto meno sembrava onerosa in termini di impegno personale, tanto più era esigente in termini di ossequio formale. Malgrado la formula del giuramento fascista recitasse che ogni iscritto al Partito si impegnava a servire la causa della rivoluzione fascista con tutte le sue forze e se necessario col suo sangue, nello Stato totalitario mussoliniano il prototipo del fascista non fu affatto l''uomo nuovo', il milite fedele all'idea e agli ordini del Duce: il prototipo del fascista fu in realtà il conformista.
La riprova del successo raggiunto, il quale mostrava l'effettivo consolidamento del regime fascista all'interno non del solo Stato ma anche della società italiana, fu data dai risultati delle elezioni che si tennero, secondo la nuova legge, il 24 marzo 1929: vi parteciparono l'89,63% degli aventi diritto al voto, e i 'sì' furono 8.506.574 (94,4%), contro 136.198 'no' (1,6%). Il plebiscito voluto da Mussolini aveva dato gli attesi frutti. E tuttavia le condizioni di vita degli Italiani erano tutt'altro che rosee. Oltre all'antica piaga della disoccupazione, per la quale il fascismo non aveva saputo offrire alcun rimedio nuovo, la politica economica fortemente deflazionistica imposta da Mussolini e riassunta nella formula della cosiddetta 'quota novanta' (cioè il valore di cambio della sterlina non doveva superare le novanta lire), aveva effettivamente stabilizzato la nostra moneta e perciò rafforzato il nostro credito sui mercati finanziari internazionali; ma, al tempo stesso, aveva reso più difficili le nostre esportazioni, scoraggiato gli investimenti e prodotto una diminuzione di salari e stipendi alla quale non aveva corrisposto una eguale diminuzione dei prezzi. D'altra parte, modi per far sentire voci di protesta non esistevano più. Sciolte le antiche organizzazioni sindacali, i nuovi sindacati fascisti erano divenuti organi dello Stato e perciò, impegnati ad evitare vistosi conflitti, disponevano di mezzi assai limitati per premere sulla parte padronale. Rimosso il concetto di lotta di classe, impedito lo sciopero, ogni contrasto doveva riuscire a comporsi senza turbare l'armonia sociale e la produzione nazionale. I termini di questa nuova visione collaborazionistica erano stati sanciti dalla legge 3 aprile 1926, per la disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, le cui vertenze venivano rimesse a una speciale magistratura del lavoro.
Ciò corrispondeva alla nuova idea di 'corporazione', cioè di un organismo che raccogliesse unitariamente tutti coloro che operavano in un determinato settore produttivo, non importa con quale grado e con quale funzione. Nel luglio 1926 era stato creato il Ministero delle Corporazioni e al suo fianco il Consiglio Nazionale delle Corporazioni, anche se in realtà le corporazioni stesse non esistevano ancora. Il 21 aprile 1927 le nuove regole e i principî a cui queste erano improntate venivano enunciati ufficialmente nella Carta del lavoro. Si trattava di un insieme di provvedimenti i quali, a parole, costituivano, come scrisse lo storico fascista Gioacchino Volpe, "l'opera più originale della rivoluzione fascista". "Si partiva - così continua Volpe - dal concetto che la nazione italiana è un'unità morale politica economica che si realizza nello Stato; che i cittadini sono necessariamente solidali nella nazione; che il lavoro non è un diritto ma un dovere e come tale viene tutelato dallo Stato; che la produzione nazionale è unitaria e unitari i suoi obiettivi, cioè lo sviluppo della potenza nazionale [...]; che le forze produttive nazionali, organizzate nei sindacati, se non si vuole che, operando fuori dello Stato, siano contro lo Stato, debbono essere dentro lo Stato [...]. Individuo e Stato, finora disgiunti o non bene e organicamente congiunti, sono da collegare meglio e quasi compenetrare l'uno nell'altro, per il tramite del sindacato e dei corpi sindacali, organi di diritto pubblico, operanti nell'ambito e sotto il controllo dello Stato" (v. Volpe, 1943², pp. 139-140). Era, come ben si vede, una concezione dello Stato opposta a quella liberale.
Ma, al tempo stesso, rimaneva del tutto impreciso in che modo, all'interno delle corporazioni, all'armonia sociale imposta dal potere si potesse accompagnare un'armonia effettiva, distribuendo equamente tra le parti oneri e profitti. La prova comunque fu rimandata nel tempo, perché per alcuni anni i pur già enunciati principî corporativi e i pur già creati organi rimasero in letargo. A risvegliarli provvide la grande crisi del 1929 che, sconvolgendo l'intero sistema economico del mondo occidentale, provocò anche in Italia effetti funesti. Per porvi in qualche modo rimedio, si rese necessario l'intervento dello Stato. In esso Mussolini vide l'occasione per rilanciare la formula dello Stato corporativo, la quale consentiva ora di presentare sulla scena internazionale il fascismo come il portatore di una dottrina che, tra lo statalismo radicale del comunismo russo e la eccessiva permissività privatistica del capitalismo occidentale, era in grado di indicare all'economia moderna una terza via. Tuttavia si trattava assai più di parole che di fatti.
Lo Stato corporativo si assunse effettivamente l'onere della gestione diretta di molti settori disastrati e di pagarne le forti perdite; ma nella coesistenza di pubblico e di privato, che rinnovava l'esperienza già fatta negli anni di guerra dell'economia associata, i ruoli rimanevano assai squilibrati, sia nei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori dipendenti, sia rispetto al potere di avanzare e imporre scelte di indirizzo generale, cioè di attuare una vera programmazione economica. Di fatto, proprio in questi anni, si stabiliva quella prassi, destinata ad una larga e assai prolungata fortuna, riassunta nella formula "socializzazione delle perdite, privatizzazione dei profitti". Semmai, l'indicazione che la politica economica fascista seppe effettivamente far valere nel sistema produttivo italiano, fu quella dell'autarchia: si riprendeva così uno dei motivi classici del nazionalismo, e cioè il mito della indipendenza economica. Del resto, su questa strada si era già posta la politica agricola del fascismo che, a partire dal 1925, con la battaglia del grano, si era proposta di raggiungere l'autosufficienza nazionale nella produzione di questo fondamentale cereale. I risultati raggiunti furono positivi, ma in buona parte illusori. Le assai accresciute rese (nel 1933 il grano prodotto fu quasi sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale) nascondevano il fatto che solo in parte queste erano il frutto di accresciuta produttività del suolo o della messa a coltura di nuove terre, rese fertili dalle bonifiche (come la giustamente nota bonifica dell'Agro Pontino).
Per lo più si trattava invece di un fenomeno indotto da artificiosi incentivi, per cui si continuava o si estendeva la coltura granicola su terreni inadatti e che sarebbe stato economicamente assai più vantaggioso destinare a diverso uso. Ma illusioni ancor maggiori la politica autarchica era destinata a produrre sul piano industriale, in un paese come l'Italia del tutto povero di materie prime.Con queste scelte, avendo il fascismo imboccato una strada del tutto incapace di condurre a un aumento effettivo della produttività del paese, era poco probabile che esso riuscisse ad alleviare i rigori della perdurante questione sociale e a trovare una risposta adeguata alla crescente disoccupazione (1.158.418 disoccupati, nel gennaio 1934, secondo le fonti ufficiali notoriamente assai inferiori al vero: v. Salvatorelli e Mira, 1956, p. 538). E ciò nonostante il regime si impegnò in una insistente campagna di propaganda per favorire l'aumento delle nascite, ponendo tra i propri fini quello dell'incremento demografico del paese. I problemi di fondo rimanevano perciò privi di soluzione e lo Stato corporativo si mostrava per quello che effettivamente era: una pura formula di propaganda. È difficile dire in che misura la delusione destinata a seguire questo grossolano inganno avrebbe potuto incidere sulla stabilità del regime, offuscandone l'immagine. Il tempo della resa dei conti non era ancora giunto. Altre frecce aveva ancora al suo arco la politica di Mussolini per stimolare le emozioni degli Italiani e distogliere la loro attenzione dalla dura realtà delle cose.
Nel luglio del 1932 Mussolini aveva ripreso nelle proprie mani la direzione del dicastero degli Esteri, alla cui guida dal settembre del 1929 aveva lasciato che facesse la sua prova uno dei più noti e intelligenti capi fascisti, Dino Grandi. Questo cambio della guardia coincideva con l'aprirsi in Europa di un periodo di gravi sconvolgimenti, alla cui origine era la crisi della Repubblica di Weimar e l'avvento al potere in Germania di Adolf Hitler (30 gennaio 1933). Sino a questa data, malgrado non fossero mancate provocazioni verbali, qualche atto sconsiderato (come Corfù), e manifestazioni propagandistiche attraverso le quali Mussolini aveva denunciato la perdurante insoddisfazione dell'Italia per la 'vittoria mutilata' e perciò la sua insoddisfazione per l'ordine europeo e l'assetto mediterraneo raggiunti dopo la fine della guerra, la politica estera fascista era rimasta sostanzialmente legata a quella degli alleati europei di guerra (Francia e Inghilterra) e aveva dato la sua collaborazione alla Società delle Nazioni. I fini di questa politica avrebbero dovuto essere quelli di garantire la sicurezza europea attraverso il rispetto dei trattati, la stipulazione di nuovi accordi suggeriti dalle circostanze, e la limitazione degli armamenti.
Tuttavia al leale perseguimento di questa linea politica ostavano sia il carattere di Mussolini e i suoi pregiudizi, sia le esigenze di una macchina propagandistica la quale, per garantire il consenso, doveva costantemente trovare pretesti per eccitare gli animi. Da un lato, perciò, Mussolini non poteva né concepire né desiderare una pace stabile. Egli condivideva pienamente quei presupposti nazionalistici i quali, accogliendo suggestioni darwiniane, ritenevano legge imprescindibile della vita dei popoli una sorta di lotta permanente, ciascuno di essi mirando alla propria espansione. Questa rozza concezione della vita internazionale, che assumeva l'imperialismo e la guerra come propri cardini, si coniugava spontaneamente con il naturale cinismo di Mussolini, predisponendolo a ogni forma di intrigo e ogni tipo di avventura, dai quali egli credesse di potersi ripromettere un qualche immediato guadagno. Dall'altro lato, il successo della propaganda fascista essendo in gran parte legato all'immagine di un'Italia nuova che, grazie all'azione e alla sapienza del Duce, aveva raggiunto sulla scena internazionale una posizione di prestigio e ottenuto di essere riconosciuta alla pari tra le grandi potenze, occorreva periodicamente rinnovare quelle occasioni di prova, nelle quali questo artifizio potesse riproporsi. In questo contesto l'assopita ma non mai deposta speranza di una nuova impresa africana era destinata a ridestarsi.
Ironia della sorte, l'occasione per una ripresa di iniziativa in Africa fu data a Mussolini dalla situazione di pericolo creatasi in Europa dopo l'avvento al potere di Hitler. Mussolini riteneva infatti, non infondatamente, che Francia e Inghilterra avessero ora più che mai bisogno di un'Italia amica e che non avrebbero perciò ostacolato un'impresa coloniale italiana verso l'unica regione africana ancora libera dalla dominazione europea, l'Etiopia. D'altra parte, adiacenti a questa regione l'Italia aveva già due colonie, la Somalia e l'Eritrea, che rendevano plausibili i progetti di un'ulteriore espansione.
Dopo una laboriosa fase di preparazione, sia militare che diplomatica, durante la quale Mussolini ritenne di avere ottenuto un consenso esplicito almeno dalla Francia (colloqui romani col ministro degli Esteri francese Pierre Laval, gennaio 1935), ai primi di ottobre di quello stesso anno l'Italia fascista iniziava una guerra di aggressione contro il vecchio Impero etiopico, nonostante esso fosse uno Stato membro della Società delle Nazioni. Come era prevedibile, data la disparità di forze, la campagna militare si risolse abbastanza rapidamente a favore delle truppe italiane che, dopo pochi mesi di operazioni, il 5 maggio occupavano la capitale Addis Abeba. Mussolini poté così annunciare al popolo italiano, in un commosso discorso, che l'Italia fascista aveva ridato vita a un Impero romano e Vittorio Emanuele III assumeva da allora il titolo di re e imperatore. Il tripudio nazionale fu grande. Ben pochi tra gli Italiani si resero allora conto che, con la guerra di Etiopia, il fascismo aveva voltato pagina. Da allora esso si avviava sulla strada di un'alleanza con la Germania nazista, verso una nuova guerra europea.
Quella svolta non fu intenzionale. Ancora un anno avanti, alla Conferenza di Stresa (aprile 1935), di fronte al pericolo del riarmo tedesco, Mussolini aveva confermato di voler rimanere al fianco di Francia e Inghilterra; ma, contrariamente alle sue aspettative, alla notizia dell'aggressione italiana all'Etiopia, le reazioni nei due paesi formalmente amici furono di dura condanna. Da Ginevra, la Società delle Nazioni impose contro l'Italia sanzioni economiche, e l'Inghilterra decise di spostare nel Mediterraneo una parte della sua Home fleet. Erano segni inequivocabili di ostilità.
Tutto ciò giovò enormemente alla propaganda fascista, suscitando un'ondata largamente spontanea di indignazione patriottica, che rafforzò il fronte interno ed ebbe una plateale manifestazione nella pubblica offerta dell'oro, soprattutto le fedi nuziali, alla patria. Inoltre, mentre sino ad allora Mussolini aveva ostentato l'amicizia dell'Italia per l'Inghilterra, da questo momento prenderà piede una violenta campagna propagandistica anti-inglese, destinata a durare ininterrotta sino alla guerra. E mentre sino a questa data la politica estera fascista non aveva fatto eccessivo spazio all'ideologia, se non per uso interno, da ora in avanti le cose cambiano. Divisi tra loro i tradizionali garanti della sicurezza europea, la Germania nazista subito ne approfitta per dare corso ai suoi propositi aggressivi e nel marzo 1936 occupa militarmente la Renania senza colpo ferire. Le democrazie occidentali accettano il fatto compiuto senza reagire. Quel primo fortunato esempio farà scuola.
Pochi mesi più tardi le divisioni ideologiche dell'Europa troveranno nuovo terreno di scontro nella guerra civile che si scatena in Spagna a partire dal luglio 1936. Quel conflitto si protrarrà per tre anni e in esso, sia l'Italia di Mussolini, sia la Germania di Hitler si schiereranno al fianco del generale Franco, partecipando militarmente alla sua campagna. In quello stesso triennio la Germania porterà avanti con pieno successo i suoi primi progetti espansionistici, mostrando chiaramente al mondo di che tempra fosse la dittatura nazista.
Malgrado alcune effettive affinità e una generica simpatia che Hitler aveva sempre provato per il Duce, il fascismo italiano e lo stesso Mussolini inizialmente non avevano seguito con alcun favore la crescita del movimento nazista e la sua vittoria. Neppure più tardi, del resto, mancarono in ambienti fascisti sospetti nei confronti del regime hitleriano e riserve verso una politica di avvicinamento alla Germania, la quale si ebbe soprattutto per volontà di Mussolini. Le tappe di questo avvicinamento furono l'intesa italo-tedesca dell'ottobre 1936 (il cosiddetto 'asse Roma-Berlino'), la visita di Hitler in Italia nel maggio 1938 e, atto finale, l'inaspettata stipulazione di una formale alleanza politica e militare, il cosiddetto 'patto d'acciaio', il 22 maggio 1939. A quella data la volontà di Mussolini di seguire le orme di Hitler si era già rivelata, con la decisione di introdurre anche in Italia una politica razzista e una legislazione antiebraica. Le cosiddette leggi per la difesa della razza furono promulgate a partire dal settembre 1938, precedute e accompagnate da una velenosa campagna di stampa. Si trattava di misure del tutto inattese, sia perché in Italia, per ragioni storiche e anche per il modesto numero di cittadini ebrei, una questione ebraica non esisteva; sia perché, sino ad allora, il fascismo non aveva mai fatte proprie posizioni razzistiche, e non erano pochi gli ebrei che militavano nelle file fasciste. Malgrado nessun dissenso di rilievo si sia neppure allora manifestato, il nuovo corso impresso al fascismo aveva certamente alienato a Mussolini molte simpatie, sicché è da ritenere che la sua popolarità nel paese fosse in declino. Ma, ancora una volta, tutto dipendeva dalla capacità di Mussolini di presentare al suo pubblico uno di quei successi, poco importa se reali od effimeri, capaci di mantenere lucente l'immagine del regime.
L'aggressione della Germania alla Polonia, il 1° settembre 1939, e il successivo allargarsi di quel conflitto che chiamiamo seconda guerra mondiale, non determinarono un automatico intervento dell'Italia. Al contrario, malgrado l'alleanza da poco contratta, per molti mesi fu possibile credere che Mussolini preferisse mantenere una posizione neutrale. Tale scelta, del resto, avrebbe corrisposto non solo all'ormai predominante sentimento pubblico, ma a una prova di saggezza: esposta su molti fronti, data la propria posizione geografica e la dislocazione delle proprie colonie, logorata dalle guerre tanto di recente combattute, assai povera di materie prime, l'Italia tra il 1939 e il 1940 aveva una preparazione militare del tutto inadeguata all'impegno richiesto dal conflitto in corso. Naturalmente, la neutralità era contraria al carattere stesso di Mussolini. Inoltre, un regime la cui immagine aveva fatto tanto largo posto alle virtù militari, nel quale uno dei fini primari dell'educazione era stato quello di fare di ogni giovane un potenziale soldato, difficilmente poteva sottrarsi ad entrare in campo. La decisione di intervenire fu affrettata dal rapido susseguirsi delle vittorie tedesche e dall'improvviso tracollo della Francia. Di fronte alla possibilità che l'Italia fascista non avesse titolo per assidersi al 'banchetto del vincitore' e quindi si ritrovasse a mani vuote, il 10 giugno 1940 Mussolini rompeva gli indugi e presentava a Francia e Inghilterra la dichiarazione di guerra.
Si iniziava così un'avventura, nella quale l'Italia si poneva ormai a rimorchio della iniziativa tedesca e Mussolini vedeva il suo ruolo di Duce sempre più relegato in secondo piano, all'ombra del Führer germanico. Troppa, infatti, tra le due potenze alleate, era la disparità nella quantità e nella qualità dei mezzi bellici, nelle risorse produttive, e anche nella perizia dei comandanti. Si aggiunga che, alleandosi alla Germania di Hitler, Mussolini aveva accettato di condividere fini di guerra che né gli erano noti, né corrispondevano agli affermati interessi della stessa Italia fascista. In realtà, di tappa in tappa e attraverso imprese azzardate e clamorosi insuccessi, sul duro terreno del confronto militare l'Italia fascista mostrò subito tutte le proprie debolezze e quanto in quel regime le parole poco corrispondessero ai fatti.
Ciò malgrado, finché la poderosa macchina da guerra tedesca riuscì a macinare successi, anche le falle italiane vennero tamponate. Quando, con il progressivo allargarsi del conflitto, neanche le forze tedesche furono più sufficienti per assicurare la vittoria, l'Italia fu la prima a cedere. A partire dai primi mesi del 1943 le sconfitte, in Russia, in Africa, si succedettero con ritmi crescenti, mentre le città italiane erano sempre più esposte ai bombardamenti alleati. Perduto in Africa l'ultimo lembo di terra, nel luglio 1943 gli Alleati sbarcavano in Sicilia. Pochi giorni dopo, il 25 luglio, in una drammatica seduta del Gran Consiglio del Fascismo e di concerto con il re, Mussolini veniva deposto e successivamente messo agli arresti. Al suo posto, come capo del governo, subentrava il maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Nelle piazze delle città italiane, quelle stesse che sino a poco tempo prima avevano accolto folle di cittadini plaudenti ad ascoltare la parola del Duce, quella notizia veniva ora accolta con giubilo e la gente si scagliava contro ogni visibile segno del fascismo. Era la fine del regime fascista.
La storia del fascismo, tuttavia, ebbe un più drammatico epilogo. Dall'ottobre 1922 al luglio 1943, essa si identifica con la storia d'Italia e, più precisamente, con la storia del Regno d'Italia, nato nel 1861. Si potrà dire che il fascismo non ne era un erede legittimo, si potrà credere che l'eredità risorgimentale più autentica continuasse a vivere tra alcuni pochi uomini che, esuli all'estero o stranieri in patria (e per lo più in prigione), contro il fascismo avevano preso aperta posizione. Ma, sul piano dei fatti, a livello istituzionale, tra prima e dopo l'ottobre 1922 non c'è soluzione di continuità, come mostra la permanenza a capo dello Stato dello stesso sovrano. Anche le più rilevanti decisioni che avevano legato il destino dell'Italia a quello della Germania, e le leggi più infami che ne erano conseguite (come quelle razziali), avevano sempre ricevuto il debito assenso del re. A partire dal 25 luglio 1943 questo sodalizio viene sciolto e l'Italia ufficiale pretende di poter continuare la sua strada libera dall'ingombro fascista. Non era una cosa semplice, sia perché troppe erano le comuni responsabilità e le passate complicità, sia perché rimaneva sempre in vita l'alleanza con la Germania, anche se ormai priva del sostegno ideologico.
La decisione del re e del maresciallo Badoglio di rompere unilateralmente questa alleanza e passare all'altra sponda, annunciata agli Italiani l'8 settembre 1943, creava una situazione drammatica e del tutto nuova, nella quale accanto alla guerra sui fronti si apriva una guerra civile. Il teatro di questa guerra civile fu quella parte del territorio nazionale che rimaneva ancora in mano all'esercito tedesco e che solo gradualmente (dal settembre 1943 all'aprile 1945) verrà occupata dagli eserciti alleati. In questa parte del paese, che sino al giugno 1944 comprese la stessa Roma e dall'estate di quello stesso anno si ridusse ai soli territori posti a nord della cosiddetta linea gotica, fu rimesso in piedi un governo (la Repubblica Sociale Italiana, più nota come Repubblica di Salò), retto ancora da Mussolini, che i Tedeschi erano riusciti a liberare. Fu ricostituito anche un Partito Fascista che assumeva il titolo di 'repubblicano'. Contro questo nuovo governo e contro i Tedeschi che lo sostenevano, si organizzò in questi territori una resistenza armata, che solo in parte si ricollegava a una precedente e mai del tutto estinta opposizione al fascismo, e che alimentò appunto la guerra civile. Volgendo la guerra al suo termine con la completa disfatta della Germania, anche questo rinato movimento fascista fu estinto. Alla fine dell'aprile 1945 Mussolini e i principali capi fascisti furono catturati e fucilati. I loro corpi furono portati a Milano ed esposti a piazzale Loreto al pubblico ludibrio.
Si è talvolta detto che in quest'ultima esperienza fascista si sarebbero ritrovati fermenti di un genuino fascismo originario, che più tardi il regime avrebbe in buona parte tradito. Ma è ipotesi poco convincente, sia per l'ambiguità di questi pretesi caratteri originari, sia perché i termini del tutto eccezionali della situazione che si crea in Italia dopo l'8 settembre 1943 non consentono di trarre da questa estrema esperienza elementi qualificanti atti a comporre una specifica tipologia fascista.
Un fenomeno tanto direttamente legato a circostanze particolari, tanto strettamente dipendente dall'immaginazione e dall'iniziativa di un uomo, e che traeva gran parte della sua forza dal riuscire a presentarsi come l'interprete della tradizione nazionale, non sembrava potersi facilmente trapiantare su terreni diversi da quello italiano dove era nato. Tuttavia, il fascismo possedette anche caratteri in grado di suggerire forme di imitazione, sia come movimento che come regime. Come movimento esso fornì il modello di un partito armato, uno dei cui compiti essenziali era quello di opporsi al bolscevismo nel nome dei valori nazionali, il cui apparato seguiva nuovi esempi di coreografia politica, capaci di esercitare una grande suggestione. Come regime, sul piano politico esso aveva rivalutato il cesarismo e con esso la figura del capo carismatico, guida dell'intero popolo, in opposizione ai tradizionali sistemi rappresentativi; sul piano economico, con la formula dello Stato corporativo, esso aveva preteso di risolvere le contraddizioni del capitalismo senza cadere negli estremi del collettivismo. Perciò la lezione fascista poté fare la sua strada anche fuori d'Italia. Si giunse addirittura, ma si trattò di una velleitaria operazione propagandistica, a tentare la formazione di una Internazionale fascista, che tenne un congresso a Montreux nel 1934. Esaminando le particolari esperienze di un fascismo fuori d'Italia, si dovrà comunque distinguere fra quelle situazioni in cui, senza l'intervento esterno, si ebbero regimi dittatoriali, e le altre situazioni in cui le tracce di fascismo si trovano soltanto sotto forma di movimento.
Il caso della Germania è quello che più comunemente, e per ragioni evidenti, viene considerato nel quadro di una tipologia fascista. Che molti dei caratteri, per lo più esteriori, del movimento nazionalsocialista derivino dall'esempio del fascismo italiano o comunque lo ripetano, è considerazione del tutto ovvia. Ugualmente è pacifico che Adolf Hitler abbia subito il fascino di Mussolini e ne abbia, almeno in parte, seguito le orme, sia nelle forme esteriori impresse al movimento e al regime nazista, sia nello stile di governo. Tuttavia è da ritenersi pienamente accettabile il giudizio (v. De Felice, 1975) volto a sottolineare come, ben oltre le apparenti analogie, esistessero tra fascismo italiano e nazismo tedesco diversità talmente profonde, di metodo e di sostanza, da rendere ogni equiparazione improponibile. Del resto, le radicali differenze nel modo come, in Italia e in Germania, si era raggiunta l'unificazione nazionale, e il fatto che a quelle tanto diverse tradizioni sia il fascismo che il nazismo insistentemente si richiamassero, sono ragioni sufficienti per mettere in guardia contro affrettate generalizzazioni.
La tesi di un 'fascismo mediterraneo' (Charles F. Delzell), che includerebbe accanto all'Italia i due Stati della penisola iberica, non è convincente. Sia il Portogallo che la Spagna, intanto, nel periodo di vita del fascismo, continuano a vivere ai margini dell'Europa, ritardando sul piano sociale la trasformazione da società rurali a società industriali e, sul piano politico, l'adozione di istituzioni liberaldemocratiche (la Spagna rimase anche del tutto estranea alla prima guerra mondiale). Nel caso del Portogallo, la dittatura militare che prese il potere nel maggio 1926 nulla aveva a che vedere con il fascismo di Mussolini. Anche le successive esperienze che nel 1932 consentirono ad Antonio de Oliveira Salazar di diventare capo del governo, in una posizione in qualche modo analoga a quella di Mussolini (il capo dello Stato rimaneva il presidente della Repubblica, generale Antonio Oscar de Fragoso Carmona), si svolgeranno in un contesto particolare, il quale rende assai dubbia la proprietà del termine 'fascista' per la dittatura fondata da Salazar. Infatti, anche se sono presenti alcune analogie, per lo più comuni a ogni dittatura, il partito di Salazar (União Nacional, fondata nel luglio 1930) ben poco aveva a che vedere con il movimento fascista, e la sua stessa idea di Stato corporativo derivava assai più dall'esperienza del pensiero sociale cattolico che non dall'esempio del regime di Mussolini.
Anche l'esperienza della Spagna rimane assai più in linea con i modelli tradizionali delle dittature militari che con la nuova esperienza fascista. Prima della guerra civile, di un vero e proprio movimento fascista spagnolo non si può parlare. La Falange, fondata nell'ottobre 1933 da José Antonio Primo de Rivera (il figlio del generale Miguel Primo de Rivera, che dal 1923 al 1930 era stato il capo di una dittatura militare), del fascismo riprendeva solo alcuni generici spunti programmatici. Soprattutto, la Falange non riuscì a ottenere consenso sufficiente da permetterle di avere un ruolo effettivo nella guerra civile, quando questa incominciò nel luglio 1936; e ciò non soltanto per l'uccisione dello stesso Primo de Rivera, il 20 novembre 1936, ma per la debolezza del movimento. Dopo di allora la Falange fu di fatto assorbita dai militari, che se ne servirono specialmente in funzione propagandistica, cioè per accreditare una corrispondenza tra il loro operato e l'esperienza fascista. Di fatto, anche rispetto alla dittatura del generale Franco, che seguì la fine della guerra civile (aprile 1939), il ruolo della Falange rimase marginale. E di per sé, malgrado alcuni tratti esteriori come il fatto che Franco si sia voluto presentare come duce, il Caudillo, la dittatura franchista rimase un'esperienza profondamente legata alle tradizioni della Spagna e influenzata dalla Chiesa cattolica, sicché essa rappresenta un caso di fascismo molto sui generis.
Il caso della Francia è assai interessante e anche particolarmente controverso. Nel fascismo francese, infatti, accanto a quelli italiano e tedesco, si è voluto vedere l'esempio di un fascismo classico (Ernst Nolte, Zeev Sternhell), nel quale, anzi, si ritroverebbero le più lontane e autentiche origini dell'intero fenomeno. La tesi è suggestiva, ma confonde cose diverse. Sommariamente i fatti sono i seguenti. Un regime fascista in Francia non è mai esistito, perché l'esperienza di Vichy, per il fatto stesso di essere conseguente alla sconfitta militare e all'occupazione tedesca, non può in senso proprio definirsi tale. Tuttavia, dopo il giugno 1940 e all'ombra del governo di Vichy, emergono fenomeni particolari che siamo soliti ritenere tipici del fascismo: così l'antisemitismo e le persecuzioni contro gli Ebrei, che precedettero ogni iniziativa germanica e ne furono indipendenti. Ugualmente è un fatto che nel periodo tra le due guerre, e con particolare intensità dopo il 1934, la Francia conobbe un certo numero di movimenti politici i quali, sia per l'esplicito richiamo al fascismo degli uomini che li guidarono, sia per le forme di organizzazione e di azione che assunsero, e anche per gli obiettivi politici che si posero, possono ritenersi movimenti fascisti. Tali a esempio, la Croix de Feu, del colonnello conte Casimir de la Rocque; i Francistes, di Marcel Bucard; la Solidarité Française, di François Coty; e, soprattutto, il Parti Populaire Français, di Jacques Doriot; il Comité Secret d'Action Révolutionnaire (CSAR o Cagoulard), di Eugène Delonde; e il gruppo di neosocialisti di Marcel Déat, il quale fonderà nel 1941 il Rassemblement National Populaire. È ancora un fatto che lungo tutto il corso del XIX secolo, e più specialmente dopo il 1870, la Francia conosce una tradizione politica di forte resistenza ai portati del 1789 e, più tardi, di violenta opposizione alla Terza Repubblica. All'interno di questa opposizione, già tra la fine del secolo e la guerra, maturano sia un acceso antisemitismo, sia forme di radicalismo eversivo, che assumono per lo più veste nazionalista. Il caso più noto è quello dell'Action Française, fondata da Charles Maurras nel 1899.L'insieme di queste forme di resistenza, e cioè di reazione, costituiscono un fenomeno di grande importanza, il quale investe tutta la tradizione politica europea. Tuttavia, definire questo fenomeno come una forma di fascismo significa dilatare il termine fascista al punto da smarrirne ogni specificità. Così facendo si finisce per ignorare la storia effettiva del fascismo, il suo luogo di nascita, il ruolo determinante che su di esso ebbe l'esperienza della guerra, e il fatto che, con l'eccezione della parte comunque marginale che vi possa aver avuto Georges Sorel, nessuna influenza diretta vi ebbe l'esperienza politica della Francia. Perciò sembra ragionevole riconoscere quali forme di un fascismo francese solo quei movimenti e quegli uomini che all'esperienza fascista effettivamente si richiamarono e che da essa trassero suggestioni documentabili; senza peraltro dimenticare che in Francia era già ben presente, e da lunga data, un vasto retroterra di radicata tradizione antiliberale, del tutto distinta dal fascismo.
L'esperienza fascista in Inghilterra è legata ad una persona, sir Oswald Mosley. Già laburista e membro del governo, Mosley aveva ritenuto insufficienti sia sul piano dei fatti che delle idee le misure prese per fronteggiare la crescente disoccupazione, perciò nel 1931 aveva lasciato il Partito Laburista per dare vita ad un nuovo gruppo, il New Party. Dopo un viaggio in Italia nel 1932, Mosley ritenne che il regime di Mussolini offrisse la risposta migliore alle questioni sociali più urgenti. Perciò, al suo ritorno, egli fondò la British Union of Fascists (BUF), un movimento che adottava gli emblemi e le uniformi dei Fasci. Il successo fu scarso, e le simpatie che Mosley aveva raccolto tanto più declinarono quando, dopo il 1934, egli parve accostarsi al regime di Hitler. Nel 1936 una legge (Public order act) vietava l'uso politico delle uniformi e consentiva alla polizia di impedire cortei e manifestazioni di piazza, ponendo di fatto fine alle pubbliche dimostrazioni del BUF. Nel 1940, dopo l'inizio della guerra, Mosley fu internato, ma a quella data nulla più rimaneva del suo movimento.
In Belgio la presenza di due gruppi etnici, rispettivamente di lingua francese e di lingua fiamminga, produceva risentimenti nazionalistici e tensioni, che vennero accentuandosi a partire dalla guerra. L'ostilità dei Fiamminghi nei confronti del gruppo rivale culturalmente egemone, i Valloni, portò alla formazione di alcuni gruppi politici, dai quali emerse nel 1921 Joris Van Severen, che assunse per un certo tempo la leadership dei nazionalisti fiamminghi. Suggestionato dagli esempi sia di Maurras che di Mussolini, nel 1929 Van Severen fondò una milizia di tipo fascista, e nel 1931 dette vita al Verbond van Dietsche Nationaal-Solidaristen (VERDINASO), che si proponeva l'unione politica con l'Olanda nel quadro di un governo di tipo fascista. Ma su questo stesso terreno Van Severen trovò presto dei concorrenti, che lo superarono per estremismo. Nell'ottobre 1933 il deputato Staf de Clecq fondava infatti la Vlaamsch Nationaal Verbond (VNV), un gruppo che si proponeva un'organizzazione di tipo fascista, ma che guardava più all'esempio tedesco che a quello italiano. I due movimenti procedettero paralleli e raccolsero un certo seguito. Ma mentre Van Severen venne prendendo le distanze dal regime di Hitler e dal suo antisemitismo, la VNV rimase filonazista sino e durante la guerra.Anche le regioni di lingua francese produssero in Belgio un movimento che presenta analogie con quelli fascisti. Esso si raccolse sotto la guida di un leader, Léon Degrelle, ugualmente sensibile agli esempi del nazionalismo francese e del fascismo italiano. Profondamente cattolico, nel 1931 Degrelle fondò un movimento che si richiamava a Christus Rex e si chiamò perciò rexismo. Nel 1936 egli pubblicò un programma assai critico sia nei confronti dei regimi parlamentari che del sistema capitalistico. Forte di consensi nel mondo cattolico, il movimento di Degrelle conobbe un certo successo alle elezioni del 1936, ma declinò rapidamente negli anni seguenti, anche per le crescenti simpatie manifestate da Degrelle nei confronti della Germania hitleriana. Alla vigilia della guerra il rexismo era virtualmente finito.
Il movimento rumeno che si suole considerare fascista fu la creazione di un singolare personaggio, Corneliu Zelia Codreanu, in cui si mescolavano passioni politiche e fanatismo religioso. La base del movimento, che si articolò successivamente in altre forme di organizzazione, fu la Guardia di ferro, un gruppo nato nel 1920 tra gli studenti e che divenne ben presto una formazione armata, dedita al terrorismo e all'assassinio politico. Nel 1927 Codreanu fondava la Confraternita della Croce, che avrebbe dovuto essere una sorta di corpo mistico della Guardia di ferro, e contemporaneamente la Legione dell'Arcangelo Michele. Nessuno di questi gruppi aveva un vero programma politico, se non il forte antisemitismo e l'odio per i regimi rappresentativi. Negli anni trenta la Guardia di ferro venne affermandosi come una delle più importanti forze politiche della Romania, ma i rapporti con il governo di re Carol non furono mai buoni. Nel 1933 la Guardia di ferro fu dichiarata fuori legge e sciolta; come risposta, tre studenti uccisero il primo ministro Ion G. Duca. Più tardi il movimento si riprese, ma accentuandosi il carattere dittatoriale della monarchia, lo stesso Codreanu decideva nel 1938 di sciogliere la Guardia di ferro. Ciò non bastò a evitare il suo arresto, insieme a molti dei suoi seguaci, la sua condanna in un pubblico processo e infine, con il pretesto di un tentativo di fuga, la sua uccisione. La morte del suo fondatore non significò la fine della Guardia di ferro, che continuò clandestinamente a seminare violenze. Dopo lo scoppio della guerra e specialmente dopo l'abbandono della scena politica da parte di re Carol (settembre 1940) e l'arrivo al suo posto del generale Ion Antonescu, che della Guardia di ferro era sempre stato un ammiratore, questa riapparve al fianco dei tedeschi. Tuttavia neppure Antonescu poté convivere con questo movimento, che dopo avere occupato importanti posizioni di governo voleva avere completa mano libera per sfogare il proprio fanatismo. Gli arbitri della partita erano ormai i tedeschi. Certo del loro appoggio, nel febbraio 1941 Antonescu sconfiggeva sul campo la Guardia di ferro e ne scioglieva tutte le organizzazioni.
Alla fine della guerra la situazione ungherese era assai particolare. Dissoltosi l'Impero asburgico, di cui essa era stata parte, l'Ungheria conobbe nel giro di un anno un breve esperimento di governo democratico (Mihály Károlyi), seguito da un ancor più breve esperimento bolscevico (Béla Kun), condotto con metodi terroristici. Al tempo stesso, l'Ungheria era pesantemente penalizzata al tavolo della pace, dove il suo territorio e la sua popolazione venivano drasticamente ridotti soprattutto a vantaggio di Romania e Cecoslovacchia. Queste traumatiche esperienze produssero i seguenti risultati: un profondo risentimento nazionalista e il desiderio di riacquistare comunque i territori perduti; sfiducia e sospetto per le potenze vincitrici, soprattutto per la Francia, e per i regimi politici di cui offrivano esempio; un radicale anticomunismo e una conseguente intolleranza verso ogni programma politico che apparisse di sinistra; inoltre, poiché Kun e gli altri capi comunisti erano ebrei, un assai accentuato antisemitismo. In questo contesto furono poste le basi di un vasto movimento di reazione, che spesso si richiamò agli esempi del fascismo italiano, come più tardi del nazismo tedesco, ma che fu sempre caratterizzato da una grande frammentazione e che non riuscì mai a diventare forza di governo.
Inizialmente la base della reazione fu l'esercito, al cui interno sin dal 1919 si costituirono gruppi e unità speciali, che dettero vita a un vero e proprio terrore bianco. A partire dal 1920, quando con la sua nomina a reggente l'ammiraglio Miklós Horthy divenne capo dello Stato e di fatto il gerente di una forma di dittatura militare, il rappresentante di queste forze fu il capitano Gjula Gömbös, che sostenuto dai militari divenne prima ministro della Difesa e poi capo del governo. In tale veste egli introdusse alcune note esteriori di un regime fascista. Dopo la sua morte (1936), all'interno di questo variegato movimento guadagnò terreno il gruppo delle cosiddette Croci frecciate, guidato da Ferenc Szálasi. Il programma delle Croci frecciate, oltre a ripetere i tradizionali motivi propri a tutti gli altri gruppi, faceva anche posto ad alcune rivendicazioni sociali, mutuate dall'esempio del corporativismo fascista. Lo sviluppo di questo movimento, che raccoglieva consensi anche in ambienti operai, allarmò il governo. Nel 1938 Szálasi fu arrestato e dopo un sommario processo condannato. Tuttavia, nelle elezioni del 1939 le Croci frecciate ottennero un notevole successo. Il movimento continuò a vivere anche dopo lo scoppio della guerra, che anzi favorì la liberazione di Szálasi (settembre 1940). Verso la fine della guerra e dopo che i tedeschi avevano occupato l'Ungheria ponendo fine al regime di Horthy, Szálasi e le sue Croci frecciate conobbero un effimero successo occupando posizioni di governo.Altri movimenti di tipo fascista sorsero in vari paesi europei: così la Heimwehr in Austria, il movimento Lapua in Finlandia, il Nasjonal Samling in Norvegia. Essi furono legati a circostanze locali e non presentarono note di particolare originalità.
Di per sé le interpretazioni del fascismo sono ipotesi per riportare l'insieme del fenomeno, in tutti i suoi aspetti, a un comun denominatore, tale da consentirne una lettura unitaria. D'altra parte, è facile riconoscere che le diverse forme di fascismo nacquero sul particolare terreno dei contesti nazionali e da situazioni assai diverse. Trascurare queste specificità significherebbe cadere in superficiali generalizzazioni. Ma non si deve neppure indulgere nell'eccesso opposto. "Non accettare la tesi di un unico fascismo - ha scritto Renzo De Felice (v., 1993³, p. 21) - non può voler dire negare l'esistenza di un minimo comun denominatore tra alcuni fascismi negli anni tra le due guerre. Il vero problema è quello di non restringere o di non dilatare troppo questo minimo comun denominatore".
Le prime interpretazioni sorsero, come è naturale, sulla base dell'esperienza italiana. Furono i contemporanei che, di fronte all'emergere del fenomeno e poi ai suoi sviluppi, cercarono di darne una chiave di lettura. La maggiore difficoltà stava nel fatto che la novità stessa del fascismo e la sua mancanza di precisi riferimenti dottrinari rendevano ogni giudizio e ogni previsione aleatori. Ciò nonostante, sin dal 1923 uno di questi primi interpreti, Luigi Salvatorelli (Nazionalfascismo, Torino, Gobetti), colse con grande intelligenza uno dei tratti più tipici e permanenti del fascismo, e cioè il suo stretto rapporto col nazionalismo. Dopo di allora le interpretazioni italiane del fascismo si sono per lo più orientate in tre direzioni: quella del fascismo come 'rivelazione', quella del fascismo come 'parentesi', quella del fascismo come 'reazione di classe'. La prima di queste tesi (Piero Gobetti, Giustino Fortunato) sottolinea lo stretto rapporto tra il fenomeno fascista e alcune particolari deficienze già presenti nel precedente corso della storia d'Italia; la seconda tesi (Benedetto Croce) considera invece il fenomeno come dovuto a contingenze particolari e irripetibili, perciò la sua natura estranea alla tradizione nazionale; la terza tesi (Antonio Gramsci) vede nel fascismo uno strumento della lotta di classe della borghesia capitalistica.
Queste tre interpretazioni, avanzate poco dopo che il fascismo aveva conquistato il potere, furono in più modi riprese dopo la sua caduta. Oggi, dopo alcuni decenni di rinnovati studi, nessuno sosterrebbe più la tesi della parentesi. Anche la tesi della reazione di classe, malgrado essa abbia improntato un largo numero di studi ispirati da particolari ideologie politiche, non sembra trovar più molto credito. La tesi del fascismo come rivelazione, invece, in quanto invito a considerare le interne ragioni di debolezza dello Stato liberale italiano e ad approfondire il rapporto tra storia d'Italia e fascismo, appare come l'indicazione più feconda.
Per avere proposte interpretative riguardanti l'insieme del fenomeno fascista, bisognerà attendere l'avvento del nazismo in Germania. Dopo di allora furono avanzate numerose tesi il cui fine era quello di indicare quanto vi fosse di comune tra l'esperienza italiana, quella tedesca e altre esperienze di tipo fascista che venivano via via maturando. Il terreno preferito di queste interpretazioni fu quello sociologico, nel cui ambito il fascismo fu visto soprattutto in rapporto allo sviluppo della società di massa e come reazione dei ceti medi all'emergere di un quarto stato (ad esempio Talcott Parsons, Erich Fromm, ecc.). Il limite maggiore di queste tesi, come del resto di altre più recenti ma sempre in questa chiave, è quello di elaborare teorie sulla base di una troppo scarsa e troppo superficiale conoscenza dei fatti. Ciò è specialmente vero per quello che riguarda l'esperienza italiana di cui spesso, anche per deficienze linguistiche, molti di questi studiosi sanno ben poco.
Dopo la fine della guerra le tesi interpretative generali che sono state proposte e che, per il loro valore, meritano di essere segnalate, si riducono a tre. La prima è quella del fascismo come forma particolare di un fenomeno più vasto, il totalitarismo (Hannah Arendt). La seconda tesi è quella che vede nel fascismo un fenomeno transpolitico, cioè il frutto di una crisi della coscienza europea che è in primo luogo crisi morale e religiosa (Ernst Nolte, Augusto Del Noce). La terza tesi indica nel fascismo la traduzione letterale di una dottrina politica reazionaria, che si sarebbe sviluppata soprattutto in Francia tra il 1870 e il 1914 (Zeev Sternhell). Ciascuna di queste interpretazioni offre interessanti spunti di riflessione. In particolare, la prima tesi coglie alcuni caratteri generali del nostro tempo e alcune significative analogie tra regimi politici, quello comunista e quello fascista, apparentemente antitetici, consentendo con ciò di spostare l'attenzione sul più generale sfondo della storia europea. Anche la seconda tesi presenta elementi di grande suggestione e rimanda a questioni che riguardano la natura del contesto entro il quale il fenomeno fascista si colloca. Tuttavia questi tipi di lettura del fascismo rischiano di introdurre schemi i quali sarebbero di per sé applicabili anche là dove il fascismo ha lasciato ben scarsi segni. Il rischio, insomma, è quello di non tenere sufficiente conto del concreto andamento dei fatti e delle condizioni particolari che hanno consentito al fascismo di emergere, cioè di non tenere sufficiente conto della sua effettiva storia. Questo limite è particolarmente evidente nella terza tesi, la quale stabilisce rapporti del tutto plausibili sul piano logico, ma che non trovano poi riscontro sul piano storico.
Complessivamente, la lezione che da questo insieme di studi si può trarre è che il fascismo ha rappresentato una particolare forma di reazione a quelle trasformazioni, morali, politiche e sociali, che hanno investito l'Europa e che sono il portato di una profonda rivoluzione, per la quale il termine più appropriato sembra quello di 'liberale'. Il fine generale di questa reazione è stato quello di ostacolare queste trasformazioni o quantomeno, quando esse si dimostravano inevitabili, reciderne le radici che affondavano pur sempre in una cultura illuministica. Ma questa reazione, indipendentemente da ogni precedente proposito, fu resa possibile solo dalle particolari condizioni successive alla guerra, dalla quale perciò strettamente dipende. Al tempo stesso, uno dei più significativi caratteri di questa reazione è stato quello di sapersi sottrarre al vaglio dello spirito critico, sfruttando con un uso accorto delle grandi parole l'emotività dei singoli e delle masse. In tal modo il fascismo è riuscito a imporsi con una sapiente opera di propaganda, dando di sé una rappresentazione immaginaria. Le ragioni di questo successo rimangono ancora in gran parte da chiarire.
Vi sono nella storia del fascismo alcune questioni generali, che meritano particolare attenzione per la loro rilevanza e per le discussioni che hanno sollevato.
A lungo la crisi italiana e poi europea, che ha aperto la strada al fascismo, è stata vista come la conseguenza diretta della guerra. Tuttavia più di recente si è sottolineato il fatto che, negli anni successivi al 1918, sia in Italia che in Germania arrivano al pettine nodi di problemi le cui radici affondano più indietro nel tempo. Una più piena comprensione delle circostanze nelle quali le istituzioni liberali fecero fallimento e maturò il fascismo, richiede perciò che si risalga ben oltre la guerra, alla quale non si possono attribuire effetti che hanno cause ben più antiche. Questa nuova prospettiva non dovrà d'altra parte mettere in ombra due importanti aspetti della storia del fascismo, che rimangono incontrovertibili. Il primo riguarda il già ricordato stato d'animo dei fascisti, il quale dipende interamente dalle esperienze della guerra. Il secondo aspetto riguarda lo sconvolgimento che la guerra ha prodotto nella tradizione conservatrice. Sino al 1918 i conservatori potevano ancora riferirsi a una qualche forma di legittimismo, ritrovando nella tradizione la fonte dell'autorità e del potere. Dopo il 1918, cioè dopo la guerra, tale riferimento non è più possibile. Ne deriva che ogni programma conservatore dovrà da ora in poi assumere un carattere radicale. In conclusione, anche se la sola guerra non basta a spiegare come nacque il fascismo, rimane del tutto valida la tesi secondo la quale senza la guerra il fenomeno fascista non è comprensibile.
La questione del rapporto tra il fascismo e la tradizione conservatrice è controversa, anche perché, facendo credito alla pretesa del fascismo di essere stato una rivoluzione e di aver fondato uno Stato popolare, e alla luce di alcuni tratti della biografia mussoliniana, taluni ancora ritengono plausibile l'ipotesi di una concordanza tra il fascismo e la sinistra. L'equivoco sembra aver soprattutto due cause. La prima, il non tener conto del fatto che uno dei tratti più tipici del fascismo è quello di usare le parole come strumenti atti a suscitare emozioni, senza nessun riferimento al loro significato logico. Pertanto nessun credito può essere attribuito, senza un riscontro obiettivo, alle diverse immagini che il fascismo ha saputo dare di sé e che rimangono un puro artifizio retorico. Un esame disincantato del sistema fascista mostra chiaramente come al suo interno i tradizionali ceti detentori di prestigio sociale e di potere economico abbiano trovato ampia protezione. Del resto, la stessa propaganda fascista ha sempre insistito sulla continuità tra i nuovi regimi e le precedenti tradizioni nazionali. La seconda causa consiste nel mancato riconoscimento del fatto che, come già ricordato, con la fine della guerra e la sconfitta di quei regimi che ancora rappresentavano forme di ancien régime, la tradizione conservatrice viene privata della sua stessa base, e quindi condannata a estinguersi o a trasformarsi. La strada della trasformazione era già stata tracciata dal nazionalismo. Proprio attraverso il nazionalismo, in Italia come in Germania, la tradizione conservatrice era confluita nel fascismo. Ciò spiega anche il vasto consenso e l'appoggio politico di cui il fascismo godette da parte delle forze conservatrici.
Una delle più significative differenze tra il fascismo e altri movimenti politici del nostro tempo è che in esso la figura del capo (in Italia il Duce, in Germania il Führer) ha un ruolo determinante. Si tratta di un movimento che nasce per volontà di un uomo e che dalle scelte di quest'uomo, dai suoi pregiudizi e spesso anche dai suoi umori, vede dettato il corso della sua storia. Naturalmente ciò non significa che, per l'attuazione dei suoi propositi, il Duce non dovesse fare i conti con le circostanze ambientali e con la presenza in esse di altre forze, né che, nella costruzione dei suoi progetti immaginari o reali, egli non si servisse del lavoro altrui, cioè di materiali già presenti sulla scena politica come su quella culturale. Ma pur riconosciuti questi limiti anche nella libertà d'azione di Mussolini, e accettata la possibile dipendenza dei motivi ispiratori della sua azione da fonti esterne, rimane il fatto che non vi è discordanza possibile tra il contenuto effettivo del fascismo e la volontà del Duce. Non è quindi un caso che la più articolata e documentata storia del fascismo italiano sia la biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice.Questa identificazione del fascismo con la figura di un uomo pone naturalmente molti problemi. Sarà opportuno segnalarne almeno due. Il primo è che, come già ricordato, in Italia tra Mussolini e il movimento fascista vi è un rapporto di subordinazione, mai di piena identificazione. Il Duce del fascismo è in realtà il Duce di un'Italia fascista che pretende di essere l'Italia tout court. In essa il Partito Fascista, malgrado il suo carattere di massa, è solo una parte. Al tempo stesso, Mussolini è anche capo del Partito Fascista, e questo deve via via aggiornarsi per corrispondere alle esigenze di una politica che Mussolini elabora e impone autonomamente. Mussolini appare quindi l'elemento di raccordo tra il fascismo-movimento e il fascismo-regime, ma i rapporti tra gli elementi di questa triade non sono semplici.
Il secondo problema riguarda il carattere stesso della politica mussoliniana. In essa alcuni studiosi ritengono si possano ritrovare le linee di un disegno, che deriverebbe da un nucleo di idee originarie. Pertanto in Mussolini sarebbero presenti i tratti di una chiara personalità intellettuale e morale, e la sua azione, pur tenendo conto delle circostanze, corrisponderebbe a uno sviluppo coerente del suo pensiero. Altri studiosi, invece, pur non negando affatto che Mussolini avesse un qualche bagaglio culturale e che fosse capace di servirsene per costruire un suo discorso politico e dare sostegno alla sua azione, non ritengono fondata la tesi di un rapporto coerente in Mussolini tra pensiero e azione, per le seguenti ragioni. In primo luogo, perché la qualità del suo pensiero, la sua sostanziale rozzezza, fanno dubitare che Mussolini avesse sufficiente senso critico per una lettura della realtà capace di superare i più volgari pregiudizi. In secondo luogo, perché l'uomo stesso ha sempre affermato di anteporre i fatti alle idee; di quest'ultime ha sempre fatto un uso consapevolmente strumentale, non preoccupandosi mai, come mostrano abbondantemente i suoi scritti, di cadere in palesi contraddizioni, anzi giovandosi di queste contraddizioni, in quanto esse gli consentivano di coltivare un accorto trasformismo e ottenere consenso in direzioni diverse. Della coerenza, insomma, Mussolini si fece sempre beffe. In terzo luogo, la biografia di Mussolini mostra consistentemente l'assenza nell'uomo di quel senso morale, che da un lato è capacità di credere, di avere cioè convinzioni profonde risalenti pur sempre a un sistema di valori; dall'altro, è disposizione a testimoniare coi fatti la serietà delle proprie convinzioni.
È un fatto che, dopo aver conquistato il potere, il fascismo presentò una propria 'dottrina', nella cui elaborazione ebbe gran parte il filosofo Giovanni Gentile. Ugualmente è un fatto che, a sostegno della sua azione e nella complessa operazione volta ad ottenere un sempre più vasto consenso, il fascismo si servì di un'ideologia, cioè di un complesso di espressioni verbali atte a giustificare i fatti. A sua volta questa ideologia riprendeva per la più parte motivi e formule già presenti nella cultura politica prima della guerra. Sulla base di questi dati si sono talora tratte due conseguenze. La prima, che accanto e oltre il sistema di potere fascista sia identificabile una cultura fascista, cioè una dottrina corrispondente ai termini di quel sistema di potere, il quale ne sarebbe stata la coerente applicazione. A sostegno di questa tesi si sono spesso richiamati i nomi di quei molti intellettuali, alcuni di gran rilievo, che effettivamente aderirono al fascismo. La seconda conseguenza, che essendo i tratti di una cosiddetta dottrina fascista già evidenti ben prima della nascita del movimento fascista, esista tra quella dottrina e quel movimento una dipendenza diretta. Il movimento fascista avrebbe perciò avuto un suo ben definito sostegno ideologico e la sua storia segnerebbe un coerente sviluppo dalle idee ai fatti.
Queste due tesi non convincono per le seguenti ragioni. Esse, intanto, non tengono conto della storia del fascismo, dei suoi modi e dei suoi tempi, e non tengono conto che tra quel retroterra culturale e il fascismo c'è la guerra. La presenza di quel retroterra culturale è certamente un dato importante e consente di spiegare, almeno in parte, la facilità con la quale il fascismo ha guadagnato consenso e come esso sia riuscito a darsi post factum una genealogia nobilitante. Ma ciò non significa che essa sia legittima e che possa perciò parlarsi di origini culturali del fascismo, una ipotesi che lo studio dei fatti non conferma. Inoltre, la cosiddetta dottrina del fascismo, di cui esistono più versioni, è un guazzabuglio, una sorta di magazzino dei valori nazionali, dove a seconda delle circostanze e delle necessità si sono riposte le più diverse esperienze, senza alcuna pretesa di conciliarle tra loro, cioè di comporle in un quadro razionale, né di conciliarle coi fatti, cioè con l'azione politica del fascismo. Il contenuto di questo magazzino è di grande interesse, perché da esso trasse le sue armi quel formidabile strumento di potere che fu la propaganda fascista. Ma esso va visto per quello che fu e per la funzione effettiva che svolse nel sistema di potere del fascismo, nel quale la cultura non ebbe il compito di elaborare un modello ideale che servisse da guida all'azione, bensì quello di manipolare l'opinione pubblica in vista del consenso: la cultura fu uno strumento di propaganda. Infine, la constatazione dell'adesione al fascismo di molti intellettuali è un fatto del tutto irrilevante rispetto alla questione dell'identità e del carattere di una cultura fascista. Il rapporto tra la cultura e il fascismo riguarda, infatti, il contributo di pensiero, quale si concretizza in particolari opere, che gli intellettuali hanno potuto dare più o meno intenzionalmente al regime di Mussolini. Su questo piano il bilancio è scarso. Tutt'altra questione quella del rapporto tra il fascismo e le singole persone degli intellettuali, che riguarda non più il pensiero ma il comportamento, cioè non le opere ma l'etica e la biografia.
Di fronte all'emergere del fascismo e alla sua violenza è ben naturale che vi sia stata, sin dalle origini, una opposizione, la quale fu anzitutto costituita da coloro stessi che di quella violenza erano le vittime. Accanto alla storia del fascismo esiste dunque una storia dell'antifascismo. Questa opposizione, tuttavia, fu repressa abbastanza facilmente. A partire dal 1925 essa si ridusse per lo più o a forme di lotta clandestina, che l'efficienza dell'apparato poliziesco rese sempre più sporadiche finendo i più degli oppositori attivi al carcere o al confino; oppure alla emigrazione, sicché la storia dell'antifascismo è in gran parte una storia di fuorusciti. Pochi personaggi, e per lo più figure di elevata posizione sociale o di alta statura intellettuale, primo tra i quali Benedetto Croce, poterono rimanere in Italia e qui continuare in qualche modo la loro opera, evitando il carcere, pur essendo notoriamente antifascisti. Di fatto perciò, durante il corso del regime, il fascismo riuscì a ridurre l'antifascismo su posizioni del tutto marginali e per lo più esterne all'Italia. Le cose cambiano con la guerra e soprattutto con il 25 luglio 1943, quando l'opposizione al fascismo trova, nell'esasperazione degli Italiani di fronte alla disfatta militare e nei nuovi sentimenti antitedeschi, un nuovo terreno di lotta. Gli esiti di questa lotta sono noti. Le questioni controverse sono due.
La prima è quella del rapporto tra la resistenza al fascismo, a partire dall'estate 1943, e il precedente antifascismo degli anni in cui il regime di Mussolini sembrava saldamente affermato. Una certa continuità tra vecchio e nuovo antifascismo è facilmente riscontrabile sia sul piano per così dire istituzionale, cioè delle organizzazioni politiche, dove i partiti che compongono i CLN (Comitati di Liberazione Nazionale) sono i partiti tradizionali (con l'eccezione del nuovo Partito d'Azione); sia sul piano per così dire degli ideali, cioè delle tradizioni politiche a cui il nuovo antifascismo si richiama. Tuttavia, gli uomini del nuovo antifascismo, e tanto più coloro che partecipano alla lotta armata, sono in gran parte uomini nuovi, appartengono a una generazione che si è formata sotto il fascismo, di esso hanno spesso subito le tentazioni, e solo di fronte alla sconfitta militare gli hanno definitivamente voltato le spalle. Perciò, indipendentemente dalla onestà intellettuale e morale dei singoli, questo antifascismo si nutre di esperienze politiche ben diverse da quelle dell'antifascismo precedente.Il secondo problema consiste nel vedere contro quale forma di fascismo il nuovo antifascismo si è effettivamente indirizzato, e perciò che cosa ha significato la vittoria del 1945. La difficoltà nasce dal fatto che con il 25 luglio 1943 il regime fascista era stato messo fuori scena, e il fascismo che si era riproposto dopo l'8 settembre, e contro il quale la Resistenza ha lottato e vinto, corrispondeva assai poco al sistema di potere che aveva governato l'Italia per oltre vent'anni. La sconfitta di quest'ultimo fascismo è cosa certa, quella del fascismo che si era eretto in regime è un po' meno chiara. Se anche, con il referendum del 1946, uno dei pilastri di quel regime, la monarchia, fu effettivamente abbattuto, si ha poi l'impressione che una parte consistente di quelle strutture, e della mentalità che ne consentiva il funzionamento, sia rimasta sostanzialmente integra, malgrado la vittoria dell'antifascismo, ben oltre il 1945.
(V. anche Autoritarismo; Comunismo; Corporativismo/Corporatismo; Corporazione; Demagogia; Dittatura; Nazionalismo; Nazionalsocialismo; Regimi politici; Socialismo; Totalitarismo).
(Esiste un'opera assai ricca e articolata, che segnala contributi pubblicati sino al 1984 - ma in realtà con aggiornamenti sino al 1990 - e alla quale si rimanda: Bibliografia orientativa del fascismo, diretta da Renzo De Felice, Roma 1991. Qui di seguito indichiamo solo alcune opere essenziali o non comprese nel volume succitato).
Aquarone, A., L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965.
Arendt, H., The origins of totalitarianism, New York 1951 (tr. it.: Le origini del totalitarismo, Milano 1967).
Carsten, F. L., The rise of fascism, London 1967 (tr. it.: La genesi del fascismo, Milano 1970).
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di Edda Saccomani
1. Usi e significati del termine
Il termine 'fascismo' ha assunto fin dalla sua comparsa nella pubblicistica politica dei contemporanei significati diversi, riconducibili da un lato alla dinamica di sviluppo interno del fascismo italiano - con la distinzione tra fascismo-movimento e fascismo-regime -, dall'altro al suo processo di internazionalizzazione. Usato per indicare dapprima il movimento dei Fasci di combattimento fondato da Mussolini nel 1919, e quindi il regime da lui instaurato in Italia a partire dal 1925, esso venne successivamente impiegato sia al singolare sia al plurale per designare una gamma più o meno ampia di movimenti o regimi che si riconobbero, o che vennero riconosciuti dai loro avversari, come manifestazioni di un fenomeno sostanzialmente unitario.
In via preliminare si possono distinguere tre significati principali del termine: il primo fa riferimento al fascismo italiano nella sua individualità storica; il secondo è legato alla dimensione internazionale che il fascismo acquistò allorché il nazionalsocialismo si affermò in Germania con caratteristiche ideologiche, modalità organizzative e finalità politiche tali da indurre i contemporanei a stabilire una sostanziale affinità tra il fascismo italiano e quello che venne chiamato il fascismo tedesco; il terzo, infine, estende l'uso del termine a tutti quei movimenti o regimi che condividono con quello che viene chiamato il 'fascismo classico' un certo nucleo di caratteristiche ideologiche e/o di modalità organizzative e/o di finalità politiche.
In quest'ultima accezione il termine 'fascismo' ha acquistato una indeterminatezza tale da renderne assai problematica l'utilizzazione a fini scientifici. È andata pertanto sempre più affermandosi la tendenza a limitarne l'uso al solo fascismo storico, la cui vicenda si svolse in Europa nel periodo compreso tra le due guerre mondiali e le cui manifestazioni più significative furono rappresentate dal fascismo italiano e dal nazionalsocialismo tedesco. D'altra parte, va ricordato che tutti e tre gli usi sopra menzionati sono stati 'legittimati' dal fondatore del fascismo italiano, il quale, con motivazioni e in tempi diversi, ha parlato del fascismo sia nei termini di un prodotto squisitamente nazionale e in quanto tale 'non esportabile', sia nei termini di un movimento avente il suo asse privilegiato nell'alleanza tra Roma e Berlino, sia infine nei termini di una tendenza 'universale'. Non vi è dunque da stupirsi che questa ambiguità o plurivalenza di significati si sia trasmessa alla letteratura sull'argomento.
2. Le teorie sul fascismo
I vari tentativi di spiegazione del fenomeno fascista si sono tradotti in una molteplicità di schemi interpretativi, alcuni dei quali hanno assunto col tempo una loro coerenza interna in relazione alla cumulazione del materiale empirico e alla precisazione dei quadri teorici di riferimento. A questi schemi interpretativi, più o meno elaborati, più o meno empiricamente verificati o verificabili, si fa solitamente riferimento quando si parla di 'teorie' sul fascismo.
Diversi criteri sono stati suggeriti per classificare le teorie sul fascismo - quello politico-ideologico, quello disciplinare, quello cronologico, quello sistematico - ed essi possono essere variamente combinati dando origine a tipologie più o meno complesse. Utilizzando una distinzione usata da E. Nolte in Theorien über den Faschismus (1967), le teorie sul fascismo vengono qui suddivise in due grandi categorie: singolarizzanti e generalizzanti. Semplificando si può dire che rientrano nella prima categoria quelle teorie che, considerando il fascismo come il prodotto di specifiche e irripetibili circostanze storiche, ritengono il termine applicabile correttamente al movimento politico affermatosi in Italia negli anni immediatamente seguenti la prima guerra mondiale e al tipo di regime da esso instaurato dopo la presa del potere, e soltanto impropriamente ad altri movimenti o regimi a esso variamente assimilati. Alla seconda categoria vanno ascritte quelle teorie che considerano il fascismo come un fenomeno sovranazionale, che mostra, pur nell'articolazione e differenziazione delle sue diverse manifestazioni, tratti distintivi tali da giustificare il ricorso a un concetto generale.
3. Il fascismo come fenomeno specificamente italiano
Le prime ipotesi di spiegazione del fascismo come prodotto delle caratteristiche particolari della storia italiana si ebbero negli anni venti, in concomitanza con l'affermazione del movimento fascista, l'ascesa al potere di Mussolini e la rapida trasformazione dello Stato liberale in uno Stato dai connotati totalitari. Le cause immediate della vittoria del fascismo vennero individuate nella forte instabilità sociale, politica ed economica del primo dopoguerra, ma nel tentativo di spiegare la vulnerabilità delle istituzioni liberali e il loro crollo alcuni studiosi si interrogarono sul passato della storia nazionale, nella convinzione che le radici di quella debolezza fossero da ricondurre alla modalità di formazione dello Stato unitario. Da questa riflessione nacque la tesi del fascismo come "rivelazione", avanzata da esponenti dell'antifascismo come G. Fortunato (che usò per primo quell'espressione), P. Gobetti, G. Salvemini, G. A. Borgese, C. Rosselli, G. Dorso, i quali videro nei vizi tradizionali della storia italiana - vale a dire l'arretratezza economica, la mancanza di un'autentica rivoluzione liberale, l'incapacità delle classi dirigenti unita all'arroganza di una piccola borghesia ammalata di retorica, la pratica del trasformismo che aveva impedito l'evoluzione in senso moderno del sistema politico - il terreno di coltura del fascismo, che si poneva così in una linea di continuità rispetto al sistema liberale. Una interpretazione, questa della "rivelazione", che venne nettamente respinta da B. Croce, il quale nella sua Storia d'Italia dal 1871 al 1915 (1928) contrappose il regime liberale al fascismo, indicando nel primo il mondo della libertà e nel secondo il mondo dell'antilibertà e giungendo a considerare infine l'intero periodo fascista come una 'parentesi' tra la fase storica precedente e quella della riconquistata libertà. L'accentuazione del carattere tipicamente italiano e il peso eccessivo dato alla continuità impedirono ai sostenitori della tesi della rivelazione da una parte di cogliere gli elementi di novità del fascismo, sia nelle tecniche di gestione del potere politico, sia nelle modalità di organizzazione del corpo sociale, dall'altra di vedere in esso la manifestazione di una crisi di più ampia portata che avrebbe investito di lì a poco l'Europa con esiti disastrosi.
Fu la comparsa in vari paesi europei di movimenti apertamente richiamantisi al fascismo italiano e, soprattutto, la travolgente vittoria del nazionalsocialismo in Germania a mettere in discussione questo tipo di interpretazione e a spostare il livello dell'analisi da quello nazionale a quello sovranazionale. La consapevolezza di questa nuova dimensione del problema trovò espressione negli studi che al fascismo italiano dedicarono, nella fase di consolidamento del regime e di espansione del fascismo internazionale, autori come I. Silone e A. Tasca, i quali, in polemica con una tendenza a facili generalizzazioni, videro nella ricostruzione storica delle singole esperienze nazionali e nella loro comparazione il solo metodo - notava Tasca in Nascita e avvento del fascismo (1938) - per arrivare a "indicare un certo numero di caratteri comuni suscettibili di essere incorporati in una definizione generale del fascismo". Nell'insieme, però, la lettura del fascismo in chiave tipicamente italiana cedette il passo ad altri schemi interpretativi, che si imposero a partire dagli anni trenta e fornirono il quadro di riferimento teorico e concettuale alla maggior parte delle ricerche anche nel secondo dopoguerra.Il dibattito sulla utilità/legittimità di un concetto generale di fascismo si riaccese verso la metà degli anni sessanta in un clima caratterizzato dall'attenuarsi delle contrapposizioni ideologiche e più favorevole a un riesame critico dell'intera questione. Un impulso importante venne dalla ricerca di G. Mosse su The crisis of German ideology (1964), che rivalutando il peso di fattori profondamente radicati nella storia tedesca per spiegare aspetti non marginali del regime nazista, in primo luogo quello del consenso, ripropose di fatto il problema delle analogie e delle differenze tra nazionalsocialismo e fascismo italiano.
Tra i più autorevoli sostenitori della unicità e irriducibilità delle due esperienze, e della impossibilità di diluirne la specificità nell'ambito di un generale concetto di fascismo, possiamo citare K. D. Bracher, il quale, assumendo nella sua ormai classica ricerca sulla dittatura tedesca il "radicale antisemitismo biologico" a idea centrale del nazionalsocialismo (Die deutsche Diktatur, 1969), sottolineò il carattere abnorme del dominio nazista rispetto a ogni altra manifestazione di moderno autoritarismo, respinse ogni spiegazione deterministica "per l'affermazione dei movimenti autoritari di massa e per la capitolazione della libertà individuale di fronte allo Stato" e sostenne la piena responsabilità del popolo tedesco nell'ascesa di Hitler al potere. Su analoghe posizioni di diffidenza verso l'uso di concetti generali nella ricerca storica e di sfiducia verso modelli teorici elaborati dalle scienze sociali si colloca la corrente storiografica che fa capo a R. De Felice, la cui intensa attività di ricerca sul fascismo-movimento e sul fascismo-regime approda a risultati simili a quelli di Bracher, almeno per quanto riguarda la radicale diversità tra fascismo italiano e nazionalsocialismo e il rifiuto di una teoria generale in nome della specificità delle singole esperienze nazionali. Punto qualificante dell'interpretazione defeliciana è il modo in cui viene affrontato il rapporto continuità/rottura del fascismo rispetto al regime liberale, che discende da una duplice scelta insieme teorica e metodologica: la prima consiste nel peso dato alla dimensione politico-ideologica, soggettiva, progettuale, come elemento cruciale per l'individuazione della specificità del fascismo italiano; la seconda nel rilievo dato alla distinzione tra fascismo-movimento e fascismo-regime.
È infatti da un'analisi del primo fascismo in termini di radicalismo rivoluzionario, contrapposto al tradizionalismo reazionario di destra e razzista del nazionalsocialismo, che De Felice costruisce la sua tesi del fascismo-movimento come fenomeno di rottura rispetto al passato. Esso sarebbe stato l'espressione dell'aspirazione del ceto medio emergente a un ruolo politico autonomo nei confronti sia della vecchia classe dirigente sia del proletariato. In questo senso il fascismo-movimento avrebbe costituito una proposta di modernizzazione della società italiana contro il vecchio assetto sociale, avente una sua specifica carica rivoluzionaria. Diverso il discorso sul fascismo-regime. Questo avrebbe perso nella fase di stabilizzazione del potere, resa possibile dal compromesso fra l'ala moderata del movimento e le vecchie classi dirigenti, la spinta innovatrice del movimento delle origini, ma non al punto da diventare lo strumento puro e semplice della reazione. Il regime fascista, infatti, anche grazie al consenso di cui beneficiò fino alla vigilia dell'entrata in guerra, avviò un processo di ricambio delle élites dirigenti e di rinnovamento delle strutture economiche e sociali, interrotto dalla caduta del regime come conseguenza delle vicende belliche.
4. Il fascismo come fenomeno sovranazionale
L'idea che il fascismo italiano fosse da considerare come l'anticipazione di un fenomeno più generale, avente le sue radici in un complesso di fattori che andavano oltre la specificità delle singole realtà nazionali, si affermò in concomitanza con la vittoria del nazionalsocialismo in Germania e la diffusione in quasi tutti i maggiori paesi europei di movimenti fascisti o parafascisti. A partire dagli anni trenta vennero a delinearsi alcuni schemi esplicativi generali che, suggerendo ipotesi di lavoro e direzioni di indagine, hanno contribuito in maniera determinante a orientare la ricerca degli storici e degli scienziati sociali. Ci soffermeremo su questi, tralasciandone altri che, pur rappresentando un capitolo importante della storia delle idee del nostro secolo, si collocano sul terreno filosofico, sfuggendo a ogni possibilità di verifica empirica.
Per quegli autori che hanno come paradigma di riferimento il marxismo e la sua concezione del mutamento storico, il fascismo nasce sul terreno delle contraddizioni della società capitalistica nello stadio dell'imperialismo; perciò per spiegare l'origine, la natura e la funzione dei movimenti e dei regimi fascisti è necessario partire dall'analisi di tali contraddizioni e delle modificazioni che esse introducono nella dinamica dei rapporti di classe. Esistono diverse versioni di questa concezione: da un lato la versione comunista 'ortodossa', imposta centralisticamente dalla Terza Internazionale a tutti i partiti comunisti, dall'altro i contributi venuti dalle componenti comuniste 'eterodosse' e socialdemocratiche del marxismo europeo e infine le ricerche storiche e sociologiche ispirate alla metodologia marxista. Nella prima versione, in un certo senso codificata nel Rapporto di Georgij Dimitrov al VII Congresso dell'Internazionale comunista (1935), il fascismo veniva definito come "la dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinistici e più imperialistici del capitale finanziario" e posto in relazione con la crisi finale del capitalismo entrato nello stadio dell'imperialismo.
Assumendo quale caratteristica propria di questo stadio la crescente contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, che si manifestava da una parte in una serie di trasformazioni interne al modo di produzione capitalistico - concentrazione industriale e formazione dei monopoli, predominio del capitale finanziario, modificazione del ruolo dello Stato - e dall'altra nell'aggravarsi delle crisi economiche per effetto della concorrenza internazionale e della lotta di classe, il fascismo veniva interpretato come il tentativo estremo da parte della borghesia di ricostituire i propri margini di profitto intensificando lo sfruttamento delle classi subalterne attraverso una dittatura aperta, cioè non più mediata dalle istituzioni della democrazia parlamentare. Da qui il giudizio sulla natura puramente strumentale dei regimi fascisti, emanazione diretta degli interessi del grande capitale, e sulla loro funzione controrivoluzionaria, in quanto forma di dominazione diretta ad annientare con la repressione violenta le forze della rivoluzione sociale e al tempo stesso ad arrestare il corso dello sviluppo storico. Il determinismo economicistico unito alle esigenze immediate della lotta politica impedì alla Terza Internazionale di cogliere le peculiarità delle dittature fasciste rispetto ad altre forme storiche di dittatura, nonostante che al suo stesso interno dirigenti politici come Palmiro Togliatti avessero elaborato importanti spunti critici volti a individuare la specificità del fascismo come fenomeno reazionario nella sua capacità di costruire un partito di massa a base prevalentemente piccolo borghese, diretto non solo contro il movimento operaio ma anche contro le forme tradizionali del potere borghese. Ipotesi diverse da quelle contenute nelle tesi ufficiali della Terza Internazionale venivano suggerite in quegli stessi anni da autorevoli esponenti del movimento operaio. L. Trockij, in una serie di scritti che risalgono al 1930-1933, aveva sottolineato il ruolo centrale di sostegno dato alla borghesia dagli strati sottoproletari e dai ceti medi e la natura contraddittoria di un'alleanza tra partners ineguali.
Riflettendo in chiave storico-comparativa sulle condizioni che avevano portato ad altre forme di dittatura, A. Thalheimer e, nei Quaderni del carcere, A. Gramsci parlarono del fascismo il primo in termini di "bonapartismo" e il secondo di "cesarismo". Per entrambi il fascismo nasceva da una situazione di equilibrio delle principali forze antagonistiche - la borghesia e il proletariato - e rappresentava una soluzione caratterizzata dalla cessione temporanea del potere esecutivo a una terza forza che veniva in tal modo a godere di un'autonomia relativa nella sfera politica rispetto alle stesse classi dominanti.
Più radicale la critica del socialdemocratico austriaco O. Bauer alla concezione del rapporto meramente strumentale tra borghesia capitalistica e fascismo. Egli sostenne infatti che quest'ultimo era giunto al potere sulla base di un movimento reale e autonomo dei ceti medi e degli strati emarginati e declassati, rivolgendosi nella sua fase iniziale contro la stessa grande borghesia che pure ne aveva favorito l'ascesa pensando di servirsene in funzione antioperaia. Soltanto in seguito il permanere di rapporti capitalistici avrebbe consentito alla borghesia di riprendere il controllo sui regimi fascisti e ristabilire la propria egemonia.
Il marxismo, con la sua concezione del mutamento storico, ha alimentato un filone imponente di studi sul fascismo. Tra i molti contributi volti a sottolineare il primato del fattore economico nella spiegazione del fascismo si possono citare i lavori di D. Guerin, Fascisme et grand capital (1936), e di F. Neumann, Behemoth. The structure and practice of national socialism (1942), secondo i quali il fascismo nasce sul terreno delle contraddizioni interne alla borghesia nella fase di transizione dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico. Esso si afferma perciò nei paesi in cui le forme di governo democratiche non sono in grado di assicurare il passaggio dall'una all'altra forma di dominio del capitale.
La teoria della società di massa ha fornito il quadro di riferimento diretto o indiretto di una serie di analisi tendenti a individuare nella struttura stessa della moderna società industriale le condizioni per l'insorgere dei movimenti fascisti e, più in generale, totalitari.
Il primo tentativo sistematico di spiegare il sorgere delle forme moderne di dittatura e la loro specificità facendo ricorso non già alla dinamica dei rapporti tra le classi bensì alla dinamica dei rapporti tra masse ed élites, in un contesto caratterizzato dalla crisi della società liberale borghese e dal progressivo affermarsi della democrazia di massa, si deve a K. Mannheim, il quale in Mensch und Gesellschaft im Zeitalter des Umbaus (1935) considerò il fascismo, che veniva così a perdere la sua specificità storica, come una delle risposte alla generale instabilità della società industriale in quanto società di massa. Risposta resa possibile da una parte dall'irrompere sulla scena politica di masse deresponsabilizzate ed eterodirette, dall'altra da un mutamento dei criteri di formazione delle élites atto a favorire le ambizioni dittatoriali di gruppi sufficientemente determinati, che in tempi di crisi potevano sfruttare e manipolare l'irrazionalità e l'emotività delle masse a fini di potere.La disgregazione del sistema di classe assume un ruolo centrale nelle analisi di E. Lederer e H. Arendt. In State of the masses (1940) Lederer definisce il fascismo in termini di totalitarismo.
Lo Stato totalitario è lo Stato delle masse e ha quale presupposto la distruzione della società fondata su raggruppamenti autonomi sulla base di interessi e suscettibili di argomentazioni razionali e la sostituzione di quei raggruppamenti con masse indifferenziate, irrazionali e perciò "totalitarie", capaci di agire soltanto in quanto integrate da leaders in grado di interpretarne le emozioni e i sentimenti e di dirigerle. Ma è soprattutto l'opera di H. Arendt, The origins of totalitarianism (1951), che fornisce il testo classico di questa interpretazione, sia per la ricchezza della sua trattazione sia per il dibattito suscitato dall'assimilazione dello stalinismo al nazismo e dalla sussunzione dei due regimi all'interno della categoria del totalitarismo, per altro già esplicitamente operata da esponenti del marxismo europeo come V. Serge, K. Kautsky, R. Hilferding e lo stesso Trockij.
Anche per la Arendt il crollo del sistema di classe e il conseguente crollo del sistema dei partiti costituiscono il terreno sul quale crescono e si sviluppano i movimenti totalitari, siano essi fascisti o comunisti. È infatti da una massa disgregata e atomizzata, priva di quel principio di autoidentificazione costituito dal legame di classe, che i movimenti totalitari traggono la loro base, utilizzando una propaganda che fa perno sul desiderio di evasione da un mondo apparentemente dominato dal caso e dall'arbitrio. E su masse amorfe, formate da individui atomizzati e isolati, possono mantenersi e svilupparsi i regimi totalitari, i quali tendono quindi a riprodurre artificialmente le condizioni della propria sopravvivenza.
Caratteristica di tali regimi è di essere sistemi di dominazione totale che, abolendo ogni distinzione tra società e Stato, controllano gli individui nella sfera pubblica e privata, organizzandoli - e non importa se in nome della razza o della classe - in vista di un fine che non è in primo luogo il potere, ma la creazione di un nuovo tipo di uomo, ridotto a oggetto passivo, a strumento inanimato. L'insistenza sulla natura irrazionale, 'non politica', fine a se stessa del totalitarismo portò la Arendt a limitare l'uso del concetto ai soli nazionalsocialismo e stalinismo e a porre il fascismo italiano, diretto invece a "impadronirsi del potere per insediare la sua élite come incontrastata dominatrice del paese", nelle forme tradizionali di dittatura.Il carattere unico e sui generis delle dittature totalitarie venne altresì sostenuto da K. Friedrich e Z. Brzezinski nel saggio assai controverso, perché considerato espressione diretta del clima ideologico della guerra fredda, Totalitarian dictatorship and autocracy (1956). Ma il tipo di approccio utilizzato portò gli autori a estendere l'ambito di applicazione del concetto non solo al nazismo e allo stalinismo, ma anche al fascismo italiano e ai regimi comunisti cinese e dell'Europa orientale.
Ponendosi in una prospettiva di morfologia dei sistemi politici, Friedrich e Brzezinski individuano un insieme di elementi interconnessi e rafforzantisi reciprocamente - la cosiddetta sindrome totalitaria - la cui presenza consente di definire un sistema politico come totalitario. Essi sono: una ideologia ufficiale onnipervasiva, alla quale tutti sono supposti aderire, almeno passivamente; un partito unico di massa gerarchicamente organizzato, guidato nel caso tipico da un solo uomo; un sistema di controllo poliziesco attuato con mezzi terroristici; il monopolio quasi completo dei mezzi di comunicazione di massa; il monopolio degli armamenti; infine il controllo e la direzione centralizzata dell'economia. Il fatto che questi elementi si ritrovino sia nelle dittature fasciste sia in quelle comuniste consente di affermare: a) che esse sono 'sufficientemente', anche se non 'completamente', simili per poter essere collocate in un'unica classe; b) che questa classe si contrappone non soltanto ai sistemi costituzionali, ma anche alle forme precedenti di autocrazia. Quanto alle cause e alle finalità dei regimi totalitari, ritenendo che non fossero possibili spiegazioni esaurienti e globali, Friedrich e Brzezinski si limitarono a indicare nella democrazia di massa e nella possibilità di disporre di moderne tecnologie le condizioni su cui tali regimi possono sorgere e svilupparsi.
La diffusione dei movimenti fascisti in Europa e l'affermazione del nazismo in Germania, sulla base di un movimento di massa incomparabilmente più ampio del fascismo italiano, ebbero l'effetto di mostrare l'inadeguatezza di schemi interpretativi variamente legati a una concezione razionalistico-positivista dello sviluppo storico. Tanto la teoria liberale quanto quella marxista si trovarono impreparate a cogliere la natura di un movimento capace di raccogliere dietro di sé ampi strati sociali facendo appello a elementi irrazionali - quali il nazionalismo, la comunità del suolo e del sangue, la razza, l'antisemitismo - e di mobilitarli mediante una complessa simbologia che suscitava processi di identificazione collettiva rispondenti a bisogni largamente diffusi. In particolare, esse non furono in grado di spiegare e valutare adeguatamente l'apporto determinante che la piccola borghesia - considerata dalla prima uno dei pilastri dell'ordinamento democratico e la garanzia di uno sviluppo graduale e progressivo, dalla seconda una classe residuale, destinata a scomparire nel generale processo di polarizzazione e incapace di esercitare un ruolo politico autonomo dalla borghesia e dal proletariato - diede al successo dei movimenti fascisti fornendo loro i quadri e la base di massa nella fase di ascesa e un consenso attivo nella fase di regime.
Un contributo molto importante alla comprensione del complesso rapporto tra piccola borghesia e fascismo venne invece dalla sociologia e dalla psicologia sociale. Il fascismo fu interpretato dall'analisi sociologica come risposta dei vecchi e nuovi ceti medi, visti come un soggetto autonomo portatore di interessi in conflitto con quelli della grande borghesia e del proletariato, alla minaccia di declassamento. Successivamente la tesi - formulata tra gli altri da T. Geiger - venne ripresa da M. Lipset in Political man (1960) e sviluppata nella ben nota teoria del fascismo come "estremismo di centro". Secondo Lipset, la difficoltà incontrata da politici e studiosi nel comprendere il rapporto tra piccola borghesia e fascismo deriva dal fatto che l'estremismo è stato sempre considerato come una manifestazione tipica dei movimenti posti agli estremi dello schieramento politico: segnatamente della destra e della sinistra. Ogni raggruppamento sociale, invece, elabora ideologie suscettibili di essere radicalizzate. Così, come il liberalismo era stato l'ideologia rivoluzionaria delle classi medie in ascesa, il fascismo rappresenta l'ideologia reazionaria delle classi medie in declino, che si propongono di ristabilire la perduta sicurezza economica e sociale impadronendosi con la violenza dell'apparato dello Stato.
La natura del rapporto tra piccola borghesia e fascismo costituì l'oggetto privilegiato d'indagine anche per la psicologia sociale, che lo sviluppò lungo due direzioni: da una parte approfondendo le caratteristiche dell'ideologia fascista - in particolare nella sua versione più radicale, quella tedesca - in rapporto ai bisogni psicologici di tale classe; dall'altra sottolineando l'importanza della personalità come momento fondamentale di mediazione tra situazione di classe e azione di classe e, di conseguenza, di quelle istituzioni - in primo luogo la famiglia - che, in quanto luogo di formazione e riproduzione di strutture psichiche congruenti con l'ideologia delle classi dominanti, sono state decisive nel favorire l'accettazione degli Stati autoritari.
Esemplare di questo approccio il saggio di H. Lasswell, The psychology of Hitlerism (1933), nel quale il successo del nazismo viene attribuito allo stato di impoverimento psicologico in cui era andata precipitando la piccola borghesia, schiacciata dal peso crescente della grande borghesia e del proletariato industriale e scossa nei suoi valori e nelle sue certezze tradizionali dalla sconfitta bellica e dalla crisi economica. Di qui un profondo senso di insicurezza emotiva che poteva esser superato solo trovando nuovi oggetti di devozione, al posto di quelli che avevano ormai perduto di significato, e nuovi oggetti di aggressione sui quali scaricare il risentimento derivante dalla diminuita autoconsiderazione. Il nazionalismo e l'antisemitismo, elementi centrali dell'ideologia nazista, fornirono la risposta a questi bisogni emotivi, indirizzando l'odio del piccolo borghese verso nemici fittizi come gli Ebrei e creando nuove certezze mediante il culto del nazionalismo. Per Lasswell, tuttavia, l'attivismo delle classi medie in Germania come in Italia era stato indirizzato verso un solo obiettivo: creare un'alternativa al socialismo.
A conclusioni analoghe giunsero, partendo da un'analisi delle condizioni più generali che stanno alla base degli stati psicologici individuali e di gruppo, W. Reich ed E. Fromm, entrambi allievi di Freud, i quali tentarono una sintesi tra psicanalisi e marxismo utilizzando la nozione di struttura psichica, o struttura caratteriale, per spiegare le incongruenze tra situazione di classe e comportamento politico. Perché l'ideologia fascista aveva esercitato sulla piccola borghesia un richiamo tale da vanificare ogni argomentazione in termini razionali sulle finalità e sui veri obiettivi dei movimenti fascisti? Come spiegare un comportamento collettivo così irrazionale - se rapportato ai reali interessi di classe della piccola borghesia - senza cadere nell'irrazionalismo? "La ricerca della psicologia di massa marxistica - rispondeva Reich in Massenpsycologie des Faschismus (1934) - comincia proprio là dove fallisce il suo compito la spiegazione socioeconomica immediata".
Secondo Reich una teoria del fascismo va articolata su due livelli: il primo, più generale, inteso a fornire ipotesi esplicative circa la disposizione degli individui e dei gruppi sociali a sottostare a rapporti sociali autoritari e di dominio di una classe sull'altra; il secondo inteso a individuare la specificità del fascismo in quanto fenomeno storicamente determinato. Quanto alle cause di ordine generale, Reich ritiene che sia la repressione sessuale a favorire - mediante la creazione e la riproduzione di strutture caratteriali deboli, insicure, soggette a sensi di colpa, incapaci di ribellione e senso critico - l'insorgere dei fenomeni fascisti. Per quanto riguarda le condizioni specifiche, esse vanno ricercate nella paura che la grande borghesia, in fase di declino, prova dinanzi al bolscevismo. Il fascismo, però, non avrebbe potuto prendere il potere per annientare il movimento operaio senza il sostegno attivo della piccola borghesia, predisposta da un'educazione familiare particolarmente autoritaria e sessuofobica ad accogliere la mistica fascista, con i suoi concetti di onore personale, di stirpe, di razza, di popolo.
In questo filone problematico si collocarono anche le ricerche condotte sotto la direzione di Max Horkheimer all'Institut für Sozialforschung di Francoforte, culminate negli Studien über Autorität und Familie (1936). In esse un particolare significato acquistava un saggio di E. Fromm, che aveva per oggetto un tema da lui successivamente ripreso e sviluppato in Escape from freedom (1941). Secondo Fromm le radici lontane del fascismo vanno ricercate nella natura contraddittoria del "processo di individuazione" che sta alla base del mondo moderno. Questo processo, liberando l'individuo dai legami primari e rompendone l'originaria identità con il mondo circostante, è aperto a esiti diversi: esso può infatti svolgersi in modo tale da promuovere la piena realizzazione della personalità e l'affermazione dell'io come forza autonoma, responsabile e autodeterminantesi; oppure può provocare solitudine, isolamento e desiderio di fuga dalla libertà e dalla responsabilità di operare scelte senza il sostegno emotivo fornito nelle società tradizionali dal senso di appartenenza a una comunità più ampia. La storia del capitalismo appare segnata da questa drammatica contraddizione: nella sua fase di ascesa, quella concorrenziale, i fattori favorevoli al rafforzamento della personalità sono stati prevalenti; in quella monopolistica, al contrario, si è affermata la tendenza opposta, attivando meccanismi di fuga come la sottomissione a un'autorità esterna - nel caso del fascismo - o il conformismo ossessivo caratteristico dei regimi democratici. Le radici psicologiche del fascismo vanno dunque ricercate nella paura della libertà, nel bisogno emotivo di rinunciare alla propria indipendenza e di identificarsi con qualcuno o qualcosa - il capo, la nazione, la razza - che agisca come sostituto dei legami perduti: bisogno particolarmente sentito dalla piccola borghesia, investita più di ogni altra classe dalla crisi generale del primo dopoguerra.
Assai più recente - gli studi più significativi risalgono agli anni sessanta - è l'approccio tendente a spiegare il fascismo all'interno dello schema teorico della modernizzazione. In questo quadro il fascismo si configura come una delle vie alla modernizzazione e i regimi fascisti come una delle forme politico-istituzionali attraverso le quali si è attuata storicamente la transizione dalle società premoderne alle società moderne. Ciò che caratterizza questo tipo di impostazione rispetto alle precedenti è, dunque, l'aver ricondotto il fascismo non già ai problemi, alle contraddizioni, ai conflitti propri della società industriale, ma a quelli posti dalla fase di transizione. La produzione di questo filone è ormai vastissima. Indicheremo alcuni contributi che sono rappresentativi di approcci diversi allo studio dei processi di modernizzazione.
Il primo è quello di A. F. K. Organski, il quale in The stages of political development (1960) individua quattro stadi fondamentali dello sviluppo politico sulla base delle funzioni che lo Stato è chiamato di volta in volta a svolgere in rapporto agli stadi dello sviluppo economico, assunto come fattore dinamico della modernizzazione. Il fascismo - secondo Organski - è una delle forme di regime proprie dello stadio dell'industrializzazione, alternativa a quella democratico-borghese e a quella staliniana. Esso si caratterizza essenzialmente per la soluzione che dà ai conflitti tipici di questa fase dello sviluppo economico, vale a dire al conflitto tra l'élite agraria tradizionale e la nuova élite industriale da una parte, e dall'altra al conflitto tra élites e masse mobilitate dal processo di industrializzazione. Tale soluzione è quella del compromesso tra le prime (da qui il termine sincratico per indicare regimi omologabili al fascismo storico) in funzione della smobilitazione delle seconde e appare legata a una configurazione dei rapporti di forza favorevole all'élite tradizionale e a un elevato livello dello scontro sociale tra classi dominanti e classi subalterne.
Una delle implicazioni più controverse della teoria di Organski della corrispondenza tra stadi dello sviluppo economico e stadi dello sviluppo politico è che essa porta a escludere il nazismo - in quanto sorto in un contesto altamente industrializzato - dal novero dei regimi fascisti o sincratici, e a porlo nello stadio dello Stato assistenziale, in quello stadio cioè in cui lo Stato ha come funzione principale quella di integrare le masse assicurando loro un tenore di vita più elevato e una maggiore partecipazione alla vita politica. La soluzione nazista - alternativa a quella della democrazia di massa e a quella dei regimi comunisti post-staliniani - si configura quindi come una modalità dello Stato assistenziale, caratterizzata dall'attuazione di una politica di protezione sociale per via autoritaria e da una partecipazione politica ottenuta mediante il ricorso a miti e simboli irrazionali. Simili conclusioni mostrano le reali difficoltà che la teoria degli stadi della modernizzazione, col postulare una corrispondenza necessaria tra livelli di sviluppo economico e forme di organizzazione politica, incontra nell'affrontare contemporaneamente il fascismo e il nazismo, per non parlare dei movimenti fascisti nel resto d'Europa.
A queste difficoltà si sottrae l'approccio storico-comparativo, il quale prospetta l'esistenza di alternative diverse alla modernizzazione, compatibili con una pluralità di soluzioni politiche. Lo studio di B. Moore, Social origins of dictatorship and democracy (1966), costituisce un esempio utile a illustrare i vantaggi e i limiti di questa impostazione. Moore individua tre vie diverse alla modernizzazione: quella democratica, quella fascista e quella comunista. L'origine di questa differenziazione va ricercata nelle caratteristiche strutturali delle società agrarie proprie di ciascun paese prima dell'industrializzazione, nelle modalità di trasformazione dei rapporti sociali nelle campagne, nei rapporti tra le classi rurali - aristocrazia terriera e contadini - e nelle loro relazioni di alleanza o di conflitto con lo Stato centrale e con la nascente borghesia. In questo quadro la via fascista, esemplificata dai casi giapponese e tedesco e solo marginalmente da quello italiano, si presenta come modernizzazione 'dall'alto', frutto di un compromesso tra l'aristocrazia terriera, una borghesia ancora relativamente debole e uno Stato di tipo autoritario, realizzato al fine di industrializzare il paese senza intaccare le strutture sociali tradizionali. L'importanza e anche l'originalità del contributo di Moore stanno nell'aver indicato nella sopravvivenza di residui feudali monarchico-autoritari il terreno sul quale possono attecchire i fenomeni fascisti. Ma nell'insieme esso mostra una debolezza sostanziale, comune a molte analisi in chiave di dinamica dei processi di modernizzazione, nel non cogliere la specificità del fascismo rispetto ad altre forme di regimi autoritari, conservatori o reazionari. Inoltre, accentuando il peso della componente tradizionale nel complesso dei fattori che conducono all'affermazione dei movimenti e dei regimi fascisti, corre il rischio di sottovalutare la portata dello scontro tra capitale e lavoro, il ruolo dei ceti medi, la crisi del sistema politico liberale e delle sue istituzioni rappresentative, fenomeni, tutti, legati al contesto di società che presentano le caratteristiche di una moderna società industriale.
Di tale debolezza è consapevole G. Germani, il quale, in vari studi tra cui Autoritarismo, fascismo e classi sociali (1975), ha compiuto un'importante opera di chiarimento teorico e suggerito ipotesi di lavoro di grande interesse. Egli si preoccupa, infatti, di distinguere l'autoritarismo moderno da quello tradizionale e di mettere a fuoco diversi livelli di analisi dei fenomeni autoritari, in termini di tempi storici e di contesti socioculturali, combinando lo schema teorico della modernizzazione con quello della mobilitazione sociale. Germani individua le fonti più generali dell'autoritarismo moderno nella contraddizione tra processo di secolarizzazione crescente e necessità di mantenere nuclei minimi di natura prescrittiva, indispensabili all'integrazione del sistema sociale. Tale contraddizione può dare origine a crisi la cui soluzione dipende da una serie di condizioni che vanno individuate nello specifico contesto storico-sociale in cui si manifestano, in particolare nelle caratteristiche del conflitto di classe. Utilizzando i contributi di differenti schemi di analisi del fascismo e inserendoli nel quadro di una teoria del mutamento sociale che vede come elemento dinamico i processi di mobilitazione, Germani intende proporre una definizione del fascismo stesso sufficientemente analitica da render conto della sua specificità. L'essenza del fascismo consiste nel fornire ai conflitti di classe che minacciano l'esistenza di un determinato assetto sociale, in periodi caratterizzati da profondi mutamenti, una soluzione fondata sul processo di smobilitazione delle classi subalterne. Tale soluzione è stata resa possibile dalla contromobilitazione delle classi medie, che costituirono la base di massa del movimento, e dall'alleanza di queste con le élites dominanti. Determinanti nella sua definizione sono la funzione storica e gli obiettivi del fascismo, e non la forma di governo, la quale può variare a seconda delle condizioni interne e internazionali, da quella totalitaria propria dei fascismi italiano e tedesco a quella autoritaria del fascismo spagnolo e dei fascismi militari in America Latina.
Non si può non accennare da ultimo - sia per la sua originalità sia per il clamore che attorno a essa si è fatto - all'interpretazione del fascismo come fenomeno generato nel clima di 'guerra civile' creatosi in Europa dopo la presa del potere dei bolscevichi in Russia. Nel corso degli anni ottanta, in Germania e in Francia soprattutto, si è sviluppato un ampio e acceso dibattito tra storici, filosofi e politologi innescato dalla cosiddetta corrente revisionistica sulla 'unicità' o meno dei crimini nazisti. Ciò che caratterizza questa corrente, la quale ha in E. Nolte il suo più autorevole esponente, è l'insistenza sulla necessità di considerare nel contesto più generale della storia europea la politica di sterminio messa in atto dai regimi totalitari. In un libro del 1987, Der europäische Burgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und Bolschevismus, che sviluppa il tema già espresso in precedenti lavori circa l'antibolscevismo come elemento distintivo del nazionalsocialismo, Nolte ha enunciato due tesi principali. La prima è che "lo sterminio di classe dei bolscevichi" costituì "il prius logico e fattuale dello 'sterminio di razza' dei nazionalsocialisti" e che, più in generale, la genesi e lo sviluppo del fascismo internazionale non possono essere compresi se non come risposta al bolscevismo internazionale nel quadro di quella che è stata la "guerra civile europea" combattuta tra il 1917 e il 1945 da nemici irriducibili, che condividevano una concezione salvifica e una comune propensione all'uso indiscriminato della violenza fisica e spirituale. La seconda tesi è che l'analisi dei movimenti e degli Stati totalitari mostra come l'ideologia, intesa quale espressione di "emozioni di fondo", più che di interessi materiali, è ciò che qualifica l'agire politico e sta alla base del comportamento dei "grandi gruppi di uomini" che hanno combattuto la guerra civile europea nell'epoca degli opposti totalitarismi.
5. Considerazioni conclusive
La varietà e la contraddittorietà delle interpretazioni che sono state elaborate nel corso degli anni, unitamente all'eccezionale produzione storiografica che ha messo a disposizione degli studiosi una gran mole di materiale empirico, hanno suggerito a partire dagli anni settanta - Nolte sotto questo aspetto va decisamente controtendenza - l'abbandono di modelli interpretativi globali e l'individuazione di nuove strategie di ricerca, in grado di dare risposta ai molti interrogativi che restano tuttora aperti. Il primo, e fondamentale, riguarda la definizione stessa del concetto di fascismo. È significativo che ancor oggi, a quasi cinquant'anni dalla caduta dei regimi fascisti e nonostante la mole sterminata di studi e di ricerche che hanno visto impegnate più generazioni di studiosi nelle diverse discipline, non esista accordo su ciò che debba intendersi per fascismo. Questa difficoltà ha indotto alcuni studiosi, come ad esempio G. Allardyce, a negare l'utilità di un concetto generale di fascismo e a sostenere polemicamente la necessità di espungerlo dal lessico storico-politico. Ma, eliminato il termine, resta pur sempre il "bisogno imprescindibile", già espresso dallo stesso Nolte in Der Faschismus in seiner Epoche (1963), di disporre di "un concetto per quei sistemi politici (e le rispettive tendenze) i quali si differenziano dal tipo democratico-parlamentare non meno che dal comunistico, e che tuttavia non sono mere dittature militari ovvero regimi conservatori".
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