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Le Filippine sono formate da un arcipelago composto da più di 7000 isole e hanno un confine marittimo superiore ai 36.000 chilometri. È proprio tale peculiare morfologia a determinare i principali interessi di Manila: la sicurezza delle vie di navigazione, la tutela delle risorse marine e la conservazione ambientale.
La collocazione geografica contribuisce poi a spiegare le principali direttrici della politica estera filippina, rivolte verso i due giganti del Pacifico: Stati Uniti e Cina. I primi rappresentano, anche storicamente, il principale alleato del paese, al quale garantiscono assistenza militare tramite esercitazioni congiunte e nel settore dell’intelligence, soprattutto nella lotta ai movimenti separatisti. Inoltre gli Stati Uniti sono anche il primo partner commerciale delle Filippine. La Cina, invece, ha acquisito per il paese una rilevanza crescente negli ultimi anni sia a causa dell’aumento dell’interscambio commerciale, sia per gli investimenti che Pechino indirizza verso il settore estrattivo filippino e le sue infrastrutture. Proprio nei confronti della Cina rimane tuttavia ancora irrisolta la disputa relativa alle Isole Spratly nel Mar Cinese Meridionale. Nei pressi di queste isole si trovano infatti grandi riserve di idrocarburi; inoltre l’area è ritenuta importante come riserva di pesca e come base per il controllo delle rotte da e verso lo stretto di Malacca. Le rivendicazioni di sovranità da parte della Cina si scontrano quindi con analoghe pretese filippine e di altri quattro paesi dell’area.
Oltre ai rapporti con le due grandi potenze che si affacciano sul Pacifico, le Filippine intrattengono fitte relazioni con gli stati della penisola indocinese all’interno dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), di cui nel 2008 hanno ratificato lo statuto, e del Forum di cooperazione economica Asia-Pacifico (Apec). Inoltre va sottolineato come la politica estera delle Filippine risenta molto degli interessi dei numerosi cittadini che vivono e lavorano all’estero (le rimesse costituiscono quasi il 12% del pil). È per tutelare questi ultimi che Manila – il solo stato asiatico a maggioranza cristiana, insieme a Timor Est – mira a diventare membro dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oic), dato che circa cinque milioni di filippini risiedono oggi in stati mediorientali.
Dal punto di vista del sistema politico le Filippine sono una repubblica presidenziale. Il presidente riveste i ruoli di capo dell’esecutivo, capo di stato e comandante delle forze armate; egli dispone inoltre del potere di rimettere le leggi al Congresso (composto da 24 senatori e 278 rappresentanti della Camera), eventualità che rende necessaria una maggioranza di due terzi dei voti dell’assemblea perché la legge possa considerarsi approvata. Le elezioni del maggio 2010 – svoltesi per la prima volta tramite voto elettronico – hanno sancito la netta vittoria di Benigno Aquino, con un margine di quasi sei milioni di voti. Tale esito, insieme alla vasta popolarità di cui gode anche in campo internazionale, dovrebbe permettere al nuovo presidente di garantire al paese una certa stabilità nei prossimi anni.
Circa un terzo della popolazione filippina ha meno di quattordici anni e più della metà degli abitanti non supera il venticinquesimo anno d’età.
La speranza di vita alla nascita è aumentata notevolmente negli ultimi sessant’anni, passando da un’aspettativa di 49 anni nel 1950 agli attuali 70. Negli anni è aumentata anche l’urbanizzazione, concentrata principalmente nelle zone ad alta densità dell’area metropolitana della capitale e nella regione di Luzon Centrale, mentre un’altra area a forte immigrazione è la zona agricola di Mindanao, nonostante l’instabilità della regione dovuta al terrorismo di matrice islamica. Attualmente circa il 12% dei filippini vive all’estero, e può contare sul vantaggio di conoscere la lingua inglese.
La composizione etnica dell’arcipelago riflette la storia delle popolazioni che nel tempo vi si sono stabilite: l’etnia maggioritaria è quella asiatica, che ha origine dall’Asia continentale e soprattutto dalla Cina; seguono Americani e Ispanici. Il retaggio storico della dominazione plurisecolare da parte di Spagna prima e Stati Uniti poi spiega il fatto che la maggioranza della popolazione filippina sia di religione cristiana (oltre il 90%).
Dal punto di vista delle libertà civili e politiche, infine, le Filippine non possono essere considerate uno stato libero e i meccanismi democratici sono minacciati dalla violenza diffusa tra i clan che si contendono il potere.
Anche la libertà di stampa è compromessa dalle violenze che spesso colpiscono i giornalisti e dal fatto che tali reati restano impuniti. A questo si aggiunge la posizione del governo, che con un vago Ordine esecutivo (il numero 608 del 2007) ha disposto la protezione dei documenti segreti dal possibile accesso da parte dei ‘nemici dello stato’.
Nel corso delle tornate elettorali precedenti alle elezioni presidenziali del 2010, occorse nel 2004 e nel 2007, nelle Filippine si sono registrati quasi 300 omicidi. Questo dato evidenzia il pericolo, costante nel paese, che la competizione politica sfoci nell’eliminazione fisica dell’avversario. Inoltre nel 2006 il presidente Gloria Arroyo, attraverso l’Ordine esecutivo numero 546, ha di fatto concesso ai vari clan la possibilità di dotarsi di veri e propri eserciti privati e le indagini successive al massacro di Maguindanao (nel corso del quale una milizia armata del clan degli Ampatuan ha ucciso in maniera efferata 58 persone del convoglio elettorale di un candidato a governatore provinciale) hanno rivelato il coinvolgimento di 63 poliziotti e di quattro membri dell’esercito affiliati al clan. La forza di questi gruppi, soprattutto a livello locale, e la possibilità data loro di dotarsi di uomini armati, costituiscono una seria minaccia alla stabilità democratica e all’effettivo esercizio della sovranità da parte di Manila.
Le Filippine si collocano tra gli stati più poveri dell’Asia, sia in termini di pil assoluto sia di quello pro capite. Tuttavia negli ultimi anni l’economia filippina è cresciuta a un tasso medio superiore al 5%, e dopo la brusca frenata causata dalla congiuntura globale del 2009 è tornata a crescere in maniera sostenuta. Decenni di sottoinvestimento hanno comunque indebolito la struttura produttiva: per questo il governo Aquino mira oggi ad invertire la tendenza e, tra le varie misure previste per incrementare gli investimenti privati, ha promesso di indennizzare gli investimenti che dovessero risultare intralciati da ostacoli di natura burocratica. Inoltre, nonostante la bilancia commerciale negli anni scorsi abbia registrato un forte deficit, durante i primi dieci mesi del 2010 le esportazioni sono cresciute al tasso record del 38,5%, trainate soprattutto dal settore dell’elettronica. Un altro potenziale per l’economia del paese sono le riserve minerarie (costituite soprattutto da cromo, nichel, rame oro e ferro), considerate tra le più ingenti al mondo, sebbene attualmente gran parte del territorio non sia stata ancora esplorata.
Dal punto di vista energetico le Filippine restano dipendenti dalle importazioni di petrolio (la produzione interna copre solo il 7% della domanda) e di carbone. Questo nonostante dal 2007 la produzione di petrolio, fino ad allora trascurabile, sia aumentata notevolmente (fino a 23.000 barili al giorno) grazie allo sfruttamento dei depositi off-shore al largo dell’Isola di Palawan. D’altra parte, lo sviluppo dell’energia geotermica e idroelettrica ha invece contributo a diminuire la dipendenza dall’estero. Soprattutto la prima, la cui produzione è inferiore solo a quella statunitense, rappresenta un potenziale significativo in un’ottica di medio-lungo periodo.
Nell’ottobre 2010 il Dipartimento della difesa filippino ha reso pubbliche le nuove direttive in materia di difesa e sicurezza, volte a rafforzare ulteriormente l’esercito, modernizzare l’arsenale, contrastare la minaccia del terrorismo e aumentare la cooperazione regionale e con gli altri partner strategici. Va tuttavia rimarcato che in un contesto strategico come quello del sud-est asiatico, caratterizzato da una spesa bellica in forte crescita, le Filippine dedicano alla spesa militare una quota del pil inferiore rispetto a tutti gli stati Asean che si affacciano sul Pacifico. Analogamente, le importazioni filippine di armi – il 60% delle quali deriva dagli Usa, a conferma della forte dipendenza strategica nei confronti di Washington – hanno fatto registrare nell’ultimo decennio una spesa decisamente più bassa rispetto alla media della regione.
Tuttavia, in termini di sicurezza, la minaccia principale che il presidente Aquino si trova ad affrontare non sembra derivare tanto dal contesto regionale o internazionale, quanto da quello interno. La stabilità e l’effettivo esercizio della sovranità statale sono infatti messi a rischio dalla presenza sul territorio filippino di una pluralità di gruppi armati: dal New People’s Army, formato da qualche migliaio di unità, al Moro Islamic Liberation Front, forte, si stima, di più di 10.000 membri concentrati nell’isola di Mindanao, ai gruppi minori Abu Sayyaf e Rajah Solaiman, che negli ultimi anni sono stati responsabili di vari attentati e rapimenti. A questa sfida si affianca quella rappresentata dalla più generale diffusione della violenza, soprattutto per ciò che riguarda gli omicidi extragiudiziali o di carattere politico, che anche in occasione delle elezioni del 2010 hanno portato all’uccisione di vari candidati. Solo riconquistando il monopolio dell’esercizio dell’autorità su tutto il territorio le Filippine potranno forse affermarsi come una democrazia consolidata e affrancarsi dalla condizione di relativa povertà in cui vive ancora gran parte della popolazione.