Cellula, fisiologia e patologia
Sommario: 1. Introduzione. 2. Fisiologia della cellula: a) generalità; b) la membrana plasmatica; c) sistemi di giunzione; d) nucleo; e) citosol; f) citoscheletro; g) organelli citoplasmatici; h) differenziamento; i) proliferazione cellulare: la mitosi. 3. Patologia della cellula: a) morte della cellula: apoptosi e necrosi; b) le cellule tumorali; c) le malattie genetiche. □ Bibliografia.
1. Introduzione
L'identificazione della cellula come unità fondamentale della materia vivente, proposta già verso la metà del secolo scorso, allorché nacque la scienza della microscopia, è stata confermata attraverso l'osservazione - dapprima al microscopio ottico e poi anche al microscopio elettronico - di una miriade di preparati. Divenne ben presto evidente il fatto che il mondo cellulare non era omogeneo: al contrario, esso è diviso in due componenti fondamentali, analoghe sotto molti punti di vista generali ma allo stesso tempo diverse in pressoché tutti gli aspetti specifici finora studiati: le cellule procariotiche (i Batteri) e le cellule eucariotiche (quelle di tutti gli altri organismi mono- e pluricellulari, vegetali e animali). In termini di nomenclatura, Procarioti ed Eucarioti si distinguono per l'assenza, o la presenza, di un nucleo (karion) distinto e riconoscibile. In questo articolo parleremo esclusivamente di cellule eucariotiche, la cui struttura e composizione rimangono largamente omologhe, a partire dagli organismi unicellulari, quali ad esempio il lievito o i Protozoi, fino alle piante e agli animali, incluso l'uomo.
Il legame storico tra microscopia e studio delle cellule si deve alla dimensione della maggior parte di queste ultime, il cui diametro - dell'ordine dei millesimi di millimetro (tra 7 e 50 micrometri, µm, per la maggior parte delle cellule) - è tale da non renderle distinguibili a occhio nudo o con l'aiuto di semplici lenti. Solo attraverso il microscopio ottico, che assicura un potere di risoluzione (distanza minima a cui due punti appaiono ancora distinti) fino a 0,2 µm, fu possibile studiare il mondo delle cellule e identificare molti organuli intracellulari, a partire dal nucleo; tuttavia, solo con l'avvento del microscopio elettronico (potere di risoluzione 〈1 nanometro, nm = 1 milionesimo di mm) divennero visibili anche strutture intracellulari fondamentali, come le membrane. Per molti anni il progresso delle conoscenze sulle cellule rimase sostanzialmente limitato agli aspetti strutturali, cioè la forma e l'organizzazione spaziale delle cellule stesse e delle strutture in esse contenute, riconoscibili grazie alla loro capacità di formare legami con ‛coloranti': composti davvero colorati (o fluorescenti) per il microscopio ottico, o opachi agli elettroni per il microscopio elettronico. Contemporaneamente cominciò anche lo studio dei caratteri funzionali, soprattutto biochimici, condotto su preparazioni ottenute attraverso la frammentazione di cellule (omogenati), su estratti o composti purificati. All'inizio, molte di queste ricerche non si ponevano neanche l'obiettivo di localizzare le sedi all'interno della cellula nelle quali si svolgevano le attività che venivano individuate. A partire dagli anni cinquanta, però, lo sviluppo delle tecniche di frazionamento subcellulare consentì di isolare dagli omogenati di cellule alcune strutture e organuli intracellulari, analizzabili sia al microscopio elettronico che biochimicamente. Da questi studi è progressivamente emersa una conoscenza integrata, non più relativa alle sole caratteristiche strutturali, ma anche alla composizione - e quindi alla funzione - della materia vivente. Le conoscenze emerse da questi studi, ancora oggi in corso di sviluppo, hanno permesso non soltanto di riconoscere le connessioni tra strutture morfologiche e funzioni biochimiche, ma addirittura di identificare specifici microambienti, indispensabili per il funzionamento delle varie componenti intracellulari.
Gli sviluppi degli ultimi anni dipendono in parte dal progresso delle tecniche di analisi morfologica: per esempio, mediante l'uso di anticorpi è divenuto oggi possibile stabilire la localizzazione intracellulare di singole proteine, tanto attraverso il microscopio ottico (o a fluorescenza, anche nella sua versione confocale, cioè stratigrafica) quanto col microscopio elettronico. Ancora più importante, però, è stata la progressiva messa a punto e utilizzazione di tecniche di biologia molecolare, attraverso le quali il funzionamento integrato della cellula può essere non solo studiato nei suoi componenti più significativi - DNA, RNA e proteine - ma anche manipolato attraverso modifiche dell'espressione di questi componenti. Nel quadro che emerge dagli studi recenti risultano sempre più sfumati i confini tra la fisiologia della cellula - con i suoi molteplici aspetti concernenti scelte spesso alternative, quali proliferazione e differenziamento - e la sua patologia (che comporta in molti casi una terza alternativa, la morte cellulare), cioè i disturbi di singole funzioni, spesso dovuti a disequilibri dei meccanismi fisiologici o a mutazioni genetiche di singoli componenti. In considerazione di questo quadro generale riteniamo necessario modificare l'impostazione spesso seguita fino a oggi nella descrizione della cellula, concentrando l'attenzione non tanto sulle varie strutture in quanto tali, ma piuttosto sull'intimo rapporto tra struttura e funzione, in modo da lasciare spazio a una trattazione, sia pure elementare, dei meccanismi molecolari recentemente identificati o in fase avanzata di individuazione. Attraverso la comprensione di questi meccanismi la vita della cellula sta infatti divenendo intellegibile anche a livello molecolare.
2. Fisiologia della cellula
a) Generalità
A un'analisi superficiale le cellule possono apparire molto eterogenee. La dimensione può cambiare enormemente, da quella delle gigantesche uova ripiene di materiale nutritizio fino ai 5-6 µm di diametro delle cellule più piccole, quali i neuroni granulari del cervelletto o i linfociti non attivati.
Con pochissime eccezioni (tra cui piastrine e globuli rossi, che in realtà rappresentano frammenti di cellule nucleate o loro fasi terminali di sopravvivenza) tutte le cellule eucariotiche mantengono la struttura base binaria, costituita cioè dal nucleo contenente DNA, RNA e specifiche proteine, circondato dal citoplasma in cui il DNA è (pressoché) assente, mentre possono essere abbondanti gli organuli delimitati da membrana. In proporzione, nei vari tipi di cellule le variazioni di volume del nucleo sono modeste a confronto di quelle del citoplasma. Alcune cellule possono apparire bi- o multinucleate, perché nel corso della mitosi (v. cap. 2, § i) la divisione del nucleo non è seguita da quella del citoplasma, oppure perché hanno origine dalla fusione di molte cellule, come avviene per le fibre muscolari scheletriche.
Non solo il volume, ma anche la forma delle cellule può variare, da sferica a poligonale, da appiattita a cilindrica, con o senza prolungamenti, ecc. Queste variazioni sono il risultato di processi di differenziamento, i cui meccanismi saranno discussi più avanti. Altre proprietà appaiono invece comuni a tutte le cellule eucariotiche: esse, pertanto, pur nel loro ampio spettro differenziativo, possono essere considerate come variazioni rispetto a un certo numero di temi comuni.
b) La membrana plasmatica
Ogni cellula è delimitata da una membrana continua (la ‛membrana plasmatica' o ‛plasmalemma') che ne media i contatti con l'ambiente extracellulare e ne difende la specificità. Ogni soluzione di continuità di questa membrana che si protragga per periodi di tempo più lunghi di qualche secondo comporta un'alterazione della struttura della materia vivente e può quindi concludersi con la morte della cellula (necrosi). Come tutte le membrane biologiche, il plasmalemma è composto da lipidi e proteine: i primi sono in larga misura fosfolipidi, che sono caratteristicamente anfipatici, forniti cioè di un polo idrofilico (o ‛testa'), composto da un gruppo fosfato legato ad ammine o zuccheri, e uno idrofobico, costituito da catene di acidi grassi. Le proteine sono in parte proteine integrali (penetrano cioè nello spessore della membrana stessa), in parte proteine periferiche (sono cioè adese alla superficie). La disposizione dei fosfolipidi, le cui teste idrofiliche sporgono verso gli ambienti acquosi extra- e intracellulari, crea una struttura a triplo strato, dello spessore di 6-7 nm, resa impenetrabile sia all'acqua che alle molecole idrofiliche dallo strato interno che è uniformemente idrofobico. Tale strato, alla temperatura corporea, è liquido e permette quindi il movimento delle molecole fosfolipidiche e delle proteine di membrana, a meno che queste ultime non siano ancorate ad altre molecole localizzate nel citoplasma o nello spazio pericellulare. Il grado di fluidità delle diverse membrane varia specie in rapporto al contenuto dell'altro componente lipidico, il colesterolo, particolarmente abbondante nel plasmalemma.
Alcune proteine integrali sono tali in quanto fornite di una o più (fino a 20) sequenze di amminoacidi idrofobici che, nel corso della sintesi proteica, vengono inserite nello spessore della membrana ove restano per tutta la loro vita, trattenute dalle interazioni che stabiliscono con altre catene peptidiche o con acidi grassi. Le altre molecole proteiche integrali (che sono assai più voluminose dei fosfolipidi: 10.000 - 1.000.000 dalton rispetto a circa 750) sporgono rispetto alle due superfici della membrana: tali sporgenze, essendo in genere idrofiliche ed elettricamente cariche, forniscono il meccanismo per il legame delle proteine periferiche. Queste ultime, essendo idrofiliche, non passano attraverso lo spessore idrofobico della membrana ma restano legate alla superficie. La struttura generale delle membrane è quindi a sandwich, con lo strato idrofobico all'interno (acidi grassi e sequenze idrofobiche transmembrana delle proteine) coperto sui due lati dagli strati idrofilici composti dalle teste dei fosfolipidi e da proteine.
Altre proprietà fondamentali delle membrane sono la asimmetria - dovuta alla diversità sia dei fosfolipidi che delle porzioni delle proteine di membrana che si affacciano alle loro due superfici - e la carica elettrica, che è negativa sul lato interno in conseguenza della distribuzione asimmetrica degli ioni a cavallo della membrana stessa. L'esistenza di una asimmetria molecolare dimostra che né i fosfolipidi né le proteine integrali sono capaci, se non eccezionalmente, di rigirarsi rispetto alle membrane stesse, di compiere cioè un processo di rotazione che, nel linguaggio della biologia, è definito ormai ufficialmente come movimento di flip-flop.
Le proprietà generali delle membrane finora brevemente descritte permettono di comprendere alcune caratteristiche fondamentali della membrana plasmatica: per prima cosa è opportuno ricordare che, pur trattandosi di una struttura continua tutt'intorno alla cellula, essa permette comunque il trasferimento dei segnali necessari affinché la cellula stessa operi in maniera coordinata, ad esempio nell'ambito di un organismo multicellulare. Alcuni tipi di cellule sono capaci di rispondere a stimolazioni, ad esempio elettriche, e di trasferire segnali in tempi assai brevi (dell'ordine del millesimo di secondo) lungo la membrana stessa, anche a notevole distanza dal sito di stimolo. Questi processi sono resi possibili da variazioni del potenziale elettrico che fungono sia da segnale di attivazione, sia da forza motrice dei flussi ionici attraverso specifici pori (canali) di natura proteica, attivati per un tempuscolo all'interno della membrana stessa. Questa proprietà, essenziale per il funzionamento di vari tipi di cellule, quali quelle nervose e muscolari, è alla base del concetto di eccitabilità.
Altri segnali, attivati da stimoli chimici esterni (quali ormoni, neurotrasmettitori o altri mediatori chimici), trovano a livello della membrana adeguati sistemi di trasduzione che non solo ne permettono il ricevimento, ma anche l'intellegibilità da parte della cellula. In questo caso il legame del mediatore a una proteina transmembrana che si affaccia alla superficie cellulare, il recettore, ne determina l'attivazione. Le conseguenze di tale legame sono diverse a seconda della natura del recettore stesso: ad esempio, possono consistere nell'attivazione di un flusso ionico attraverso l'apertura di un canale, oppure nell'attivazione di vari tipi di enzimi, con formazione entro la cellula di molecole con funzione di segnale - dette ‛secondi messaggeri' - indirizzate a loro volta a recettori collocati all'interno della cellula stessa, non sulla sua superficie. Oltre a canali e recettori, la membrana plasmatica possiede anche altre molecole proteiche importanti per il suo rapporto con l'ambiente esterno, cioè pompe (le ATP-asi, capaci di compiere direttamente lavoro, trasportando specifici ioni o protoni contro il loro gradiente elettrochimico) e trasportatori. L'azione coordinata di tutte queste proteine permette alla cellula di stabilire un appropriato microambiente nel citosol (v. cap. 2, § e) e di acquisire metaboliti importanti, quali glucosio, amminoacidi, ecc. (v. Miller, 1992; v. Berridge, 1993; v. Pozzan e altri, 1994; v. Stevens e Ascher, 1994).
Un'altra caratteristica importante della membrana plasmatica, comune a molte se non a tutte le cellule, è la sua capacità di specializzazione locale, che spesso si realizza attraverso l'interazione con l'impalcatura delle strutture filamentose responsabili della morfologia cellulare, il cosiddetto ‛citoscheletro'. Altrettanto importante è il fatto che per molte cellule è necessario integrarsi in un tessuto e stabilire interazioni, a livello di siti o regioni specifiche, con la cosiddetta ‛matrice extracellulare', cioè con il materiale accumulato dalle cellule stesse e/o da cellule circonvicine. Ciò avviene grazie alla presenza nella membrana plasmatica di varie famiglie di proteine di legame - quali, ad esempio, le ‛integrine' - in grado di legarsi specificamente ai componenti della matrice extracellulare (glicosamminoglicani, glicoproteine filamentose, ecc.) e per questo disposte diversamente a seconda della distribuzione dei componenti stessi.
c) Sistemi di giunzione
Molti tipi di cellule non possono vivere totalmente indipendenti, ma devono funzionare coordinatamente, in gruppo; altri tipi devono legarsi strettamente ad altre cellule, ad esempio per costruire la parete del lume di organi cavi, quali i vasi o i dotti di varia natura; altri tipi, infine, devono legarsi meccanicamente ad altre cellule senza però costituire barriere che finirebbero per interferire con la diffusione di liquidi nello spazio extracellulare. Per tutte queste necessità le cellule sviluppano a livello della loro membrana plasmatica dei ‛sistemi di giunzione' diversi a seconda delle specifiche esigenze funzionali.
Le ‛giunzioni comunicanti' (o gap junctions) sono composte da numerosi canali di elevata permeabilità, costituiti dalle proteine di una singola famiglia, le connessine. Questi canali, distribuiti in registro nel plasmalemma di cellule adiacenti, permettono il passaggio intercellulare di ioni e secondi messaggeri (cioè dei segnali intracellulari di stimolazione) direttamente da una cellula all'altra, senza, cioè, che debbano transitare attraverso lo spazio extracellulare. Quando vengono stimolati, i gruppi di cellule collegate da giunzioni comunicanti sono quindi capaci di rispondere in blocco. Anche le ‛giunzioni occludenti' (o tight junctions) sono costituite da molecole proteiche in registro e rinforzate sul lato intracellulare da altre proteine; tali giunzioni - esposte alla superficie e ‛saldate' tra due cellule adiacenti, ma prive della funzione di canale - permettono la formazione delle pareti del lume degli organi cavi. I ‛desmosomi', infine, o ‛giunzioni aderenti', permettono di stabilire una continuità funzionale, attraverso lo spazio intercellulare, tra il citoscheletro di cellule adiacenti, e di realizzare quindi collegamenti meccanici intercellulari nell'ambito di un tessuto.
Una importante proprietà della membrana plasmatica è la (possibile) eterogeneità regionale. Consideriamo, ad esempio, una cellula secernente che delimita il lume di un viscere cavo, quale può essere lo stomaco: le stimolazioni la raggiungeranno a livello della regione basolaterale della membrana plasmatica, quella prospiciente l'ambiente intercellulare, mentre la secrezione avrà luogo a livello della regione che contribuisce a delimitare il lume cavo dell'organo. Le due regioni devono quindi essere diverse, esprimere cioè componenti molecolari diversi: recettori, per ricevere informazioni, a livello basolaterale; componenti del sistema di rilascio di granuli di secrezione, cioè dell'esocitosi, a livello luminale. In questo caso è stato dimostrato che l'eterogeneità dipende, almeno in parte, dalla presenza della giunzione occludente, che è disposta proprio tra le due regioni e serve quindi non solo ad attaccare le cellule l'una all'altra, ma anche a separare regioni di membrana con funzioni diverse. Nei neuroni si riscontra un'eterogeneità regionale tra l'assone, cioè la fibra che conduce l'impulso in senso centrifugo, e il resto della cellula, cioè il corpo cellulare e i dendriti, che sono i prolungamenti ramificati a cui sono indirizzate molte delle sinapsi che provengono dagli altri neuroni. Tra queste zone non esistono giunzioni, ma funziona un ulteriore meccanismo (finora non completamente identificato) che induce eterogeneità di superficie (v. Hall e Sanes, 1993).
Per la verità, i meccanismi di eterogeneità di superficie conosciuti ai quali abbiamo accennato finora sono solo una piccola parte di quelli necessari perché le varie cellule possano funzionare. Si pensi alla complessità di un neurone che può stabilire un gran numero (decine di migliaia!) di sinapsi e altrettante riceverne a livello del corpo cellulare, dei dendriti e anche delle terminazioni assonali. A livello di questi siti di stretta interazione intercellulare non è difficile immaginare la necessità di specifici componenti molecolari: i segnali che viaggiano tra le cellule nervose, infatti, vengono da un lato liberati (in modo controllato), dall'altro lato ricevuti e analizzati: meccanismi simili, seppure di evidenza forse meno immediata, potrebbero essere operanti anche nel caso di altri tipi cellulari (v. Stevens e Ascher, 1994).
La specificità della membrana plasmatica riguarda anche le strutture deputate al movimento - le ciglia e i flagelli - che sporgono sulla superficie della cellula e sono strettamente connesse con il citoscheletro (v. cap. 2, § f). Discuteremo in seguito anche la specificità connessa a eventi quali l'esocitosi e l'endocitosi che, pur riguardando la membrana plasmatica, sono collegati a una serie di processi preparatori e di sviluppo che si svolgono all'interno della cellula e che coinvolgono diverse classi di organuli citoplasmatici.
d) Nucleo
La presenza di un nucleo, spesso situato verso il centro della cellula, di forma sferica (o discoidale nelle cellule piatte), è la caratteristica che distingue le cellule eucariotiche dalle procariotiche. In realtà, la struttura mancante in queste ultime cellule non è tanto il contenuto del nucleo (gli acidi nucleici), quanto l'involucro nucleare, costituito da due membrane: la prima, coperta di ribosomi, è in diretta continuità con il più vasto sistema di endomembrane, il reticolo endoplasmatico; la seconda, caratterizzata da proteine almeno in parte specifiche, aderisce strettamente alla lamina nucleare, una struttura composta da proteine filamentose disposte tutt'intorno al contenuto nucleare vero e proprio. La proprietà fondamentale dell'involucro nucleare, che lo rende diverso da tutti gli altri sistemi di membrana della cellula, è la sua ‛transitabilità' da parte di macromolecole che percorrono vie nucleo-citoplasmatiche localizzate in speciali strutture, i pori. Questi ultimi sono spazi circolari, del diametro di circa 100 nm, delimitati dalle due membrane dell'involucro fuse tra loro e contenenti un sistema di proteine disposte a formare, alla loro periferia, una specie di cornice continua con un complesso diaframma centrale, inserito nel poro. Attraverso il canale centrale del poro, di diametro stimato intorno ai 9 nm, diffondono passivamente piccole molecole (fino a circa 20 Kdalton di peso molecolare). Mediante meccanismi ATP-dipendenti, il poro funge da grande via di traffico attraverso la quale l'RNA, sintetizzato nel nucleo, raggiunge il citoplasma da dove si muovono in direzione inversa specifiche proteine ivi sintetizzate. Il DNA, invece, non viaggia attraverso i pori ma rimane stabilmente nel nucleo, tranne che durante il periodo mitotico quando, in seguito alla demolizione dell'involucro, nucleo e citoplasma si confondono.
Da un punto di vista funzionale, DNA significa informazione genetica scritta in termini di triplette di basi nelle gigantesche molecole avvinte a doppia elica. In ogni specie il numero di queste molecole è fisso e corrisponde a quello dei cromosomi. Per fare un esempio, nell'uomo il numero di queste molecole è 46, il loro spessore, sempre costante in tutti gli organismi viventi, è di solo 2 nm, mentre la loro lunghezza varia tra 1,7 e 8,5 cm. Si tratta quindi di molecole lineari, con un altissimo rapporto tra lunghezza e spessore: da 8,5 a 43 milioni! Soltanto una piccola parte di questo DNA è in realtà funzionante, costituisce cioè geni (nell'uomo circa 100.000) o sequenze di regolazione dell'espressione genica. Altre sequenze funzionanti sono quelle che danno inizio alla replicazione del DNA e quelle che servono come centromero e telomeri, localizzati rispettivamente nella zona di interazione con il fuso mitotico e all'estremità di ogni singolo cromosoma lineare. Il resto (probabilmente più del 90%) è costituito da sequenze non essenziali, tramandate attraverso le generazioni cellulari anche se apparentemente prive di una specifica funzione.
All'interno del nucleo, le molecole di DNA interagiscono strettamente con specifiche proteine basiche, gli istoni, dando luogo a una struttura ‛a collana' composta da nucleosomi (complessi DNA-proteine) collegati tra loro da tratti di DNA libero. Questa struttura, ripiegandosi su se stessa, dà origine a un'organizzazione ordinata che a livello microscopico si rivela come cromatina, un complesso sistema di filamenti, spessi circa 30 nm, che occupa il nucleo. La cromatina, peraltro, non appare omogenea nella sua organizzazione, ma dà luogo a due tipi di strutture: la eterocromatina, più compatta, distribuita preferenzialmente in prossimità dell'involucro nucleare (ma non dei pori), e la eucromatina, caratterizzata da una distribuzione più lassa. Lo studio comparativo di cellule più o meno attive nei processi di trascrizione, cioè di sintesi di RNA, aveva già suggerito una correlazione di quest'ultima attività con il rapporto eu-/eterocromatina. Oggi è ormai chiaro che la eucromatina contiene i geni espressi dalla cellula, cioè trascritti, che danno luogo all'RNA, mentre quelli repressi vengono, almeno in gran parte, intrappolati nella eterocromatina, probabilmente mediante l'interazione con complessi proteici repressori che impediscono il legame dei fattori di trascrizione.
All'interno del nucleo, facilmente riconoscibile anche se privo di membrana limitante, è situato un organulo assai ricco di RNA, il nucleolo. Studi citochimici e molecolari hanno rivelato la presenza in questa struttura di una porzione particolare del DNA che comprende i geni, fortemente amplificati, per gli RNA delle due subunità ribosomiali e inoltre hanno permesso di stabilire che gli RNA presenti sono proprio quelli destinati a formare queste ultime due strutture. Il nucleolo costituisce quindi la zona di sintesi e di assemblaggio dei ribosomi, la cui funzione è quella di sintetizzare le proteine. Le zone del nucleolo riconoscibili microscopicamente (filamentosa e granulare) corrispondono ai diversi stadi del processo di formazione dei ribosomi. Del funzionamento di questi organuli, che avviene esclusivamente nel citoplasma, parleremo in seguito (v. cap. 2, § g).
Le attività fondamentali che hanno luogo nel nucleo sono due: la duplicazione, attraverso la quale il contenuto di DNA viene raddoppiato in preparazione alla divisione per mitosi, e la trascrizione, cioè il trasferimento dell'informazione genetica dal DNA alla sua molecola omologa, l'RNA, che è in grado di uscire dal nucleo per ‛dirigere' la sintesi proteica. Per quest'ultima funzione l'RNA sintetizzato a partire da uno dei filamenti di DNA corrispondente a uno dei geni, dopo aver interagito con specifiche proteine già nel corso della sua sintesi, va in genere incontro a un processo di maturazione che comporta la rimozione di sequenze interne, i cosiddetti introni, con successivo legame (splicing) delle sequenze residue, gli esoni. Questo processo è responsabile non soltanto della formazione degli RNA messaggeri (mRNA) maturi, ma anche della loro eterogeneità, dato che lo splicing può avvenire in siti diversi, nell'ambito di uno stesso RNA neosintetizzato.
Un ultimo aspetto del processo di trascrizione che merita di essere menzionato è la sua regolazione a opera di un gran numero di fattori di trascrizione, cioè di specifiche proteine che operano in contatto diretto o in prossimità del DNA. Lo spettro regolativo controllato dai fattori di trascrizione è quanto mai ampio e va dai geni ubiquitari, espressi in tutte le cellule, fino a quelli specifici di un singolo tipo cellulare o magari di un solo stadio del suo sviluppo. È alla selezione dei geni da esprimere che si deve non solo il differenziamento delle cellule, che si attua secondo specifici programmi, ma anche uno dei fondamentali meccanismi di regolazione (trascrizionale) del funzionamento cellulare. Nel DNA, infatti, ogni gene è accompagnato da sequenze (promotori) destinate a regolarne l'espressione, spesso attraverso un complesso equilibrio di modulazioni positive e negative sensibili all'azione di secondi messaggeri generati a livello dei recettori nella membrana plasmatica, o di processi attivati dall'azione dei secondi messaggeri stessi.
È a questo punto opportuno fare una breve considerazione riguardo all'ambiente intranucleare e alle sostanze ivi presenti, il cosiddetto succo nucleare. Come già ricordato a proposito dei pori dell'involucro, il collegamento tra nucleo e citoplasma è ampio; non è quindi sorprendente che il succo nucleare condivida con il suo omologo citoplasmatico, il citosol, numerose proprietà: per esempio il pH, la distribuzione di ioni, di piccoli metaboliti e anche di diverse proteine. Altre proprietà invece differiscono, oppure possono differire in certe fasi della vita cellulare ed essere simili in altre: ad esempio, i recettori per gli ormoni steroidei, essi stessi fattori trascrizionali, possono trovarsi localizzati nel citoplasma o nel nucleo a seconda che siano attivati o meno; lo stesso può accadere per importanti enzimi, quali proteinchinasi, ecc. Il succo nucleare presenta quindi caratteri di specificità che derivano dalla sua continua ‛interazione controllata' con il citosol.
e) Citosol
All'interno della membrana plasmatica, delimitato anche dall'involucro nucleare e dalle endomembrane (cioè le membrane degli organuli endocellulari), si riscontra la presenza di un ambiente con caratteristiche largamente - ma non completamente - omogenee, che consiste in un materiale in stato di sol, il citosol appunto. A seconda della estensione delle endomembrane il volume relativo del citosol varia, dal 100% negli eritrociti fino al 40% circa in cellule altamente differenziate. Nel citosol è immerso il citoscheletro, prodotto dalla continua polimerizzazione di componenti citosolici. Il citosol comunica direttamente con il succo nucleare attraverso i pori dell'involucro del nucleo, mentre è collegato con il lume di altri organelli (mitocondri, reticolo endoplasmatico, complesso di Golgi, perossisomi) soltanto attraverso meccanismi assai più complessi.
In tutte le cellule il citosol rappresenta il compartimento operativo della vita cellulare, quello cioè in cui la maggior parte dei segnali, di varia natura e origine, viene elaborata per produrre infine, localmente o con il coinvolgimento di altre strutture della cellula, le opportune risposte. Si pensi ad esempio ai segnali di crescita o differenziamento, che hanno origine a livello di specifici recettori della membrana per essere poi trasferiti lungo catene di fattori ed enzimi intracellulari (alcuni dei quali classificati come protoncogeni perché la loro alterazione può indurre crescita neoplastica) fino a raggiungere il nucleo e modificare il funzionamento di specifici sistemi di trascrizione; oppure al movimento e alla contrazione, processi nei quali il citosol collabora col citoscheletro, contrattile e non; alla secrezione, regolata da fattori citosolici a livello degli organuli specifici, granuli e vescicole. Anche molti processi metabolici, quali il metabolismo anaerobico del glucosio, hanno nella maggior parte delle cellule una localizzazione esclusivamente citosolica.
Come ci insegna la biochimica, l'esistenza stessa di questi e di moltissimi altri processi richiede un'ampia popolazione di enzimi accuratamente regolati, adatti a funzionare nelle condizioni dell'ambiente citosolico. La cellula assicura infatti il coordinamento tra le varie funzioni attraverso equilibri non rigidi, modificabili in funzione delle condizioni fisiologiche. La reazione chimica altamente dinamica che regola il funzionamento di innumerevoli enzimi e substrati a localizzazione citosolica (o almeno raggiungibili dal citosol) è la fosforilazione di proteine. È ormai chiaro che moltissime proteinchinasi (enzimi fosforilanti diversi tra loro per la varia specificità di substrato) e diverse proteinfosfatasi (enzimi defosforilanti) funzionano nel citosol o perché sono esse stesse localizzate nel compartimento, oppure perché sono legate alla faccia citosolica della membrana plasmatica o di endomembrane e sono quindi accessibili a substrati contenuti nel citosol. Un'alta percentuale delle proteine citosoliche (o rivolte verso il citosol) è quindi dinamicamente fosforilata e poi defosforilata, talvolta in più siti. Queste modificazioni chimiche, considerevoli da un punto di vista strutturale perché comportano rispettivamente l'introduzione o la rimozione di cariche negative, possono alterare sostanzialmente il funzionamento delle proteine fosforilate, che a loro volta possono essere enzimi. Dato che le attività di molte proteinchinasi e anche di proteinfosfatasi sono regolate da secondi messaggeri prodotti a livello dei recettori della membrana plasmatica, non sarà difficile intuire il ruolo base del sistema fosforilativo nel funzionamento della cellula.
La fosforilazione non è comunque l'unico meccanismo regolativo che funziona nel citosol (e peraltro anche nel nucleo e nell'apparato di Golgi). Grande importanza è oggi riconosciuta a proteine regolatorie che si attivano quando legano il nucleotide guanosintrifosfato, GTP, e si inattivano quando, esercitando una specifica funzione enzimatica, lo trasformano in guanosindifosfato, GDP (v. biochimica, vol. X). Oggi le proteine conosciute di questo tipo si avvicinano al centinaio, divise in due famiglie: grandi (o trimeriche, costituite cioè di tre subunità) e piccole. Queste ultime includono la più nota, quella codificata dal protoncogene RAS (v. neoplasie: Oncologia sperimentale, vol. XI). Infine, un ruolo fondamentale è riconosciuto allo ione Ca2+, che agisce sia attraverso l'attivazione di proteinchinasi e proteinfosfatasi Ca2+-dipendenti, sia legandosi direttamente a specifiche proteine. Si tratta anche in questo caso di centinaia di proteine che hanno alta affinità per il Ca2+ e lo legano quindi già a basse concentrazioni di ione libero (da 0,1 a 1 µM) presenti nel citosol.
Quest'ultima considerazione ci induce a descrivere in maggior dettaglio un aspetto particolare dell'ambiente citosolico. Non presentando soluzioni di continuità attraverso l'intera cellula, si potrebbe presumere che tale ambiente abbia ovunque una composizione omogenea, almeno per quanto riguarda le molecole di basso peso molecolare e quindi di rapida diffusione. L'esistenza di grandi molecole (proteine) di legame può però ridurre la diffusione di almeno alcune di queste, per esempio quelle che legano il Ca2+ e forse anche altri ioni. Ne consegue che, in particolari condizioni, si possono generare localmente dei microterritori citosolici ad alta concentrazione di Ca2+, circondati da territori a bassa concentrazione. Queste condizioni da un lato rendono possibile la realizzazione, sia pure locale e transitoria, di processi che richiedono alte concentrazioni di Ca2+ (per esempio 10-100 µM); dall'altro lato, finiscono per dare luogo nel citosol a processi ritmici (oscillazioni) od orientati (onde) ad alta concentrazione di Ca2+ che ricordando, sia pure in un contesto completamente diverso, i processi di trasporto ionico attivati nella membrana plasmatica hanno dato origine al concetto di citosol come ‛mezzo eccitabile' (v. Berridge, 1993; v. Pozzan e altri, 1994).
Un'ultima caratteristica del citosol che intendiamo sottolineare è la presenza in questo compartimento di complessi di ribosomi (poliribosomi o polisomi) deputati alla sintesi di proteine destinate al citosol stesso, al nucleo e, in parte, anche agli organuli, soprattutto ai perossisomi e agli organuli semindipendenti: mitocondri e cloroplasti. Il meccanismo attraverso il quale i relativi mRNA vengono distinti da quelli destinati a funzionare nei polisomi attaccati alla superficie del reticolo endoplasmatico verrà descritto in seguito (v. cap. 2, § g).
f) Citoscheletro
Che la cellula contenga uno scheletro, una struttura, cioè, fornita di un'organizzazione spaziale definita, non può sorprendere chi ha posto anche una sola volta l'occhio al microscopio. Quello che invece sorprende è la complessità dello scheletro cellulare, cui sono deputate funzioni multiple e non soltanto quelle di semplice sostegno. Considerato globalmente, il citoscheletro risulta costituito da strutture filamentose, diversamente disposte e organizzate a seconda della specializzazione, della zona e del momento funzionale della cellula, e precisamente: citoscheletro contrattile, microtubuli e filamenti intermedi.
Citoscheletro contrattile. - La capacità di contrazione, cioè di accorciamento e allungamento, rappresenta la proprietà principale di qualunque fibra muscolare, sia che essa appartenga ai muscoli scheletrici, a quello cardiaco o alla muscolatura liscia degli organi viscerali. Nel corso del tempo, però, questa proprietà si è progressivamente differenziata. L'aumento delle conoscenze ha permesso di stabilire che la capacità di contrarsi è condivisa, sia pure su scala assai più modesta, anche dalle cellule non muscolari. Perché possa esservi contrazione è necessaria la coespressione di proteine di due famiglie, actina e miosina, entrambe filamentose, che si assemblano per polimerizzazione orientata (i filamenti hanno cioè un capo e una coda, indicati come verso + e verso -) a partire da un pool di monomeri. La loro caratteristica è quella di organizzarsi ordinatamente nello spazio, in modo che l'actina formi filamenti sottili che circondano il filamento spesso di miosina. Quest'ultimo non è liscio ma fornito di ponti trasversali, riarrangiando i quali può slittare sul filamento sottile. Il processo base della contrazione, infatti, non è l'accorciamento dei filamenti, ma il loro slittamento l'uno sull'altro, che determina comunque un accorciamento della fibrilla actomiosinica in toto, con avvicinamento dei siti cui i filamenti sottili sono legati, come ad esempio nel caso delle strie trasversali dei muscoli striati (v. anche tessuto muscolare, vol. VII).
L'energia per lo slittamento dei filamenti di actina e miosina è fornita anche in questo caso dall'ATP liberato dalla miosina, che ha attività ATP-asica. Tale attività è inibita in condizioni di riposo e viene indotta per effetto dell'aumento del Ca2+ nel citosol provocato dalla stimolazione cellulare: rapidamente nei muscoli scheletrici e cardiaco, più lentamente nel muscolo liscio e nelle cellule non muscolari, dove il processo è più complesso. Qualunque rilevante movimento della cellula o al suo interno, inclusi correnti e vortici citoplasmatici, richiede la collaborazione actomiosinica. Nelle cellule non muscolari l'espressione di actina può essere molto alta e arrivare fino al 5% di tutte le proteine, mentre la miosina è in genere molto scarsa. L'actina è quindi in grande eccesso e può funzionare indipendentemente dal processo contrattile propriamente detto, dando luogo alla formazione di fasci o strati (questi ultimi spesso concentrati a ridosso della membrana plasmatica) distribuiti spazialmente o legati - per esempio - con le membrane, grazie anche all'azione di altre proteine associate. La presenza di actina a ridosso della membrana plasmatica conferisce elasticità a questa zona della cellula e permette una stretta interazione citoplasma-membrana a livello di strutture particolari (villi e flagelli, siti di adesione della membrana alla matrice extracellulare, ecc.).
Microtubuli. - Un altro componente fondamentale del citoscheletro è rappresentato dai microtubuli. Si tratta non di filamenti ma di strutture costituite dalla polimerizzazione (anche in questo caso orientata: verso + e verso -) di proteine globulari, le tubuline, che danno luogo a filamenti legati longitudinalmente intorno al lume del tubulo. I tubuli così costituiti hanno un diametro di circa 25 nm e lunghezza anche di varie migliaia di volte maggiore. Nella cellula i microtubuli si organizzano irradiandosi ordinatamente a partire da un sito perinucleare, o centrosoma, da cui hanno origine anche gli astri della mitosi; solo nell'assone, la fibra della cellula nervosa, i microtubuli si dispongono parallelamente lungo l'asse, con l'estremità + (che cresce rapidamente) disposta verso la periferia (v. neurobiologia, vol. VIII).
Alcune caratteristiche dei microtubuli danno conto del loro ruolo nella fisiologia cellulare. La struttura rigida serve a specifiche funzioni scheletriche, e la loro ‛instabilità dinamica', conseguenza della continua polimerizzazione e depolimerizzazione, ne spiega la plasticità, che è diversa, però, nei vari tipi di cellula a seconda delle differenti proteine legate ai microtubuli stessi. Infine, i microtubuli servono come ‛rotaie' sulle quali vengono rapidamente trasportati gli organelli che si muovono verso specifiche mete: si pensi alle fibre nervose che possono essere lunghe anche metri. Questo trasporto è fatto a spese dell'ATP, utilizzando come motori specifiche proteine (ATP-asi, come la chinesina) che slittano sui microtubuli.
Il ruolo dei microtubuli è di fondamentale importanza anche per il funzionamento delle strutture di superficie che assicurano motilità alla cellula o al materiale presente nell'ambiente in cui essa vive, quali i lunghi flagelli (si pensi allo spermatozoo) e le ciglia, più piccole ma più numerose. Queste strutture, che originano dentro la cellula da organelli simili ai centrosomi, i corpi basali, contengono al loro interno coppie di microtubuli organizzati secondo una precisa geometria: 9 coppie periferiche e una centrale. La capacità di movimento dipende dalle proteine associate al microtubulo, che garantiscono l'interazione con la membrana plasmatica che ricopre queste strutture, e controllano il funzionamento di una ATP-asi, la dineina, che sporge in forma di piccole corna dalla superficie dei microtubuli periferici. L'attivazione della dineina induce lo slittamento dei microtubuli, determinando i ‛salti' degli spermatozoi o il movimento coordinato dei campi di ciglia destinato, ad esempio, a rimuovere il muco delle vie respiratorie.
Filamenti intermedi. - L'ultima componente del citoscheletro, i filamenti intermedi, ha struttura e funzione assai più semplici delle due finora descritte. La proteina base dei filamenti intermedi non è sempre la stessa: a seconda del tipo cellulare ne esistono quattro tipi, tutti filamentosi e resistenti dal punto di vista sia meccanico che metabolico. Il componente più conosciuto dei filamenti intermedi - organizzati come corde o fasce che attraversano il citoplasma - è la cheratina, specifica delle cellule epiteliali, il cui accumulo negli strati superficiali dell'epidermide, nelle unghie e nei capelli trasforma tali cellule in lamine protettive di grande e ben nota resistenza.
I vari componenti del citoscheletro fin qui descritti non funzionano indipendentemente ma coordinatamente. Il citoplasma, in realtà, contiene una complessa rete tridimensionale di filamenti proteici, la cui organizzazione generale dipende dai microtubuli. In questo quadro i filamenti di actina hanno soprattutto un ruolo dinamico e i filamenti intermedi un ruolo meccanico. Dall'interazione tra i vari componenti citoscheletrici hanno origine, tra l'altro, la forma cellulare e la sua straordinaria plasticità.
g) Organelli citoplasmatici
Come si è già accennato, il citoplasma contiene diversi tipi di organelli, completamente circondati da membrana e immersi nel citosol, aventi ognuno specifiche funzioni determinate dal proprio corredo enzimatico. Tuttavia, essi presentano caratteristiche diverse. Alcuni, strettamente connessi all'attività cellulare, sono spesso capaci di operare in coordinazione con organelli diversi, dando luogo a vie funzionali, quali la via esocitica e quella endocitica. Altri, invece, almeno parzialmente indipendenti dal resto della cellula, si distinguono per la presenza di due membrane e per le loro caratteristiche genetiche peculiari: sono i mitocondri (presenti in tutte le cellule) e i cloroplasti (presenti nelle foglie e responsabili della fotosintesi).
Mitocondri e cloroplasti. - Questi due tipi di organelli sono definiti anche come ‛organelli semiautonomi', in quanto possiedono un corredo di DNA, RNA e proteine speciali (un intero, sebbene assai ridotto, patrimonio genetico, completo di sistema di espressione) simile a quello di cellule procariotiche (Batteri). In base a questa proprietà è stata prospettata l'ipotesi di una origine simbiotica di mitocondri e cloroplasti, a partire da un evento accaduto all'incirca un miliardo e mezzo di anni fa. Gli organelli sarebbero stati all'inizio Batteri che, trasferitisi all'interno di cellule eucariotiche, avrebbero reso disponibile il proprio metabolismo ossidativo aerobico a tali cellule che a quel tempo ne sarebbero state prive. Da allora la vita comune di tali cellule e degli organelli ‛simbionti' si sarebbe assai complicata: la cellula avrebbe provveduto ad appropriarsi della maggior parte del corredo genetico mitocondriale, con trasferimento al nucleo di un gran numero di geni ‛batterici'. Ancora oggi, però, i prodotti del piccolo numero di geni che rimane in situ sono indispensabili per la fisiologia cellulare, e funzionano coordinatamente con le altre, più numerose proteine codificate dai geni (oggi) nucleari che si sono aggiunte in seguito.
Come si è detto, mitocondri e cloroplasti sono responsabili del metabolismo aerobico. Morfologicamente e anche funzionalmente i due tipi di organelli si somigliano. Entrambi sono circondati da una doppia membrana: quella esterna, di presunta origine cellulare, delimita un primo compartimento; quella interna, ‛batterica', delimita il più ampio compartimento interno denominato matrice (nel mitocondrio) o stroma (nel cloroplasto). In più i cloroplasti possiedono un terzo compartimento, contenuto all'interno dei primi due e anch'esso delimitato da un sistema membranario molto specializzato, quello dei tilacoidi. È qui che la luce viene captata dalla clorofilla e usata per due scopi principali: la sintesi di ATP e il suo impiego per la fissazione dell'anidride carbonica nelle sintesi degli zuccheri. Si tratta delle reazioni base dell'equilibrio ecologico nel nostro pianeta, quelle che permettono la vita delle piante e che le rendono fonti di energia indispensabili alla vita degli animali. Nei cloroplasti i meccanismi coinvolti in questi processi compongono una straordinaria catena. In breve, la captazione di fotoni fornisce l'energia per il trasporto di protoni, H+, attraverso la membrana nel lume dei tilacoidi, generando così un potenziale elettrochimico (acidità e carica positiva all'interno). Questa distribuzione asimmetrica di cariche costituisce evidentemente una fonte di energia che può essere liberata attraverso il ritorno degli H+ nello stroma, il compartimento che circonda i tilacoidi. Tale flusso retrogrado non avviene a caso, ma coinvolge un enzima, detto ATP-sintetasi perché utilizza l'energia dissipata dal trasporto di H+ per sintetizzare il nucleotide ATP attraverso la fosforilazione dell'ADP. Tramite la sua successiva defosforilazione (a dare di nuovo ADP), l'ATP libera energia, questa volta nello stroma del cloroplasto dove è utilizzato, insieme ad altri metaboliti, innanzitutto per la sintesi di carboidrati semplici (ciclo di fissazione del CO2). Questi ultimi possono essere quindi trasferiti al citosol e qui andare incontro a molteplici trasformazioni metaboliche: ad esempio danno luogo al saccarosio, il ben noto zucchero alimentare che dalle foglie si diffonde alle altre porzioni delle piante; in altri casi sono ossidati nei mitocondri delle foglie; in altri ancora restano dentro i cloroplasti e si accumulano nello stroma come granuli di amido, il polimero del glucosio che può essere poi utilizzato dalla pianta per fini energetici (v. fotochimica, vol. III).
Anche il funzionamento del mitocondrio, come quello del cloroplasto, si basa sulla formazione di gradienti di H+. Rispetto al cloroplasto, però, il mitocondrio possiede un tipo di membrana (e quindi un compartimento) in meno, mentre la sua membrana interna, dentro la quale si trova lo spazio chiamato matrice, è assai più estesa dell'esterna e si ripiega quindi a formare le ben note creste. Non essendo capace di utilizzare quanti di luce, il mitocondrio impiega per il suo funzionamento sostanze da metabolizzare che gli giungono dal citosol. Gli enzimi della matrice sono capaci di sottrarre elettroni a queste sostanze, cioè di ossidarle, trasferendo gli elettroni ad altri enzimi, responsabili della catena di trasporto elettronico, allineati nella membrana interna. La logica della catena è quella di permettere un trasferimento multiplo di questi elettroni, con caduta progressiva, a salti, della loro energia libera (cioè con aumento dell'energia del loro legame) fino a raggiungere l'ossigeno cui gli elettroni si legano formando acqua. La perdita di energia che avviene attraverso quattro stadi di ‛salto degli elettroni' è utilizzata per espellere H+ dal mitocondrio, ove si viene a creare, come nel cloroplasto, un gradiente elettrochimico, questa volta però tra membrana interna e citosol (dato che la membrana esterna è molto permeabile). Per la perdita di H+ la membrana diviene infatti elettronegativa (- 160 mV, assai più della membrana plasmatica) e la matrice diventa alcalina. Queste condizioni favoriscono il rientro degli H+, rendendo così disponibile energia per il funzionamento di una ATP-sintetasi che genera ATP. Il sistema è così straordinariamente ben costruito che il mitocondrio è una delle macchine di maggior efficienza esistenti in natura: pochissima dell'energia liberata dall'ossidazione dei substrati viene infatti dispersa in calore. L'ATP, d'altro canto, rappresenta la molecola energetica quasi universale nella cellula, capace di riconvertirsi ad ADP liberando energia dovunque sia necessaria, a opera di moltissimi e diversissimi enzimi chiamati tutti, operativamente, ATP-asi. Tramite i cloroplasti e i mitocondri (oltre che tramite la glicolisi citosolica, di cui non abbiamo parlato in dettaglio) la cellula sintetizza grandi quantità di ATP (il cui contenuto intracellulare in condizioni normali è molto alto, 1-3 mM), il che le permette di unificare le fonti dirette di energia. La cellula funziona cioè (quasi) sempre ad ATP.
Perossisomi. - Reazioni ossidative, in parte simili a quelle della matrice mitocondriale, hanno luogo in un altro tipo di organello, il perossisoma. Anche per questo organello è stata ipotizzata un'origine batterica. A differenza di cloroplasti e mitocondri, i perossisomi possiedono però una sola membrana e sono privi di DNA e RNA.
Organelli della via esocitica. - Reticolo endoplasmatico (inizialmente chiamato anche ergastoplasma), apparato di Golgi e granuli di secrezione erano già stati descritti dai microscopisti tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Solo a cominciare dagli anni cinquanta-sessanta, però, gli studi sulla sintesi e la secrezione delle proteine permisero di individuare il loro collegamento funzionale. Il reticolo endoplasmatico consiste in un ampio sistema di endomembrane (oltre 10 m2/g di tessuto nel pancreas e in altre ghiandole) costituito da cisterne e tubuli largamente continui tra loro, tanto da formare una rete per molti aspetti comune. Le cisterne, coperte da complessi di ribosomi (poliribosomi o polisomi), e i tubuli, che sono invece lisci, formano il reticolo granulare e quello liscio, rispettivamente.
Come abbiamo detto in precedenza, la presenza di polisomi indica chiaramente come il reticolo sia sede di sintesi proteica, analogo in questo al citosol, che contiene polisomi non legati a membrana e quindi definiti liberi. Come si spiega una duplice localizzazione di questo processo fondamentale? La sintesi proteica prevede l'interazione tra tre attori principali: l'RNA messaggero (mRNA), che fornisce l'informazione sulla proteina da produrre, scritta però in termini non di amminoacidi (i componenti delle proteine) ma di triplette nucleotidiche; il ribosoma, che è la macchina, cioè il fattore che fornisce l'ambiente e gli enzimi necessari; l'RNA di trasporto (tRNA), che traduce il significato delle triplette, riconosciute dal suo anticodone, in amminoacidi, legati specificamente sulla sua coda. Quindi la sintesi prevede la lettura e la decodificazione delle informazioni, tripletta per tripletta, unitamente alla progressiva aggregazione dei corrispondenti amminoacidi in modo da mettere insieme una catena di amminoacidi che, una volta completa e debitamente ripiegata, costituisce la proteina. Le proteine, però, non sono sempre molecolarmente simili tra loro, né sono destinate agli stessi compartimenti intracellulari. Per quanto riguarda quest'ultimo problema, gli studi degli ultimi venticinque anni hanno dimostrato che, nel caso di proteine destinate al citosol, alla faccia citosolica delle membrane, al nucleo e agli organuli semiautonomi, la sintesi avviene nei polisomi liberi; se invece il destino è la secrezione (nel caso di proteine solubili) o l'inserimento nel lume o nelle membrane degli organuli connessi funzionalmente con le vie esocitica ed endocitica, la sintesi ha luogo quasi sempre nei ribosomi legati alle membrane delreticolo. Non è difficile capire il perché di questa diversa localizzazione. Per quanto riguarda il primo gruppo di compartimenti, la cellula non prevede meccanismi di localizzazione attivi già nel corso della sintesi. Quando la proteina giunge a completamento, viene rilasciata nel citosol e da qui, in base a ‛indirizzi' scritti nella sequenza dei suoi amminoacidi, viene ridistribuita (in genere con alta efficienza) al compartimento cui è indirizzata. La situazione delle altre proteine è diversa. Sia la via esocitica che la via endocitica sono costituite da diversi tipi di membrane che delimitano diversi compartimenti. Questi ultimi, pur essendo separati, sono tra loro funzionalmente continui perché collegati da vescicole che viaggiano avanti e indietro, ogni volta staccandosi da una membrana e fondendosi con l'altra. L'inserimento della proteina nel contesto della membrana del reticolo o il suo trasporto attraverso la membrana già nel corso della sua stessa sintesi permetterà di sottrarla al citosol e di indirizzarla fin dal primo momento verso il suo sito di localizzazione all'interno della cellula.
Perché questo meccanismo, definito cotraduzionale, funzioni davvero per la distribuzione delle proteine appaiono necessarie almeno tre condizioni. Innanzitutto, dovrà esistere un meccanismo che permetta al polisoma di scegliere la sua sede di funzionamento - citosol o reticolo endoplasmatico - a seconda della proteina che deve sintetizzare. Tale meccanismo, oggi ben conosciuto, è specifico per i polisomi legati. Esso è costituito da una sequenza di amminoacidi, detta di segnalazione, inclusa nella proteina in crescita, capace di interagire con una particella specifica e indirizzare il ribosoma al legame con il reticolo. Al sito di legame - e questa è la seconda condizione - si deve assemblare un canale transmembrana specifico che permetta la crescita della proteina attraverso la membrana. Il canale si disintegra quando la proteina o viene rilasciata nel lume (proteina solubile) oppure esprime una o più sequenze idrofobiche destinate a trattenerla nel contesto della membrana stessa (proteina integrale della membrana). Infine - terza condizione - anche le proteine sintetizzate nel reticolo endoplasmatico devono esprimere indirizzi che le guidino al loro sito di localizzazione finale - che viene raggiunto attraverso la via dei lumi o quella delle membrane - viaggiando per mezzo delle vescicole di collegamento tra i compartimenti menzionate sopra. Anche quest'ultima condizione sembra trovare riscontro, almeno per tutte le proteine finora studiate.
Il reticolo endoplasmatico svolge anche altre funzioni importanti: tra queste ricordiamo la sintesi di fosfolipidi, destinati anch'essi a essere poi trasferiti in larga misura ad altre membrane o attraverso il citosol o usando la via esocitica; e l'accumulo di Ca2+ a rapido scambio - fondamentale per il funzionamento cellulare di tutte le attività Ca2+-dipendenti (v. cap. 2, §§ d-e) - in regioni specializzate del reticolo endoplasmatico (come il reticolo sarcoplasmatico del muscolo) ove viene trattenuto e quindi liberato quando stimolazioni elettriche (nel muscolo scheletrico) o da parte di secondi messaggeri (nelle altre cellule) inducono l'apertura di canali nella loro membrana. A riposo, la concentrazione di Ca2+ nel lume del reticolo endoplasmatico è molto maggiore (addirittura 10.000 volte) di quella che si riscontra nel citosol (v. Carafoli, 1987; v. Pozzan e altri, 1994).
Successivamente al reticolo, la via esocitica prosegue con l'apparato di Golgi - composto da 3-5 cisterne, distinte l'una dall'altra e disposte parallelamente, denominate cis (la più interna) e trans (la più periferica) - e quindi raggiunge la rete transgolgiana, composta da tubuli disposti in tre dimensioni e ampiamente continui tra loro. A questo punto la via esocitica si dirama in almeno tre direzioni: gli enzimi lisosomiali vengono trasportati in vescicole in grado di riconoscerli tramite specifici recettori e raggiungono infine i lisosomi; il restante materiale si divide tra granuli e vescicole responsabili della secrezione, regolata e non-regolata.
Il ruolo dell'apparato di Golgi è quello di modificare le proteine provenienti dal reticolo tramite coniugazione con zuccheri (glicosilazione), oppure con residui fosfato (fosforilazione) o solfato (solfatazione). È la molteplicità delle cisterne che permette l'ordinato svolgimento dei numerosi eventi connessi ad esempio con la glicosilazione. Nella rete transgolgiana di molte cellule si verifica inoltre un cambiamento del pH del lume, che diviene acido a opera di una pompa (ATP-asi) per gli H+; si determina in tal modo un mutamento dello stato di condensazione di alcune proteine del lume cellulare (di natura diversa a seconda del tipo di cellula: enzimi, ormoni o altre proteine) che, non trovandosi più in soluzione, formano aggregati specifici rapidamente trasferiti a costituire i classici granuli di secrezione. Questo meccanismo permette alla cellula di accumulare i prodotti della propria secrezione finché un segnale (per esempio, l'aumento del Ca2+ nel citosol) non induca la fusione (esocitosi) sincrona della membrana di molti granuli con il plasmalemma, con conseguente secrezione extracellulare del loro contenuto (v. Sollner e altri, 1993; v. Martin, 1994). Analogo è il destino delle altre proteine non condensate nella rete transgolgiana, le quali viaggiano, invece che in organuli, in vescicole che si fondono con la membrana plasmatica in modo non regolato. La secrezione di queste proteine avviene quindi continuamente, e non ‛a impulsi', come avviene invece per gli ormoni o gli enzimi dei granuli (v. Pozzan e altri, 1994).
Organelli della via endocitica. - Dato che l'esocitosi, sia di granuli che di vescicole, comporta l'aggiunta di membrana al plasmalemma, ci si potrebbe attendere un progressivo aumento della superficie di quest'ultimo. Un aumento, in effetti, si verifica, ma è solo transitorio, perché l'esocitosi è accoppiata all'endocitosi, cioè alla formazione di vescicole che si distaccano dal plasmalemma e tornano quindi nel citoplasma. Alla formazione di vescicole segue (come per l'esocitosi, ma in senso inverso) una via di circolazione di membrane assai complessa, la via endocitica, il cui scopo non è soltanto quello di preservare la dimensione opportuna del plasmalemma, ma anche quello di mantenere sotto controllo la sua composizione, in particolare i recettori, cioè gli organi di senso della superficie delle cellule, che vengono endocitati soprattutto quando sono attivati dal legame con i loro specifici stimolatori. L'endocitosi avviene a opera di almeno tre tipi di vescicole, alcune delle quali capaci di selezionare le proteine da rimuovere dal plasmalemma. Una importante proprietà non delle vescicole endocitiche ma dei vacuoli o cisterne che da esse derivano (endosomi) è l'acidità del loro lume, dovuta, anche in questo caso, alla presenza di una ATP-asi per gli H+. Le molecole riciclate dalla superficie cellulare si trovano quindi esposte a un ambiente assai diverso dal precedente: si attua così il cosiddetto ‛lavaggio acido' delle membrane, con conseguenti modifiche delle loro interazioni, in particolare con il distacco degli stimolatori dai recettori internalizzati negli endosomi (v. Boron, 1986).
Successivamente alla formazione degli endosomi, anche la via endocitica si biforca. Alcune vescicole si fondono con i tubuli della rete transgolgiana e rientrano quindi nella via esocitica; altre invece divengono ancora più acide e finiscono per fondersi con i lisosomi. Nelle cellule nervose, infine, una popolazione specializzata di vescicole di probabile origine endocitica, specificamente localizzata nel compartimento presinaptico, è capace di attuare in un tempo valutabile in milionesimi di secondo una fulminea fusione regolata (Ca2+-dipendente) con la membrana plasmatica specializzata di quel compartimento, seguita da un rapido riciclaggio. Si tratta delle vescicole sinaptiche, che specificamente accumulano nel loro lume, e quindi secernono, i neurotrasmettitori ‛classici' (acetilcolina, glutammato, ecc.) responsabili della trasmissione delle informazioni rapide tra cellule eccitabili (v. Martin, 1994; v. sinapsi: Fisiologia della sinapsi centrale, vol. VI).
In questo paragrafo abbiamo ripetutamente accennato ai lisosomi, i classici organelli acidi deputati alla digestione intracellulare attraverso una cinquantina di enzimi capaci di attaccare proteine, lipidi, zuccheri, ecc., operando nell'ambiente acido tipico dei lisosomi. Questi enzimi raggiungono i lisosomi seguendo una diramazione della via esocitica; i substrati originati dallo spazio extracellulare o dalla superficie della cellula vengono invece trasferiti ai lisosomi soprattutto attraverso la via endocitica, tramite processi che in alcune cellule possono assumere dimensioni particolarmente imponenti (come nel caso della fagocitosi) e permettere la digestione di particelle voluminose, quali Batteri o detriti cellulari. Altri substrati possono giungere ai lisosomi dalla rete transgolgiana o anche da intere zone di citoplasma che i lisosomi finiscono per inglobare al loro interno (autofagocitosi). Una volta giunta nei lisosomi la materia vivente viene rapidamente digerita e le molecole di basso peso molecolare prodotte in tal modo (amminoacidi, zuccheri, acidi grassi, ecc.) diffondono attraverso le membrane così da essere riutilizzate per i processi sintetici. L'attività digestiva dei lisosomi - insieme ad altre che si verificano nel citosol, all'interno del reticolo endoplasmatico e probabilmente anche altrove - essendo in equilibrio con le attività sintetiche della cellula, ne mantiene la ‛giusta' dimensione sia dal punto di vista del rapporto volume/superficie, sia in termini di composizione.
È importante sottolineare quest'ultima osservazione relativa all'‛equilibrio', che, insieme a quella più volte richiamata relativa alla ‛specificità', connota le attività che si svolgono all'interno del citoplasma, anche in rapporto con il nucleo. Tutti i vari componenti della cellula mantengono infatti tra loro rapporti di equilibrio, sia nelle varie soluzioni acquose intracellulari, sia attraverso le membrane; tale condizione è determinata, tra l'altro, dai diversi microambienti presenti all'interno della cellula (per esempio, alta concentrazione di Ca2+ negli organuli della via esocitica; pH acido nella rete transgolgiana, in molti granuli e vescicole di secrezione e negli organuli della via endocitica; pH alcalino nella matrice mitocondriale), dalla carica delle membrane (negativa al plasmalemma e, molto di più, alla membrana interna dei mitocondri), ecc. La specificità, d'altro canto, dipende da interazioni nient'affatto casuali - anzi, spesso di alta affinità - tra i vari componenti: si pensi, ad esempio, alle fusioni di membrana delle vie esocitica ed endocitica cui abbiamo accennato. Questi processi, pur basati tutti su meccanismi analoghi, rispettano ogni volta specifiche interazioni, esclusive per un solo sito cellulare. Così, per esempio, una vescicola che lascia il reticolo endoplasmatico non si fonde mai con la membrana plasmatica o con quella dei granuli di secrezione, ma solo con la cisterna di Golgi più interna, la cisterna cis, perché è specificamente indirizzata a quel sito per mezzo di sequenze di amminoacidi presenti nelle proteine espresse alla sua superficie e riconosciute da specifici recettori. Si tratta quindi di un meccanismo analogo a quello cui abbiamo accennato nel caso delle proteine sintetizzate nel reticolo endoplasmatico, le quali viaggiano o nella membrana o nel contenuto delle vescicole e a un certo punto raggiungono la loro giusta localizzazione perché una loro sequenza viene riconosciuta specificamente come fosse un indirizzo. Una vita, quella della cellula, ben diversa da quella apparentemente tranquilla che sembra evincersi dall'indagine della microscopia classica; anzi, addirittura, una vita convulsa eppure meravigliosamente ‛sotto controllo' (v. Sollner e altri, 1993).
h) Differenziamento
Il quadro che abbiamo delineato nei paragrafi precedenti fa riferimento in larga misura a una cellula ‛tipo', spesso assai diversa da quelle che si osservano nella realtà. Il fenotipo cellulare varia infatti notevolmente, soprattutto nell'ambito degli organismi multicellulari, e già le cellule che derivano dalle prime divisioni dell'uovo fecondato, i blastomeri, sono diverse tra loro, probabilmente perché ricevono preferenzialmente zone citoplasmatiche contenenti componenti molecolari diversi. Nei Mammiferi, fino allo stadio di otto cellule, ognuna di esse ha un completo potenziale di sviluppo, può cioè formare qualunque parte dell'embrione. Successivamente, tra le cellule si stabiliscono interazioni che inducono aspetti progressivamente più dettagliati di differenziamento. Tra queste interazioni, assai importante è la liberazione di alcune sostanze, definite operativamente come morfogeni, da parte di una o di un gruppo di cellule. Processi di diffusione e metabolismo tendono a far diminuire la concentrazione del morfogeno quanto più ci si allontana dal sito di produzione, e questo induce differenti effetti sulle cellule sensibili. Attraverso meccanismi del genere il destino delle varie cellule si diversifica e ciascuna di esse dà luogo a discendenti diversi sia per morfologia che per funzione.
Nel suo complesso, il processo di differenziamento è governato dalle interazioni che si stabiliscono tra le cellule (come dimostrato dal fatto che, sino ad avanzate fasi dello sviluppo embrionale, il trasferimento di una cellula può modificare il suo destino) e si attua attraverso modificazioni dei processi di espressione genica. A livello molecolare, gli attori del differenziamento sono quindi specifici fattori di trascrizione, attraverso i quali viene regolata la sintesi di specifici mRNA e quindi delle corrispondenti proteine. Il ruolo di questi fattori può essere profondamente diverso a seconda dello stadio di differenziamento. In un periodo precoce fattori generali, che possono esprimersi nell'arco di finestre temporali anche assai brevi, inducono nelle cellule non tanto uno specifico fenotipo, quanto la potenziale capacità di differenziamento secondo particolari programmi, realizzati successivamente sotto il controllo di ulteriori stimoli.
Anche in un organismo adulto lo stato di differenziamento varia notevolmente a seconda della natura delle cellule. Negli animali, le cellule destinate a popolare il sangue rimangono in stato di attiva proliferazione e differenziamento, prima in varie sedi dell'organismo, infine nel solo midollo osseo. In organi altamente differenziati, il processo differenziativo può riprendere in seguito a lesioni che inducono lo sdifferenziamento delle cellule rimaste (ad esempio nel caso del fegato) o lo sviluppo di una piccola frazione residua di precursori (come le cellule satelliti del muscolo). Il differenziamento finale può rimanere sospeso anche a lungo e attivarsi in seguito a un evento fisiologico, come l'incontro di linfociti B con antigeni specificamente riconosciuti dai loro anticorpi di superficie, con conseguente maturazione a plasmacellule; oppure quello di linfociti T con cellule presentatrici debitamente caricate di specifici frammenti antigenici. La cellula nervosa è quella più strettamente legata al suo differenziamento. Mentre cellule neuroendocrine, se appropriatamente stimolate, possono differenziare in neuroni (ad esempio, le cellule cromaffini trattate con fattore di crescita nervosa, NGF), quasi tutti i neuroni, una volta acquisite le loro caratteristiche (incluso non solo il fenotipo, ma anche l'incapacità a proliferare), le mantengono indefinitamente. Di conseguenza, se da un lato i neuroni sono spesso capaci di rigenerare o espandere parti del loro citoplasma (assoni, sinapsi, ecc.), dall'altro lato sono invece incapaci di proliferare per compensare perdite verificatesi sia nel sistema nervoso centrale che in quello periferico.
Particolarmente interessante è il fatto che le modifiche fenotipiche proprie del differenziamento sono accompagnate (non necessariamente con sincronismo perfetto) da modifiche molecolari che non si limitano all'espressione di nuovi componenti proteici, ma riguardano anche la sostituzione di proteine con altre simili (per esempio isoforme proteiche, differenti solo per pochi amminoacidi) che comunque spesso inducono modifiche quantitative di specifiche funzioni cellulari: per esempio, quando una fibra muscolare riceve la sua innervazione, i recettori per il neurotrasmettitore che comanda la contrazione, l'acetilcolina, si concentrano nella zona sinaptica, di faccia alla fibra nervosa; contemporaneamente una delle subunità del recettore viene sostituita e il suo funzionamento diviene ‛adulto'. Se per caso la fibra nervosa viene tagliata, il recettore si modifica molecolarmente sostituendo la subunità adulta con quella di tipo embrionale e, contemporaneamente, lascia la sinapsi e si ridistribuisce sull'intera superficie della fibra.
Possiamo quindi concludere che il differenziamento è costituito da un gran numero di fenomeni strettamente coordinati - che dipendono sia dal tempo, cioè dallo stadio di sviluppo, che dall'interazione tra cellule - ed è comandato a livello molecolare dai processi di espressione genica. Questi processi a loro volta si esprimono secondo numerosi e complessi programmi, assai diversi per cellule di diversa natura.
i) Proliferazione cellulare: la mitosi
L'ultimo argomento di fisiologia cellulare che intendiamo trattare riguarda il processo di divisione ‛egualitaria'. Nel corso del proprio ciclo la cellula, dopo un periodo di vita operativa come quella descritta finora (incluso il differenziamento), definito dalla sigla G0, risponde alla stimolazione da parte di fattori di crescita, cioè di polipeptidi ad azione soprattutto locale che provocano dentro la cellula una cascata di segnali, primo fra i quali l'attivazione dei loro specifici recettori di membrana. I fattori di crescita sono abbondanti nel siero di sangue, soprattutto prima della nascita: questa è la ragione per cui le colture cellulari sono quasi sempre effettuate in presenza di siero fetale.
Per azione dei fattori di crescita la cellula passa dalla fase G0 alla fase G1, durante la quale si prepara a raddoppiare il proprio DNA (fase S, sintesi) per passare quindi, dopo un ulteriore periodo preparatorio (G2), alla ridistribuzione del proprio materiale vivente in due cellule (fase M, mitosi). Lo scopo di quest'ultima fase è appunto una ridistribuzione egualitaria, che permette a entrambe le cellule risultanti di essere vive e attive. La divisione non riguarda quindi solo l'informazione genetica immagazzinata nel DNA, ma anche i sistemi di espressione e i componenti cellulari, quali le membrane, che possono crescere (cioè espandersi) per inserimento di nuovi componenti molecolari, ma non possono essere messi insieme a partire dai singoli componenti. Per rispondere a queste esigenze è necessario che la cellula vada incontro a processi di semplificazione organizzativa e di riordinamento spaziale, mentre altre funzioni non indispensabili sono temporaneamente ridotte o completamente interrotte.
Tradizionalmente la mitosi viene descritta in sei fasi, rivelabili dall'indagine microscopica, che verranno interpretate però soprattutto in base alle informazioni già fornite nella descrizione della cellula in interfase, cioè non in corso di divisione. Prima dell'inizio della mitosi, il DNA è diffuso nel nucleo e i microtubuli sono disposti geometricamente nella cellula a partire dal centro di organizzazione, il centrosoma. I primi processi tipici della mitosi, visibili già nella ‛profase', consistono nella condensazione della cromatina nucleare a dar luogo non alla semplice eterocromatina, ma ai vari cromosomi, distinti gli uni dagli altri, contenenti ciascuno la sua singola molecola di DNA raddoppiata. Contemporaneamente nel citoplasma si assiste al raddoppio del centrosoma e alla migrazione verso i poli della cellula dei due centrosomi risultanti, dai quali originano i microtubuli interagenti all'equatore cellulare, che vanno a formare il fuso.
Le fasi successive prevedono in primo luogo la disintegrazione dell'involucro nucleare, accompagnata peraltro da quelle del reticolo endoplasmatico e dell'apparato di Golgi, con formazione di numerosissimi gruppi di vescicole disperse per l'intera cellula (‛prometafase'); successivamente, ciascun cromosoma si attacca a un gruppo di microtubuli del fuso attraverso un processo mediato da specifiche proteine (nucleo cinetico), a loro volta attaccate a una specifica porzione del DNA, il centromero. Durante l'intero processo di mitosi, i microtubuli dimostrano particolare reattività e un'estesa attività di polarizzazione che permette di esercitare trazioni. In questa fase (‛metafase') la reattività è utile per posizionare i cromosomi all'equatore della cellula e disporli nel piano in modo che le due metà (cromatidi) prodotte dal raddoppio del DNA siano ciascuna orientata verso un polo; si forma così la tipica placca metafasica. L'improvviso venire meno del legame tra i cromatidi dà inizio alla loro migrazione verso i due centrosomi, dovuta alla progressiva depolarizzazione dei microtubuli a loro legati (‛anafase'). Infine, raggiunta la zona dei due centrosomi, il rapporto tra cromosomi e fuso viene meno, e intorno ai due ammassi di DNA che hanno origine dall'interazione del cromatidi comincia a riformarsi un involucro nucleare, mentre gli organuli citoplasmatici iniziano a riorganizzarsi nel citoplasma (‛telofase'). A questi processi segue la separazione delle due cellule (‛citodieresi') che avviene in genere a livello della zona equatoriale dove un anello di actina si forma proprio sotto la membrana plasmatica e contribuisce, contraendosi per interazione con miosina, allo strozzamento fino al distacco.
Gli studi recenti hanno permesso di integrare queste osservazioni con informazioni relative ai meccanismi di regolazione dei processi fin qui descritti. In breve, la regolazione sembra essenzialmente dipendere dalla sintesi, durante il periodo preparativo alla mitosi (G2), di proteine a rapido turnover capaci di controllare il funzionamento di specifiche proteinchinasi e quindi la fosforilazione di importanti substrati (v. Egan e Weinberg, 1993). Questi meccanismi permettono alla cellula di portare avanti in modo controllato la serie dei processi attraverso i quali strutture preesistenti vengono riorganizzate e riorientate in modo coordinato e dinamico. La complessità della mitosi è probabilmente dovuta alla necessità di suddividere correttamente l'alto numero di voluminosi cromosomi esistenti nelle cellule. Nel suo insieme il processo costituisce un vero successo. Gli errori nella ridistribuzione del materiale alle cellule figlie sono infatti straordinariamente rari. Ad esempio nel lievito essi avvengono soltanto in un caso ogni 105 mitosi, e non determinano quindi gravi conseguenze a livello delle popolazioni cellulari.
3. Patologia della cellula
Come accennato nell'introduzione, nel momento in cui si è iniziato a comprendere in profondità i meccanismi responsabili del funzionamento di specifici processi fisiologici e a collegare le modificazioni di questi meccanismi con eventi patologici, i confini tra fisiologia e patologia della cellula si sono progressivamente confusi. È divenuto infatti chiaro che, da un lato, alterazioni anche gravi di specifiche, importanti molecole possono essere compensate e restare quindi senza un correlato patologico rilevabile dallo studio della funzionalità cellulare. A questo proposito, possiamo citare la dimostrazione - divenuta ormai classica - che la trasformazione di una cellula da normale a tumorale richiede in genere la mutazione (somatica) non di una ma di numerose molecole regolative, i famosi oncogeni (al cancro si arriva soltanto passo passo, non in un solo colpo). Dall'altro lato, molte delle lesioni descritte tradizionalmente sono talvolta considerate di dubbio significato patologico (come, ad esempio, la degenerazione ialina o quella grassa) oppure di significato largamente aspecifico, come risultato di condizioni di disagio cui le cellule sono state sottoposte. Nei seguenti paragrafi perciò ci limiteremo a discutere soltanto un piccolo numero di problemi sicuramente connessi a fenomeni di patologia cellulare.
a) Morte della cellula: apoptosi e necrosi
In ogni organismo, la proliferazione è controbilanciata, almeno in larga misura, dalla morte delle cellule. Fino a qualche anno fa si riteneva che questo processo avvenisse tramite un solo meccanismo. Dallo studio sia dello sviluppo embrionale che della fisiologia di specifici tipi cellulari, come le cellule del sangue e quelle immunocompetenti, è stato in seguito chiarito che la morte cellulare in realtà può esser conseguenza di due processi profondamente diversi: morte programmata, o ‛apoptosi', e morte occasionale, o ‛necrosi'. L'aggettivo ‛programmata' spiega già le caratteristiche fondamentali del primo dei due processi: non un evento imprevisto per la cellula, ma piuttosto l'attivazione di una sorta di programma di differenziamento mediato dalla sintesi di specifiche proteine e inibito da altre, la più famosa delle quali è il prodotto del protoncogene BCL-2 (v. Rubin e altri, 1994). Una sorta di suicidio, insomma. Una volta entrata nel programma, la cellula va incontro a una serie di modificazioni molto vistose: attraverso condensazione ed estesa idrolisi del DNA le gigantesche molecole cromosomiche sono tagliate in sequenze di dimensione abbastanza uniforme; la condensazione del citoplasma provoca il blocco delle attività funzionali e la progressiva frammentazione del citoplasma stesso; i frammenti così prodotti sono rapidamente fagocitati dalle cellule adiacenti e/o da macrofagi, con rapida digestione lisosomiale delle molecole e riutilizzo dei componenti base a fini sintetici. Il processo è rapido e finisce per non lasciar traccia, dato che non stimola reazioni infiammatorie o di altra natura.
Questo tipo di morte ‛discreta' era già stato osservato in passato. Solo recentemente, però, è divenuto chiaro che esso svolge un ruolo fondamentale specialmente durante lo sviluppo, quando miliardi di cellule devono essere eliminate per poter dar luogo a un organismo equilibrato. Si pensi ai neuroni, che in molte zone si sviluppano in grande eccesso e si conservano soltanto se rimangono funzionanti e riescono ad avere accesso a fattori di crescita liberati dalle cellule bersaglio. Altrettanto importante è l'eliminazione per apoptosi delle cellule immunocompetenti specifiche per antigeni endogeni, il cosiddetto self: se non fossero eliminate durante lo sviluppo esse sarebbero destinate a indurre attacchi autoimmuni. L'apoptosi si verifica anche dopo la nascita: si pensi, ad esempio, ai miliardi di granulociti del sangue, destinati a sopravvivere solo 4-5 giorni, cioè a essere quotidianamente eliminati in altissimo numero.
Lesioni di qualunque natura (fisica, chimica, traumatica, ecc.) possono indurre morte cellulare attraverso l'altro meccanismo, la necrosi. In questo caso ha luogo non tanto condensazione, quanto rigonfiamento e disorganizzazione di nucleo e citoplasma, con rottura della membrana plasmatica e fuoriuscita del citosol. Il processo richiama leucociti e linfociti, con formazione di infiltrati che possono durare anche a lungo. Nel processo di necrosi un ruolo importante è attribuito al Ca2+, il cui aumento nel citoplasma provoca attivazione di enzimi (proteasi, nucleasi) che digeriscono il materiale cellulare. Nel caso dei neuroni anche processi prolungati di iperstimolazione si sono dimostrati capaci di indurre morte Ca2+-dipendente, oggi nota come eccitotossicità.
b) Le cellule tumorali
Le caratteristiche microscopiche delle cellule tumorali, pur non essendo facilmente riconducibili a modelli comuni, hanno avuto importanza fondamentale a scopi diagnostici, almeno durante tutto l'ultimo secolo. In generale, le cellule tumorali mantengono proprietà tipiche dei tessuti di origine, accompagnate da un variabile stato di sdifferenziamento e da frequenti aberrazioni di crescita, dovute anche alle condizioni di vascolarizzazione del tumore. Al quadro microscopico si accompagnano spesso particolari proprietà funzionali, rilevabili, ad esempio, nelle cellule in coltura: aumento della frequenza delle mitosi; minore dipendenza da siero e fattori di crescita; perdita dell'inibizione da contatto (dell'arresto, cioè, della proliferazione quando le cellule si toccano formando uno strato continuo); crescita di colonie cellulari in mezzo semisolido. Il grande progresso degli ultimi quindici anni è rappresentato dall'identificazione di una serie di geni specifici per proteine che regolano la crescita cellulare, la cui alterazione (in genere per mutazione puntiforme) aumenta la probabilità di uno sviluppo tumorale della cellula. Come già accennato, però, la mutazione di uno solo di questi geni - la transizione, cioè, di un protoncogene (normale) a oncogene (funzionamento non più regolato) - non è in genere sufficiente a modificare il fenotipo cellulare, probabilmente perché la cellula è in grado di compensare per una singola lesione molecolare. Viceversa, l'espressione di due o più oncogeni è spesso tumorigena. Quest'ultimo risultato si può spiegare sulla base del fatto che i prodotti dei vari protoncogeni sono tutti responsabili di specifici passaggi nella catena di reazioni scatenate da fattori di crescita, a partire dai recettori fino ai fattori di trascrizione nucleari. Una lesione molecolare multipla risulterà quindi inevitabilmente sinergica, travolgendo i meccanismi di compenso e inducendo irreversibili cambiamenti fenotipici e funzionali.
c) Le malattie genetiche
Più di cinquemila malattie sono oggi riconosciute come genetiche, dovute cioè a mutazioni, in genere germinali, di singoli geni, e per oltre il 15% di tali malattie sono state identificate la lesione del DNA e le conseguenze nelle corrispondenti proteine. Molte volte la lesione colpisce specificamente un organello, per esempio i lisosomi o i mitocondri, oppure un'altra struttura, quali le giunzioni comunicanti, il citoscheletro, singoli componenti delle membrane - di superficie ed endocellulari - e così via. Le conseguenze cellulari possono essere varie. Alcune volte riguardano direttamente le strutture lese: ad esempio, si ha accumulo di sostanze nei lisosomi (tesaurismosi) o degenerazione dei mitocondri; altre volte le conseguenze sono soprattutto indirette, come nel caso della distrofia muscolare, in cui l'apparato contrattile del muscolo tende a degenerare mentre la lesione genetica riguarda una proteina periferica della membrana; in altri casi ancora, infine, la lesione molecolare può affiorare funzionalmente solo in condizioni particolari dell'organismo. La comparsa delle lesioni cellulari segue comunque una logica, anzi lo studio delle cellule che esprimono la mutazione può risultare utile a chiarire specifici aspetti di fisiologia cellulare, coordinati con quelli lesi geneticamente e quindi alterati dalla lesione genetica stessa.
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