FRAMMENTISMO
Col termine "frammentismo" si suole designare quella teoria dell'arte, quella poetica, quel gusto che furono proprî, in Italia, della generazione di scrittori posteriore al D'Annunzio, raccolta idealmente intorno alla rivista fiorentina La Voce o a minori riviste di poesia quali Lirica e Riviera Ligure; e quindi la letteratura e il "genere letterario" (inteso come formazione storica) del "frammento" che negli anni avanti e durante la guerra furono la concreta manifestazione di tale gusto, e che, come contrassegnano un po' tutto quel periodo, così hanno avuto largo influsso, attraverso azioni e reazioni più o meno dirette e consapevoli, sulla letteratura e cultura successive.
Al centro di codesta poetica è il concetto di poesia come brevità, come impressione, come immediatezza autobiografica, come folgorazione lirica dei sensi, fuori di ogni disegno e struttura, di ogni ordine logico di rapporti; cioè l'idea che la poesia non possa essere che a luoghi, a tratti e, appunto, a frammenti, e che fra lavoro poetico di grande ampiezza e durata, fra oggettivazione delle proprie impressioni, fra pensiero e poesia propriamente detta non sia possibilità di accordo. Scriveva nel suo Giornale di bordo (1915) uno dei maggiori rappresentanti e dei più dotati artisti di questo gusto, A. Soffici: "Poter fare che la parola non sia un membro di un discorso condotto, sviluppato verso un fine, chiaro alla ragione cattivata passo a passo, ma un segno autonomo, folgorante, irradiante, propagantesi in mille onde suggestive, slargantesi in tutte le sue possibilità evocative, senza intermediari, fino al seguente che gli si associa e lo giustifica, ed è a sua volta giustificato e illuminato da esso per l'espressione finale di un momento di vita!". E anche, in polemica con i "classicisti", sostenitori della composizione, della struttura, dell'armonica rispondenza fra il tutto e le parti: "La grande macchina che [costoro] vedono con gli occhi della mente è un aggregato di frammenti... Giacché sempre la bellezza è frammentaria in un'opera... quando non ci si contenta di esprimere un momento di vita sentita in tutta la sua pienezza, e non più. Per un istante vitale, in un grande lavoro, quanti punti di stanchezza e di morte! Togliete le arzigogolature teologiche, morali, storiche, politiche, geografiche e vedrete quanti sono i passi meramente poetici della Divina Commedia".
Donde l'avversione dei frammentisti per il romanzo e in genere per la narrativa, ritardante o sperperante, come diceva un altro vociano, G. Boine, in fantocci e in "grafici rettorici" estranei alla nostra anima, una emozione la quale, nuda, sarebbe stata "un grido, od un lamento,... un bagliore od una interiore colorazione".
Donde il loro dispregio per il teatro, per il dramma, relegato fra le cose estranee non solo all'arte ma alla letteratura.
D0nde la loro polemica contro il verismo ottocentesco, considerato come specchio della vita, come "fotografia" della circostante realtà borghese, che non ha nulla che fare con quella sola realtà che è la realtà della nostra vita soggettiva.
Conseguenza, e insieme premessa, di tutto ciò era l'esaltazione della lirica come dell'unico genere compatibile con l'arte, e il loro provarsi in una scrittura rapida, impressionistica, altrettanto intesa all'espressione del proprio io quanto aliena da ciò che fosse racconto, dialogo, individuazione di personaggi o caratteri, intreccio, aneddoto e simili; e tanto pronta nel suggerire quanto cauta nel definire. Soli libri dell'avvenire, pertanto, secondo il Soffici, le "raccolte di pure effusioni liriche, autobiografie, epistolari e volumi di osservazioni psicologiche": intendendo per psicologia non già l'analisi al modo dei naturalisti, ma l'introspezione sensuosa, l'interiore scoperta e illuminazione. A significare le quali i frammentisti, per amore d'immediatezza, e per il dichiarato proposito di romperla con la tradizione poetica italiana là dove essa fosse d'impaccio al proprio lirismo, preferirono quasi sempre al verso, sia pure libero, la prosa: una prosa lirica, o lirica in prosa, concisa, epurata da tutto che paresse estraneo a codesto lirismo, e non da altro misurata che dalle arsi e dalle tesi della propria emozione; una prosa fatta di vocaboli comuni, di una lingua di tutti i giorni, elevata a linguaggio poetico solo per essenzialità lirica. Il "frammento" nasceva, insomma, nelle intenzioni dei frammentisti, come rimedio contro una frammentarietà così concepita.
Nella quale poetica, si ritrovano un po' tutti i motivi delle poetiche sorte dal gran travaglio romantico, delle poetiche simboliste e decadenti, della "poesia pura", dal Poe e dal Baudelaire al Mallarmé, al Rimbaud, al Pascoli, al D'Annunzio, ai futuristi; e insieme si trova il vivo riflesso di quelle speculazioni intorno al carattere lirico dell'arte e di quelle distinzioni fra poesia e non poesia, che l'estetica idealistica, in particolar modo la crociana, erede ancor essa di quel travaglio, era venuta e veniva parallelamente elaborando con rigorosa metodologia. Anzi, delle une (corroborate anche da letture del Bergson) e delle altre i frammentisti tentano o attuano in qualche modo la contaminazione su un piano piuttosto empirico che coerentemente teorico: che era del resto il piano al quale li inclinava la loro natura più di artisti e letterati che di pensatori, e quello stesso pragmatismo che così bene pareva incontrarsi con la loro ansia di nuovo, di sensazioni inusitate, di cose ineffabili, e che dava un'accentuazione tipicamente fattiva e, appunto, sperimentalistica anche all'idealismo di quanti fra essi si professavano seguaci del Croce o del Gentile. La "liricità" crociana diveniva in costoro, senz'altro, la "lirica"; un grado dello spirito, genere letterario (e lo spirito stesso una successione di momenti irrelati); e la parificazione, in sede assolutamente estetica, della prosa con la poesia, dava luogo, nel fatto artistico, alla preferenza dell'una forma all'altra.
Ma è pur vero che il significato saliente del frammentismo, la sua importanza nella storia della letteratura italiana sta appunto qui, nella conciliazione delle due tendenze che per alcuni decennî erano state presenti alla coscienza e nell'opera di molti scrittori, senza peraltro giungere a un'intrinseca unione, anzi spesso rimanendo in contrasto: la tendenza a considerare l'arte come effusione del proprio ío, e quindi la lirica come il "genere" per eccellenza; e la tendenza a risolvere la lirica in prosa. Tendenze proprie, certo, di tutto il romanticismo, e decadentismo, e che difatti ai frammentisti si palesavano specialmente attraverso i poemetti in prosa del Baudelaire; ma che nella letteratura italiana, dove la tradizione classica e l'educazione retorica avevano più profonde radici che in qualunque altra, erano venute ad assumere carattere e valore particolari e a coincidere con l'altro problema, che fu appunto fondamentale del romanticismo italiano, e affiora anche nel decadentismo, di affrancare la poesia dal linguaggio "poetico", cioè aulico e convenzionale, e di adeguarla al linguaggio "parlato", comune, familiare. Accanto al Berchet delle liriche, popolari d'intenti ma ancora auliche di forma, è il Berchet traduttore in prosa delle romanze del Bürger. Accanto al Leopardi sostenitore, in alcuni pensieri dello Zibaldone, della priorità della lirica, è non solo il Leopardi che in altri pensieri, anticipanti il Poe di The poetic principle, sostiene la necessaria brevità dei componimenti lirici ("che può aver a fare colla poesia un lavoro che domanda più e più anni d'esecuzione? la poesia sta essenzialmente in un impeto... I lavori di poesia vogliono per natura esser corti" [29 agosto 1828]), e quindi la natura rapsodica di quelli lunghi, appartengano essi all'epica o alla drammatica (però, con profonda intuizione dell'unità ideale, non fisica, della poesia, anche se con patente contraddizione, riconoscerà che "La Divina Commedia non è che una lunga Lirica, dov'è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti" [3 novembre 1828]); ma anche il Leopardi che caldeggia la prosa come "più confacente del verso alla poesia moderna" "Ma in sostanza, e per se stessa, la poesia non è legata al verso. E pure fuor del verso, gli ardimenti, le metafore, le immagini, i concetti, tutto bisogna che prenda un carattere più piano, se si vuole sfuggire il disgusto dell'affettazione, e il senso della sconvenienza di ciò che si chiama troppo poetico per la prosa, benché il poetico, in tutta l'estensione del termine, non includa punto l'idea né la necessità del verso, né di veruna melodia. L'uomo potrebb'esser poeta caldissimo in prosa, senza veruna sconvenienza assoluta: e quella prosa, che sarebbe poesia, potrebbe senza nessuna sconvenienza assumere interissimamente il linguaggio, il modo, e tutti i possibili caratteri del poeta" (14 settembre 1821). Insomma, accosto al Leopardi dei Canti, il Leopardi delle Operette morali, cui non sembrano ancora guardare i frammentisti, ma al quale si rifaranno i prosecutori della loro esperienza, gli scrittori della Ronda. Accanto al Tommaseo che condivide col Capponi l'idea che "la poesia... non si ha se non per frammenti: che le interiezioni sono più poetiche delle epopee: che unica poesia di noi mortali è la lirica: che nella lirica stessa non si può tessere una serie d'idee, senza che a cinque parti poetiche si intreccino dieci aritmetiche: che l'aritmetica è il riempitivo de' vani lasciati dai frammenti poetici" (lettera al Capponi, del 1833), è il Tommaseo che, insoddisfatto della sua tormentata poesia, tenta di esprimere più convenientemente in una prosa poetica quell'interesse per la vita degli umili che gli derivava dall'insegnamento del Manzoni. Accanto al Carducci fautore dell'alta lirica in versi, e aspro censore, in nome di essa e del classicismo, della prosa narrativa e in ispecie del romanzo, è pure il Carducci che dà mirabile esempio di prosa poetica o poesia in prosa al modo romantico, il Carducci delle divagazioni e delle parentesi fra autobiografiche e paesiste. Accanto al Pascoli dal linguaggio prezioso è il Pascoli dal linguaggio borghese, persino vernacolo, e che con il largo uso dell'onomatopea fa posto, a suo modo, alle esigenze della spregiata realtà, e del contemporaneo verismo. Accanto al D'Annunzio proclamante che il verso è tutto, e gran "signor della rima", è il D'Annunzio grande artefice del verso libero, e il D'Annunzio cesellatore raffinato della prosa poetica dei suoi romanzi; accanto al D'Annunzio magniloquente di codesta prosa, il D'Annunzio dai modi semplificati e abbreviati (che piaceranno ai frammentisti) delle sue "faville" e dei suoi libri notturni e segreti. Gli scapigliati, intanto, i tardi romantici, il Betteloni immettono nella loro poesia il linguaggio della prosa di tutti i giorni; finché i crepuscolari, nella loro irridente malinconia, dànno l'ultimo colpo alla tradizionale dignità del verso e della poesia; e, per contro, il Panzini, alla sua prosa narrativa conferisce sempre più le intime movenze e il ritmo della lirica propriamente detta. Da un lato insomma, la poesia voleva abdicare al suo rango di poesia in versi e al suo linguaggio particolare; dall'altro, la prosa aspirava ad ereditare l'intensità e il tono della poesia. Dalle Operette morali al Carducci, al D'Annunzio di rado infatti la "prosa poetica" era rifuggita da ciò che il Leopardi stesso chiamava "troppo poetico". Ora il compito che il frammentismo venne implicitamente ad assolvere, acquistando nel quadro del decadentismo europeo una fisionomia inconfondibile, fu quello di trovare - nella sua avversione alla letteratura precedente e in ispecie al fasto del D'Annunzio, da una parte, e dall'altra alla sciatteria di molta narrativa veristica - un'espressione di tono medio, che delle due tendenze fece in certo senso una sola.
Naturalmente, per tutte codeste esigenze e intenzioni polemiche, il "frammento" non solo nasce accompagnato da un'acuta coscienza critica, ma è pervaso, proprio in quanto fatto artistico, di criticismo: conforme, del resto, agli spiriti d'una generazione che, per sottrarsi al pansensualismo dannunziano, per evadere dalla sensazione, di cui tuttavia era prigioniera, non trovava altro mezzo che la revisione d'ogni valore, il problemismo, l'intellettualismo. Coscienza critica che era poi l'opposto della vagheggiata immediatezza, e che riammetteva di fatto, sebbene nelle forme particolari di autobiografia e di esame di coscienza cui abbiamo accennato, quello psicologismo, quella logica, quel pensiero e insomma quegli altri elementi spurî che i frammentisti volevano esclusi dall'arte; ma che era anche - dopo la svalutazione della letteratura e il dissolvimento della parola nella musica della canzonetta o nella materiale sonorità, operati da crepuscolari e futuristi - la condizione necessaria per il rinnovamento della tradizione e per la nascita d'una nuova letteratura. E infatti è vivo nei frammentisti, nonostante la loro apparente disinvoltura diaristica, e la loro libertà sintattica, il gusto della parola, dei valori formali. Gusto che essi ereditano particolarmente dal D'Annunzio: ma che per la ricerca, in esso implicita, di un più intimo io, per quel bisogno, anche, di precisione, di evidenza fuori della mera suggestione musicale, ha già un significato, non soltanto edonistico, ma umanistico. Così la ricerca di una parola-colore, di una scrittura che arieggi la pittura (diceva il Soffici: "posar le parole come il pittore i colori"), se è d'origine sensuale e, per i vagheggiati imprestiti fra le varie arti, dannunziana o magari futurista, è però anche dovuta a quel bisogno di evidenza, di concretezza. Non è semplice caso che parecchi di codesti scrittori fossero anche pittori o intendenti di pittura, come il Soffici e il Linati; né che codesta arte abbia avuto in questo periodo grande affinità di problemi e di sviluppi con la poesia. L'impressionismo cui in pittura essi erano confortati dalla loro rivalutazione o "scoperta" dell'impressionismo francese, la preferenza da essi data al paesaggio e alla natura morta sul ritratto, sull'affresco e insomma sul racconto pittorico, trovano bene un riscontro nel "paesaggio" lirico, scarso di figure quanto ricco di notazioni visive, nel "diario", nel "viaggio", nel "giornale di bordo" dominanti nella loro letteratura, e nei quali essi trascrivono la loro brama di vivere e di vedere, di riconoscersi nel mondo circostante, nelle cose, nella natura, di superare il proprio atomismo spirituale in una ordinata visione morale.
Nasce pertanto una scrittura nervosa e aggiuntiva, ricca di analogie e di metafore, dal periodo a brevi incisi, separati dal punto fermo o accostati dal punto e virgola, assunto dai frammentisti a particolare funzione articolativa, dal lessico vivace ma non vistoso, "parlato", scarso di verbi di modo finito (dell'infinito, il modo del movimento, dell'azione, è invece largo uso), quanto abbondante di aggettivi qualificativi. Una scrittura di breve respiro, in cui modi dannunziani e pascoliani, un fare bozzettistico, specie d'un bozzettismo toscano, e un fare simbolico, magico, non disgiunti da una certa simultaneità futurista, si mescolano o si fondono in varie guise, secondo le qualità dello scrittore; ma che ha sempre, almeno nei migliori, da A. Soffici a C. Linati, da S. Slataper a G. Papini, da P. Jahier a Giovanni Bellini, da G. Boine a C. Sbarbaro, da D. Campana a Carlo Stuparich, una suggestiva intensità, una levitante freschezza, un sapore di esperienza viva, di vita come esperienza, di ricerca e confessione non oziosa, anzi spesso - come nel Boine, nello Slataper, nello Jahier, nello Stuparich - dolorosa, pur se gracile o non profonda. E se taluno, come C. Rebora, B. Binazzi, il primo Ungaretti, non abbandonano la poesia in verso; o tal altro (basti citare il primo Pea) tenta il racconto o il romanzo, si tratta d'una poesia e d'una narrativa che riflettono gl'intimi modi di codesta prosa, del frammento.
Diffidenti della tradizione e di ogni regola costituita (altra loro affinità col futurismo), tributarî delle altre letterature, specie della francese, da cui derivano modi e spezzature sintattiche; europeizzanti, scarsi conoscitori, i più, delle letterature classiche e ignari di latino, i frammentisti venivano così a riallacciani, continuatori proprio in quanto innovatori, alla tradizione italiana. Sorgeva con essi un nuovo ordine, una nuova disciplina stilistica; si formava una nuova prosa d'arte; si affinava, a contatto di particolari problemi espressivi, il grande travaglio critico di quegli anni. Poiché è vero che la critica in atto dei frammentisti, la loro critica letteraria, trasferì la discriminazione crociana di poesia e non poesia, e il giudizio di valore, in un ambito impressionistico, di mera sensibilità, ed errò spesso nella valutazione della letteratura del passato o fu ingiusta verso certi scrittori contemporanei, isolando lo scrittore e la sua opera dal flusso della storia, e riducendo opere unitarie di spirito a una congerie di frammenti e in genere ritagliando il paesaggio o le figure dalla psicologia. Ma è pur vero che da R. Serra a G. De Robertis, valse anche, con la delibazione dei singoli frammenti e delle singole parole, a instaurare nella critica letteraria, allora più preoccupata del problema critico in sé che non della poesia, una sorta di filologia estetica, una attenta, amorosa comprensione del bello. Quel "commento continuo a piè di pagina" che sarà poi, fuori d'ogni impressionismo e d'ogni trasposizione paesistica, ma anzi in un ambito storicistico, l'ideale della critica più giovane, ha insomma nel frammentismo uno dei suoi antecedenti.
Ed ecco che dopo l'esperienza della guerra, nella quale i frammentisti vennero finalmente a contatto con quella "umanità" che penosamente andavano cercando (donde, appunto, il singolare carattere sperimentale, euristico della letteratura italiana di guerra), fu proprio il Soffici a bandire il "richiamo all'ordine", a farsi apertamente difensore della tradizione. Il ciclo ideale del frammentismo era concluso: sorgevano dal suo seno slesso nuovi problemi, maturava un nuovo gusto. E la storia della letteratura italiana più recente è appunto, in gran parte, la storia degli sviluppi dell'esperienza frammentista: dalla restaurazione in senso classico della Ronda, che amplia a "saggio" il frammento e comincia a dare una nuova sintassi alle sensazioni e alle immagini; agli scrittori "evocativi" che il "viaggio", il "diario", l'"esame di coscienza" mutano in una sorta di idillio favoloso, e le folgoranti impressioni mirano a fondere in un discorso continuo, in un racconto soffuso di "aura poetica "; ai nuovi narratori che, ordinando le sensazioni in prospettive morali, tendono a oggettivare l'autobiografia in personaggi, azione, intreccio, trattati con piglio fra realistico e allusivo. Dalla nuova prosa, insomma, che pur abbandonando lo scoperto lirismo, e pur distendendosi e articolandosi, ha appreso da quella macerazione critica a serbare una sua essenzialità, un suo tono e un suo ritmo coerenti; alla nuova poesia, che, accentuando e anzi a volte esasperando l'esigenza di "purezza" va laboriosamente liberando dalla prosa lirica un proprio linguaggio, più elevato non già di vocabolario ma di tono, e che, aspirando al canto spiegato, ritorna, innovandoli, all'endecasillabo e ai metri chiusi.
Bibl.: Manca una compiuta trattazione dell'argomento. Accenni più o meno ampî sono in tutti i saggi e panorami critici della letteratura contemporanea (v. italia: Letteratura, XIX, pp. 959-60); ma spesso viziati o da un'impostazione moralistica del problema (come nel Novecento di A. Galletti, Milano 1935), o da una sopravvalutazione estetica di esso (come nel panorama 1900-1930 di A. Gargiulo, in L'Italia letteraria, 19 gennaio 1930 segg., che rimane però lo studio più coerente; v. specialmente la puntata dell'11 maggio 1930). Utili spunti e osservazioni in W. Binni, La poetica del decadentismo italiano, Firenze 1936. Cfr. inoltre: A. Momigliano, Le tendenze della lirica ital. dal Carducci ad oggi, in La Nuova Italia, dic. 1934; F. Flora, La poesia ermetica, Bari 1936; B. Croce, La poesia, ivi 1936, pp. 96-97, 276-77 (e anche Conversazioni critiche, I, 2ª ed., ivi 1924, pp. 63-67); E. De Michelis, Saggio su Tozzi. Dal frammento al romanzo, Firenze 1936; L. Russo, Ritratti e disegni storici dal Machiavelli al Carducci, Bari 1937, pp. 345 segg., 421 segg.; U. Bosco, Dal Carducci ai crepuscolari, in Nuova Antologia, 1° marzo 1938. Per la lett. di guerra, per i "generi" e per la punteggiatura, A. Bocelli, ibid., 1° ottobre 1935, 1° novembre 1936 e 16 giugno 1937. Per gli affini problemi della pittura, V. Guzzi, Pittura italiana contemporanea, Milano-Roma 1931.