Francia
In F. nacque ufficialmente il cinema: il 28 dicembre 1895 i fratelli Louis e Auguste Lumière organizzarono al Grand Café di Parigi il primo spettacolo pubblico e a pagamento del Cinématographe Lumière, un apparecchio da loro brevettato che permetteva la proiezione di immagini in movimento, superando i limiti del cinetoscopio di Thomas A. Edison (1893), in grado di consentire soltanto una visione ravvicinata. L'evento, che riscosse un successo immediato, fu seguito dalla comparsa di numerosi apparecchi equivalenti, per realizzare brevissimi documentari come quelli presentati al Grand Café. L'avvenire della nuova invenzione sembrava definito, quando Georges Méliès ebbe l'idea che deviò il corso di quella che sarebbe divenuta la settima arte, trasformando uno spettacolo animato, privo di una precisa identità, in una forma di rappresentazione alternativa al teatro. "Quello che interessava a Méliès era l'ordinario nello straordinario, a Lumière invece lo straordinario nell'ordinario" (cit. in J. Aumont, L'œil interminable. Cinéma et peinture, 1989; trad. it. 1991, p. 7). Con questa definizione Jean-Luc Godard liquida in poche parole le due figure paradigmatiche dell'alba del cinema: i Lumière, che rappresentarono la tecnologia e il realismo, e Méliès, ovvero l'unione dell'arte con la creatività artigianale, in breve la finzione. Le caratteristiche di questi pionieri risultano comunque più complesse, dato che i Lumière soltanto dopo l'invenzione e la sperimentazione di alcune gag famose (come L'arroseur arrosé, 1895) si concentrarono sull'attività industriale e sulle possibilità scientifiche del nuovo strumento, mentre Méliès, da parte sua, sperimentò molti dei futuri mestieri del cinema (operatore, regista, produttore), grazie a una formazione professionale polivalente, esperto com'era non solo di pittura, regia e scenografia, ma perfino delle tecniche di prestidigitazione e illusione ottica. Mentre gli operatori dei Lumière (tra cui va ricordato Alexandre Promio) in pochi anni invadevano il mondo per riprenderne le vedute più esotiche, Méliès creò con il nuovo mezzo un'appendice della fantasia, un ibrido tra poesia e trucco scenico, cercando quelle magie che il teatro non poteva offrire (Le voyage dans la Lune, 1902, Il viaggio nella Luna). A questo proposito è necessario citare le sperimentazioni tecniche (sovrimpressioni ed effetti ottico-meccanici, come il ralenti e il passo uno) che insieme ad altre invenzioni del primo decennio di vita del cinema ‒ come il formato Cinéorama, ideato da Raoul Grimoin-Sanson nel 1900, e il disegno animato, inventato da émile Cohl nel 1908 ‒ collocarono il Paese in una posizione di primato sul piano mondiale.
La F. diede i natali non solo alla dimensione creativa del cinema, ma anche a quella industriale, grazie a Charles Pathé e Léon Gaumont (v. Gaumont). Il primo costituì nel 1896 la società Pathé Frères, e tra il 1903 e il 1906 la organizzò secondo un modello di azienda integrata verticalmente che, a partire dal 1907, sarebbe stato imitato dalle case di produzione statunitensi: mise infatti alle proprie dirette dipendenze scenografi, operatori e registi (tra cui Ferdinand Zecca), e costruì e gestì teatri di posa e (dal 1906) sale di proiezione. Nel 1907 la Pathé passò dalla vendita al noleggio dei film, inaugurando la politica moderna della distribuzione, e divenne in breve una multinazionale con uffici in tutti i Paesi: per alcuni anni fu la più grande casa di produzione del mondo, arrivando a occupare i tre quarti del mercato francese e un terzo di quello statunitense. Nel 1908 creò il cinegiornale Pathé journal, cui seguirono, nel 1910, le Actualités della Gaumont et Cie. Il monopolio dei due industriali sconfisse il cinema artigianale e i piccoli proprietari di sale ambulanti, non più competitivi: lo stesso Méliès fu costretto a farsi assumere dalla Pathé.
La cinematografia francese, sebbene avesse raggiunto un solido impianto economico e commerciale, non era però progredita allo stesso modo sul versante della qualità: venivano ripetuti i trucchi degli esordi, riprese le gag dei caffè-concerto o realizzati drammi ispirati alla cronaca, in film confusi ed eccessivamente brevi (dai 6 ai 15 minuti), ancora privi di una propria articolazione narrativa come dei nuovi elementi espressivi che si andavano elaborando altrove. Dopo le geniali invenzioni di Méliès, la F. non era stata insomma più capace di far evolvere il linguaggio cinematografico, a differenza della Scuola di Brighton inglese (1896-1907) e dello statunitense David W. Griffith (dal 1908). Nel 1908, per contrastare la crisi che si profilava all'orizzonte, due banchieri, i fratelli Paul e André Lafitte, fondarono la società Film d'art, che aveva lo scopo di nobilitare il cinema facendone una forma d'arte: il primo film fu L'assassinat du duc de Guise (1908) di André Calmettes e Charles-Gustave-Auguste Le Bargy, interpretato da attori della Comédie française. I Lafitte furono ben presto imitati da Gaumont con i Films esthétiques e da Pathé con la Société cinématografique des auteurs et gens de lettres (SCAGL). Il nuovo repertorio comprendeva sia tragedie classiche sia famosi testi letterari, trasposti con intenti divulgativi e d'intrattenimento (i cineromanzi, sul modello inglese). Anche se Les misérables (1912; I miserabili) di Albert Capellani, prodotto dalla SCAGL, riportò un grande successo, sebbene fosse molto lungo per l'epoca (5 ore nella versione integrale), la nuova tendenza aveva basi fragili già all'origine: il regista aveva una posizione ancora debole, mentre gli attori teatrali erano in genere vedettes famose, che difficilmente sottostavano ai suoi ordini, e preferivano una recitazione enfatica, dannosa per il nuovo mezzo.
L'industria cinematografica francese, che nel 1913 copriva il 90% della produzione mondiale, perse l'egemonia in seguito alla Grande guerra: i film statunitensi occupavano in F. un terzo del mercato già nel 1916, e la metà nel 1918. Anche sul piano qualitativo, nonostante la presenza di personalità quali Max Linder e Louis Feuillade, la cinematografia francese diede contributi più poveri di quelle italiana, scandinava e statunitense: approdarono perciò in Italia, dove potevano trovare ingaggi migliori, molti tecnici e comici della Pathé, tra cui André Deed (ribattezzato in Italia con il nome di Cretinetti). Linder invece rimase in F., dove trasformò il comico da genere grossolano a uno più raffinato, basato su una gestualità precisa e spesso ironica: il suo soggiorno negli Stati Uniti (1916-1923) influenzò Charlie Chaplin, che dichiarò di essergli debitore. L'idea più significativa fu però quella di Feuillade, della Gaumont, che inventò il film seriale (v. seriale, film), con Fantômas (1913-14), dal feuilleton di P. Souvestre e M. Allain, Les vampires (1915-16; I vampiri o I cavalieri delle tenebre) e Judex (1917): tutte opere di genere poliziesco con elementi fantastici e misteriosi; anche in questo caso però si trattò più di un'impresa commerciale che di un vero cambiamento estetico.
La fine del conflitto vide affiancarsi alla concorrenza statunitense quella tedesca: nel 1920 le produzioni francesi giunsero così a coprire appena un sesto del proprio mercato. Sul piano artistico si assistette tuttavia a una nuova fase creativa, quella dell'Impressionismo. Questa corrente, formata per lo più da registi che erano stati anche scrittori e saggisti, cercava nella realtà quelle qualità intrinseche che potevano essere svelate dall'immagine cinematografica (definite con il termine fotogenia). Intellettuali come Ricciotto Canudo e Louis Delluc affrontarono il problema di fornire uno statuto teorico alla nuova arte. Delluc, in particolare, fu tra i primi difensori di una critica indipendente in contrasto con quella promozionale pagata dalle produzioni, diventando il portavoce dei registi della rinascita del cinema francese, tra cui Abel Gance e Marcel L'Herbier; per tentare una sperimentazione pratica delle sue concezioni teoriche affrontò anche la regia (Fièvre, 1921; La femme de nulle part, 1922). Nel 1920 fondò il primo cineclub (termine da lui stesso coniato): sulla scia di questa iniziativa ne vennero inaugurati altri, come il Club des amis du septième art, promosso nel 1921 da Canudo, e in breve tempo a Parigi si creò un vero e proprio circuito dove venivano proiettati i film d'avanguardia e militanti, fino a formare un nuovo spazio parallelo a quello di consumo. Incoraggiato da Delluc, anche L'Herbier fu negli anni Venti saggista, organizzatore e animatore dell'avanguardia; più interessato alle qualità espressive dell'immagine che agli aspetti testuali e di sceneggiatura privilegiati da Delluc, realizzò L'inhumaine (1924; Futurismo), melodramma fantastico che mette in scena il gusto estetico dell'epoca, opera antologica sull'art déco ma di scarso successo commerciale, e Feu Mathias Pascal (1925; Il fu Mattia Pascal), con cui raggiunse la notorietà, tratto da L. Pirandello e interpretato da Ivan Mo-sjoukine (Mozžuchin) e dall'esordiente Michel Simon. Gance, in La roue (1923; La rosa sulle rotaie), aveva già arricchito, nella direzione di un virtuosismo a tratti eccessivo, il linguaggio cinematografico; ma la sua opera chiave rimane Napoléon (1927; Napoleone), tra i più grandi kolossal francesi di tutti i tempi, un'opera enfatica, epico-lirica, ricca di simbolismi, della durata iniziale di 8 ore. Presentava molte novità: la macchina da presa era estremamente mobile, e la proiezione era ripartita su tre schermi che allargavano il campo visibile o servivano da contrappunto narrativo l'uno rispetto all'altro (una multivisione ante litteram). Fra gli altri nomi del periodo, oltre a Jacques de Baroncelli (Le père Goriot, 1923) e J. Feyder (Crainquebille, 1922), emerge quello di un ex aiuto regista di Delluc, Jean Epstein, teorico e saggista, che affrontò sia il documentario (Pasteur, 1922, diretto insieme a Jean Benoît-Lévy; Finis terrae, 1929) sia il film a soggetto, con La chute de la maison Usher (1928), un'opera con scenografie rarefatte ed effetti ottici, che mirava alla depurazione metafisica dello stile espressionista e tratteggiava un tipo di horror composto di angosce e attese (è infatti considerata fondamentale per lo sviluppo del genere). Germaine Dulac divenne il nome femminile più importante della cinematografia tra le due guerre: dopo l'incontro con Delluc, si indirizzò al filone d'avanguardia con Le diable dans la ville (1925), diretto insieme a Léon Mathot, e realizzò il controverso La coquille et le clergyman (1928), di tendenza surrealista, scritto da Antonin Artaud ma in seguito da questi sconfessato. L'avvento del sonoro segnò la fine dell'Impressionismo: la maggior parte dei registi non fu capace di adeguarsi ai cambiamenti tecnici e stilistici, e pur se alcuni autori continuarono per decenni a realizzare film (Gance addirittura fino agli anni Sessanta), riuscirono a produrre tutt'al più opere di consumo, che non destarono quasi mai l'interesse della critica.Il cinema degli anni Venti vide anche la presenza di film influenzati dal Dadaismo e dal Surrealismo, a partire dal cortometraggio di Man Ray del 1923 Retour à la raison. Queste opere, spesso contrastate dal pubblico e bandite dalla censura, mantennero uno spirito di provocazione sperimentale e non approdarono al circuito di consumo. Le idee portanti erano diverse: dall'esigenza di realizzare una sorta di cinema automatico, segnato dal puro movimento di oggetti (Le ballet mécanique, 1924, di Fernand Léger e Dudley Murphy) o di forme geometriche astratte (Anémic cinéma, 1925, di Marcel Duchamp), fino alla convivenza di immagini oniriche e dettagli corporei decontestualizzati. La personalità di maggior rilievo fu senza dubbio quella dello spagnolo Luis Buñuel, che, in Un chien andalou (1929), diretto con Salvador Dalí, e L'âge d'or (1930), divenuto poi il manifesto del cinema surrealista, formulò, secondo modalità narrative originali e paradossali, una critica anticlericale e antiborghese, piena di immagini simboliche, alcune di notevole efficacia. Di spirito e stile molto vicini anche il cortometraggio Entr'acte (1924) di René Clair. Nonostante questo fervore creativo, negli anni Venti l'industria cinematografica francese vide proseguire la crisi iniziata nel 1914: la produzione scese progressivamente, fino a toccare nel 1929 i 52 film (contro i 1350 statunitensi e i 192 tedeschi), che rappresentavano poco più di un decimo di quelli in circolazione in F., mentre quelli statunitensi erano circa la metà.
Gli anni Trenta si aprirono, come nel resto del mondo, all'insegna della crisi economica segnata dal crollo della Borsa di Wall Street (1929), che si prolungò in F. per tutto il decennio, e la Pathé e la Gaumont conobbero gravi difficoltà. Con l'avvento del sonoro, però, la produzione francese approfittò delle nuove opportunità offerte dal vincolo della lingua, che aveva cambiato le regole d'importazione ed esportazione, e salì a 139 film nel 1931. Tramontato il movimento impressionista e cessati gli ultimi fuochi del Surrealismo, i primi anni Trenta furono dominati dalla dimensione popolare e quotidiana, con qualche elemento, nel cinema di Clair, incentrato sulle sorprese del destino. Con Le million (1931; Il milione) il regista mise in scena, in uno stile tra l'operetta e la commedia, il tortuoso tragitto di un biglietto vincente della lotteria che passa di mano in mano fino a ritornare al proprietario; in À nous la liberté (1931; A me la libertà) propose ancora una vicenda ispirata alla fortuna e alla speranza, in una società colpita dall'inflazione; con Quatorze juillet (1932; Per le vie di Parigi) ritornò al tema della festa collettiva, in un'esaltazione populista della semplicità, mentre il fallimento di Le dernier milliardaire (1934; L'ultimo miliardario) lo convinse a emigrare in Inghilterra. J. Feyder realizzò La kermesse héroïque (1935; La kermesse eroica), singolare film in costume sul passaggio dell'armata spagnola nelle Fiandre nel 18° sec., con citazioni della pittura fiamminga, che precorreva quelle che sarebbero state pochi anni dopo le sorti della Francia. Jean Vigo, con soli due documentari e due film, aggiunse il suo nome ai grandi registi del tempo: in Zéro de conduite (1933; Zero in condotta) descrisse efficacemente i metodi didattici reazionari, e in L'Atalante (1934) raccontò la vita di due giovani sposi su un battello nei canali di Parigi, con uno stile che superava il realismo, approdando a un controllo assoluto della dimensione estetica dell'immagine, cui aggiunse una profonda critica sociale.A partire dal 1935 la produzione calò di nuovo a 100-120 film all'anno; proseguì tuttavia la riconquista del mercato nazionale iniziata nel 1930: nel 1937 gli incassi dei film francesi superarono così quelli dei film stranieri, per la prima volta dal 1917. La crisi finì per favorire le produzioni indipendenti, i registi esordienti e quelli considerati scomodi dal cinema ufficiale; la F. divenne sinonimo di nuove possibilità, territorio di transito di registi esuli dalla Germania prima di approdare a Hollywood, quali Fritz Lang e Billy Wilder. Anche se le condizioni economiche erano difficili, o forse proprio per questa ragione, nacque una delle più importanti correnti cinematografiche della storia del Paese: il realismo poetico (v. Realismo). Registi di formazione e carattere eterogenei (Jean Renoir, Marcel Carné, Julien Duvivier) si ispirarono al Naturalismo incorniciandolo, sul versante drammatico, in cupe storie da cronaca nera, oppure, su quello romantico, in una visione favolistica e primigenia dei sentimenti: le immagini servivano da contrappunto ai testi di abili scrittori quali Jacques Prévert e Charles Spaak, i maggiori sceneggiatori del periodo. Renoir aveva iniziato l'attività negli anni Venti (Nana, 1926, Nanà; Tire-au-flanc, 1928), ma soltanto all'inizio del decennio successivo riuscì a esprimere uno stile maturo. Realizzò così Boudu sauvé des eaux (1932; Boudu salvato dalle acque), inno alla libertà dei clochards e alla loro mancanza di regole; Toni (1935), un dramma sull'immigrazione e l'integrazione sociale recitato da attori non professionisti; Le crime de Monsieur Lange (1935; Il delitto del signor Lange), film ironico, pervaso da una vena comica, in cui comunque emerge con grande originalità l'impegno politico del regista. Seguirono La grande illusion (1937; La grande illusione), un caposaldo del cinema antimili-tarista, e La règle du jeu (1939; La regola del gioco), opera complessa sulle intersezioni fra il teatro, la vita e la rappresentazione. Il nome del regista va associato altresì a quello della cooperativa di produzione Ciné-Liberté, affiliata al Fronte popolare che, mediante una sottoscrizione nazionale e un'emissione pubblica di quote, finanziò due suoi film: La Marseillaise (1937; La Marsigliese), commemorazione della F. rivoluzionaria, e La vie est à nous (1936), opera di propaganda elettorale prodotta dal Partito comunista. Il cinema del Fronte popolare si spense in breve tempo e i filoni principali del periodo rimasero quelli dei film d'intrattenimento, che esaltavano i valori della famiglia, del nazionalismo e del colonialismo, e quelli di registi quali Carné, Duvivier, Marcel Pagnol e Sacha Guitry, le cui celebrazioni poetiche delle classi emarginate e degli sbandati erano lontane da un vero impegno politico.
Carné, dopo tentativi minori, iniziò la sua grande stagione verso la fine degli anni Trenta, quando, coadiuvato dalle sceneggiature di Prévert, realizzò Quai de brumes (1938; Il porto delle nebbie), melodramma immerso in atmosfere angoscianti e rarefatte che rivelò l'attrice Michèle Morgan, e Le jour se lève (1939; Alba tragica), ancora un melodramma, incentrato su un uomo che commette un omicidio passionale, con un uso preponderante del flashback. Duvivier divenne molto noto nella seconda metà degli anni Trenta con Pépé le Moko (1936; Il bandito della casbah), che cercava di dare un alone romantico ai malviventi di Algeri, e La fin du jour (1938; I prigionieri del sogno). Pagnol, le cui opere risultano connotate da elementi di realismo poetico, dopo aver raggiunto la notorietà come drammaturgo, approdò al cinema come sceneggiatore e produttore; derivano da una sua trilogia teatrale i primi film da lui prodotti, Marius (1931) di Alexander Korda, Fanny (1932) di Marc Allégret e César (1936), che rappresentò anche il suo esordio nella regia; dimostrò sempre un profondo legame con la campagna o il mare, attingendo dal feuilleton e offrendo una miscela di ironia e dramma, con un particolare tono da commedia che in alcuni casi, come in Le Schpountz (1937; Lo Schpountz), sfociò apertamente nel comico. Il cinema di Guitry oscillò invece tra un carattere mondano-decadente e un virtuosismo sperimen-tale ma troppo legato a un istrionismo da salotto, come in Le roman d'un tricheur (1936; Il romanzo di un baro), articolato su diversi piani temporali e realizzato con tecniche differenti a seconda dei momenti. Pagnol e Guitry contribuirono, con Clair e Renoir, alla formazione di quella commedia di tradizione letteraria e teatrale, con sceneggiature articolate su scambi di ruoli e frequenti uscite ed entrate di scena, che avrebbe caratterizzato il cinema francese anche in seguito. Tra gli altri registi degli anni Trenta vanno ricordati Pierre Chenal e Jean Grémillon, mentre tra gli attori primeggiò Jean Gabin, presente nel cast di quasi tutti i grandi film del periodo, affiancato da Louis Jouvet, Jules Berry, Pierre Fresnay, Marcel Dalio, Simone Simon, Arletty.
Il periodo di libertà e fecondità creativa non durò a lungo, e fu interrotto dalla Seconda guerra mondiale; nel giugno del 1940, quando le truppe tedesche giunsero a Parigi, la produzione cinematografica fu vietata per oltre sei mesi (i film realizzati in quell'anno furono solamente 6). Non appena venne ripresa, con i finanziamenti del governo di Vichy, che aveva proibito la distribuzione dei film anglosassoni, l'attività produttiva ritornò su livelli quantitativamente discreti (circa 70 film all'anno tra il 1941 e il 1943), ma nell'ambito di generi completamente diversi. Per aggirare la censura nazista, il cui obiettivo era favorire i film di intrattenimento leggero e impedire una vera cinematografia nazionale, i pochi registi del realismo poetico rimasti in patria ri-piegarono su soggetti mitico-letterari e fantastici: vanno ricordati L'éternel retour (1943; L'immortale leggenda) di Jean Delannoy, cui la sceneggiatura di Jean Cocteau diede un tono lirico-melodrammatico, Les visiteurs du soir (1942; L'amore e il diavolo) e Les enfants du paradis (1945; Amanti perduti), entrambi diretti da Carné, che mutarono notevolmente i modi e i temi per i quali il regista era noto. Grémillon fu tra i pochi che riuscirono a trovare una formula meno evasiva, coniugando poesia e identità nazionale all'insegna di un'elegia populista del lavoro in Lumière d'été (1943) e Le ciel est à vous (1944; Il cielo è vostro). In quest'ultimo film la protagonista è un'aviatrice che cerca di battere un record, interpretando così un ruolo prettamente maschile: nella F. occupata, e nell'immaginario cinematografico del periodo, infatti, l'uomo era prigioniero o pressoché assente (centinaia di migliaia di operai erano stati costretti a lavorare in Germania) e la donna era stata obbligata ad assumere il ruolo trainante.
La fine della guerra non diede corso a significativi cambiamenti. La produzione, scesa a 17 film nel 1944, riprese, aggirandosi su una media di 80 film all'anno tra il 1945 e il 1948; ma sul piano stilistico, a differenza di quello che accadde in Italia con il Neorealismo, si assistette a una continuità con il cinema del periodo dell'occupazione. A esclusione dei primi film di René Clément, i soggetti sulla Resistenza o di carattere antimilitarista, come Le silence de la mer (1949; Il silenzio del mare) di Jean-Pierre Melville, rimasero viziati dall'onda lunga del realismo poetico nella variante di una blanda caratterizzazione psicologica; si sarebbero dovuti attendere le sperimentazioni e il cinema di denuncia dei primi anni Sessanta (Chris Marker, Alain Resnais, J.-L. Godard) per una disamina dei conflitti bellici. La censura del dopoguerra si estese a tutte le rappresentazioni del mondo popolare, che dovevano essere epurate dagli elementi pericolosi, come la depressione e l'alcolismo; soltanto nei circuiti non commerciali ne venivano mostrate forme non edulcorate, sebbene in una cornice di semplicità e purezza, come il documentario Farrebique (1947) di Georges Rouquier. In mancanza di un tessuto nuovo e aggregante, gli autori emergenti come Jacques Becker, Henri-Georges Clouzot e Robert Bresson, che avevano esordito durante il decennio precedente, mantennero ognuno caratteri e interessi individuali.
Nel 1946 la prima edizione del Festival di Cannes mostrò quanto la produzione nazionale mancasse di una nuova estetica, e si trovasse in una posizione più debole rispetto ai film italiani e statunitensi; questi ultimi inoltre, rimasti bloccati nel corso di tutto il conflitto, ora confluivano in massa nelle sale grazie a una politica di distribuzione particolarmente generosa verso gli Stati Uniti. Soltanto nel 1948 il governo avviò una politica di aiuti economici che nella seconda metà degli anni Cinquanta, grazie a incentivi basati sul valore artistico dell'opera, avrebbero aperto le porte alla Nouvelle vague. Le basi del cambiamento futuro, sotto alcuni aspetti, erano state gettate dal grande successo riscosso dalle riviste del settore: nel 1945 il popolare "L'écran français" aveva avuto una tiratura di oltre centomila copie, e costituì il nucleo da cui sarebbero derivate pubblicazioni più settoriali, a iniziare da "La revue du cinéma", dove si formarono molti critici che sarebbero confluiti nel 1951 nei "Cahiers du cinéma". Le riviste, favorite anche dalla proliferazione dei cineclub, crearono un nuovo approccio al cinema, oscillante tra morbosità nozionistica e ambizioni culturali: la cinefilia.Il dopoguerra fu condizionato anche dal ritorno in patria dei maestri degli anni Trenta, esuli durante l'occupazione (o, alcuni, già dalla seconda metà del decennio precedente), i quali affidarono alla commedia e al melodramma in costume i valori nostalgici del passato. Il costo di queste produzioni, prevalentemente realizzate in studio, sarebbe però ben presto diventato troppo elevato per il nuovo mercato e poco competitivo con l'industria hollywoodiana, ciò favorì, alla fine degli anni Cinquanta, le riprese in ambienti naturali tipiche della Nouvelle vague. Tra i registi della vecchia guardia, quello che riscosse i maggiori successi fu Clair, il quale tornò in Francia per realizzare Le silence est d'or (1947; Il silenzio è d'oro), una rievocazione nostalgica degli albori del cinema, con Maurice Chevalier, seguito da Les belles de nuit (1952; Le belle della notte), interessante commedia fantastica sui viaggi temporali, e Les grandes manœuvres (1955; Grandi manovre), gli ultimi due con Gérard Philipe, un volto nuovo giunto al successo grazie a Le diable au corps (1947; Il diavolo in corpo) di Claude Autant-Lara, che all'epoca fece scandalo.
Un cineasta profondamente legato alla cultura mitteleuropea quale fu Max Ophuls visse in F. la sua stagione più fortunata, con La ronde (1950; La ronde ‒ Il piacere e l'amore), Le plaisir (1952; Il piacere) e Madame de… (1953; I gioielli di madame de…), nei quali la geometria della struttura trovò un perfetto accordo con l'evocazione delle passioni, e il metacinematografico e discusso Lola Montès (1955). Renoir riprese l'attività in patria solo a metà degli anni Cinquanta, per dedicarsi alla commedia in costume, con qualche accenno al musical, in soggetti d'ironica rilettura della cultura mondana francese, come French cancan (1955) ed Eléna et les hommes (1956; Eliana e gli uomini). Carné, l'unico rimasto in patria durante l'occupazione, dopo la separazione da Prévert tornò al melodramma, con Thérèse Raquin (1953; Teresa Raquin), tratto dall'omonimo romanzo di E. Zola.
La continuità con il cinema del passato offrì nuove chances ai divi degli anni Trenta (Jean Gabin, Michel Simon, Danielle Darrieux, Michèle Morgan), mentre tra i giovani venivano privilegiati quelli dall'aspetto bohémien, come Daniel Gélin, Gérard Philipe e Serge Reggiani, ai quali occorre aggiungere l'intenso Yves Montand e la magnetica Simone Signoret. Nel panorama comico, dove spiccavano attori come Bourvil, Noël-Noël e Fernandel (diventato famoso in Italia gra-zie al personaggio di Don Camillo nella serie inaugurata da Duvivier), fece irruzione lo spirito innovativo di Jacques Tati, che con Jour de fête (1949; Giorno di festa) riprese modalità stilistiche e gestuali tipiche del muto e cariche di trovate surreali, successivamente perfezionate con l'invenzione del personaggio di Hulot, sorta di clown della quotidianità moderna: Les vacances de Monsieur Hulot (1953; Le vacanze di Monsieur Hulot) e Mon oncle (1958; Mio zio). Il merito di uno stile assolutamente unico, distaccato e al contempo sacrale, spettò a Bresson, che attraversò illeso i capovolgimenti del cinema francese, da Le journal d'un curé de campagne (1951; Il diario di un curato di campagna) a Un condamné a mort s'est échappé (1956; Un condannato a morte è fuggito) e Pickpocket (1959).
J. Cocteau, già regista del mediometraggio sperimentale Le sang d'un poète (1930), alle soglie dei sessant'anni aveva esordito nel lungometraggio con La belle et la bête (1946; La bella e la bestia) seguito da L'aigle à deux têtes (1948; L'aquila a due teste) e Orphée (1950; Orfeo), opere visionarie tra il classico e il barocco, impregnate di profonda cultura teatrale, oltre che riflessioni sui meccanismi dell'arte.
Esclusi questi casi particolari, il cinema del periodo fu improntato a una ribadita professionalità, senza nessuna corrente omogenea, e vide alcune opere significative nel filone poliziesco (che si sarebbe consolidato nel decennio successivo): Justice est faite (1950; Giustizia è fatta) di André Cayatte, Bob le flambeur (1956; Bob il giocatore) di Melville, e altre minori di M. Allégret e Bernard Borderie. Alcuni registi di maggiore spicco, tra cui Clément, Becker e Clouzot, integrarono spesso i meccanismi e le ambientazioni del noir in una sorta di variante autoriale. Di Clément sono da ricordare i film Au-delà des grilles (1949; Le mura di Malapaga) e Plein soleil (1960; Delitto in pieno sole), e, in ambito differente dal poliziesco, Jeux interdits (1952; Giochi proibiti), attraverso il quale denunciò la perdita d'innocenza dei bambini provocata dalla guerra. L'opera di Becker fu una sorta di pamphlet sul mondo della malavita, volta a un superamento dei vincoli formali del noir in favore di un'analisi storica e psicologica: Casque d'or (1952; Casco d'oro), Touchez pas au grisbi (1954; Grisbi), Le trou (1960; Il buco). Clouzot, invece, approfondì i meccanismi della suspense, con atmosfere cupe e irreali, quasi metafisiche, in Le salaire de la peur (1953; Vite vendute o Il salario della paura) e Les diaboliques (1955; I diabolici), mostrando notevoli intuizioni anche nel documentario d'arte (Le mystère Picasso, 1956, Il mistero Picasso).
Gli anni Cinquanta si chiusero con l'esotico-musicale Orfeu negro (1959; Orfeo negro) di Marcel Camus, e con la bellezza, raffinata ma anche selvaggia, della nuova diva Brigitte Bardot, protagonista del film di Roger Vadim Et Dieu créa la femme (1956; Piace a troppi), che sfidò la censura, propugnando la libertà dei costumi e provocando un contrasto netto con la vecchia generazione: segno di una necessità d'indipendenza e di cambiamento che si propagò all'intero circuito cinematografico. Agnès Varda nel 1956, al di fuori di un sistema di produzione e distribuzione ufficiale basato su autorizzazioni e regole sindacali, realizzò La pointe-courte, anticipando i film a budget ridotto e di contenuto nuovo che sarebbero dilagati nel decennio successivo.
Nel 1957 Claude Chabrol, critico dei "Cahiers du cinéma", fondò una propria casa di produzione, e negli anni immediatamente seguenti uscirono Les cousins (1958; I cugini) dello stesso Chabrol, Les 400 coups (1959; I quattrocento colpi) diretto da François Truffaut, e À bout de souffle (1960; Fino all'ultimo respiro) di Godard. Era nata la Nouvelle vague, movimento eterogeneo di registi trentenni, in gran parte provenienti dagli ambienti della cinefilia e dalla critica cinematografica (la rivista "Cahiers du cinéma"), i quali inaugurarono nuove forme stilistiche e nuove tipologie di produzione, in cui il regista era spesso anche il soggettista e lo sceneggiatore, e l'organizzazione si basava su improvvisazioni artigianali più che su criteri industriali; essa costituì anche un'alternativa commerciale al cinema della tradizione, e sulla sua scia emersero nuovi attori e tecnici. Questo movimento, la cui riduzione a una formula provocò peraltro disaccordi tra gli autori stessi, fu favorito dall'esigenza collettiva di un gusto nuovo, in cui il cinema si allontanava dalla rappresentazione artefatta per irrompere nella vita quotidiana, senza però la dimensione populista degli anni Trenta. Truffaut, uno dei suoi principali esponenti, attraverso una fusione del cinema statunitense con la letteratura francese, riuscì a esprimere proprio questa semplicità e bellezza delle piccole cose (la serie di Antoine Doinel), estendendola anche al melodramma romantico in costume (Jules et Jim, 1962, Jules e Jim), e trovando soluzioni personali al dramma privato di carattere poliziesco (La mariée était en noir, 1968, La sposa in nero). Godard, l'autore più originale del movimento, attuò una vera e propria decostruzione del linguaggio, dei contenuti e in generale di tutto il dispositivo cinematografico, visto come macchina capitalistica (Une femme est une femme, 1961, La donna è donna; Le mépris, 1963, Il disprezzo; Pierrot le fou, 1965, Il bandito delle undici). Eric Rohmer, dopo il fallimento del primo film Le signe du lion (Il segno del leone, realizzato nel 1959 e uscito nel 1962), si orientò verso un cinema seriale in cui la banalità trovava un preciso accordo con gli assunti filosofici, come nella serie dei Contes moraux. Il contributo di Chabrol fu prevalentemente legato a una rilettura del noir vicina al giallo francese di ambiente provinciale e familiare (À double tour, 1959, A doppia mandata; La femme infidèle, 1969, Stéphane, una moglie infedele; Le boucher, 1970, Il tagliagole). Jacques Rivette (Paris nous appartient, 1961), infine, impegnato in un'operazione concettuale di convivenza del cinema con il teatro, si collocò in una posizione più difficile, connotata da una rischiosa propensione per la sperimentazione, ma senza la naturalezza comunicativa di Godard. Tra le figure che restarono ai margini del movimento, Jacques Demy e Louis Malle, pur se con caratteri e stili differenti, trovarono entrambi una loro espressione nel cinema citazionistico e di rilettura dei generi. Il primo realizzò Les parapluies de Cherbourg (1964), un delicato e coloratissimo musical; il secondo ottenne un immediato successo nel noir (Ascenseur pour l'échafaud, 1957, Ascensore per il patibolo) e nella commedia psicologica (Les amants, 1958), ma subito dopo si orientò verso un cinema intimista e angosciato, di contenuti più difficili (Le feu follet, 1963, Fuoco fatuo). La nuova cinematografia lanciò giovani attori che si imposero poi anche nel panorama internazionale (pur rimanendo, a differenza dei divi degli anni Trenta, saldamente legati al loro Paese): Jean-Paul Belmondo, Alain Delon, Jean-Louis Trintignant, Jean-Pierre Léaud, Jeanne Moreau, Catherine Deneuve, Françoise Dorléac, Stéphane Audran, Anna Karina, Maurice Ronet e altri.La Nouvelle vague ebbe un'identità non solo estetica ma anche ideologica, correlata alla storia politica del Paese: il fatto che il Ministero della cultura fosse affidato a un intellettuale impegnato come André Malraux favorì non soltanto le nuove produzioni di finzione ma anche i documentari antirazzisti e antimilitaristi, come quelli di Frédéric Rossif (Le temps du ghetto, 1961, Vincitori alla sbarra), Jean Rouch (Moi, un noir, 1959; La pyramide humaine, 1961), Ch. Marker (Le joli mai, 1963), quest'ultimo autore anche di interessanti opere sperimentali come La jetée (1962). Questo tipo di documentarismo, dove la macchina da presa aveva un ruolo attivo come nel cinema di finzione (v. Cinéma vérité), diffuse anche la tecnologia del suono in presa diretta, il cui utilizzo divenne l'emblema di registi quali Rohmer, Godard e Rivette. Altri autori di notevole rilevanza rappresentano un caso a parte: A. Resnais, dopo gli inizi come documentarista, esordì con due film, Hiroshima, mon amour (1959) e L'année dernière à Marienbad (1961; L'anno scorso a Marienbad), scritti da sceneggiatori appartenenti alla corrente letteraria del Nouveau roman (rispettivamente Marguerite Duras e Alain Robbe-Grillet, passati in seguito alla regia): tra giochi letterari, architetture barocche e speculazioni sulla memoria, Resnais riuscì a ricoprire immediatamente una posizione unica. Un cinema ai limiti della sperimentazione, ma che comunque poté trovare un suo pubblico, consentì la nascita di opere di taglio concettuale e letterario, come quelle della Duras (La musica, 1967, diretto insieme a Paul Seban) e di Robbe-Grillet, sottile analista, anche se molto astratto, dei meccanismi generativi del racconto e del film (L'immortelle, 1963, L'immortale; Trans-Europ-Express, 1967, Trans-Europ-Express ‒ A pelle nuda).
La Nouvelle vague, sebbene di breve durata, aprì quello spartiacque culturale tra la produzione d'autore e la produzione di consumo che avrebbe cambiato per sempre l'immagine stessa del cinema (per il pubblico dei decenni precedenti non esisteva una separazione così radicale). Il suo impatto fu così violento da estendersi ad altre cinematografie: i registi della Junger deutscher Film e gli autori statunitensi degli anni Settanta-Ottanta, come Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, si formarono sullo stile di Godard e Truffaut.
Non tutto il cinema francese del periodo fu comunque un prodotto della Nouvelle vague: gli anziani registi degli anni Trenta terminavano in quegli anni la loro carriera, alcuni riscuotendo ancora notevoli consensi di pubblico, come Carné con Les tricheurs (1958; Peccatori in blue jeans); altri furono premiati con riconoscimenti rari per un regista, come Clair, diventato accademico di Francia. Bresson e Tati proseguirono il loro progetto estetico indipendente, entrambi nemici di ogni compromesso con il mercato: Le procès de Jeanne d'Arc (1962; Il processo di Giovanna d'Arco) di Bresson fu tra i maggiori insuccessi del periodo, e costrinse in seguito il regista a ricorrere sempre alle sovvenzioni statali; Playtime (1967; Playtime ‒ Tempo di divertimento) di Tati fece fallire una casa di produzione. Debuttarono giovani autori legati ai cliché di moda, ma comunque dotati di sensibilità e gusto, come Claude Lelouch (Un homme et une femme, 1966, Un uomo, una donna), mentre un anziano maestro come L. Buñuel ritornava in Francia per l'ultima fase di una lunga carriera (da Belle de jour, 1967, Bella di giorno fino a Cet obscur objet du désir, 1977, Quell'oscuro oggetto del desiderio, opere sceneggiate con Jean-Claude Carrière). Nella cinematografia di genere, un'importanza internazionale ebbe il noir: Jacques Deray, Edouard Molinaro, Claude Sautet, Henri Verneuil, ma soprattutto J.-P. Melville, che dopo gli esordi classici e visionari della collaborazione con J. Cocteau e l'impegno civile del dopoguerra si era orientato verso una rilettura del poliziesco americano classico con eroi freddi e disincantati (Le doulos, 1963, Lo spione; Le samouraï, 1967, Frank Costello faccia d'angelo). Una variante visionaria e allucinata dei climi noir furono i film di Georges Franju come Les yeux sans visage (1960; Occhi senza volto) o Pleins feux sur l'assassin (1961). Di livello più popolare i film di due serie dirette da Borderie e iniziate negli anni Cinquanta: quelli d'azione con il personaggio di Lemmy Caution, interpretato da Eddie Constantine, una sorta di 007 ante litteram (e di cui Godard avrebbe offerto una lettura decostruzionista in Alphaville, 1965, Agente Lemmy Caution ‒ Missione Alphaville), e quelli di cappa e spada con il personaggio di Angelica, marchesa degli angeli, interpretato da Michèle Mercier. Il cinema d'azione e la commedia videro emergere con Philippe de Broca e Michel Deville due nuovi protagonisti, mentre nel comico l'attore di maggior successo fu Louis de Funès con i film di Gérard Oury.
Qualche anno dopo il periodo d'oro della Nouvelle vague, la storia della F. fu segnata dalla crisi del 1968, che per il cinema significò la chiusura del Festival di Cannes, anticipata qualche mese prima dalle manifestazioni in piazza a difesa di Henri Langlois, direttore della Cinémathèque française, uno dei centri di formazione dei cinefili degli anni Cinquanta. No-nostante qualche tentativo di organizzare cooperative di produzione, il 1968 non riuscì però a intaccare le basi dell'industria cinematografica, né dal punto di vista commerciale né da quello estetico, ma solo a fornire qualche strumento d'appoggio al cinema d'autore, come la presa diretta e una politica finanziaria per il metraggio ridotto, difficilmente distribuibile. Al 1968 non fece seguito una produzione significativa di film politici e militanti, se si escludono quelli di Godard e pochi altri; crebbe tuttavia l'interesse per il cinema di denuncia, di livello professionale e integrato nella distribuzione ufficiale, come quello del regista di origine greca Constantin Costa-Gavras: Z (1969; Z ‒ L'orgia del potere), sul regime greco dei colonnelli, costituì un'ottima fusione tra thriller poliziesco e film politico, una formula che il regista portò avanti anche negli anni Settanta (État de siège, 1973, L'amerikano), per poi addomesticarla con uno stile riconducibile al cinema hollywoodiano (Missing, 1982, Missing ‒ Scomparso).Negli anni Settanta soltanto in pochi casi, come quello di Truffaut (La nuit américaine, 1973, Effetto notte; L'histoire d'Adèle H., 1975, Adele H., una storia d'amore; Le dernier métro, 1980, L'ultimo metrò), gli autori furono protagonisti di grandi produzioni, capaci di coniugare qualità e fortuna commerciale come quelle dei grandi registi del passato. Nacque un cinema elitario parallelo a quello corrente, che trovò un suo mercato: Godard, nonostante lo stile prettamente anticommerciale, riu-scì addirittura a realizzare film politici con divi famosi (Jane Fonda in Tout va bien, 1972, Crepa padrone, tutto va bene, diretto insieme a Jean-Pierre Gorin), alternati a opere più concettuali, tra ironia e rivoluzione (Vent d'Est, 1970, noto anche come Vento dell'Est). Autori sperimentali come Robbe-Grillet, passato a una sorta di metacinematografia erotica, trovarono una distribuzione internazionale (Glissements progressifs du plaisir, 1975, Spostamenti progressivi del piacere); altri registi con uno stile personale come Bresson (Lancelot du Lac, 1974, Lancillotto e Ginevra) e Resnais (Providence, 1976) raggiunsero una maggiore visibilità; perfino il cinema ridotto al grado zero della coppia Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, spesso coprodotto con la BRD e con l'Italia, dopo il rarefatto Chronik der Anna Magdalena Bach (1968; Cronaca di Anna Magdalena Bach), diventò noto a un pubblico più vasto grazie alla diffusione nel circuito della televisione (Fortini/Cani o I cani del Sinai, 1977).
Il consolidamento degli autori già affermati rese più rari gli esordi eclatanti, che durante gli anni Settanta furono decisamente minori rispetto a quelli avvenuti dieci-quindici anni prima. Jean Eustache realizzò nel 1973 La maman et la putain, opera molto originale che rappresentò una nuova soglia di rappresentabilità dell'immagine. Bertrand Tavernier e André Téchiné, provenienti dalla critica cinematografica, portarono sullo schermo, il primo un film tratto da G. Simenon, L'horloger de Saint-Paul (1974; L'orologiaio di Saint-Paul), e il secondo un dramma letterario in costume (Les sœurs Brontë, 1979, Le sorelle Brontë). Sautet, dopo gli esordi nel noir, optò per una più matura commedia amara di tema sociale: Vincent, François, Paul et les autres (1974; Tre amici, le mogli e ‒ affettuosamente ‒ le altre).
Il panorama generale vide però un ritorno alla standardizzazione di idee e contenuti, che privilegiò il cinema ironico-umoristico (Les valseuses, 1974, I santissimi, di Bertrand Blier, che rivelò il talento di Gérard Depardieu), mentre la verve citazionista raggiunse perfino il comico satirico di basso livello (per es., con Pierre Richard o con Les Charlots, questi ultimi conosciuti in Italia come i Cinque matti, protagonisti di un cinema che fu l'equivalente francese di quello di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia). Il grande successo di questi due generi permise l'aumento della produzione complessiva, che dagli anni Sessanta crebbe fino a superare i 200 film nel periodo 1974-1977 (con notevoli esportazioni, dato che si era verificato un forte calo nel mercato interno), anche per l'influenza dei film a basso budget, che aveva comportato una diminuzione del costo medio di realizzazione.
Tra le coproduzioni fece molto scalpore La grande bouffe (1973; La grande abbuffata) dell'italiano Marco Ferreri, commedia nera sul piacere e la morte, nella quale recitavano tra gli altri due attori non più giovanissimi, Philippe Noiret e Michel Piccoli, che solo in questo periodo giunsero al successo; le coproduzioni permisero di mettersi in luce anche a due svizzeri, Claude Goretta (L'invitation, 1973, L'invito; La dentellière, 1977, La merlettaia, con Isabelle Huppert), regista elegante e metafisico, e Alain Tanner (Jonas qui aura 25 ans en l'an 2000, 1976, Jonas che avrà vent'anni nel 2000), più aspro e politicizzato; sull'onda del porno-soft di moda nel periodo emerse poi l'erotismo estetizzato e compiaciuto del polacco Walerian Borowczyk (Contes immoraux, 1974, I racconti immorali di Borowczyk), sceso a dichiarati compromessi con il mercato dopo un esordio curioso e trasgressivo influenzato dal Surrealismo.
Gli anni Ottanta iniziarono con il ritorno della sinistra al governo, quarantacinque anni dopo il Fronte popolare, ma questa volta senza quel desiderio di cambiare i criteri della realizzazione cinematografica che aveva caratterizzato il progetto utopico del movimento di fine anni Trenta. Il decennio vide un progressivo calo della produzione, fino ai 130-140 film all'anno del periodo 1986-1989, e della quota del cinema nazionale nelle sale francesi, a favore del cinema statunitense. Tramontato il poliziesco del ventennio precedente (che negli anni Settanta si era affermato spesso in produzioni miste italo-francesi), i maggiori incassi dei primi anni Ottanta andarono alle opere di due registi della commedia goliardica e della satira popolare di costume come Claude Zidi (Les ripoux, 1984, Il commissadro) e Francis Veber (La chèvre, 1981, La capra), seguiti nel 1986 dal melodramma di ambientazione rurale in due parti (Jean de Florette e Manon des sources, Manon delle sorgenti), con tocchi di humour nero, del regista Claude Berri ispirata all'opera di M. Pagnol, nel cui cast appaiono Daniel Auteuil e (per il secondo film) Emmanuelle Béart, due vedettes del decennio successivo. I non più giovani autori della Nouvelle vague continuarono a raccogliere consensi di critica e in alcuni casi, come quello di E. Rohmer, anche di pubblico (la serie delle Comédies et proverbes, tra cui Le rayon vert, 1986, Il raggio verde); Godard, dopo il rallentamento del decennio precedente, riprese le sue operazioni metacinematografiche, orientandole verso i legami con l'arte figurativa o con la musica (Passion, 1982; Prénom Carmen, 1983); C. Chabrol rimase legato ai suoi spaccati su crimine e storia (Violette Nozière, 1978) e crimine e società (Une affaire de femmes, 1988, Un affare di donne); A. Varda con Sans toit ni loi (1985; Senza tetto né legge) e J. Rivette con La belle noiseuse (1991; La bella scontrosa) riuscirono finalmente a entrare nel circuito distributivo straniero. Raggiunsero il mercato internazionale anche autori che avevano esordito immediatamente dopo questi ultimi, tra cui Maurice Pialat (À nos amours, 1983, Ai nostri amori; Sous le soleil de Satan, 1987, Sotto il sole di Satana), regista ruvido, difficile e spesso osteggiato, fautore di un cinema basato sull'improvvisazione emotiva che rischia a volte l'ingenuità, e il minimalista Alain Cavalier (Thérèse, 1986), mentre Paul Vecchiali (Encore. Once more, 1988, Once more. Ancora) rimase ancorato a circuiti meno commerciali. Tra i giovani autori, ebbero in quegli anni particolare ma effimero successo Jean-Jacques Beineix (Diva, 1981) e Leos Carax (Mauvais sang, 1986, Rosso sangue). Tra quelli con tendenza più spe-rimentale vanno ricordati in particolare il polacco Andrzej Zulawski, regista di Possession (1981), con Isabelle Adjani, nuova diva degli anni Ottanta, e Raúl Ruiz, regista drammaturgo e romanziere cileno colto e concettuale (Les trois couronnes du matelot, 1983, Le tre corone del marinaio), che avrebbe raggiunto negli anni successivi una maggiore notorietà (Le temps retrouvé, 1999, Il tempo ritrovato, tratto da M. Proust).
A metà degli anni Ottanta si è consolidato sul mercato internazionale un cinema francese commerciale di buon livello (Alain Corneau, Jean-Jacques Annaud, Luc Besson e altri), che è riuscito, unico in Europa, a entrare in concorrenza con le grandi produzioni hollywoodiane. Autore versatile, Annaud è stato capace di confezionare film di successo nel filone ecologico-naturalistico (L'ours, 1988, L'orso) come in quello storico-fantastico (Der Name der Rose, 1986, Il nome della rosa, dal romanzo di U. Eco) e in quello bellico (Enemy at the gate, 2001, Il nemico alle porte). Besson ha coniugato il linguaggio dei fumetti con il film d'azione hollywoodiano (Nikita, 1990; Léon, 1994, Leon), della fantascienza (Le cinquième élément, 1997, Il quinto elemento) e della rievocazione storica (Jeanne d'Arc, 1999, Giovanna d'Arco); in quest'ultimo filone si inscrivono anche La reine Margot (1994; La regina Margot) di Patrice Chéreau, Fort Saganne (1983) e Tous les matins du monde (1991; Tutte le mattine del mondo), entrambi di Corneau. Più recentemente è entrato nel cinema di grande budget Jean-Pierre Jeunet (già autore di Delicatessen, 1991, in collaborazione con Marc Caro), che ha intuito le nuove esigenze del pubblico contemporaneo, tra fantastico e gotico, riciclaggio del modernariato e poesia della povertà (Alien: resurrection, 1997, Alien. La clonazione; Le fabuleux destin d'Amélie Poulain, 2001, Il favoloso mondo di Amelie).
Grazie anche al successo di questi autori, dal 1990 la produzione è stata in costante aumento (fino a toccare nel 2001 circa 200 film), così come la quota sul totale degli incassi delle sale nazionali. Il primo produttore francese, il canale televisivo Canal +, risulta essere il maggior sovvenzionatore della produzione, costituita per gran parte da commedie. L'avvento dei network nei circuiti di finanziamento e di distribuzione ha creato una situazione diversa dal passato, caratterizzata da un gusto di tipo televisivo e dagli investimenti a basso rischio, che hanno penalizzato nuove e più originali possibilità espressive. Non a caso il cinema d'autore degli anni Novanta è rimasto in mano alla generazione dei cinquantenni, se non addirittura a quella dei settantenni della Nouvelle vague, mentre i registi più giovani non sono riusciti a creare un movimento omogeneo, capace di estendere la loro notorietà oltre i confini, per cui nomi come Arnaud Desplechin, autore di Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle), realizzato nel 1996, restano poco noti all'estero, oppure, come nel caso di Cyril Collard (Les nuits fauves, 1992, Notti selvagge), morto di AIDS, trovano un distributore internazionale per motivi estranei al cinema. Oltre alla commedia d'intreccio e di analisi dei rapporti sentimentali e familiari (come Le gôut des autres, 1999, Il gusto degli altri, di Agnès Jaoui), interessante è un cinema più attento ai rapporti di classe, tra indagine sociologica ed esistenziale: Robert Guédiguian (La ville est tranquille, 2000, La città è tranquilla), Laurent Cantet (L'emploi du temps, 2001, A tempo pieno). Altri registi hanno analizzato aspetti dell'insoddisfazione giovanile, come Erick Zonca (La vie rêvée des anges, 1998, La vita sognata degli angeli) o Bruno Dumont (L'humanité, 1999). Tra gli autori affermatisi in precedenza Philippe Garrel (J'entends plus la guitare, 1991), Jacques Doillon (Du fond du cœur: Germaine et Benjamin, 1994; Ponette, 1996), fautori di un cinema minimalista con rischi di eccessiva verbosità, Patrice Leconte (Monsieur Hire, 1989, L'insolito caso di Mr Hire; L'homme du train, 2002, L'uomo del treno), che ha mostrato però una notevole discontinuità, Olivier Assayas (Irma Vep, 1996; Les destinées sentimentales, 2000), di formazione critica e cinefila e Jean-Claude Brisseau, autore di film anarchici e onirici come De bruit et de fureur (1988; Furore e grida). Tra i più anziani, hanno ritrovato una giusta misura tra ispirazione e mercato Sautet (Un cœur en hiver, 1992, Un cuore in inverno) e Resnais (Smoking ‒ No smoking, 1993, e On connaît la chanson, 1997, Parole, parole, parole…). Infine, non vanno dimenticate le produzioni francesi che hanno coinvolto registi stranieri, dal portoghese Manoel de Oliveira (A carta, 1999, La lettera) al polacco Krzysztof Kieślowski (la serie Trois cou-leurs: Bleu, Blanc, Rouge, 1993-94, Tre colori ‒ Film blu, Film bianco, Film rosso), dall'egiziano Youssef Chahine (al-Maṣīr, 1997, Il destino) al georgiano Otar Ioseliani (Les favoris de la lune, 1984, I favoriti della luna; Lundi matin, 2002, Lunedì mattina).
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Si vedano inoltre i capitoli sul cinema francese della Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 3° vol., L'Europa. Le cinematografie nazionali, Torino 2000, ad indicem.