CINEMATOGRAFICI, GENERI.
– L’avvento del digitale e la ‘nuova’ immagine cinematografica. Il macrogenere fantastico. I film sui supereroi e la serialità. L’inattuale attualità del cinema di Clint Eastwood. Bibliografia
L’avvento del digitale e la ‘nuova’ immagine cinematografica. – Un discorso sui g. c. nel nuovo millennio non può non tenere presente due importanti fenomeni che hanno coinvolto il cinema nella sua totalità e che proprio in questi ultimi anni hanno raggiunto una piena esposizione: l’avvento del digitale e l’affermazione della serialità televisiva. Due fenomeni, legati tra loro, che hanno condotto a una ridefinizione dello statuto dell’immagine cinematografica e delle forme del racconto, con una evidente ricaduta sul sistema dei generi e sull’immaginario a essi collegato.
Se già negli anni Novanta Jurassic Park (1993) di Steven Spielberg aveva permesso, attraverso immagini nate da un algoritmo matematico e quindi liberate dalla necessità fisica del profilmico, la materializzazione di una realtà non esistente in natura, è nel cinema contemporaneo, grazie agli enormi progressi compiuti nella CGI (Computer-Generated Imagery), che questo immaginario sintetico trova completa realizzazione (v. cinema: Tecnologia digitale). L’immagine non è più, necessariamente, testimonianza di una realtà preesistente (perché non necessariamente ciò che vediamo è transitato davanti all’obiettivo della macchina da presa) e l’inquadratura è uno spazio virtualmente modificabile all’infinito. Questa radicale messa in discussione dell’immagine cinematografica (del suo rapporto ontologico con il reale, che tradizionalmente ha costituito il suo specifico), apre il cinema al confronto con altre forme mediali: graphic novel (v. fumetto), videogame, videocamere di sorveglianza e naturalmente le serie televisive (v. serialità). È di una spartizione intermediale che si tratta: «una narrazione avviata da un medium viene continuata da un altro, portata avanti in parallelo da un altro ancora, reinterpretata da un altro ancora, e così via» (Casetti 2015, p. 168), secondo quella pratica di «rimediazione» (Bolter, Grusin 1999) che costituisce uno dei segni distintivi degli ultimi anni. Quelle caratteristiche che per buona parte del secolo scorso sembravano essere proprie del cinema sono ora rintracciabili in altri media: «Esperienza del tempo [...] e sviluppo esponenziale dei personaggi [...] non si limitano a rimediare il cinematografico ma [...] lo aggiornano, lo espandono, grazie pure a soluzioni di messa in scena che, anche solo negli anni novanta [...], sembravano appannaggio esclusivo del cinema» (Marineo 2014, pp. 78-79).
Inoltre, il perfezionamento, e il potenziamento, degli effetti speciali (che come vedremo coinvolge diversi generi) sembra voler controbilanciare la crisi del potere mitopoietico che ha investito il cinema, la sua capacità di costruire mondi, di dare forma all’immaginario collettivo, trasformando la visione cinematografica in un’esperienza ‘immersiva’, sensoriale, che coinvolge il corpo nella sua interezza: non soltanto la vista e l’udito ma anche il tatto, grazie al ritorno del 3D, che quasi consente di ‘toccare’ la realtà filmata.
I due generi che meglio incarnano queste tendenze, presentandosi come perfetti prodotti transmediali, sono il fantastico (macrogenere al cui interno troviamo diversi filoni e sottofiloni, tra cui il più frequentato è sicuramente il fantasy) e i film sui supereroi, che rappresentano la gran parte della produzione spettacolare mainstream hollywoodiana. Due ‘generi-mondo’ in cui il cinema mostra in maniera esemplare come la cifra dominante del millennio sia la sua espansione, il suo continuo slittamento tra un medium e l’altro, in cui ogni medium contribuisce allo sviluppo della storia.
Il macrogenere fantastico. – Uno degli esempi più calzanti del macrogenere fantastico è sicuramente la saga dei Pirates of Caribbean (2003-2011; Pirati dei Caraibi), che non si esaurisce nella singolarità della visione cinematografica ma nasce e si sviluppa nel percorso tra media diversi: parco di divertimento, videogioco, fumetto, romanzo, e che naturalmente genera un copioso merchandising. «Non più una semplice opera cinematografica con annessi e connessi, ma un franchise che si compra in diverse confezioni e con diversi formati» (Casetti 2015, p. 169). Nella stessa direzione si muovono altre operazioni: tra le più significative le due trilogie dirette da Peter Jackson e tratte da J.R.R. Tolkien, The lord of the rings (2001-2003; Il signore degli anelli) e The Hobbit (2012-2014; Lo Hobbit); la nuova trilogia lucasiana di Star wars (1999-2005; Guerre stellari); la serie dedicata al personaggio inventato da J.K. Rowling, Harry Potter (2001-2011); e i quattro capitoli diretti da Michael Bay di Transformers (2007-2014), che hanno origine da una linea di giocattoli e che però appartengono più propriamente al genere fantascientifico. Se questo genere appare meno praticato rispetto al fantasy nondimeno presenta alcuni esempi decisivi in grado anche di riflettere sul futuro stesso del cinema: è quanto accade in Avatar (2009) di James Cameron, che, attraverso un uso avanzatissimo del 3D, si interroga sul rapporto tra tecnologia e apparato sensoriale umano, e Interstellar (2014) di Christopher Nolan, che, al contrario del primo, rifiuta il 3D per adottare la pellicola 70 mm e dar vita a una narrazione che è anche una meditazione sull’origine e la fine del cinema stesso.
All’interno del macrogenere del fantastico è possibile poi collocare quei film che riuniscono e mescolano insieme storia, mito, epica, avventura ed effetti speciali sempre più sofisticati e che puntano ancora una volta su un’immersione sensoriale degli spettatori: da Troy (2004), di Wolfgang Petersen, a Noah (2014), di Darren Aronofsky, da Kingdom of heaven (2005; Le crociate) a Exodus - Gods and kings (2014; Exodus - Dei e re), entrambi di Ridley Scott. A questi possiamo inoltre aggiungere alcuni esempi di film catastrofici, che condividono queste stesse caratteristiche ‘immersive’: è il caso soprattutto di due film diretti da Roland Emmerich, The day after tomorrow (2004; The day after tomorrow - L’alba del giorno dopo) e 2012 (2009).
I film sui supereroi e la serialità. – Se, come si diceva all’inizio, la CGI ha consentito all’immagine di smarcarsi dal suo referente reale ciò ha fatto sì che il cinema abbia potuto, in maniera del tutto innovativa, dar vita a mondi precedentemente irrealizzabili. Ci riferiamo evidentemente all’altra grande tendenza generica degli anni recenti, quella dei film sui supereroi. La diffusione dei film appartenenti a questo genere, tratti dagli albi a fumetti della Marvel, e non solo, che hanno riempito, e riempiono, gli schermi sono infatti diretta conseguenza dei progressi tecnologici del digitale, che consentono di adattare cinematografica-mente nel migliore dei modi le tavole disegnate. La particolare rilevanza di questo genere nasce soprattutto dal fatto che è proprio il fumetto il vero formante dell’immagine contemporanea, rappresentazione di un mondo privato dei suoi caratteri di umanità. Gli esempi sono diversi: da Sin City (2005) di Robert Rodriguez e Frank Miller a Hulk (2003) di Ang Lee a 300 (2006) di Zack Snyder, e relativi sequel, per citare alcuni titoli in cui l’adattamento cinematografico è più prossimo all’impalcatura visiva degli originali. Ma l’elenco può continuare con le versioni filmiche delle avventure di Spiderman, Batman, Superman, Capitan America, X-Men e Wolverine, Iron Man, Thor, i Fantastici Quattro e così via.
Entrambi questi macrogeneri (il fantastico, soprattutto nella sua declinazione fantasy, e i film sui supereroi) si confrontano però con uno stesso fenomeno: la serialità, una pratica talmente imperante che, da modalità produttiva, diventa genere essa stessa. Se Hollywood ha sempre trovato economicamente vantaggiosa la possibilità di serializzare un successo, è in quest’ultimo decennio che, sulla spinta della serialità televisiva, capace forse più del cinema di regolare l’immaginario sociale contemporaneo, ha intensificato la ricerca di operazioni serializzabili potenzialmente all’infinito. E i fumetti, così come i pre-testi letterali alla base del fantasy, si sono rivelati fonte inesauribile di personaggi, storie, capaci di costruire «racconti-mondo» (Jenkins 2007), in grado di mettere in comunicazione universi mediali differenti, fino al notevole indotto economico costituito dalla vendita delle action figures e di gadget vari. Il confronto con la televisione, il cinema lo gioca nella realizzazione di opere che sempre più esulano da una narrazione lineare e autoconclusiva (in linea con le aspettative di un pubblico oramai abituato a media non lineari come i videogame) per frammentarsi in un andirivieni temporale fatto di flashback e flashforward e protrarsi in un continuum inesauribile di remake, sequel, prequel, crossover, spin-off, reboot (prodotti realizzati nell’intento di rilanciare saghe famose, creando una nuova versione della storia originaria e un nuovo inizio), e varie altre loro possibili combinazioni (remake e serie tv, remake e prequel ecc.). L’elenco degli esempi sarebbe molto vasto perché costituisce appunto la gran fetta della produzione di genere di Hollywood e piuttosto che soffermarsi sulle prime tre forme seriali, di tradizione più cinematografica (ricordiamo soltanto una tendenza presente nel cinema italiano contemporaneo, quella dell’adattamento di commedie francesi: da Benvenuti al Sud, 2010, di Luca Miniero, a Il nome del figlio, 2015, di Francesca Archibugi), è forse più utile per il nostro percorso evidenziare quelle successive, di derivazione fumettistica e televisiva e che quindi rispondono ancora una volta a quella logica ‘convergente’, che è la vera cifra del cinema del millennio. Può capitare infatti che personaggi appartenenti a universi narrativi differenti possano incontrarsi all’interno di uno stesso film (è il caso del crossover The Avengers, 2012-2015, di Joss Whedon, che riunisce diversi eroi dei fumetti Marvel) oppure che il personaggio secondario di una storia diventi protagonista di una vicenda tutta sua (come negli spin-off Catwoman, 2004, di Pitof, e i film dedicati al personaggio di Wolverine) oppure ancora che la storia di un personaggio si azzeri e si faccia ripartire da capo, nel tentativo di procrastinare all’infinito la fine di una storia, di un personaggio: è il caso dei reboots di Batman diretti da Christopher Nolan (Batman begins, 2005; The dark knight, 2008, Il cavaliere oscuro; e The dark knight rises, 2012, Il cavaliere oscuro - Il ritorno), di quelli di James Bond, nei film interpretati da Daniel Craig (a partire da Casino Royale, 2006, di Martin Campbell) e soprattutto del ‘riavvio’ della serie Star Trek nei due film firmati da J.J. Abrams (Star Trek, 2009, e Star Trek - Into Darkness, 2013). Ed è proprio Abrams una delle figure chiave di questa strategia ‘integrativa’ alla base del panorama mediale contemporaneo, e di cui la serie TV Lost (2004-2010) costituisce un modello esemplare. Un’opera, che chiama attivamente in causa lo spettatore, dalla quale prendono vita altre forme mediali (videogiochi, webseries) che la continuano rendendo difficile una chiusura effettiva del testo.
Se l’importanza di Lost è anche quella di contribuire, insieme ad altre serie TV (24, 2001-2014, su tutte), a una ridefinizione della figura dell’eroe (la televisione anche in questo caso sembra meglio incidere sull’immaginario degli spettatori rispetto al cinema d’azione, che non a caso si affida al ritorno ‘nostalgico’ dei divi degli anni Ottanta: da Sylvester Stallone a Bruce Willis a Harrison Ford), un altro film di Abrams, da lui prodotto e diretto da Matt Reeves, Cloverfield (2008), storia, che attraverso la modalità del mockumentary (in questo caso la finta registrazione da una webcam) racconta la distruzione di Manhattan a opera di un misterioso mostro, si pone come esempio di un’altra tendenza del contemporaneo: l’irruzione nel cinema di finzione, e soprattutto nel genere horror, di immagini a bassa definizione, riprese effettuate con telefonini, webcam, telecamere di sorveglianza. L’espediente narrativo del film ritrovato (sul modello di The blair witch project, 1999, di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez), con la funzione di «autenticazione» (Montani 2010) del racconto di finzione, emerge in molto horror contemporaneo (anche se si innesta pure in altri generi come il film di guerra: il riferimento principale è a Redacted, 2007, di Brian De Palma e al suo montaggio intermediale di webcam, telecamere di sorveglianza, riprese televisive e filmati presenti in rete).
Nell’epoca della perdita della dimensione referenziale attribuita al digitale si assiste paradossalmente a una significativa fioritura di un cinema improntato all’orizzonte della testimonianza, anche oltre il genere documentario (che per altro proprio in anni recenti ha acquisito una importante centralità, vincendo premi nei principali festival cinematografici, il Leone d’oro veneziano a Sacro GRA, di Gianfranco Rosi, nel 2013, e trovando una distribuzione nel circuito ‘normale’ delle sale: su questo v. documentario). Alla ricerca di una ridefinizione dei fondamenti del gene re, l’horror si è riempito di falso materiale found footage (da Diary of the dead, 2007, Le cronache dei morti viventi, di George A. Romero, a Rec, 2007, di Jaume Balagueró e Paco Plaza, ai capitoli della serie Paranormal activity, 2007-2014) e sempre in virtù di una medesima ricerca di ‘verità’ ha innalzato la soglia del visibile e del sopportabile attraverso un progressivo eccesso di violenza (il sottogenere del torture porn in Saw, 2004-2010, e Hostel, 2005-2011), che travalica però anche i confini dell’horror, come mostrano, per es.,The Passion of the Christ (2004; La Passione di Cristo) di Mel Gibson o una serie televisiva come 24.
L’inattuale attualità del cinema di Clint Eastwood. – Esiste però anche un cinema che rifiuta le pratiche ‘immersive’ del fantastico, le strutture rizomatiche alla Nolan, i «dispositivi ludici» (De Gaetano 2010) di Quentin Tarantino (che nel nuovo millennio si misura, sempre nella forma del pastiche, con due generi come il film di guerra in Inglourious basterds, 2009, Bastardi senza gloria, e il western in Django unchained, 2012, e con la serialità TV, dirigendo un episodio di CSI, 2005), ogni tipo di montaggio intermediale: stiamo parlando del cinema di Clint Eastwood. Nessuna destrutturazione e frammentazione del racconto, ma un riattraversamento dei generi che lascia emergere una sopravvivenza delle forme e delle pratiche del classico. Dal poliziesco di Blood work (2002; Debito di sangue) e Mystic river (2003) al film sportivo di Million dollar baby (2004) e Invictus (2009; Invictus - L’invincibile), dal biopic di J. Edgar (2011) al musical di Jersey Boys (2014) al film di guerra del dittico Flags of our fathers (2006) e Letters from Iwo Jima (2006; Lettere da Iwo Jima) e dell’ultimo American Sniper (2014), il suo è un cinema orgogliosamente inattuale, che non coincide, né si adatta perfettamente al suo tempo, ma che proprio in questo scarto con il contemporaneo riesce meglio a percepirlo e ad afferrarlo. Lo esemplifica il protagonista di quella sorta di western urbano che è Gran Torino (2008) e la stessa auto che dà il titolo al film, ritornanza fantasmale di un tempo, di un genere e di un cinema in via di estinzione.
Bibliografia: J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding new media, Cambridge (Mass.)-London 1999 (trad. it. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano 2002); H. Jenkins, Transmedia storytelling 101, March 22, 2007, http://henryjenkins.org/2007/03/transmedia_storytelling_101.html (10 apr. 2015); R. De Gaetano, L’immagine contemporanea. Cinema e mondo presente, Venezia 2010; R. Menarini, Il cinema dopo il cinema, 1, Dieci idee sul cinema americano 2001-2010, Recco 2010; P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Roma-Bari 2010; F. Marineo, Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni, Torino 2014; F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Milano 2015.