CINEMA.
– Il cinema nell’epoca della convergenza dei media. Riconfigurazione di spazio, tempo, narrazione, montaggio. Nuove tendenze. Un nuovo spettatore per un nuovo tipo di cinema. Bibliografia. Tecnologia digitale. Digitale vs analogico. L’immagine infografica. Immagini fotonumeriche. Rilocazioni. Bibliografia
Il cinema nell’epoca della convergenza dei media di Bruno Roberti.– Il nuovo millennio ha visto una trasformazione profonda del c. nell’orizzonte mediatico che segna l’epoca definita della convergenza (Jenkins 2006) in cui i media interagiscono tra loro. In questo contesto appare problematico definire che cosa sia oggi il c., come si stia trasformando, che cosa si avvii a diventare. Intanto l’esperienza del c. non è più legata esclusivamente al binomio sala-pellicola. Da un lato l’avvento della rete, del web e dei nuovi dispositivi portatili (i laptop: tablet, smartphone, iPad), dall’altro quello delle tecnologie digitali che sostituiscono il supporto della pellicola, hanno moltiplicato la visione di un film in spazi non più deputati, dando luogo a quella che Francesco Casetti (2015) ha definito migrazione degli schermi o rilocazione della fruizione del cinema. All’esperienza collettiva della sala buia, con quanto di suggestivo e rituale essa comportava, si è sostituita una pluralità di esperienze fruitive: dall’home theatre (la riproduzione domestica di un impianto di proiezione ad alta definizione), alla vendita e noleggio del DVD (in cui la pellicola si trascrive sul supporto digitale), dallo streaming o download di un film sulla rete (la possibilità di visionare o scaricare un film sul computer o sul cellulare) fino alla proiezione di un film in spazi espositivi all’interno di installazioni d’artista (il cosiddetto cinema installato) o a quella su megaschermi collocati in spazi urbani (media-façade). D’altra parte le stesse sale sono ormai attrezzate con proiezione in digitale (DCP, Digital Cinema Package) senza più l’uso della pellicola, e molte adottano impianti per il 3D (visione tridimensionale), creando condizioni di visione inedite.
Nel passaggio dal classico al postclassico, dal moderno al postmoderno, dal mediale al postmediale o piuttosto al transmediale, il c. viene agito performativamente piuttosto che vissuto come insieme di opere da fruire in una visione collettiva, e l’invasione delle immagini fa, di contro, riscoprire una esperienza filmica singolare, individuale, privata. Tutto ciò comporta la fine dell’esperienza cinematografica tradizionale e insieme la ‘rinascita’ del c. grazie a tecniche e forme nuove. Da un lato la pervasività degli schermi e, dall’altro, le tecniche della ripresa digitale hanno indotto non solo mutazioni percettive e fruitive, ma anche nuove modalità estetiche di costruzione narrativa e di espressione formale del film, e hanno inciso alla radice sulla natura ‘ontologica’ del cinema, creando quello che può essere definito cinema Due o postcinema. Negli anni Duemila la domanda che un teorico come André Bazin si poneva: «che cosa è il cinema?» si fa quanto mai attuale. Il concetto di ‘realismo ontologico’ che legava indissolubilmente la natura del c. al suo referente reale, sembra messo in discussione dalla rivoluzione del digitale. In altri termini il cosiddetto profilmico (la realtà a disposizione per essere riprodotta sulla pellicola) può essere cancellato dalla possibilità di ‘creare’ ex novo corpi e ambienti con le tecniche di simulazione digitale. Fino a che punto le immagini ‘sintetiche’ possono essere delle ‘nuove immagini’? Fino a che punto la loro mutata costruzione incide sul loro statuto estetico, sul tasso formale ed espressivo che sprigionano, sul modo in cui si concatenano in un montaggio? E in che maniera lo spettatore può interagire con ciò che vede, come può entrarvi e vivere la sua visione come in un ambiente immersivo, muovendosi dentro la virtualità delle immagini in movimento? (Rodowick 2007).
La riconfigurazione del sensibile (Rancière 2005) che il c. aveva prospettato sin dalle sue origini si allarga ai dispositivi e alla modalità della visione stessa, come al suo processo di costruzione. Nello stesso tempo il c. si spinge oltre i suoi limiti, oltre il referente reale, oltre il perimetro dello schermo, e ciò comporta una sua mutazione e rilocazione continua, sia sul piano delle forme e dei linguaggi che dello statuto estetico-filosofico del c. come arte, sia sul piano delle tecniche e dei supporti, sia su quello delle modalità produttive (l’ibridazione tra cinema d’autore e grande spettacolo, tra forme filmiche e forme televisive), sia infine su quello fruitivo, determinando tra spettatore e film, tra statuto dello sguardo e posizione dell’opera, la possibilità di una interazione (videogame, c. d’artista, c. installato). Con l’avvento del digitale si introduce il concetto di rimediazione (Bolter, Grusin 1999) per indagare il fenomeno e le modalità di inserimento, incorporazione e metabolizzazione dei codici di un medium in un altro medium. La natura del c. sembra adattarsi a questa mediasfera, e anzi trova conferma il concetto baziniano di impurità del c. come medium in cui convergono diversi specifici (teatro, arte visiva, musica , letteratura), al punto tale da mettere in discussione il proprio stesso ‘specifico’, la sua stessa grammatica e la sua stessa tecnica.
Il c. degli anni Duemila si polarizza in due macrotendenze (che spesso vengono a interagire tra loro): da un lato l’iperspettacolarizzazione, l’esaltazione fantastica, fantascientifica, favolistica, fumettistica, orrorifica, apocalittica, sostanzialmente la creazione sempre più accurata (grazie ai visual effects digitali; v. oltre Tecnologia digitale) di mondi immaginari; dall’altro la ridefinizione della realtà, e del suo rapporto con le immagini: un’ipotesi di cinema del reale che tiene presente l’ambiguità della realtà sociale contemporanea e nel quale i concetti di fiction e documentazione s’intrecciano, mettendo anche in discussione la consequenzialità e la linearità della narrazione spaziotemporale attraverso una nuova concezione del montaggio oppure mediante la sua assenza a favore di un primato della continuità e della durata del pianosequenza.
Su ciò si gioca una ulteriore polarizzazione che riguarda la tecnica: da un lato, la sempre maggiore immediatezza, leggerezza del medium che si basa concretamente sulla trasparenza e invisibilità dello stesso mezzo di ripresa (le telecamerine, i cellulari, le fotocamere sempre più miniaturizzate); dall’altro, una coscienza della ipermediazione, cioè della messa in evidenza e moltiplicazione dei supporti, delle ‘finestre’ e ‘schermate’ computerizzate, e dell’assunzione di questa consapevolezza del medium all’interno dei meccanismi rappresentativi, come appare evidente in uno stile ‘metalinguistico’ sempre più ricorrente: c. nel c., schermi iscritti nelle scenografie o nello stesso schermo (split screen), ambiguità tra virtuale e reale sia nella costruzione delle immagini sia nelle scelte, metaforiche, dei nuovi racconti.
La trilogia di Matrix (1999-2003) dei fratelli Wachowski che ha inaugurato il millennio è in tal senso esemplare: viene messo in scena il mondo dei programmatori di computer, con i loro procedimenti e il loro lavoro sulle immagini e sugli schermi, e insieme viene messo in discussione lo statuto di realtà ipotizzando un mondo simulato, una realtà virtuale in cui i personaggi hanno l’illusione di vivere (definito neuro-simulazione interattiva), il tutto adottando una forma labirintica di narrazione con i moduli del film d’azione e di quello di fantascienza messi al servizio di stupefacenti effetti speciali che dilatano il tempo e la visione, prolungati sulla rete tramite siti e videogame.
Altrettanto esemplare è risultato, a chiusura del primo decennio del Duemila, Avatar (2009) di James Cameron in cui agli effetti digitali del c. (prima di tutto la motion capture che attraverso microtelecamere applicate al corpo umano ricrea, con perfezione di espressioni e movimenti, un corpo inesistente simulato sullo schermo) viene richiesto di creare un intero pianeta con i suoi abitanti e paesaggi alieni e al cui interno viene messo in scena lo stesso concetto di simulazione e di trasferimento dell’identità corporea in una immagine simulata ed eterodiretta attraverso un’interfaccia mentale: l’avatar, il corpo ibrido geneticamente ricreato dai colonizzatori del pianeta Pandora.
Sul versante invece di un c. che vuole smascherare i livelli mistificatori della rappresentazione, dopo i due film di Michael Moore Bowling for Columbine (2002; Bowling a Columbine, Oscar come miglior documentario) e Fahrenheit 9/11 (2004, Palma d’oro a Cannes), è Redacted (2007) di Brian De Palma a rivelarsi realizzazione esemplare di questa seconda tendenza: intorno allo stupro di gruppo di un’adolescente da parte di alcuni militari di stanza in ῾Irāq il film costruisce una sorta di teorema sulla ricontestualizzazione, all’interno del nuovo orizzonte mediale, delle immagini, sulla loro manipolazione, sullo scollamento tra immagine digitale e referente reale. L’accumulo di immagini dell’accaduto sugli schermi del computer (video blog, frammenti su YouTube, home movies, finti documentari, video chat) rimonta e mistifica ogni volontà testimoniale (Montani 2007). De Palma così compie la scelta estrema di rinunciare «al racconto diegetico, al racconto diretto dei fatti» per «assumere» l’«involucro mediale come l’orizzonte esclusivo della referenza [...] per giungere alla fine a lacerarlo dall’interno» (Montani 2009, pp. 486 e 487).
Riconfigurazione di spazio, tempo, narrazione, montaggio. – Il medium c. può essere avvicinato, reso permeabile e permutabile sia nel momento della fruizione sia in quello della produzione. Oggi ognuno può non solo girare il proprio piccolo film con una telecamerina digitale o con il proprio cellulare, ma anche manipolare e rimontare quello di altri, reso disponibile da spazi virtuali in rete come YouTube, facendo coincidere produzione e distribuzione, pubblico e privato nell’inserimento on-line di immagini filmiche.
Le nuove modalità di visione, la possibilità di riprodurre un film con mezzi portatili o domestici, di frammentarlo, di prelevarne dei pezzi, di suddividerlo in capitoli e sequenze, di mutarne la velocità e andare avanti e indietro lungo la sua durata hanno formato non solo una audience diversa, abituata a una fruizione non lineare, ma anche un nuovo modello di narrazione in cui lo spazio e il tempo si riconfigurano in una diversa pratica del montaggio, dando luogo a costrutti visivi in cui gli spazi acquistano inedite dimensionalità e il tempo del racconto non è più consequenziale. Il tempo sospeso o disteso in durate prolungate nel pianosequenza, il rimontaggio dei tempi narrativi, le dislocazioni spaziali vengono utilizzati dai nuovi cineasti in numerosi film che hanno segnato i primi anni Duemila. Tra gli ultimi: The final cut (2004) di Omar Naim, in cui si immagina che dentro l’occhio umano sia fin dalla nascita incorporata, tramite un software, una cinepresa che filma in continuità e in soggettiva la vita, i cui eventi vengono rimontati e proiettati al momento della morte; Freeze frame (2004) di John Simpson, in cui un uomo reso folle da un’accusa ingiusta di omicidio decide di vivere la vita sotto lo sguardo di un sistema di telecamere da lui stesso posizionate; Memento (2000) e Interstellar (2014) di Christopher Nolan, nei quali l’idea di reversibilità del tempo come quella di ribaltamento delle leggi fisiche che regolano lo spazio e il tempo diventano soggetto e forma del racconto, nel primo caso con le vicende di un uomo affetto da un disturbo di memoria e coinvolto nel paradosso della visualizzazione di un tempo di ‘montaggio’ invertito delle vicende vissute, nel secondo con le avventure di un equipaggio spaziale all’interno di un wormhole (cunicolo spaziotemporale), dove lo spazio moltiplica le proprie dimensioni e il tempo scorre in modo rallentato; The curious case of Benjamin Button (2008; Lo strano caso di Benjamin Button) di David Fincher, in cui un singolare flashback racchiude l’esistenza ‘all’inverso’ di un uomo affetto da una strana sindrome, per cui il tempo vissuto va all’indietro, con una nascita da vecchio e una mor te da neonato; Boyhood (2014) di Richard Linklater, che sintetizza in tre ore dodici anni di riprese per raccontare la crescita nel tempo reale di un ragazzino; il ciclo di Transformers (2007-14) di Michael Bay in cui la disarticolazione del montaggio, i salti e le trasformazioni narrative diventano stile per raccontare una saga fantascientifica all’insegna delle metamorfosi tanto dei corpi quanto della percezione in un mondo futuro ormai dominato dalla interazione informatica.
Nuove tendenze. – L’attentato alle Twin Towers (2001) ha indubbiamente costituito uno spartiacque anche nell’immaginario cinematografico: la spettacolarità dell’evento, il suo essere ripreso dai media nel momento stesso in cui avveniva, il cortocircuito tra il reale e la sua rappresentazione condensano le due direzioni lungo le quali il c. si è sviluppato all’alba del nuovo millennio.
Il cinema d’azione appare ormai dominato da uno stile ultrakinetik, da un effetto postcinematico (Shaviro 2015) in cui confluiscono l’impressione di realtà, la violenza e l’accelerazione del montaggio, l’aderenza delle riprese alla mobilità di uno sguardo che appare come in ‘presa diretta’. Questo stile è tipico di registi statunitensi come Tony Scott, Michael Mann, Kathryn Bigelow. L’11 settembre ha offerto al c. l’occasione di riflettere sul nesso tra sfera mediatica, eventi planetari e capacità di restituire con le immagini la nuova condizione di un mondo continuamente ‘connesso’ con la sua rappresentazione visiva, entrando in sintonia con un nuovo tipo di documentario, come si vede in film come Citizenfour (2014) di Laura Poitras. Il ‘terrore globale’ connesso alla sfera mediatica ha prodotto una consonanza tra medium tecnologico e aspetti orrorifici e soprannaturali che ha visto fin dai primi anni Duemila un impulso produttivo ed espressivo sia nel c. occidentale sia in quello asiatico, giapponese e coreano in particolare. Negli Stati Uniti nuovi cineasti come Rob Zombie, Zack Snyder, Matt Reeves, Gore Verbinski e maestri del genere come John Carpenter o George A. Romero hanno introdotto nel clima terrificante dei loro film inserti e contaminazioni tecnologiche, quando non hanno adottato la formula del film nel film (finti video, memory card, riprese che simulano la presa diretta, found footage), procedimento inaugurato da The Blair witch project (1999; The Blair witch project - Il mistero della strega di Blair) di Eduardo Sánchez e Daniel Myrick, finto documentario (mokumentary) nato da un fenomeno diffuso in rete, proseguito con la saga di Paranormal activity (2007) di Oren Peli e con Rec (2007) degli spagnoli Jaume Balagueró e Paco Plaza.
Nei Paesi asiatici sono emersi giovani maestri del new horror come i giapponesi Takashi Shimizu, Kiyoshi Kurosawa, e i sudcoreani Kim Ji-woon, Bong Joon-ho. Il fenomeno si è serializzato, in sinergia con l’industria hollywoodiana, con le saghe partite in Giappone da Ringu 0.Bâsudei (2000) di Norio Tsuruta e da The grudge (2004) di Shimizu, e negli Stati Uniti, con quelle cominciate da Saw (2004; Saw - L’enigmista) di James Wan e da Hostel (2005) di Eli Roth. L’efferatezza e la brutalità visiva di questi film hanno fatto parlare di una nuova tendenza, il torture porn,in cui la soglia di sopportazione visiva viene innalzata a livelli insostenibili. A tale genere vanno riferiti il giapponese Gurotesuku (2009; Grotesque) di Kôji Shiraishi, il francese À l’intérieur (2007) di Alexandre Bustillo e Julien Maury, il serbo Srpski film (2010, noto con il titolo A Serbian movie) di Srdjan Spasojevic.
Il c. appare in tutti i suoi generi (non solo quello horror: v. cinematografici, generi) dominato dalla logica della serialità. L’osmosi tra c. e piattaforme mediali appare evidente e la nuova forma a episodi seriali alimenta la temporalità dilatata e scomposta dei prequel, dei sequel, degli spin-off. E non stupisce di ritrovare tra i creatori di serial registi come David Fincher (House of cards, 2013, House of cards - Gli intrighi del potere) o Steven Soderberg (The knick, 2014). Del resto la contaminazione tra i generi (noir, mistery e fantastico) e la scompaginazione temporale sono elementi di uno stile che si trasferisce dal c. ai canali televisivi, come nelle serie Breaking bad (2008-13) o True detective (2014), ideate rispettivamente da Vince Gilligan e da Nic Pizzolatto.
Nel continente africano o nella penisola indiana negli anni Duemila è emerso, o ha ricevuto nuovo impulso, un c. ‘popolare’ di largo consumo strettamente collegato a stilemi e immaginari ‘locali’, ma anche diffusosi come ‘pratica dal basso’ caratterizzata insieme dai nuovi mezzi leggeri digitali e da una industria capillare e moltiplicata, come è avvenuto per il fenomeno cosiddetto Nollywood in Nigeria, oppure con gli sviluppi del genere melodrammatico e musicale di ‘Bollywood’ dove il grande spettacolo, gli effetti speciali, i budget ingenti hanno ridefinito in una estetica postmoderna le suggestioni esotiche e mitologiche. Tra ‘globale’ e ‘locale’ la mutazione delle forme cinematografiche si fa planetaria.
Il c. europeo rispetto a quello statunitense e asiatico ha assunto un diverso atteggiamento, più attento a una rifondazione linguistica del c., che si è espresso in due tendenze: quella che si muove in direzione di un nuovo ‘cinema del reale’ e quella caratterizzata dalla riflessione sul c. stesso a più di un secolo di distanza dalla sua invenzione. La prima tendenza è presente soprattutto nel nuovo c. austriaco, con registi quali Michael Haneke, Ulrich Seidl, Josh Hausner, Barbara Albert, Marcus Schleinzer, e rumeno, con autori quali Cristi Puiu, Cristian Mungiu, Corneliu Porumboiu: nuove correnti caratterizzate entrambe da una ridefinizione del realismo cinematografico nel senso di un rigore e di una asciuttezza che, nel caso della nuova produzione rumena, si declina in un acre e disincantato sguardo sulla miseria morale e materiale della società post comunista, sfociando nel paradosso surreale dell’humour noir, mentre, nel caso della new wawe austriaca, tende a un’esplorazione glaciale ed entomologica, spesso crudele, di un quotidiano percorso da manie e perversioni nascoste sotto la vernice piccolo-borghese, mentre in forma di documentario la restituzione del reale viene effettuata con uno sguardo disincantato e politico sulla globalizzazione, come nei film di Michael Glawogger o di Hubert Sauper.
Nei Paesi latinoamericani sono invece emerse nuove individualità che hanno caratterizzato il c. d’autore argentino, cileno, messicano e brasiliano, accomunate tutte dalla ricerca di strade narrative ed espressive entro cui elaborare una sorta di realismo fantastico, talvolta dai risvolti filosofici, e spesso con soluzioni visionarie.
La seconda tendenza si è espressa nel panorama del c. d’autore, soprattutto in quello di maestri riconosciuti del Novecento (non solo europei) con una riflessione sui destini del c. stesso rispetto alle nuove modalità di visione: si pensi all’uso eccentrico del 3D nei nuovi film di Jean-Luc Godard, Adieu au langage (2014; Addio al linguaggio), o di Werner Herzog, Cave of forgotten dreams (2010), oppure alla spinta verso i territori sconosciuti e labirintici della percezione alterata del David Lynch di Inland empire (2006; Inland empire - L’impero della mente), o ancora all’amplificazione di vicende intime e quotidiane su un piano cosmico e allucinatorio, con dispiegamento di inediti mezzi di ripresa in The tree of life (2011) di Terrence Malick. Ma anche con opere basate sulla riconfigurazione del patrimonio di immagini appartenenti a un secolo di c.: come nella serie delle Histoire(s) du cinéma di Godard. O mediante pratiche di autofiction e autorimontaggio della memoria dei propri stessi film: da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet a Manuel De Oliveira, da Raoul Ruiz a Julio Bressane, da Amos Gitai a Paulo Rocha. Oppure, infine, interrogandosi sulla natura del c. nell’epoca della sua apparente sparizione, con un’estremizzazione del lavoro sul tempo, la storia e la memoria, come in alcuni esiti di Lav Diaz, Norte, hangganan ng kasaysayan (2013, noto con il titolo Norte, the end of history); di Abel Ferrara, 4:44 Last day on Earth (2011, 4:44 L’ultimo giorno sulla Terra); di Franco Maresco, Belluscone (2014); di Leos Carax, Holy motors (2012); di Paul Schrader, The canyons (2013).
Un nuovo spettatore per un nuovo tipo di cinema. – Fin dall’arrivo del treno sullo schermo dei fratelli Lumière lo spettatore ha interagito con il film, se è vera la fuga del pubblico dal Salone indiano terrorizzato dall’effetto del l’immagine che li investiva frontalmente. Il c. attiva nello spettatore suggestioni e ricostruzioni memoriali, reazioni di identificazione o di distacco rispetto alle immagini, alle azioni, ai personaggi in movimento. Ma questo ruolo dello spettatore viene nella galassia mediale del nuovo millennio reso ancor più attivo, fino a farlo interagire con il film. Lo si vede nell’impostazione dei nuovi videogame che mimano sempre di più lo sviluppo di un film, quando non prolungano un film di successo in un dispositivo in cui lo spettatore possa rivivere il film partecipandovi da gamer, cioè da giocatore che condiziona e muta lo sviluppo narrativo. Questa nuova condizione dello spettatore, implicato in un reticolo di immagini che può indirizzare, ma da cui può anche essere condizionato e intrappolato, si riflette in più film. In The social network (2010) di Fincher, si racconta la nascita e l’esplosione del fenomeno di Facebook all’Università di Harvard, indirizzando le dinamiche dell’azione lungo una ragnatela di dialoghi tratti dalle chat dei social network che imprimono al film un parossismo in grado di rispecchiare l’ansia dell’‘essere connessi’ e la pervasività comunicativa della società contemporanea, ma anche le mutate dinamiche relazionali in una ‘mediasfera’ dove diventano labili i limiti dell’identità e i confini tra la realtà e l’immaginazione, temi che Fincher aveva già affrontato in The game (1998) e in Fight club (1999).
In The edge of tomorrow (2014; Senza domani) di Doug Liman, una battaglia contro una popolazione aliena si trasferisce sulla virtuale piattaforma di una specie di ‘gioco di ruolo’ esteso a tutto il continuum spaziotemporale, dove come in un videogame si possono imprimere modificazioni spaziali e ritorni del tempo su sé stesso. Sono film che spostano la narrazione cinematografica direttamente sulla mutata condizione percettiva, oltre che sociale, impressa dalla ‘convergenza’ dei media. La centralità che il c. ha avuto come medium del Novecento, in questi primi anni del Duemila, da un lato viene scardinata, dall’altro, disseminata e decentrata, ri-locata su un territorio in cui la sua potenza appare paradossalmente aumentata proprio da questa sua ‘polverizzazione’.
Bibliografia: J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding new media, Cambridge (Mass.) 1999 (trad. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano 2002); J. Rancière, Le destin des images, Paris 2005 (trad. it.Cosenza 2007); H. Jenkins, Convergence culture, New York 2006 (trad. it. Milano 2007); P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Roma 2007; D.N. Rodowick, The virtual life of film, Cambridge (Mass.) 2007(trad. it. Il cinema nell’era del virtuale, Milano 2008); P. Montani, La funzione testimoniale dell’immagine, in XXI Secolo - Comunicare e rappresentare, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma2009, pp. 477-89; F. Casetti, La galassia Lumière, Milano 2015; S. Shaviro, No speed limit. Three essays on accelerationism, Minneapolis 2015.
Per ulteriori approfondimenti sulle cinematografie dei diversi Paesi, si veda la sezione Cinema nelle voci degli Stati.
Tecnologia digitale di Christian Uva. - La tecnologia digitale si è imposta in maniera ormai totalmente pervasiva nella produzione filmica interessando anzitutto la materia che la compone (la fattura delle immagini) e allargando progressivamente la propria influenza anche agli altri stadi costitutivi della filiera, dalla preproduzione alla postproduzione e all’esercizio, annullando in qualche modo la ‘specificità’ tanto a lungo rivendicata dal c. stesso in un più ampio e magmatico orizzonte. Come ha scritto Henry Jenkins, la teoria digitale si può così riferire a qualunque aspetto, «dal ruolo che hanno gli effetti speciali generati al computer nei film blockbuster di Hollywood ai nuovi sistemi di comunicazione (Internet), dai nuovi giochi di divertimento (i giochi dei computer), ai nuovi generi musicali (la techno) o ai nuovi sistemi di rappresentazione (la fotografia digitale o la realtà virtuale)» (The work of theory in the age of digital transformation, in A companion to film theory, ed. T. Miller, R. Stam, 2003; trad. it. in R. Stam, Teorie del film. Dal ’68 alla rivoluzione digitale, 2° vol., 2005, p. 299).
Digitale vs analogico. – Per affrontare lo statuto e le articolazioni della nuova tecnologia nel c. è necessario preliminarmente chiarire che, come ha rimarcato Laurent Jullier, il termine digitale di per sé non rimanda né a un supporto specifico né ad alcuna tecnica di creazione, ma esclusivamente a una procedura di codificazione (Jullier 1997; trad. it. 2006, p. 45) o a un sistema di rappresentazione che può essere esemplificato ricorrendo alla canonica metafora dell’orologio, abitualmente impiegata per spiegare la differenza concettuale sussistente tra digitale e analogico: se il primo sistema di rappresentazione è assimilabile alla misurazione del tempo che avviene tramite l’apparizione su uno schermo elettronico di numeri consecutivi tra i quali la transizione è netta, senza soluzione di continuità, ovvero discreta, nel secondo caso il riferimento è quello delle lancette che si muovono sul quadrante in maniera ininterrotta, cioè continua.
L’immagine digitale, a differenza di quella analogica (che viene sempre rappresentata in modo continuo, cioè analogo alla realtà mostrata), è quindi un’entità discreta o numerica (l’aggettivo digitale deriva infatti dall’inglese digit, cioè cifra) ed è pertanto definibile, in termini essenziali, come un insieme di zero e di uno, cioè di bit (dalla contrazione di binary digit), codificato seguendo uno specifico standard che possa essere riconosciuto e ‘compreso’ da un sistema di lettura.
L’unità più piccola misurabile di ogni immagine digitale è il pixel (abbreviazione di picture element, individuabile come un quadratino colorato che, visto insieme a tutti gli altri, permette di percepire l’immagine come tale). Dal numero di pixel implicati nella rappresentazione di un’immagine digitale si determina la sua risoluzione: in generale, a un maggior numero di pixel corrisponde una migliore resa dell’immagine stessa in termini estetici e quindi una sua più alta definizione (il contrario naturalmente avviene con la bassa definizione).
L’immagine infografica. – Per quel che riguarda la genesi tecnologica di un’immagine digitale si può fare riferimento a due fondamentali procedimenti, quello infografico e quello fotonumerico (Uva 2009).
Per comprendere quale sia la natura di un’immagine del primo tipo è sufficiente prendere in considerazione il prefisso specificante questo tipo di ‘oggetto’: la particella info rinvia infatti al mondo dell’informatica e dunque al ruolo determinante svolto in tale caso dalla componente software.
L’immagine infografica – la cui prima applicazione nel c. di intrattenimento risale al 1977 con Star wars. Episode IV - A new hope (Guerre stellari. Episodio IV - Una nuova speranza), mentre il primo film realizzato integralmente in grafica computerizzata è Toy story (1995) – a differenza di quella fotonumerica non si origina da alcun procedimento di ripresa, bensì risulta elaborata direttamente al computer tramite appositi programmi. In particolare, si può parlare a tale riguardo anche di immagine di sintesi poiché all’origine di un simile costrutto si pone un’operazione di assemblaggio di elementi eterogenei fatti convergere in un unico oggetto integrato.
L’immagine infografica o sintetica, da questo punto di vista, va intesa, prima ancora che nel significato più comune di ‘oggetto artificiale’, nel senso letterale di contesto in cui si determina la fusione di più immagini ottenute attraverso una separata azione di calcolo informatico e prelevate da differenti archivi (nello specifico, da una molteplicità di database informatici): si tratta di conseguenza di un’immagine da considerarsi non più ri-produttiva, ma produttiva di una realtà nuova e altra.
Il termine tecnico che specifica tale operazione è compositing e, come precisa Lev Manovich (2001), «ha un significato ben definito nel campo mediale. Indica quel processo che consiste nel combinare più sequenze d’immagini in movimento, eventualmente anche fisse, in un’unica sequenza con l’aiuto di un apposito software di composizione» (trad. it. 2005, p. 177). In questo orizzonte l’immagine digitale finisce per assomigliare molto a quella pittorica dato che, come quest’ultima, risulta il prodotto di una serie di apporti, inserimenti e ritocchi effettuati in momenti diversi. Per usare i termini di Philippe Dubois, l’icona infografica può essere cioè considerata come un’immagine polimorfica (L’acte photographique, 1983; trad. it. 1996, p. 102), ossia determinata da una serie di azioni diverse, separate e successive di assemblaggio.
L’immagine infografica o sintetica è pertanto il risultato di un ‘montaggio verticale’, cioè della sovrapposizione di più livelli o layers ognuno dei quali specifica un determinato elemento visivo su cui è possibile intervenire separatamente al fine di modificare la fisionomia complessiva dell’immagine stessa, proprio come succede nell’ambito dell’editing del film che, da lineare, con il digitale diventa non lineare, ossia continuamente soggetto, grazie all’impiego di specifici software di montaggio (come Avid o Final Cut), a modificazioni nell’ordine delle inquadrature e delle scene operabili secondo il classico principio, proprio di ogni programma di videoscrittura, del ‘taglia e incolla’.
Tutto ciò segnala quella che William J. Mitchell definisce la «mutabilità intrinseca» dell’immagine digitale (The reconfigured eye. Visual truth in the post-photographic era, 1994, p. 7), ovvero la sua estrema malleabilità e disponibilità a modificarsi e trasformarsi molto rapidamente attraverso la manipolazione dei bit, consentendo la realizzazione dei più mirabolanti visual effects.
Uno dei campi in cui maggiormente sono state messe a frutto le potenzialità del computer, avvicinando sempre di più il c. all’estetica dei videogame, è quello dei digital characters. Si tratta delle creature digitali che popolano molte delle saghe fantasy e science fiction degli ultimi anni e che trovano esempi paradigmatici nel Gollum/Sméagol apparso per la prima volta in The lord of the rings (2001-03; Il signore degli anelli), nei Na’vi di Avatar (2009) o nei personaggi di opere completamente computerizzate come The polar express (2004; Polar express), A Christmas carol (2009) o The adventures of Tintin (2011; Le avventure di Tintin - Il segreto dell’unicorno). Le procedure mediante le quali è oggi possibile conferire ‘vita’ ai digital characters sono, in particolare, la motion capture e la performance capture, sistemi di hardware e software finalizzati a rilevare l’energia cinetica di soggetti umani (spesso veri e propri divi) tramite un insieme di dispositivi a infrarossi e markers o sensori posizionati sul corpo e sul viso dei performers.
Immagini fotonumeriche. – Anche per quanto riguarda il tipo di immagini ottenute mediante dispositivi di ripresa lens based, cioè quelle definibili fotonumeriche, il prefisso che le specifica aiuta già a comprenderne lo statuto: foto rinvia infatti a un tipo di processo in cui risulta ancora centrale l’azione svolta dalla luce su una superficie sensibile, nella fattispecie su un sensore o trasduttore atto a convertire i segnali luminosi (fotoni) in segnali elettrici (elettroni). Se per lungo tempo questo congegno è stato rappresentato dal CCD (Charge-Coupled Device, dispositivo ad accoppiamento di carica), oggi perlopiù esso è stato sostituito da un altro tipo di fotosensore, il CMOS (Complementary Metal-Oxide Semiconductor, semiconduttore complementare a ossido di metallo), la cui peculiarità è quella di integrare, all’interno dello stesso chip, sia la normale funzione di conversione dei fotoni in elettroni, sia la conversione del segnale da analogico in digitale.
Va segnalato comunque che il sensore di cui sono dotati i dispositivi di ripresa digitali (prima ancora del nastro o della memoria su cui i dati vengono registrati e immagazzinati) è il diretto sostituto della pellicola. Analogamente a quest’ultima, infatti, risulta posizionato subito dietro l’obiettivo, costituendo la materia ‘sensibile’ che, come accade per l’emulsione chimica, viene investita dalla luce passante attraverso le lenti. Da questo punto di vista, la sostanziale differenza tra un sensore e un supporto a pellicola risiede nella loro intima struttura. Se infatti l’emulsione chimica è costituita da una serie di granuli di alogenuro d’argento irregolari e disposti in ordine sparso nello spazio, il sensore degli apparati di ripresa digitali, fatto di silicio, si fonda su un numero ben preciso di minuscoli elettrodi, tutti di uguale forma e dimensione, chiamati photosites (fotoelementi), disposti in ordine geometrico su una griglia bidimensionale divisa in celle (corrispondenti nell’immagine finale ai pixel).
Rilocazioni. – Il nuovo orizzonte mediale nel quale scorrono fluidamente i bit dimostra dunque quanto oggi sia necessario svincolare i parametri di pensiero dai tradizionali canoni dell’‘oggetto-film’ per approdare all’idea di un magma audiovisivo in cui il cinema-cinema si mescola con la televisione e con il video, nel senso di videoarte, videoclip (v. video: Videoclip) e persino videogame (v.), per essere realizzato e fruito nelle modalità più diverse e anticonvenzionali.
A connotare il nuovo assetto tecnologico è in definitiva una generale ‘rilocazione’ (Casetti 2015), sul piano delle forme d’esperienza come di quelle di produzione delle immagini. Da un lato si registra così l’inversione copernicana del rapporto tra pubblico e spettacolo filmico: in virtù del la disseminazione sempre più massiccia di schermi di ogni tipo, infatti, non è più il primo a doversi muove re per raggiungere il secondo ma, viceversa, sono le immagini a raggiungere il fruitore installandosi nella molteplicità di schermi – piccoli e grandi (da quelli dei telefoni cellulari agli urban screens) – di cui egli fa esperienza nella vita di ogni giorno.
La stessa sala cinematografica, d’altra parte, lungi dall’essere abbandonata, in conseguenza dello switch off al digitale viene riconfigurata come luogo di fruizione non solo di opere cinematografiche, ma di prodotti audiovisivi di ogni genere. Ora infatti il sistema proiettore-schermo, analogamente ai televisori, riceve il film non più sotto forma di un supporto materico (la tradizionale ‘pizza’ di pellicola), bensì come un file (il DCP, Digital Cinema Package) inviato via satellite da una ‘centrale’, consentendo così la creazione di veri e propri network di sale cinematografiche in cui è possibile proiettare (in alta definizione, 2D o 3D) anche eventi in diretta legati al mondo dello sport e dello spettacolo.
Il medesimo processo di rilocazione riguarda altresì i dispositivi di ripresa, visto che ai tradizionali sistemi, come le videocamere, di recente si sono affiancati non solo apparati una volta destinati esclusivamente alla realizzazione di immagini statiche (quali le fotocamere, divenute oggi video reflex), ma anche altri portable devices sempre più miniaturizzati (dai videofonini alle microcamere) e per questo installabili facilmente su dispositivi slegati dal corpo umano (come i droni, v.) oppure agevolmente ‘indossabili’ (come le piccole action cam) al fine di dare vita a una visione olistica oppure radicalmente immersiva del mondo.
In quest’ultima direzione, in particolare, si pone anche il grande ritorno in auge del 3D quale recupero e potenziamento di tecniche sperimentate in passato. Impiegata dal c. soprattutto negli anni Cinquanta, con il nuovo millennio la stereoscopia diventa digitale (D-3D), incarnandosi in nuovi sistemi di fruizione e di realizzazione delle immagini che vengono esaltati, come sempre è accaduto per ogni snodo tecnologico nella storia del c., per motivi opposti. Se l’attrazione è il carattere dominante di tale sistema poiché è quello che ne ha decretato la nascita e che meglio si relaziona con la dimensione spettacolare dell’esperienza filmica, sul lato opposto molti osservatori ne enfatizzano il realismo capace di dare un corpo alle ‘ombre’ bidimensionali che abitano il c. dalle origini. In un modo o nell’altro, come afferma Thomas Elsaesser (2011), il 3D non dovrebbe comunque «essere soltanto percepito come la nuova norma, ma esso [...] è solo un elemento, o se si vuole, un sintomo, di una re-impostazione emergente di parecchie norme, che stanno cambiando la nostra idea sul significato dell’immagine» (p. 51).
Bibliografia: L. Jullier, L’écran post-moderne. Un cinéma del’allusion et du feu d’artifice, Paris 1997 (trad. it. Il cinema post moderno, Torino 2006); J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding new media, Cambridge (Mass.) 1999 (trad. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano 2002); L. Manovich, The language of new media, Cambridge (Mass.) 2001 (trad. it. Milano 2005); D.N. Rodowick, The virtual life of film, Cambridge (Mass.) 2007 (trad. it. Il cinema nell’era del virtuale, Milano 2008); C. Uva, Impronte digitali. Il cinema e le sue immagini tra regime fotografico e tecnologia numerica, Roma, 2009; T. Elsaesser, Il ritorno del 3D: logica e genealogie dell’immagine del XXI secolo, «Imago. Studi di cinema e media», 2011, 3, nr. monografico: Rivoluzioni digitali e nuove forme estetiche, a cura di E. Menduni, V. Zagarrio, pp. 49-68; «Bianco e nero», 2011, 568, nr. monografico: Il cinema nell’epoca del videofonino, a cura di R. Odin; D. Stump, Digital cinematography. Fundamentals, tools, techniques, and workflows, New York-London 2014; F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Milano 2015.