GENOVA (A. T., 24-25-26)
Città della Liguria.
Sommario: Geografia. - Nome (p. 547); Posizione (p. 548); Clima (p. 549); Sviluppo topografico (p. 549); Sviluppo demografico (p. 551); Condizioni economiche (p. 551); Il porto (p. 552); Aeroporto (p. 555); Amministrazione della città (p. 555); Il comune (p. 555). - Storia: Antichità (p. 556); L'alto Medioevo (p. 556); L'età comunale (p. 557); Podestà e capitano del popolo (p. 558); I dogi perpetui (p. 559); I dogi biennali (p. 562); Il predominio francese e il Risorgimento (p. 564). - Arti figurative (p. 567). - Musica (p. 570). - Arte della stampa (p. 571). - La conferenza di Genova (p. 572). - Il dominio coloniale (p. 572). - La provincia di Genova (p. 574). - Bibliografia (p. 574).
Nome. - Il toponimo Genova riproduce l'antico nome Genua che ha riscontri indiretti di struttura analogica nel mondo ligure preromano e uno diretto in Genava - Ginevra (allotropo di Genua): forse col significato di "rientranza". Ogni avvicinamento di Ianua, forma medievale, al dio Giano, presunto fondatore di Genova, o a ianua "porta", è arbitrario.
Posizione. - Genova è situata a 44° 24′ 50″ di lat. N. e a 8° 55′ 7″ di long. E., ma per il suo ampio sviluppo costiero (km. 33 ik) e montano (96) si estende in longitudine per circa 1/5 di grado; è quindi un imponente organismo poleografico determinato da ragioni geografiche. Esso comprende: 1. il territorio di Genova entro i limiti dell'ultima cerchia (1630), immenso triangolo col vertice al M. Sperone (ultima propaggine del plesso montuoso dominato dal M. Bano tra Scrivia e Bisagno), la base al mare e i lati costituiti da due creste, una più elevata, ripida e aspra terminante alla Lanterna, e oggi spezzata dal taglio di S. Benigno, l'altra più bassa e di aspetto collinoso scendente a Montesano (Brignole). Genova vecchia si raggruppa ai piedi di una breve eminenza, che domina la cresta orientale: il Peado, prossimo al Righi, e sulle ultime sue propaggini irregolarmente ondulate. Su queste da Piazza Principe a Piazza della Marina e sulla breve spiaggia la città è sorta e si è allargata risalendo dal mare, prima verso le sue più basse falde (Villetta Di Negro, Castelletto, Montegalletto) e sul fondo delle anguste e precipiti valli di torrenti oggi coperti (Vie Palestro, Caffaro, Pertinace) e poi invadendo con fitti abitati le più alte pendici (Circonvallazione a monte) e assai meno la parte occidentale compresa tra l'altra cresta e il torrente del Lagaccio, tuttora montuosa ed aspra. 2. L'ubertosa valle della bassa e media Polcèvera fino a Pontedecimo inclusa, tagliando fuori le valli dei due torrenti formatori, Verde e Riccò, la valle superîore della Secca e del Sardorella con S. Olcese e la regione della Guardia con Ceranesi, territorio che mette nelle mani di un solo ente amministrativo la zona di raccordo ferroviario di Genova col suo retroterra. 3. La valle del Bisagno fino a Struppa. 4. Il plesso montuoso dominato dal M. Fasce, limitato dalla linea Bisagno-Leutro, torrente di Nervi, mare, foce del Bisagno, e bipartito dallo Sturla; in ultimo lo spiovente meridionale appenninico tra Cornigliano e il confine dell'ex-comune di Voltri con Arenzano, cioè le valli del Chiaravagna, Varenna, Cerusa, esclusa la valle media del Coreira con Mele.
Clima. - Il clima presenta le caratteristiche della varietà tirrenica del clima mediterraneo cui appartiene; ne diverge per l'alta piovosità e per i bruschi abbassamenti di temperatura, che lo rendono tipico per la rarità o l'assenza di certe forme vegetali che prosperano lungo il Tirreno, per la frequenza delle malattie delle vie respiratorie tra gli abitanti e per l'assoluto contrasto tra il centro e località pochissimo distanti, quali Nervi e Pegli, celebrate stazioni climatiche. Di tali abbassamenti, non nocivi ai temperamenti vigorosi per l'azione stimolante che esercitano, sono cause la posizione di Genova e il contrasto barico tra la Val Padana, area d'alta pressione, e il Medio Tirreno, area di bassa pressione, che, quando lo squilibrio è troppo forte, produce un afflusso d'aria che trabocca dalla cerchia montana nella Val Polcevera e su Genova e ne abbassa la temperatura; si spiegano così le giornate di freddo eccezionale accompagnate da bufere. Dominano i venti del I e del II quadrante, raramente quelli del IV; per breve tempo, e con effetti talvolta gravi, il libeccio. Sono venti apportatori di piogge e lo scirocco anche della fastidiosa maccaia. Piuttosto rare sono le nevicate, le nebbia e le rugiade. La temperatura, in base a gruppi di medie recenti, oscilla tra gli 8° e 23°, l'escursione (16°) è di tipo mediterraneo, il mese più freddo è normalmente gennaio (7°,6), il più caldo è agosto (24°,1). La media pluviometrica, di mm. 1309, è tra le maggiori dei paesi mediterranei a causa della postura della montagna rispetto ai venti distributori delle precipitazioni, con circa 100 giorni di pioggia all'anno a regime sublitoraneo; i massimi spettano al semestre autunno-inverno; non esiste siccità estiva assoluta (trimestre estivo, mm. 180); il massimo primaverile arriva a 300 mm.
Sviluppo topografico. - La catena di monti che separa le due valli del Polcevera e del Bisagno e si apre ad anfiteatro sul piccolo golfo, offrì a Genova una fra le più pittoresche posizioni del Mediterraneo e una sicura difesa. La città fu fondata sul colle di Sarzano, presso il punto naturale più sicuro per l'approdo e per il riparo delle navi. La civiltà etrusco-ligure, i navigatori elleni e i romani si succedettero in quel sicuro asilo, minacciato, sul finire del primo millennio, dai Saraceni.
Il nucleo dell'abitato primitivo è l'oppidum preromano e romano, che sorgeva nelle odierne regioni di Castello, delle Grazie e di Sarzano, sopra un poggio dirupato sul mare, ai piedi del quale un'insenatura offriva un buon ancoraggio (la Genova di Strabone). Né pare che prima del 925, dopo un'esistenza lunga, ma oscura, l'abitato si sviluppasse oltre quei limiti. A quell'anno si fa risalire una cinta di mura, che partiva dal mare nella località dell'odierna Piazza Banchi, e raggiungeva il Colle di S. Andrea, innestandosi a Sarzano alla vecchia cinta romana. Essa avrebbe racchiuso il nuovo abitato formatosi sulle piccole eminenze ove sorgono S. Lorenzo e il Palazzo Ducale e sulla regione del Colle per un lento accrescimento di cui forse furono causa principale le invasioni longobardiche, che determinarono dalla Liguria padana un afflusso di profughi in Genova, uno degli ultimi baluardi della resistenza bizantina. A un nuovo sviluppo della città fanno pensare l'essere stata essa base delle spedizioni contro i Saraceni di Corsica, il complesso di attività e d'interessi nuovi creati dallo sviluppo del commercio, e la necessità di proteggere il nuovo abitato (la Genova carolingia e postcarolingia). A un secondo momento risponde la cinta del 1155, innalzata tumultuariamente fra le preoccupazioni d'un possibile assalto del Barbarossa. Essa attesta la trasformazione profonda prodotta dalla prosperità recata dalle Crociate: per essa l'antico distretto rustico, la domus culta, quasi per intero retaggio viscontile degli Spinola, che s'estendeva dal Colle di Piccapietra per l'Acquasola ai piedi del Peado fino all'odierna Piazza dell'Annunziata, s'era mutato in un borgo denso di case. La Genova medievale si trovò così costituita tra il mare, il monte e i ruscelli di Rivotorbido e di S. Sabina. La terza cinta era compiuta nel 1537, e, formatasi poco a poco per via di annessioni parziali, chiuse il borgo di Prè, le alture di Montegalletto, di S. Michele, di S. Brigida, il sobborgo di Portoria, il poggio di Carignano. La Genova del Rinascimento non rappresenta tuttavia un progresso sulla medievale, né per l'estensione dei territorî annessi, né per la densità degli abitati che racchiuse, poiché erano plaghe in gran parte agresti; anzi segna l'inizio di un lungo periodo di arresto, perché negli stessi confini qua e là segnati dai ruderi di quella cinta, distrutta o mascherata da costruzioni, Genova rimase sempre distinta dai sobborghi del piano e dagli sparsi abitati del monte. Cosa naturale, perché, raggiunto un certo equilibrio, dové badare, nel periodo della decadenza, a difendere i resti dell'antica potenza e non ebbe modo di progredire in nessun campo. L'ultima cinta, infatti, del 1630, per l'invulnerabilità quasi assoluta che diede a Genova. mirò più che a proteggere vasti abitati, ad assicurarla da colpi di mano ostili, collegando le scarse opere di difesa sulla cresta con un baluardo che dal M. Sperone scendeva alla Lanterna e allo Zerbino.
Per oltre due secoli e mezzo questo spazio bastò all'incremento della popolazione, ma, con l'unificazione del regno, Genova divenne il porto più importante dell'Italia: lo sviluppo stradale, il moltiplicarsi e il perfezionarsi dei mezzi di comunicazione, il risveglio dei commerci, determinato dal progresso dei paesi del retroterra e dall'apertura delle gallerie alpine, svilupparono il fenomeno dell'immigrazione, e la popolazione si raddoppiò. Di qui la necessità di allargare i limiti del comune, e nel 1874 i comuni di Foce, S. Fruttuoso, S. Francesco d'Albaro e Staglieno, tutti a oriente di Genova, furono aggregati al centro. Verso occidente i Genovesi si erano sempre arrestati innanzi a un'altra città attiva, industriosa e in sempre crescente sviluppo: Sampierdarena, primo anello della catena dei centri industriali a servizio del porto estendentisi nel triangolo Genova-Pontedecimo-Voltri, che nella vita economica commerciale e industriale formavano già un'unità organica con la metropoli. Le crescenti esigenze del porto richiamavano un'ingente mano d'opera, la quale, per le ristrettezze topografiche, non poteva trovare domicilio nel centro. Inoltre le rigogliose fortune commerciali, reclamando locali per uffici, magazzini, ecc., determinavano lo sfollamento dei rioni degli affari: Banchi, Prè, ecc. Di qui lo spostarsi della massa operaia nei centri suburbani e la necessità dell'unione amministrativa dell'organismo poleografico. E poiché il litorale di ponente e la zona settentrionale si presentavano sature di popolazione addetta alle industrie, occorreva che Genova avesse anche un respiro verso levante, onde l'inclusione, avvenuta nel 1926, dei comuni del litorale orientale e della bassa Val Bisagno (per l'ulteriore sviluppo della città, v. anche a p. 555: Il comune).
Sviluppo demografico. - Lo sviluppo topografico del comune procedette naturalmente in rapporto col progresso demografico. Per quanto le numerose cinte di mura testimonino del costante aumento della popolazione, fino a tutto il '400 mancano notizie per determinarne l'entità. I primi dati, molto incerti, risalgono al sec. XVI, in cui si assegnano a Genova-centro 6298 case e al territorio dei comuni annessi circa 4000; secondo uno stato d'anime della 2ª metà dello stesso secolo la città contava circa 50.000 ab. e un secolo dopo 39.457. Dal 1682 i dati sono più numerosi, ma i termini, rilevati a periodi irregolari, non consentono conclusioni di sorta. Dal 1788 al 1858 la popolazione oscilla tra i 77.563 e i 119.610 ab. con un incremento appena sensibile fino al 1799 (90.305 ab.) per scendere a 80.063 nel 1802 e a 75.743 nel 1808; da questo anno, sino alla costituzione del regno, lo sviluppo è continuo, ma lento. Il censimento del 1861 assegnava a Genova una popolazione: di 151.348 ab., quello del 1921 di 316.307 con un incremento compiessivo del 108% corrispondente a un incremento geometrico annuo dell'1,25%. Nei comuni annessi, per lo stesso periodo di tempo, la popolazione sale da 84.325 ab. a 237.327 con un aumento totale del 180%, corrispondente a un incremento geometrico annuo del 2%. Ma se consideriamo l'ascesa dei centri industriali: Bolzaneto, Borzoli, Cornigliano, Rivarolo, Sampierdarena e Sestri, vediamo che il loro incremento presenta percentuali fortissime, rispetto ai rurali, in cui si notano percentuali decrescenti con l'aumentare delle distanze dal centro. Nemmeno l'esame dei dati relativi al decennio 1921-31, può portarci a conclusioni sicure, perché gli anni dal 1922 al '26 appaiono ancora influenzati dalle condizioni eccezionali create dalla guerra sia riguardo ai saldi demografici sia al supero migratorio. Prendendo quindi in considerazione il triennio 1927-29 troviamo che la percentuale d'aumento dovuto all'eccedenza delle nascite sulle morti è rispettiramente dell'1,3‰, dell'1,1‰ e dell'1,7‰, mentre il supero migratorio è sempre elevatissimo. I risultati del censimento del 1931 non spostano questi valori e dànno per il comune unificato una popolazione di 607.650 ab., di cui 346.160 nel centro e 261.490 nei comuni annessi, con un saldo demografico di circa 1,8‰ e con una forte eccedenza d'immigrati su emigrati. I dati calcolati al 31 dicembre 1931 segnano un leggiero miglioramento nella situazione demografica del comune per la mortalità sensibilmente decresciuta e per il supero migratorio decrescente. In base a tali dati la densità di popolazione del comune è di 2590 ab. per kmq., ammassata nel centro (sestiere del Molo, esclusa la zona Mare, 81.615 per kmq., Prè 58.300, Portoria 49.615) e nella zona industriale (Sestri, non compresa la frazione S. Giovanni Battista, 17.984 per kmq., Sampierdarena 16.174). I sestieri meno popolati del centro sono: Marassi 1484 e Staglieno 4181, e del suburbio Bavari 368, Apparizione 399, S. Ilario 400).
Condizioni economiche. - Partendo dal periodo delle Crociate, nella storia commerciale di Genova si possono considerare quattro fasi. a) Nel Medioevo il commercio fu essenzialmente transmarino; s'iniziò con le guerre in corsa contro le marine saraceniche di Sardegna, Spagna e Africa. Le Crociate aprirono gli sbocchi del Levante mediterraneo e consentirono il formarsi delle prime colonie commerciali in Siria. Ma solo dopo il 1261 la Repubblica fu in grado di contendere l'egemonia a Venezia (v. appresso, paragrafi: Storia e Dominio coloniale). Genova diventò un gran deposito di merci, e, priva di retroterra politico e quasi senza importanza come porto regionale, ebbe invece esteso retroterra commerciale europeo: la Germania occidentale, la Francia, i Paesi Bassi, le Isole Britanniche a cui distribuiva i prodotti del Mediterraneo e le preziose derrate provenienti dall'Asia monsonica. Ma fu un retroterra sui generis con valore intensivo non estensivo, perché, sfruttato pressoché unicamente con merci d'alto costo, che solo alcuni porti mediterranei potevano procurare e sul cui scambio si fondò quasi tutto il commercio medievale, attrasse come elementi passivi più che attivi le genti non mediterranee. b) A partire dal sec. XVI il commercio non fu più transmarino, né poté farsi oceanico. In Oriente la conquista turca distrusse colonie e scali; sull'Oceano dominarono le marine iberiche, poi le olandesi, francesi, britanniche. Nondimeno Genova, diventata cliente della Spagna, nella Spagna collocò gli accumulati capitali, e, non solo non fu estranea indirettamente al commercio oceanico, ma partecipò largamente al commercio d'importazione dei paesi iberici riversandovi i prodotti del retroterra padano e germanico. Nel sec. XVIII rivolse la propria attività verso la Francia e continuò a valere non tanto per il suo retroterra, che in certo senso parve estendersi, quanto come punto d'incontro di linee di navigazione: soltanto che queste sia verso gli antichi scali levantini sia verso i mari atlantici vennero a diradarsi o a estinguersi. Siamo quindi in un periodo di profonda decadenza: sul cadere del Settecento le merci in entrata e in uscita del porto non raggiungevano le 200.000 tonn., e le navi arrivate e partite si aggiravano sulle 2000, talune delle quali, come gli sciabecchi, le pallandre, i liuti, i gozzi, con un tonnellaggio esiguo. c) Dopo l'unione al regno di Sardegna, con cui s'inizia la fase contemporanea, Genova assunse importanza regionale, e poi, compiuta l'unità, nazionale in concorrenza con gli altri porti, che essa riuscì a superare. d) La funzione internazionale comincia coi trafori alpini e con l'apertura del Canale di Suez: e la fase attuale in sviluppo è ancor lontana dalle vittorie che si ritenevano facilmente raggiungibili, attribuendo eccessivo valore ai fattori geografici derivanti dai trafori e dall'apertura del Canale, e trascurando i fattori umani ed economici. Non basta, infatti, ai porti la loro posizione geografica per assicurarli a sostenere la concorrenza con i porti anche più lontani dai paesi di produzione, ma occorre che siano preparati non solo a riceverne i prodotti, ma anche a trasformarli e a trasmetterli ai mercati di consumo.
Le risorse della città sono subordinate allo sviluppo del traffico marittimo, che si presume possa raddoppiarsi in un cinquantennio, e perciò si provvede all'ampliamento del porto e della città.
Il porto. - È il più importante d'Italia e rivaleggia con quello di Marsiglia per il primato tra i porti del Mediterraneo.
Esso è antico quanto la città, e, costituito all'origine dalla Cala delle Grazie, venne íngrandendosi come richiesero le necessità del traffico. Le prime notizie del Molo Vecchio risalgono al 1134, ma nel sec. XIII con frate Oliverio incominciarono i lavori sistematici del porto, che occuparono l'attività dei consoli del mare, dei salvatori del molo e del porto, dei conservatori del mare, degli edili del porto e attualmente del Consorzio autonomo. Le tappe principali di questa colossale impresa sono: nel sec. XIII la costruzione del Molo Vecchio; nel XVII quella del Molo Nuovo; nella seconda metà del sec. XIX, sotto gli auspici del duca di Galliera che elargì la somma di 20 milioni per i lavori del porto, la costruzione del Molo Lucedio e del Molo Giano; e al principio del sec. XX (1906) quella del Bacino Vittorio Emanuele III; sono in corso i lavori del Bacino Mussolini, che estenderanno il porto alla foce del Polcevera.
Il porto ha una superficie acquea di mq. 2.800.000 e comprende: il porto interno o Porto Vecchio, con fondali da 8 a 12 m., l'avamporto o Porto Nuovo con fondali da 12 a 27 e il Bacino Vitt. Emanuele III col suo prolungamento (Bacino Mussolini). I muri di sponda misurano m. 19.500; 4800 per le banchine dei moli di difesa, 14.700 per muri di sponda delle calate, dei quali 11.800 destinati alle operazioni di commercio, 680 per imbarco e sbarco passeggeri, 650 per la marina da diporto e 2400 per allestimento navi, bacini di carenaggio, ecc.; la superficie degli spazî a terra è di 1.500.000 mq. dei quali 450.000 riguardano gli sporgenti. Esso è difeso dai moli Nuovo, Galliera, Paleocapa, Principe Umberto, Moletto di Ponente, Cagni e Giano, al quale si congiunge il porto Duca degli Abruzzi riservato alle navi da diporto. È servito da 11 ponti sporgenti e da 19 calate perfettamente attrezzate con ferrovie, gru, tettoie, capannoni, e divise in zone secondo le qualità delle merci cui sono destinate. Merita menzione la Darsena municipale, in cui si svolge il traffico dei pesci disseccati e salati, delle conserve alimentari, dei salumi, ecc. Essa è uno dei più grandi emporî commerciali del porto, ha una superficie di 51.334 mq., dei quali 12.259 coperti da fabbricati, il resto da strade, tettoie e da tre calate: Simone Vignoso, Ansaldo De Mari e Andalò di Negro. È divisa in otto quartieri che portano i nomi delle gloriose colonie del Levante; i quartieri di Scio e Galata servono di deposito franco; è servita da 10 montacarichi elettrici e da 7 gru. In essa hanno sede i Magazzini frigoriferi genovesi.
Il porto dispone di potenti mezzi meccanici di sbarco e imbarco a doppio tipo: idrodinamico ed elettrodinamico; il primo alimenta 78 gru a 8 montacarichi con potenzialità complessiva di 154.200 tonn.; il secondo 40 elevatori da carbone e 56 gru a sbraccio fisso e a sbraccio variabile, per una potenza complessiva di tonn. 332.500, oltre a 47 gru affidate a imprese private. A questi vanno aggiunti un gran numero di rimorchiatori e chiatte-pontoni, nastri trasbordatori per carni congelate, impianti di aspirazione per cereali (l'impianto dei silos consente di scaricarne 8000 tonn. in 24 ore), olî, ecc.
Il servizio di riparazioni è fatto dalle società Cantieri del Tirreno, Ansaldo, Odero, ecc. Il porto dispone di 4 bacini di carenaggio in muratura: 3 alle Grazie, l'ultimo dei quali, inaugurato il 27 ottobre 1928, è lungo 240 metri, largo 32, profondo 11; il 4°, il più antico, è presso la Darsena. Al Molo Vecchio ha sede un piccolo scalo di raddobbo per chiatte - pontoni e rimorchiatori. Il servizio ferroviario è disimpegnato dalle stazioni di Caricamento, S. Limbania, S. Benigno con uno sviluppo di binarî di m. 93.000, di cui m. 5000 di binarî di corsa, 70.000 di binarî nei parchi e 18.000 nelle stazioni. Il servizio passeggeri è fatto dalla nuova stazione marittima al Ponte dei Mille, la più grandiosa d'Europa: l'area coperta dal complesso delle opere che la costituiscono è di 17.000 mq. Ai servizî di I e II classe sono riservate le sistemazioni più ricche e più lussuose al 1° piano, a quelli di III locali decorosissimi al piano di calata. Sul lato di levante, destinato agl'imbarchi, hanno sede le sale d'aspetto con attigui uffici per la visita dei passaporti, visita sanitaria, docce, pronto soccorso, ecc.; al lato ovest, destinato allo sbarco, la sala di visita doganale, gli uffici ferroviarî e postali e il ristorante. Un superbo viadotto unisce la stazione a P. Principe. Il sistema di segnalamento del porto comprende un faro di scoperta, 5 fanali e 2 boe luminose. Il primo è costituito della Lanterna, maestosa torre quadrata alta 76 m., costruita nel 1366 e situata sul Capo Faro, con piano focale a 117 m. s. m. e apparecchio illuminante a splendori visibili a 27 miglia. I fanali sono collocati sui moli Galliera, Giano e sulle testate del Molo Vecchio, del Ponte Paleocapa e alla bocca d'ingresso al Bacino Vittorio Emanuele III; la due boe sono situate sui prolungamenti dei moli Galliera e Cagni: tutti a luce intermittente o verde o rossa. Il servizio di spegnimento degl'incendî nel porto è fatto con apparecchi estintori a mano e automatici e con 2 barche-pompe; 2 stazioni di pompieri vi prestano servizio in permanenza. Sul Ponte Paleocapa ha sede la stazione sanitaria e varie stazioni di prime cure sono distribuite sulle calate principali.
Al porto di Genova fanno capo o scalo circa 100 linee di navigazione, che la uniscono a tutte le parti del mondo, per più di metà servite dalla bandiera italiana, oltre le navi libere da carico (cosiddette tramps).
Il movimento commerciale del porto nell'ultimo trentennio è salito a proporzioni assai rilevanti per le migliorate condizioni economiche del suo retroterra e per il crescente miglioramento dell'attrezzatura del porto. Le statistiche del Consorzio autonomo, dalla sua fondazione a oggi, segnano un continuo progresso: da 12.279 navi approdate nel 1903, con una stazza di 11.566.895 tonnellate e 5.624.093 tonn. di merci sbarcate e imbarcate, si giunge nel 1928, anno di maggiore rendimento, a 10.915 navi con una stazza di 21.055.751 tonn. e 8.672.832 tonn. di merci; solo la Darsena municipale ebbe per il 1930 un movimento di tonn. 151.949 di merci all'entrata e di 154.181 tonn. di merci all'uscita. Il movimento dell'ultimo triennio (tonn. 8.422.325, 7.649.419 e 7.107.298) risente della crisi economica mondiale. Attualmente il porto assorbe il 30,15% del movimento complessivo dei porti italiani.
Di conserva col movimento del porto si sviluppa il movimento ferroviario collegato col movimento marittimo, sicché da 47.259 carri e 5.636.270 tonn. di merci trasportate nel 1913, si sale a 541.546 carri e a 6.997.869 tonn. per il 1928 e a 449.275 carri e 5.734.760 tonn. per il 1930. Anche il movimento passeggeri è abbastanza intenso: neî 1924 è di 106.507, in partenza e in arrivo, che salgono a 182.879 nel 1927 e a 171.549 nel 1930.
Aeroporto. - La zona compresa tra il Ponte S. Giorgio e il primo sporgente del Bacino Mussolini costituisce l'idroscalo che comprende: 2 bacini da poter mettere all'asciutto, una piccola darsena con 2 scali d'alaggio per il tiro a terra degl'idrovolanti, una darsena per gl'idrovolanti in partenza e un piazzale con rimessa e fabbricati per uffici e depositi di materiali. A esso fanno scalo la S. A. N. A. e la S. I. S. A. con linee Genova-Roma; Marsiglia-Barcellona; Marsiglia-Barcellona-Gibilterra con servizio aeropostale in coincidenza con transatlantici; nel periodo maggio-settembre la linea Genova-Milano-Venezia-Trieste. Il movimento passeggeri in partenza e in arrivo per il 1931 ammontò a circa 6000 teste, quello della posta a 60.000 kg. circa e delle merci a circa 100.000, esclusi i bagagli passeggeri ed equipaggi.
Amministrazione della città. - Costituita la Grande Genova, l'amministrazione della città ha provveduto all'unificazione dei pubblici servizî, alla sistemazione del bilancio, che ha raggiunto il pareggio mercé i proventi ordinarî e quelli provenienti dall'ingente patrimonio immobiliare del comune, nonché con gli utilí ricavati da varie aziende di proprietà comunale come la Darsena, il Bacino di carenaggio, l'azienda dei tram elettrici, che per 4/5 appartiene al comune, l'Azienda municipale del gas, che nel 1931 ha venduto oltre 40 milioni di mc. di gas, l'Azienda autonoma municipale degli autobus e altre minori, utili che hanno consentito altresì l'attuazione di un vasto e ardito programma di grandi opere pubbliche. Tale sistemazione ha consolidato la situazione finanziaria e patrimoniale della città e ha confermato e aumentato il vasto credito di cui essa gode sia all'interno sia all'estero.
Il comune. - Ha una superficie di 23.479 ettari e una popolazione di 610.787 ab. (31 dicembre 1931). Con regio decreto 14 gennaio 1926 all'antico comune di Genova furono annessi i comuni limitrofi di Apparizione, Bavari, Bolzaneto, Borzoli, Cornigliano Ligure, Molassana, Nervi, Pegli, Pontedecimo, Prà, Quarto, Quinto Rivarolo, Sampierdarena, San Quirico, Sant'Ilario, Sestri, Struppa e Voltri. Attualmente la sua fisionomia è caratterizzata da un'irregolare configurazione e da forti dislivelli (dal mare a 360 m. per le zone abitate, e a 1184 per quelle alpestri), dando luogo a una figura geometrica simile a un trapezio irregolare. Tale configurazione ha fatto sì che l'abitato si è addensato nelle zone basse e piane, e cioè lungo la stretta striscia litoranea, nelle due vallate del Bisagno e del Polcevera, lungo le strade di grande comunicazione e nel centro, mentre è scarso nelle zone alpestri, ripide e nude. La conformazione delle montagne e delle colline prossime al mare dà al centro una caratteristica e pittoresca varietà panoramica, mentre nei dintorni a zone a temperatura ordinaria si alternano altre a temperatura privilegiata; nelle prime sono sorte le zone industriali e i centri operai, mentre le altre costituiscono i preferiti luoghi di soggiorno, ove si trovano magnifiche ville con parchi dalla lussureggiante vegetazione tropicale.
L'unificazione ha consentito che si provvedesse su larghe basi allo studio e all'attuazione di grandi opere pubbliche: si è così provveduto alla generale sistemazione del piano stradale, allargando le due grandi litoranee di levante e di ponente, creando una nuova arteria in ciascuna delle due vallate, smantellando il colle roccioso di S. Benigno, fra il centro e Sampierdarena, creando tre grandi strade-galleria attraverso le colline del centro e facendo scomparire sotto un'ardita copertura di cemento il largo letto del Bisagno, dalla ferrovia al mare. Alla scarsità d'acqua si è provveduto con un nuovo acquedotto, inaugurato nel 1931, dotato di un vasto bacino in Val Noci, creato artificialmente con un'ardita diga; all'educazione si è provveduto con nuove scuole e con la creazione da parte del comune della Città universitaria in S. Martino. Si sono restaurati antichi monumenti medievali, come la Casa del D'Oria, il Palazzo Ducale, il tempio di S. Agostino, sono state acquistate ville e parchi stupendi per il pubblico, specie nelle stazioni climatiche di Pegli e Nervi, allogandovi i musei civici, e si sono costruite strade panoramiche sulla collina del Peralto, donde si domina Genova. Lo sviluppo futuro della città è assicurato da un piano regolatore che darà a Genova più ampio respiro e le assicurerà notevoli miglioramenti estetici.
Storia.
Antichità. - Città della IX regione augustea d'Italia (Liguria) Genua (demotico Genuenses o, anche, Genuates) è elencata da Plinio il Vecchio quale oppidum sita fra i fiumi Fertor (Bisagno) e Porcifera (Polcevera). La città per posizione geografica divenne l'emporio ligure. Dal retroterra pervenivano legname, bestiame, pelli, miele; per mare vino e olio. Era lodato anche un vino genovese.
La floridezza dell'emporio, fin dal sec. IV a. C., è attestata dall'esteso sepolcreto arcaico di via XX Settembre: le numerose tombe più antiche diedero copia di vasi greci e della Magna Grecia dipinti con figure rosse su fondo nero.
Nella storia Genova appare primamente con uno sbarco del console P. Cornelio Scipione, che dalla Gallia, l'anno 218 a. C., si recava nella valle del Po contro Annibale: Genova fu sempre base di appoggio di flotte. Durante la guerra annibalica, per essere stata fedele ai Romani, venne distrutta dal cartaginese Magone (anno 205 a. C.). Restituita dal pretore Sp. Lucrezio (a. 203), durante la prima metà del sec. II costituì, con Piacenza, una delle due basi di operazione degli eserciti romani operanti contro i Liguri occidentali, finché la costruzione della grande via Postumia da Genova, per la Val Scrivia, a Tortona, Piacenza e Aquileia segnò la pacificazione (148 a. C.). L'anno 119 Genova fu raggiunta e attraversata dalla grande via denominata Aemilia Scauri, condotta dal censore Emilio Scauro in prosecuzione della Aurelia, per Pisa e Luna, fino ai Sabazî, a Vado Ligure. Ma la romanizzazione alla fine del secolo medesimo non aveva ancora tolta a Genova la sua costituzione di cittadina ligure. Il territorio genuate sembra comprendesse allora anche il castellum dei Langensi-Viturî, e cioè, fino al sommo Appennino, tutta la Valle del Polcevera, come risulta dalla "tavola del Polcevera" (sententia Minuciorum) dell'anno 117. Non sappiamo se Genova abbia avuto il diritto latino, e successivamente la cittadinanza romana, insieme coi Transpadani o in altro tempo, né quando divenne municipio. Era iscritta alla tribù Galeria. Iscrizioni da Genova ci pervennero in numero limitato: le fonti classiche tacciono su questa città pur notevole.
I resti stessi della città romana sono eccezionalmente rari per l'avvenuta intensa utilizzazione di materiali antichi, spianamenti di alture, riempimenti di vallette. Resti di un edificio cospicuo, forse augusteo, furono intraveduti presso piazza Cavour, non lungi verosimilmente dal porto: ne uscì un frammento di bella iscrizione portante ancora il nome di Agrippa (Notizie d. scavi d'antichità, 1903, p. 46).
I bassi tempi dell'Impero videro accresciuta l'importanza di Genova, sede di vescovado e appartenente, con l'ordinamento postdioclezianeo, alla provincia delle Alpi Cozie.
L'alto Medioevo. - Scarse e incerte le notizie dei primi secoli medievali. Non par dubbio che Genova sia stata in dominio di Odoacre e di Teodorico. Caduta poi in potere di Belisario, rimase a lungo bizantina, anche dopo l'invasione longobarda. Rotari, ripresa la guerra coi Greci, devastata la Liguria, s'impadronì di Genova, facendone abbattere le mura (641). Oscurissimo il periodo longobardo. Certo è che l'antico centro marittimo e navale riacquistò a poco a poco importanza, e probabilmente fin dal sec. VIII i suoi abitanti dovettero respingere le prime scorrerie dei pirati arabi sul litorale ligure, forse già riunendosi in rudimentali associazioni di armatori. Ducato sotto i Longobardi, la Liguria divenne contea nella conquista franca e rimane ricordo d'un conte Ademaro di Genova che nell'anno 806 partecipò a una spedizione contro gli Arabi minaccianti la Corsica e vi morì. E si può credere che l'armata di Italia di cui parlano i cronisti avesse appunto a Genova il suo centro, e che alle diverse spedizioni marittime dei Franchi, specialmente con Lodovico II, prendessero parte anche elementi genovesi, probabilmente venendo allora ai primi contatti coi Pisani. È memoria d'incursioni mussulmane nel 931, nel 934 e nel 935, vendicata quest'ultima, secondo le tradizioni locali, con una vittoriosa battaglia contro i predoni arabi all'Asinara.
Nella dissoluzione dell'impero carolingio, la contea franca divenne una contea-marca o di confine e fu la marca Obertenga. Ma nel 958 - primo documento politico della storia di Genova - Berengario II e il figlio Adalberto confermano ai Genovesi (non ricorre nel documento alcun nome di autorità) ogni loro possesso e consuetudine e vietano che qualunque signore possa dar loro molestia. Del resto gli Obertenghi esercitarono a Genova un'autorità affatto indiretta, rappresentati dai visconti di origine romana, il più antico dei quali, Ido, compare la prima volta in un documento del 952. Da lui derivano le famiglie viscontili degli Embriaci, dei Castello, dei Vento, degli Spinola e altre che formarono poi la prima grande nobiltà genovese e che dei primitivi diritti feudali conservarono traccia a lungo in una serie di esazioni fiscali. Ma costoro esercitavano il potere specialmente nelle vallate e sui colli; sulla popolazione dei marinai, dei pescatori, degli artieri raccolta sul mare, entro la cerchia delle mura ricostruite nel sec. X, si afferma l'autorità del vescovo, autorità di fatto più che di diritto, perché il primate di Genova non ha avuto mai un diploma imperiale che gli desse titolo e autorità di conte. Dibattuta la questione dei rapporti e dei limiti di poteri tra il vescovo e i visconti; certo è che nel 1052, essendo vescovo un Oberto della casa viscontile, un accordo coi diversi rami di questa regolava le questioni finanziarie a proposito dei diritti episcopali; e tale accordo accostando vescovo e visconti sottraeva interamente la città all'autorità del marchese, che con atto del 1056 riconosceva la limitazione dei proprî diritti. Dopo Oberto, il vescovato non uscì più, se non per brevi intervalli, dalle mani dei visconti; e d'altra parte quasi tutte le famiglie viscontili ottennero feudi e privilegi dalla Chiesa e vennero ad abitare almeno parte dell'anno entro la città. Ma che di essi soltanto fosse costituita almeno nei suoi principî, come credettero insigni eruditi, la Compagna, non pare possibile ammettere; come d'altra parte non può ammettersi che la Compagna fosse un'associazione di carattere esclusivamente mercantile o militare. L'importanza della Compagna sta in ciò, che da essa sboccia il Comune, che essa stessa è anzi il Comune, trasformandosi da istituzione semiprivata in ente di carattere pubblico. Essa obbliga infatti a poco a poco i signori delle terre vicine a giurare i suoi patti, a entrare nella società, amplia il suo dominio sulle riviere e sul retroterra sin oltre i Giovi; obbliga tutti i cittadini a iscriversi nei suoi registri facendosi vogatori, soldati, marinai; obbliga i suoi consoli a sottomettere le loro deliberazioni all'approvazione di tutti i membri, convocati a parlamento dal pubblico banditore o cintraco o dal suono della campana. La Compagna cioè è il Comune in quanto rappresenta gl'interessi collettivi della città e la classe di governo, e sembra quasi chiamarsi coi due nomi a seconda che si tratta di rapporti interni o esterni.
Impossibile seguire, per mancanza di dati e documenti, questa evoluzione; ben poco è noto infatti della storia del sec. XI, e se attraverso gli atti enfiteutici è stata possibile la ricostruzione genealogica delle famiglie viscontili, nulla, o ben poco, trapela della vita politica interna della città. E dell'esterna rimane traccia in fuggevoli accenni di spedizioni marittime, di carattere privato. Tali la fortunata spedizione intrapresa insieme coi Pisani nel 1015, a esortazione anche del papa Benedetto VIII, contro il pirata Mugiāhid che, fattosi signore delle Baleari e poi della Sardegna, molestava con sistematiche depredazioni le coste liguri; quella del 1088 compiuta in unione ai Pisani, agli Amalfitani e ad altri popoli marinari d'Italia, per eccitamento del papa Vittore III, contro il sovrano di Mahdiyyah in Africa; tale anche la spedizione fatta pure in unione ai Pisani e in aiuto del conte di Barcellona e del re Sancio di Navarra per la conquista di Tortosa. Imprese tutte che dimostrano la già affermata potenza navale genovese e la partecipazione alla difesa del Tirreno e a quel moto antislamitico che precede le Crociate, e che segnano l'indirizzo di tutta l'attività posteriore rivolta costantemente al dominio del mare. Da questo momento specialmente la storia di Genova si chiarisce e precisa come storia di mercanti e di navigatori. Tre elementi fondamentali occorrono a raggiungere l'ambito dominio del mare: l'indipendenza politica prima dai marchesi, poi dall'Impero; l'incontrastato possesso delle coste liguri e la padronanza dei valichi verso l'interno; l'acquisto e l'uso dei numerosi mercati dell'Occidente: e queste condizioni furono conseguite nel sec. XII che è perciò la base della potenza futura che culmina nel sec. XIII. Questi due secoli costituiscono quella che può essere chiamata l'età eroica della storia genovese e corrispondono al periodo comunale nelle sue varie forme.
L'età. comunale. - La partecipazione alle crociate apre il volo alla potenza navale e coloniale di Genova. Una prima spedizione crociata (1097) con l'aiuto prestato alla conquista e alla difesa di Antiochia procura i primi vantaggi e il primo possedimento; una seconda spedizione nella quale eccelle, col fratello Primo, Guglielmo Embriaco (v.) porta valido aiuto ai crociati nella presa di Gerusalemme. Immense ricchezze compensano i guerrieri, e al loro ritorno l'entusiasmo si accende e la città, composte le discordie, organizza una terza spedizione, ufficiale questa volta, che parte il 1° agosto 1100 guidata dai consoli e nella quale, con l'Embriaco, si trova anche Caffaro (v.), che se ne fa narratore. Quale la ragione delle contese cittadine, egli non dice: il suo accenno che nel 1098, dopo 18 mesi di discordie, si fece una Compagna di tre anni con sei consoli, attesta il carattere temporaneo della Compagna, che però da questo momento è costantemente rinnovata. Alla testa se ne trovano i consoli in numero vario e, con l'ordinarsi e il solidificarsi dell'ordinamento comunale, suddivisi in consoli del comune con autorità politica e militare e consoli dei placiti, con potere giudiziario. Dalle numerose spedizioni orientali derivano, con gli acquisti di territorî e di colonie, vistose ricchezze e preziosi trofei, come le reliquie di S. Giovanni Battista e la paropside o sacro catino; e col bottino d'Oriente è cominciata la costruzione della chiesa di S. Lorenzo.
Ma questo esuberante movimento, che segna le linee fondamentali dei successivi sviluppi, ha un temporaneo arresto. Genova non prende parte alla seconda crociata e le colonie sono cedute, almeno parzialmente, a privati cittadini. L'attenzione del comune è rivolta alla lotta con Pisa per il dominio della Sardegna e della Corsica, alle imprese d'Occidente contro i Saraceni d'Africa e di Spagna. La questione di Corsica, derivata dai pretesi diritti delle due repubbliche sui vescovadi dell'isola, si trascina con molte vicende diplomatiche finché ha una momentanea decisione con la bolla di Innocenzo II (1133), che alla sede genovese, elevata ad arcivescovile, assegna come suffraganei alcuni di quei vescovadi: l'isola resta divisa così tra i due contendenti. Ma quando la guerra è ripresa, l'espansione oltre giogo e sulle Riviere, da Lavagna a S. Remo e a Ventimiglia, con vasto retroterra capace di fornirle mezzi e uomini, assicura a Genova un'effettiva superiorità sulla rivale.
Intanto l'organismo interno e l'espansione esterna si rafforzano ed estendono con ritmo costante. La Compagna, prima rinnovata a periodi, non tarda a scindersi in Compagne locali o rionali che diventano 8 e dànno gli 8 consoli dei placiti o della giustizia mentre 4 continuano ad essere per lo più i consoli del Comune. E al Comune, ormai saldamente costituito come organismo autarchico, l'imperatore Corrado II concede il diritto di battere moneta e il papa conferma i diritti e i privilegi sulle colonie di Terra Santa. La stessa estensione dei rapporti introduce il nuovo organismo nel pieno della politica contemporanea, non solo nelle contese coloniali, ma anche nelle relazioni coi papi, coi re di Sicilia, coi vicini comuni della valle padana. E mentre gli accordi con le città marittime di Provenza segnano il principio della potenza genovese sul mare, con diritto anche a esercitarvi la polizia, hanno soprattutto importanza le continue lotte con gli elementi musulmani del Mediterraneo. La maggiore di queste imprese conduce alla conquista di Almeria tolta al suo emiro arabo nel 1146 e di Tortosa nel 1147; ma non dà i vantaggi sperati. Lo sforzo sostenuto porta a un periodo di depressione economica; il Comune largamente indebitato deve appaltare a ricche società di mercanti i suoi proventi, sistema che, seguito anche per le conquiste orientali, dà luogo alla tipica forma di debito pubblico con le compere, da cui sorgerà più tardi il Banco di S. Giorgio. Pronta però la ripresa; numerosissimi atti commerciali attestano intorno alla metà del secolo una meravigliosa attività di traffici che, avendo a centri maggiori la Sicilia e la Siria, si estende con immensa rete anche su tutto il mare occidentale ed è garantita da una serie di trattati commerciali e politici.
Con questa grande potenza navale Federico Barbarossa tenta sin dalla prima discesa un accordo per la vagheggiata spedizione contro i Normanni. Genova, in posizione delicata e difficile fra le forze contrastanti dell'imperatore, dei Normanni e dei Bizantini, e in pericolo di compromettere i cospicui interessi in Sicilia, assume un'attitudine di attesa e di neutralità. Ma quando nel 1162 Federico, vittorioso nel settentrione, stringe un contratto con Pisa, promettendole, in cambio dell'aiuto alla conquista della Sicilia, straordinarî vantaggi nell'isola, il pericolo per Genova si fa grave e imminente. Accostarsi all'imperatore diventa una necessità e ne deriva il trattato del 9 giugno 1162 che è un capovolgimento della vecchia politica di alleanza normanno-genovese, con danno immediato del commercio. Vantaggio pronto e sicuro invece il riconoscimento imperiale dell'autonomia del comune. Larghissime le promesse di futuri compensi territoriali ed economici. Ma la progettata spedizione nel regno non può aver luogo per la rinata guerra con Pisa, aggravata dalle vicende di Sardegna dove Genova vuol fare di Barisone, giudice di Arborea, un re di tutta l'isola. Lo sforzo militare ed economico, mal ricompensato dal regolo sardo che trama coi Pisani, determina uno sperpero enorme di forze e un confuso conflitto, nel quale alla guerra esterna si aggiungono le interne contese. In questi anni la politica di Genova, costretta a tener d'occhio interessi diversi in diversi teatri d'azione, si risolve in una neutralità benevola verso l'Impero. Essa non ha comune con la Lega lombarda la lotta per l'autonomia, già legalmente assicurata, e tuttavia non vuol mettersi in contrasto con quella poderosa forza alle spalle, mentre le aspirazioni sulla Sicilia e la necessità di sorvegliare e soppiantare Pisa le impediscono di mettersi contro l'imperatore; ma quando Pisa è messa al bando dell'Impero e Federico, addensatasi la bufera al nord non può più pensare alla spedizione meridionale, quando infine nel 1174 si conchiude faticosamente la pace con Pisa sulla base della divisione della Sardegna, si riprendono le relazioni amichevoli col regno normanno. Allorché poi Enrico VI compie le due spedizioni del 1191 e 1194 per impadronirsi del regno, Genova, allettata da magnifiche promesse, partecipa alla prima con contegno esitante e malsicuro, alla seconda con attivo ed efficace contributo e ne ricava una fiera delusione; non solo non ottiene l'ambito possesso di Siracusa, ma vede con insigne malafede annullati i vecchi privilegi e negata l'elezione dei suoi consoli nell'isola.
Podestà e capitano del popolo. - Durante queste spedizioni appare per la prima volta la nuova magistratura del podestà. Nella seconda metà del sec. XII, mentre si svolge l'espansione mercantile e coloniale, la vita interna è tutto un battagliare, specie per la rivalità tra le famiglie nobiliari di diversa origine che si contendono il potere. Il consolato, magistratura collegiale e delegata, occupata quasi per diritto ereditario da alcune famiglie, non risponde più alla propria funzione per l'infiltrarsi di altri elementi e il separarsi degl'interessi. Occorre un rimedio sostanziale e nel 1191 si ricorre per la prima volta al podestà forestiero; alcuni nobili che tentano opporsi sono sottomessi con la forza. Per 27 anni consoli e podestà si alternano; più a lungo resistono i consoli dei placiti, finché il podestà assume anche la funzione giudiziaria mentre agli 8 nobili o rettori che lo assistono spetta specialmente la cura delle finanze.
Nei primi anni del sec. XIII, durante la minorità di Federico II, Genova approfitta dei torbidi che agitano la Sicilia per condurvi una serie di lotte e d'imprese che sono insieme di carattere privato e di pubblica utilità. Specie due fatti determinano questa nuova attività: l'occupazione di Siracusa da parte dei Pisani, la quarta crociata che distrugge l'accordo finalmente raggiunto tra Genova e l'Impero bizantino. Al dominio veneziano del Mediterraneo orientale Genova risponde con quello del Mediterraneo centrale. E la Sicilia, che, ritolta Siracusa ai Pisani, essa domina politicamente ed economicamente, ne è la base, confermata con ulteriori concessioni quando Federico II passa da Genova e chiede aiuti finanziarî per l'impresa germanica e la conquista della corona imperiale.
La lotta con Venezia e con Pisa, da guerra di corsa divenuta guerra ufficiale, si conchiude per il momento con l'intervento del papa, che vuol servirsi delle forze navali italiane al riacquisto di Terra Santa: ma la presa di Damiata compiuta dai Genovesi non muta le sorti disgraziate della quinta crociata. Intanto il Comune afferma il suo predominio marittimo sulle Riviere, mentre i feudatari del contado, definitivamente vinti, si sottomettono. Ne deriva da un lato l'acuirsi della gara fra le fazioni alimentate dai nuovi prepotenti cittadini; dall'altro l'urto coi comuni vicini, con le città rivierasche e con Alessandria, Tortona e altri luoghi dell'interno.
La politica di Federico II dopo l'assunzione all'impero, rivolta a sollevare il regno e a sottrarlo allo sfruttamento commerciale delle repubbliche marinare, muta necessariamente i suoi rapporti con Genova; ma l'inevitabile rottura avviene lentamente. Dei due partiti in cui la nobiltà si va nettamente dividendo nell'interno contrasto, e che ora si chiamano Rampini e Mascherati, questi, i ghibellini, tentano disperatamente d'impedire la rottura. Ma poiché Federico, vittorioso sulla Lega a Cortenuova, richiede formalmente l'omaggio feudale che Genova ha sempre negato anche al Barbarossa, e Albenga e Savona ottengono l'aperto appoggio dell'imperatore e dei suoi alleati di Lombardia e di Piemonte, gli sforzi della nobiltà ghibellina sono vani, i suoi capi sono costretti ad andare in esilio e Genova per suggestione del papa si allea anche con Venezia. La lotta assume un alto interesse drammatico quando la flotta genovese, che ha imbarcato i prelati e signori francesi diretti a Roma per partecipare al concilio bandito da Gregorio IX, è disfatta (1241) all'isola del Giglio dalla siculo-pisana, comandata dall'esule ghibellino Andreolo figlio di Ansaldo de Mari. Con mirabile sforzo una nuova flotta è subito costruita mentre l'esercito terrestre tiene testa agli esuli, ai vicarî imperiali, alle città ghibelline di Lombardia; e la nomina del papa concittadino, Innocenzo IV, rafforza, col predominio dei Fieschi, l'adesione alla politica guelfa e papale. Salvato il papa dalle minacce di Federico, durante il concilio di Lione Genova diventa il centro della resistenza guelfa e dell'azione pontificia, il nodo delle trattative economiche e finanziarie indispensabili al compimento della lotta, mentre la repubblica fornisce a Luigi IX le navi per la crociata. La morte di Federico II rappresenta però, con la fine della minaccia imperiale e dei conseguenti obblighi finanziarî e militari, anche la riacquistata libertà d'azione. La politica genovese non è infatti né propriamente guelfa né ghibellina, ma è la politica del dominio del Tirreno e del Mediterraneo; perciò non combatte col nuovo imperatore che non ha forze per fare una politica marinara, e, senza rivolgersi contro il pontefice, acquista maggiore libertà di movimento onde si stringono accordi commerciali e trattati anche con città ghibelline come Pavia e Cremona e si riannodano i rapporti col regno di Sicilia. Tutto questo porta anche a un mutamento interno, al richiamo dei ghibellini, persino risarciti dei danni sofferti, all'indebolimento dei Fieschi divenuti troppo potenti e minacciosi.
Ormai, più che le vecchie famiglie viscontili, dividono la città in parti sempre più profondamente ostili le grandi casate dai vasti possessi feudali, Fieschi e Grimaldi, Doria e Spinola, a cui molte altre si accostano e appoggiano. Di fronte alla nobiltà faziosa e violenta va però acquistando maggiore forza la classe cresciuta nei commerci e nelle imprese ardite. Questa borghesia nel 1257 istituisce il capitano del popolo elevando alla nuova carica Guglielmo Boccanegra (v.), di ricca e potente famiglia, ma non nobile. È una vera rivoluzione aiutata da una parte della nobiltà ghibellina che spera nel suo magistrato uno strumento cieco e obbediente. Ma nell'opera del Boccanegra, che governa con poteri dittatoriali, si intravede l'intento e lo sforzo di superare gl'interessi di un gruppo organizzato per conciliarli nell'interesse complessivo dello stato. Il tentativo precoce è sfortunato e i nobili, insoddisfatti, con un nuovo tumulto abbattono il capitano (1262), tornando per breve tempo al podestà forestiero.
Frattanto la guerra esterna si intreccia con le interne vicende. Prima ancora che il Boccanegra assuma il potere, si riaccende la guerra con Venezia. Il capitano stipula nel 1261 con Michele Paleologo il celebre trattato di Ninfeo, rivolto all'abbattimento dell'Impero latino verso compensi in Asia Minore e la promessa della sostituzione nel quartiere veneziano di Costantinopoli. Quantunque l'armata genovese giunga nel Bosforo quando già Costantinopoli è caduta in potere del Paleologo, questi mantiene i patti. L'aspra lotta che ne deriva è complicata da molteplici elementi. Alla sconfitta dei Settepozzi sulle coste di Morea, nel 1263, non sono estranee le contese partigiane insinuatesi con esempio nuovo anche nella flotta. Una tregua a Cremona sospende momentaneamente la guerra con Venezia e con Pisa e l'attenzione si rivolge principalmente alla difficile situazione in cui Genova viene a trovarsi nella lotta tra Carlo d'Angiò e Manfredi. Guido Spinola e Nicola Doria, nominati nel 1265 rettori con pieni poteri, conservano una vigile neutralità che irrita l'Angioino e si trasforma, dopo la sua improvvisa e facile vittoria, in un rapido e sottomesso accostamento. Ma le pretese eccessive dell'Angioino che stringe Genova da ogni parte provocano per reazione una lunga lotta, ora aperta ora diplomatica, conclusa nel 1276 con un trattato che distrugge nella forma e nella sostanza le convenzioni umilianti stipulate dai guelfi Grimaldi nel 1269.
I diarchi e l'apogeo della potenza genovese. - Questa politica è opera del nuovo governo sorto nel 1270 coi due capitani del popolo appartenenti alle maggiori famiglie ghibelline e quasi destinati a equilibrarsi e controllarsi a vicenda. Avendo in comune il titolo già assunto dal Boccanegra, e formando un caratteristico governo di popolo retto da patrizî, Oberto Doria e Oberto Spinola governano quindici anni con attributi quasi dittatoriali, liberi da ogni vincolo di statuti, mentre il podestà rimane con funzioni rappresentative e giudiziarie e accanto a lui si trova, rappresentante della borghesia, l'abate del popolo, magistrato dalle funzioni non ben note e definite e certo circondato di maggiore apparato che di reale potere. È questo il periodo dell'apogeo della potenza genovese. La repubblica sola contro il potente sovrano del mezzogiorno protetto dal papa, alleato coi profughi guelfi Fieschi e Grimaldi, con le città rivierasche sempre pronte a cogliere ogni occasione per scuotere il giogo pesante, resiste e vince. Il movimento commerciale e lo sviluppo coloniale sono arrivati al punto più alto; nell'ultimo decennio del secolo, quando si può dire che Genova domini il Mediterraneo, Ugolino e Vadino Vivaldi tentano il primo viaggio marittimo alle Indie. Questo periodo di splendore, che ha il suo riflesso anche nel campo della cultura con gli annalisti e massime con l'ultimo continuatore di Caffaro, Iacopo Doria, e coi trovatori Percivalle Doria e Lanfranco Cicala, Bonifacio Calvo e Luchetto Gattilusio, ha il suo coronamento nella duplice vittoria sulle rivali Pisa e Venezia. La guerra, durata mezzo secolo come guerra di corsa, fu ripresa apertamente nel 1282. Dopo scontri parziali e sfide rumorose, il 6 agosto 1284 la flotta comandata da Oberto Doria, il capitano del popolo, e da Benedetto Zaccaria sconfigge in una delle più grandi battaglie navali del Medioevo la flotta pisana comandata dal podestà veneziano Alberto Morosini (battaglia della Meloria). Poco dopo Oberto rinuncia all'ufficio di capitano, probabilmente per dissensi col collega; l'equilibrio durato per 15 anni è rotto e la fine della grande diarchia riapre l'adito alle lotte civili sempre più aspre e rabbiose. Intanto Pisa è costretta alla pace definitiva (1300) che consacra il dominio di Genova nel Tirreno. Rimane Venezia, e il grande duello ha per posta il predominio navale, specialmente la prevalenza nel Mar Nero. A nulla vale la mediazione di Bonifacio VIII. In mezzo all'infuriare delle lotte civili si nominano ancora due capitani delle solite famiglie, Corrado, sostituito poi da Lamba, Doria e Corrado Spinola: ultima breve diarchia alla quale, ripresa la guerra esterna, tocca la ventura dell'ultima grande vittoria navale del secolo, per opera di Lamba Doria nella celebre battaglia delle Curzolari (8 settembre 1298). Battaglia e vittoria tuttavia di minor efficacia di quella della Meloria perché il duello con Venezia non è chiuso ma solo prorogato. Genova, spossata dallo sforzo, non può sfruttare la vittoria; la pace è stipulata a Milano nel 1299 per mediazione di Matteo Visconti.
L'apogeo è raggiunto e superato: Curzola chiude l'età eroica genovese. Le lotte interne indeboliscono la compagnie e l'organismo cittadino, mentre le colonie di Siria si vanno perdendo sotto i colpi del sultano d'Egitto e il re d'Aragona, insediato in Italia con la guerra del Vespro, incomincia la politica di accerchiamento onde Genova si vedrà nel secolo seguente chiusa nel suo stesso mare.
Le lotte civili e i primi dominî esterni. - Le vicende del decennio susseguito alla vittoria di Curzola sembrano indicare un periodo di profondo smarrimento. Il carattere prevalentemente privato e individualista dell'ordinamento politico e sociale dello stato, costituito sulla base della coalizione d'interessi privati nei grandi nuclei famigliari e negli stessi agglomerati popolari, mette di fronte in furibonde contese le forze concorrenti, incapaci di raggiungere un deciso sopravvento e di assumere interamente il potere, forti abbastanza per impedire che altri lo eserciti senza il loro concorso e consenso. Questa situazione che non permette né un equilibrio di forze consociate nel dominio, né la signoria di un solo elemento o persona, si manifesta con dolorosa evidenza al principio del nuovo secolo quando si hanno sette governi diversi in dieci anni. È un complicato groviglio nel quale la discordia entra anche tra i rami di una stessa famiglia, tra i Doria, tra gli Spinola astiosamente divisi nei due rami di Lucoli e di S. Luca. Abbattuti ancora i podestà forestieri, nel gennaio 1306 si torna al capitanato con Bernabò Doria e Opizzino Spinola di Lucoli. Ma gli avversarî non disarmano e gli stessi capitani si guardano gelosamente. Una nuova rivoluzione nel 1309, deposto violentemente Bernabò, proclama Opizzino capitano generale e rettore del popolo genovese in perpetuo. Tentativo di dominio personale presto fallito per la coalizione degli avversarî e concluso con l'esilio dello Spinola. La nomina di 12 governatori, 6 nobili e 6 popolani, segna un vano esperimento di collaborazione fra i diversi elementi che sarà tentato anche di poi, quasi ad ogni rivolgimento rivoluzionario. Pochi mesi dopo si ebbe un altro e più grave mutamento. L'imperatore Arrigo VII entra a Genova il 21 ottobre 1311, accolto con tanto maggiore entusiasmo in quanto promette la pace tra le fazioni. E il timore di Opizzino Spinola, che è nel suo seguito, contribuisce a far sì che sia affidata all'imperatore la signoria della città per 20 anni, deliberazione che mostra come le lotte civili abbiano attutito il fiero orgoglio per l'indipendenza che aveva fatto affrontare tanti rischi e sacrifici ai tempi di Federico II e di Carlo d'Angiò. Partito il 16 febbraio 1312 l'imperatore, e dopo la sua morte anche il vicario Uguccione della Faggiuola, le contese riprendono violente. I nobili guelfi, sempre avversi a ogni anche parziale partecipazione popolare al governo, abbattono nel 1317 i nuovi 24 governatori, metà nobili e metà popolani, e nominano capitani del popolo e rettori Carlo Fieschi e Gaspare Grimaldi. L'istituzione creata già dai ghibellini è così passata nelle mani dei guelfi e questa nuova rivoluzione interna ricostituisce una netta divisione delle parti; Doria e Spinola, ora tutti esuli, riaccostati dalla disgrazia comune, collegati coi grandi feudi, mettono a soqquadro la Riviera occidentale, occupano Albenga e Savona. Il carattere politico dà alla lotta una formidabile estensione e una terribile intensità: i ghibellini d'Italia intervengono in aiuto degli esuli e un esercito capitanato da Marco Visconti assedia Genova per molti mesi, mentre i guelfi con Roberto di Napoli vengono in soccorso dei loro partigiani e a Roberto viene anzi data la signoria della città per 10 anni. Pare che tutte le forze dei due partiti si impegnino sotto le mura di Genova, che fa uno spiegamento non prima raggiunto di forze marittime e terrestri e profonde ricchezze incalcolabili. Anche quando il Visconti leva l'assedio, continua la guerra feroce e interminabile e ne approfitta per affermarsi l'elemento popolare. Di più, il disordine si estende alle colonie, apertamente ribelli quando la politica della madre patria guidata dal re di Napoli è avversa ai loro interessi. E intanto i Catalani minacciano la Sardegna genovese, la Corsica e le stesse coste liguri, onde viene una lunga guerra chiusa nel 1336 con la rinuncia aragonese alla Corsica in compenso delle conquiste sarde; e Venezia, ristabilite le forze, fa una concorrenza fortunata in tutti i mercati mediterranei al commercio di Genova. Le esterne minacce e il pericolo interno dell'ascensione popolare determinano finalmente la pace (1331) fra la nobiltà guelfa e la ghibellina che ritorna dal lungo esilio. La convivenza pacifica fra elementi così ostili, esasperati dai ricordi della lunga guerra, non può durare a lungo; e un nuovo rivolgimento, cacciati i guelfi e il vicario angioino, proclama capitani del popolo Raffaele Doria e Galeotto Spinola. Ma ormai la diarchia ghibellina non può illudersi del favore popolare. Il disagio economico seguito alle guerre interne ed esterne e l'incontenibile avversione degli elementi borghesi e popolari contro la nobiltà, provocano la rivoluzione che, escludendo le grandi case feudali dal governo, muta ordinamento e carattere alla repubblica. Preoccupati del diffuso malcontento popolare, i capitani convocano i comizî per le elezioni dell'abate del popolo, il 23 settembre 1339. Da questi comizî, Simone Boccanegra (v.), pronipote di Guglielmo, ricusata la carica di abate, esce eletto signore e doge a vita.
È un mutamento indubbiamente preparato che ha qualche analogia con la contemporanea trasformazione signorile dell'Italia comunale, e nel quale il nuovo titolo del capo dello stato è di evidente imitazione veneziana; ma l'analogia si arresta al nome e qualche volta al sistema di elezione a più mani. Due immediati provvedimenti dànno il carattere particolare di questa rivoluzione in cui affiorano senza dubbio anche tendenze sociali: l'esclusione dei guelfi da tutti gli uffici, l'esclusione dei nobili dalla carica di dogi. Per lungo tempo i ghibellini avevano governato appoggiandosi al popolo; sulla loro debolezza, derivata dalla scissione delle due maggiori famiglie, s'innalza ancora, sotto l'insegna ghibellina, la nuova classe dominante venuta dai traffici ed elevatasi con l'acquisto dei possessi fondiarî, quella borghesia che, avuta la prevalenza dei consigli al tempo di Guglielmo Boccanegra, e metà degli uffici coi diarchi, ora, nel primo momento della vittoria, attribuisce a sé tutto il governo, lasciando ai rappresentanti delle classi inferiori che l'hanno appoggiata una piccola parte nell'amministrazione statale e nei consigli della repubblica.
I dogi perpetui. - Il periodo dal 1339 al 1528 prende il nome dai dogi perpetui ed è tipico per violenza di passioni, per torbida faziosità, per instabilità di governi e di signorie. Di quei dogi che dovevano essere perpetui, cioè a vita, appena quattro morirono in carica, uno solo si accostò agli otto anni di governo e parecchi dovettero deporre il potere lo stesso giorno dell'elezione o si alternarono a distanza di mesi o di settimane in una successione che dà alla vita politica della repubblica un'instabilità morbosa. La vecchia maggiore nobiltà dei Doria, dei Fieschi, dei Grimaldi e degli Spinola è esclusa dalla suprema autorità, ma, dopo un primo momento, non dai governi nelle terre rivierasche, non dalle cariche militari e navali; e, ricca di mezzi alimentati dai traffici e di vasti possessi fondiarî a carattere ancora feudale, numerosa e prolifica, pur non potendo direttamente governare, con la riottosità faziosa, col parteggiare tra i nuovi nobili, intorbida la vita cittadina e la mantiene in perenne agitazione, mentre i rappresentanti della nuova nobiltà, gelosi e insaziabili, si contendono freneticamente il dominio. Guarco, Montaldo, Adorno, Fregoso, prendono il posto delle antiche case feudali e, sobillati e sostenuti da queste, si combattono in costante alternativa, gettandosi spesso nelle braccia di elementi estranei, anche di questi mostrandosi poi insofferenti; onde nella continua e serrata lotta d'influenze tra Milano e la Francia sembra che l'unica salvezza della pericolante repubblica sia un disperato gioco di equilibrio tra i due minacciosi vicini. Eppure, fra tanta agitazione e tanta instabilità politica, continua la tenace difesa dei commerci e delle colonie, e l'energica resistenza alle forze avverse che tendono a respingere Genova dai mari più lontani e a rinchiuderla nel Tirreno divenuto lago aragonese, mentre l'opera ferma e sagace del Banco di S. Giorgio forma un caratteristico contrasto col fluttuare della vita politica.
Lo spiccato carattere antinobiliare del primo dogato e la speranza degli spodestati di rioccupare il potere determinano una serie di tentativi e di congiure, estese anche alle riviere; ma i feudatarî riottosi sono energicamente puniti, il marchese del Finale, più insofferente e ribelle, incarcerato, il dominio della repubblica, fatta eccezione per Monaco e per Ventimiglia tenute dai Grimaldi e da altri fuorusciti, è esteso completamente alle due riviere. Minacciato dalle congiure interne e dai fuorusciti armati, il primo doge abdica nel dicembre 1344, ma l'elezione del successore aggrava le contese nelle quali s'insinua Luchino Visconti, che, chiamato arbitro, si assume la funzione di sorvegliare il mantenimento dei patti: prima intromissione dei Visconti nelle vicende di Genova e preparazione del futuro dominio. Giovanni di Murta deve combattere, come il predecessore e i successori, contro i nobili fuorusciti, ma è specialmente notevole per la spedizione d'Oriente che sotto la guida di Simone Vignoso porta alla conquista di Scio e alla formazione della Maona. Durante il breve governo del successore Giovanni Valente, la riaccesa guerra coi Veneziani e coi Catalani, le minacce di Giovanni Visconti e l'acuirsi delle lotte intestine conducono, come a ricerca di pace e di ordine, alla signoria dell'arcivescovo milanese, finita, dopo la vittoria dell'isola della Sapienza, per opera di Simon Boccanegra che, proclamato doge la seconda volta (1356), riprende la lotta inesorabile contro i nobili, stipula la pace con Milano, compie l'assoggettamento della Corsica procurandone una breve unione a Genova; venuto nuovamente in odio per la politica avida e nepotistica, muore, a quanto pare di veleno, nel 1363. I dogi che gli succedono, Gabriele Adorno (1363-70) e Domenico Fregoso o Campofregoso (1370-78), portano in primo piano le due famiglie destinate a combattersi e a intorbidare la vita cittadina per quasi due secoli. Da questo momento è una ridda nella quale i competitori si alternano e si sostituiscono con furia frenetica. Antoniotto Adorno sarà doge 4 volte, tra il 1378 e il 1396.
Le guerre con Venezia. - In questo primo periodo ducale sono particolarmente notevoli le vicende orientali e le nuove guerre con Veneziani e Catalani. Agl'inizî del sec. XIV le minacce e il fugace dominio e le imprese guerresche dei Catalani in Oriente avevano contribuito a mantenere buoni rapporti tra Genova e Venezia, egualmente minacciate. Ma scomparso quel pericolo le due potenze non tardarono a trovarsi ancora di fronte. I complicati e difficili rapporti coi Tartari, l'occupazione di Scio compiuta nel 1348 da Simone Vignoso, la vittoriosa fine di una breve guerra con l'Impero greco costretto a cedere a Genova la collina di Pera, la progressiva esclusione dei Veneziani dal Mar Nero sono le cause che producono la nuova guerra divenuta generale per le alleanze coi rispettivi nemici e combattuta in Oriente e in Occidente. Primi episodî sono la liberazione di Galata dalle forze veneto-imperiali compiuta da Paganino Doria (1351), un'incerta battaglia sul Bosforo e la sconfitta di Antonio Grimaldi ad Alghero (La Lojera) per opera dei veneto-aragonesi; poi, ricostituito il governo interno sotto Giovanni Visconti, Paganino Doria a Porto Longo nell'isola della Sapienza riportò una vittoria clamorosa che tuttavia non diede i risultati che se ne potevano ottenere. Compensati i danni, le due potenze s'impegnavano a non mandare navi per tre anni alla Tana (stretto di Kerch). Ma intanto gli Aragonesi si erano stanziati più stabilmente in Sardegna e nelle agitazioni e nella debolezza del governo le energie e le iniziative individuali, sempre vive e potenti, si esercitavano, massime in imprese e conquiste orientali, anche in senso opposto agl'interessi dello stato.
L'importanza assunta da Cipro dopo la caduta delle colonie di Palestina e di Siria aveva fatto sì che Genova cercasse di avervi una posizione privilegiata. Una contesa tra il console genovese e il veneziano durante l'incoronazione del re Pietro II determinò un'azione navale, capitanata da Pietro Campofregoso fratello del doge Domenico; Famagosta, donde i Veneziani dovettero partire, fu tenuta in pegno delle onerose condizioni imposte; la Maona che aveva armato la flotta ne ricavò lucri immensi. Altre spedizioni ebbero luogo più tardi e Famagosta, sotto il diretto dominio della repubblica o amministrata dal Banco di S. Giorgio, appartenne poi a Genova fino al 1464. Quando all'affronto subito a Cipro si aggiunse la questione di Tenedo, l'isoletta importante per la posizione all'ingresso dei Dardanelli, ceduta da Giovanni V Paleologo a Venezia e dal figlio Andronico, che gli si sostituì e lo depose, a Genova, la lotta scoppiò risolutamente. È l'ultima fase della grande contesa, nota col nome di guerra di Tenedo o di Chioggia. Anche questa volta il conflitto assunse un aspetto generale; con Genova il patriarca di Aquileia, Francesco da Carrara signore di Padova, il duca d'Austria e il re d'Ungheria; con Venezia Pietro II di Cipro offeso dalle recenti vicende e Bernabò Visconti desideroso di riavere Genova e il mare. Le azioni sulla Riviera occidentale ebbero un'importanza limitata e finirono favorevolmente per Genova; assai più importanti le vicende marittime. A Capo d'Anzio un'armata genovese, guidata da Luigi Fieschi, era battuta da Vettor Pisani: ma l'anno successivo (1379) Luciano Doria a Pola sconfiggeva l'ammiraglio veneziano morendo però nel combattimento. Pietro Doria che gli successe, unitosi a Francesco da Carrara, s'impadronì di Chioggia minacciando direttamente Venezia e alla richiesta di pace rispose orgogliosamente che non l'avrebbe accordata prima di avere imbrigliato i cavalli di S. Marco. Bloccati a lor volta dalle flotte veneziane armate in uno sforzo disperato, dopo inutili tentativi di aprirsi un passaggio, i Genovesi, perduto anche l'ammiraglio, dovettero arrendersi (giugno 1380). Il lodo di pace, affidato ad Amedeo VI di Savoia (pace di Torino, 1381), prese a base il, possesso di Tenedo rimasto a Genova, che usciva così onorevolmente dal grave colpo ma con estenuate le forze per quel suo sfrenato individualismo che non le permetteva più di resistere a ordinate forze statali.
Tra Francia e Milano. - Deposto Domenico Campofregoso, sotto il dominio di Nicolò Guarco, Nicola Fieschi incaricato di accordi commerciali con Torino avviò trattative per dare il governo di Genova ad Amedeo VI e le pratiche si rinnovarono poi col Conte Rosso. La vecchia nobiltà cercava così di ritornare per via indiretta al potere, mentre le classi inferiori dei commercianti e degli artieri si agitavano innalzando e abbattendo ogni giorno i nuovi idoli. In tanto disordine tutti i maggiori vicini aspiravano a dominare, per mezzo di fazioni a loro favorevoli, la repubblica: Firenze, Milano, i conti d'Asti, la Francia. Nel 1394 Luigi d'Orléans conte d'Asti, dopo lunghe trattative coi Fieschi e coi Grimaldi, riusciva a occupare Savona e minacciava Genova. Antoniotto Adorno, doge per la 4ª volta, circuito da tutte le parti, dai Doria e Del Carretto cospiranti col re di Francia, dai Guarco e Montaldo sostenuti da Gian Galeazzo Visconti, cedette il governo al re di Francia Carlo VI del quale rimase per breve tempo governatore (1396). L'insofferenza dell'estraneo dominio provocò presto nuove insurrezioni e rivolte, finché un periodo di relativa calma e di ordine si ebbe col governatore Boucicault (v.) che con severo rigore mantenne per alcuni anni la quiete. Notevole per opere interne ed esterne, specialmente l'unione delle compere (1407), sistemazione del debito pubblico onde sorse poi il Banco di S. Giorgio, il suo governo durò, con ferrea repressione dei moti ben presto ricominciati, dal 1401 al 1409, allorché un tentativo di spedizione contro Milano fornì ai fuorusciti l'occasione di rientrare in Genova consegnandola a Teodoro Paleologo marchese di Monferrato. Anche il governo del marchese di Monferrato, molestato da continue guerre nella Riviera di Ponente, a Scio, a Pera e specialmente in Sardegna coi Catalani, ma più tormentato dai ribelli che si dicevano guelfi, capitanati dai Fieschi, durò poco: nel 1413 si ritornava con Giorgio Adorno, fratello di Antoniotto, al ducato cittadino. La riforma costituzionale, che riservava ai nobili metà degli uffici, e le altre da lui tentate nel breve governo non valsero a conservargli il potere. Nel 1418 fu acclamato doge Tommaso Fregoso, che riuscì a sostenersi 7 anni tra lussuose magnificenze e opere cospicue, ma anche tra difficoltà formidabili derivate così dalle interne macchinazioni, provocate anche dalla sua politica nepotistica, come dalle minacce e dalle guerre dei ribelli e fuorusciti accordatisi con Filippo Maria Visconti. Egli poté salvarsi una prima volta con la cessione di alcune terre al duca e col pagamento di una cospicua somma che lo costrinse a rivendere ai Fiorentini Livorno, acquistata dal Boucicault. Anche più grave la guerra in Corsica, insorta per opera di Vincentello d'Istria col favore e l'aiuto di Alfonso d'Aragona. Battista, fratello del doge, poté aiutare Bonifacio assediata; e quando Alfonso fu chiamato come erede di Giovanna II di Napoli e abbandonò la spedizione, Vincentello, dopo qualche tentativo di resistenza, fu preso, condotto a Genova e decapitato. L'isola tornava in possesso di Genova, ma per essere presto teatro di nuove lotte, anche provocate da potenti genovesi ribelli come avvenne con Giano Fregoso durante il dogato di Raffaele Adorno. Frattanto Filippo Maria Visconti, spinto anche dai soliti avversarî del doge e con l'aiuto di Alfonso, assalì ancora Genova per terra e per mare, costringendo il doge a cedergli il potere verso un'indennità e il possesso di Sarzana (1421).
Il dominio visconteo durò fino al '36 - per qualche tempo fu governatore il Carmagnola - e costrinse la repubblica a una serie di guerre e di vicende spesso estranee ai suoi interessi. Se Genova partecipò vivamente alla guerra contro Alfonso, perché in lui vedeva il pericoloso nemico del Tirreno, vide poi con profondo rincrescimento la cessione di Lerici e di Porto Venere all'Aragonese nuovamente alleato con Milano: e intanto le colonie orientali rimanevano abbandonate a sé stesse. Parve un momento risorgere la fortuna quando alla morte di Giovanna II, opponendosi Filippo Maria alla successione di Alfonso, Gaeta minacciata dall'Aragonese fu difesa da Francesco Spinola e una flotta allestita in suo aiuto, al comando di Biagio Assereto (v.), riportò nelle acque di Ponza una splendida vittoria con la prigionia dello stesso re e di gran parte del seguito. La delusione subita allorché il duca milanese, cambiando ancora di politica, liberò Alfonso e i suoi, e Genova dovette ricondurli a proprie spese nel regno, provocò una sommossa che uccise il governatore Opizzino di Alzate. S'ebbe allora, dopo altri fugaci dominî, il secondo dogato di Tommaso Fregoso che già aveva tentato (1426) d'impadronirsi di Genova con la forza. Agitatissimo anche questo, per le fazioni interne e la rinnovata guerra sull'Appennino e sulle Riviere con Filippo Maria e sul mare con Alfonso. Deposto Tommaso (fine del 1442), ricominciò una ridda di governi.
E intanto, mentre si riprende la guerra con Alfonso divenuto re di Napoli e si combatte nel Finale con Galeotto Del Carretto e si riaccende l'eterna lotta crudele e rovinosa con Savona, Genova perde interamente le colonie. La politica, più volte seguita, di accordi coi Turchi per conservare possessi e privilegi specialmente nel Mar Nero non è riuscita; e dopo la caduta di Costantinopoli, alla difesa della quale alcuni genovesi come Giovanni Giustiniani e Maurizio Cattaneo hanno validamente partecipato, le colonie del Mar Nero sono in imminente pericolo e non vale a salvarle la cessione al Banco di S. Giorgio, né la scarsa adesione della repubblica alle invocazioni dei papi, da Nicolò V a Pio II, per una crociata. È un momento di gravità eccezionale: muta il carattere della storia genovese. La grande politica coloniale si chiude; Genova rimane sempre emporio preminente del commercio mediterraneo, specie con le coste africane e iberiche, ma la sua potenza navale tramonta mentre nasce tra le sue mura chi avrà la maggior parte nello spostamento del centro commerciale e marinaro verso le coste dell'Atlantico.
Era doge alla caduta di Costantinopoli Pietro II di Battista Fregoso, che, combattuto da Alfonso d'Aragona e insidiato da Fieschi e Adorno, cede il governo a Carlo VII di Francia e poi intriga per riprenderlo, finché, dopo una vera battaglia tra le due parti, è eletto doge nel 1461 Prospero Adorno, col consenso dell'arcivescovo Paolo Fregoso (v.) che si atteggia a capo del suo partito. Dopo due anni di rinnovate turbinose agitazioni, unico rimedio al disordine aecompagnato dalla rovina economica l'offrirsi in signoria a Francesco Sforza, che da tempo sobilla quell'anarchia nella vecchia aspirazione milanese verso il mare. Lo Sforza infatti dopo un abile lavorio di accerchiamento nelle Riviere, riesce a farsi proclamare signore di Genova (1463) donde Paolo Fregoso fugge dandosi a correre il mare come pirata. Anche il Banco di S. Giorgio cede al duca di Milano il governo della Corsica sempre molestata dai Catalani e sempre ribelle; tuttavia le agitazioni vi continuano, specialmente per opera di Tommaso Fregoso e poi con le insurrezioni di Ranuccio e Giampaolo da Leca e di Ranuccio della Rocca.
Il governo dello Sforza diede un po' di pace all'interno, ma non curò gl'interessi di Genova come potenza marittima. Morto il duca nel 1466, il governo sforzesco durò ancora con suo figlio Galeazzo, anzi, dopo un'interruzione decennale, fino alla fine del secolo pur tra congiure e rivolte sanguinose. Il tentativo di liberare la patria compiuto con nobiltà d'intenti da Gerolamo Gentile nel 1476 non riuscì; un altro più grave, dopo la morte di Galeazzo, fallì per opera di Prospero Adorno, conquistato dagli Sforza e nominato governatore, ma la cacciata degli Sforzeschi nell'anno successivo (1478), dovuta al mutato atteggiamento dell'Adorno, rinnovò le consuete lotte astiose coi Fregoso. Il terzo dogato di Paolo Fregoso, reduce dall'aver comandato le flotte papali e liguri davanti a Otranto occupata dai Turchi, è descritto dai cronisti come periodo d'inaudite violenze e indebolito dalla tenace opposizione dello spodestato nipote Battista II e dei fratelli Obietto e Gian Luigi Fieschi; non mancò tuttavia di qualche opera buona (si ricordano di lui notevoli leggi suntuarie ed è di questo tempo l'istituzione del Monte di Pietà), ma fu notevole soprattutto per la guerra coi Fiorentini, che miravano a riprendere Sarzana e a impadronirsi di Pietrasanta, chiusa nel 1485 per mediazione del papa Innocenzo VIII con la conservazione di Sarzana al Banco di S. Giorgio. Ma Lorenzo il Magnifico riprese poco dopo le armi e s'impadronì della città contesa (1487). Questo insuccesso aggravò la situazione del doge che, esautorato con l'istituzione d'una nuova magistratura suprema comune alla repubblica e al Banco, ricorse (1488) al solito mezzo di cedere il potere a Gian Galeazzo Sforza, ossia Ludovico il Moro, conservando l'ufficio di governatore. Ma la reazione dei Fieschi lo costrinse ben presto ad abbandonare ogni apparenza di potere e a riparare a Roma.
Francesi e Spagnoli, Adorno e Fregoso. - Genova in dominio del Moro, che vi lasciò Agostino Adorno a governatore, fu una delle più importanti basi della spedizione di Carlo VIII per la conquista del regno di Napoli; ma il mutamento del Moro dopo la facile conquista francese portò seco il mutamento di Genova: le sue navi, comandate da Francesco Spinola, catturavano in un vittorioso scontro a Rapallo le navi francesi provenienti da Napoli e cariche di ricca preda. I ripetuti tentativi d'impadronirsi della città da parte dei Fieschi e dei Fregoso, alleati di Carlo VIII, fallirono; Genova rimase al Moro e agli Adorno suoi sostenitori. Unico vantaggio in quei gravi momenti l'occupazione di Sarzana, mentre una delicata e complessa questione diplomatica si dibatteva per Pietrasanta contrastata tra Lucca e Genova. Nella lotta fra Luigi XII e il Moro, mentre gli Adorno cercavano di conservare la città in dominio milanese, i Fregoso appoggiati da Gian Luigi Fieschi, convinsero il consiglio cittadino a darsi al re (26 ottobre 1499), a condizione che gli Adorno fossero espulsi e fossero riconosciuti i privilegi e i diritti cittadini. Per qualche anno, sotto il dominio di Luigi XII e mentre nella politica esteriore si seguivano nelle guerre contro Venezia, nel regno di Napoli e in Oriente gl'interessi di Francia, la vita interna parve tranquilla; ma i secolari odî tra le classi e le famiglie non erano spenti e scoppiarono furiosamente quando Pisa, assediata dai Fiorentini e disperanda della difesa, si offrì in signoria a Genova. L'offerta lusingava specie il partito popolare, ma i nobili, capitanati da Gian Luigi Fieschi, riuscirono a far respingere l'invito dei pisani e la deliberazione fu ratificata da Luigi XII. Questa rinuncia accrebbe il malanimo della parte popolare. Nuovi atti di prepotenza nobiliare determinarono un violento scoppio insurrezionale che Filippo Roccabertino, luogotenente del governatore Ravenstein assente, cercò di frenare, accogliendo la più insistente richiesta, che cioè al popolo non più la metà ma fossero concessi i due terzi degli uffici pubblici (1505). Il moto tuttavia continuò con netto carattere antinobiliare e particolarmente avverso ai Fieschi, combattuti anche nella Riviera; e, cresciuto d'intensità e di violenza perché la plebe ne assunse la direzione, ebbe anche carattere antifrancese. Il Ravenstein, tornato per breve tempo e fallito nei propositi conciliativi, dové uscire di città (ottobre 1506); e la nuova magistratura prettamente popolare dei tribuni della plebe, all'intento di combattere i nobili anche nella Riviera di Ponente, cominciò una vera spedizione contro Monaco posseduta dai Grimaldi. Luigi XII, minacciato nel possesso di un punto tanto importante nel Mediterraneo, ordinò una serie di misure per rioccupare la città, ed ebbe naturalmente l'aiuto dei nobili. Abbandonata la magistratura dei tribuni della plebe, i difensori per unificare i poteri ricorsero allora alla nomina di un doge, Paolo da Novi, tintore, agiato e non incolto, reputato per energia e integrità (10 aprile 1507) ma i suoi sforzi furono vani. Assalita dall'esercito comandato dallo stesso re e dalla flotta del Prégent, mentre Gian Luigi Fieschi minacciava da levante, la città dopo vani tentativi di resistenza e di accordi dovette arrendersi a discrezione (28 aprile). Paolo da Novi, fuggito con gli altri capi e tradito da un Corzetto pisano, fu ricondotto a Genova e giustiziato. L'11 maggio Luigi ricevette il giuramento di fedeltà; dopo tre giorni uscì da Genova dove i nobili riebbero prevalenza e uffici. Durante la guerra della Lega di Cambrai Genova sperò invano il riacquisto di Cipro; mentre il dilagare della pirateria musulmana aveva conseguenze dannose soprattutto per la Corsica che, dopo la nuova rivolta di Ranuccio della Rocca, intorno al 1510, per opera di Nicolò e poi di Andrea Doria, era tornata interamente in possesso del Banco di S. Giorgio.
La guerra della prima Lega santa determinò un nuovo periodo di turbinose agitazioni. Togliere Genova ai Francesi era uno dei propositi della Lega e particolarmente di Giulio II, accordatosi con l'esule Giano Fregoso. Ma le spedizioni navali tentate sulle Riviere e le insurrezioni interne non riuscirono finché la rovina del dominio francese in Italia seguita alla morte di Gastone di Foix non offrì ai Fregoso l'attesa occasione d'impadronirsi del potere. Dopo una strana contesa fra Pietro figlio di Battista II e Giano II Fregoso, questi fu riconosciuto doge e Genova ritornò in governo autonomo. Ma il partito francese si risollevò durante la nuova spedizione di Luigi XII in Lombardia, costringendo Giano II alla fuga. A lor volta Adorno e Fieschi si allontanarono dopo la sconfitta francese a Novara; e questa volta, con l'aiuto spagnolo e col consenso di Leone X fu doge Ottaviano Fregoso. Minacciato però dai Fieschi, dagli Adorno e dallo stesso Giano Fregoso signoreggiante a Savona, timoroso dell'aspirazione di Massimiliano Sforza, egli venne a segreti accordi col nuovo re Francesco I e, dopo la vittoria francese a Marignano, gli cedette la città rimanendone governatore e confermando Andrea Doria al comando delle galee e alla difesa marittima. Il suo governo rappresenta un periodo di relativa tranquillità: favorì il commercio combattendo Barbareschi e pirati e nominò un corpo di riformatori incaricati di rivedere tutte le leggi e gli ordinamenti dello stato. Caduta nel 22 la fortuna dei Francesi alla battaglia della Bicocca, anche Genova doveva seguirne le sorti. Occupata il 30 maggio 1522 dall'esercito spagnolo comandato da Prospero Colonna e dal marchese di Pescara, fu orrendamente saccheggiata; Ottaviano, fatto prigioniero e condotto nel Regno di Napoli, morì; Antoniotto II Adorno diveniva doge sotto la protezione o piuttosto la sorveglianza degl'imperiali. I tentativi dei Francesi, e anche del Doria passato a servizio di Francesco I e poi di Clemente VII, non mutarono questa situazione finché, stipulata la Lega di Cognac, assediata per mare e per terra, la città fu occupata da Cesare Fregoso il 19 agosto 1527. L'Adorno, assediato nel Castelletto, si arrese e con lui si chiude la serie dei dogi perpetui e la lotta fra Adorno e Fregoso. Il nuovo governatore Teodoro Trivulzio, riprendendo l'opera di Ottaviano Fregoso, nominò una commissione di otto riformatori incaricati di preparare uno stabile ordinamento con esclusione delle due famiglie rivali. Ma sopraggiunse l'ultimo e più radicale mutamento, il passaggio di Andrea Doria dalla parte francese all'imperiale, che ebbe per Genova le più gravi conseguenze. Con questo gesto infatti, capovolgendo la situazione politica e dettando le condizioni all'imperatore, egli salvava quanto era possibile dell'indipendenza di Genova, vi stabiliva la propria autorità prevalente e otteneva il riconoscimento del pieno diritto di sovranità su Savona. Così il Doria poteva atteggiarsi a restauratore della libertà. Del resto, quanto fosse sentito il bisogno della pace fondata su un mutamento sociale avevano dimostrato i ripetuti tentativi di riforme.
Presentatosi davanti a Genova il 9 settembre 1528 e accordatosi coi senatori mandatigli dal Trivulzio per trattare, il 13 se ne impadroniva accolto trionfalmente dal popolo festante. Gli ultimi Francesi erano costretti ad uscirne e il tentativo compiuto l'anno successivo per riconquistarla falliva miseramente. Si chiudeva così il più agitato periodo della storia genovese e si apriva un'età nuova.
I dogi biennali. - La nuova costituzione del 1528, preparata dai riformatori e sanzionata dal Doria, conferì i poteri politici soltanto agli appartenenti a 24 gruppi di famiglie nobiliari raccolte nel tipico ordinamento degli Alberghi, divenuti ora istituzione politica. Ma per dare soddisfazione ai ricchi popolari li raccolse in altri quattro Alberghi, ciascuno naturalmente assai numeroso; degli Adorno e dei Fregoso, incorporati in altri gruppi, si volle far sparire anche il nome. Ai nuovi nobili si potevano per meriti speciali aggregare ogni anno non più di dieci cittadini; mezzo troppo scarso e parcamente usato per rinsanguare la classe dominante. Tutti gli aventi diritto al governo, indicati col nome comune di nobili, furono iscritti nel Liber Civitatis: tuttavia rimase viva la divisione originaria e i nobili antichi si dissero del portico di San Luca dal luogo ove ordinariamente tenevano le adunanze, gli altri, più tardi, di San Pietro dall'antichissima chiesa di San Pietro di Banchi dove si raccoglievano. Il potere legislativo spettava a due consigli. Il modo della loro composizione, dapprima affidato tutto alla sorte, fu modificato nel 1547 dopo la congiura dei Fieschi con la legge detta del Garibetto (Andrea Doria aveva detto di voler dare gaibo, cioè garbo o sesto al governo) con un sistema elettorale inteso a diminuire la partecipazione al governo della nobiltà nuova ritenuta favorevole ai Fieschi. Le agitazioni che ne derivarono condussero alla definitiva costituzione del 1576 per la quale, aboliti gli Alberghi, tutte le famiglie ripresero il nome originario e fu tolta ogni distinzione tra i nobili. Elettive le cariche, il Consiglio minore di 120 membri assunse un'importanza prevalente; al Grande o Maggiore, formato degli stessi 120 e di quanti altri i trenta probi uomini, nobili anch'essi ed eletti dal Minore, di anno in anno ritenevano opportuno, spettavano molte elezioni e l'approvazione delle leggi pecuniarie o derogatorie alla costituzione. Il potere esecutivo era esercitato dai Serenissimi Collegi, costituiti del doge biennale e di venti consiglieri pure biennali, rinnovabili per un quarto ogni semestre, dodici senatori e otto procuratori; gli ex-dogi erano di diritto procuratori a vita. Al vertice dello stato, i cinque sindacatori cui spettava di esaminare le questioni più gravi e gli eventuali conflitti costituzionali. In questo ordinamento l'autorità del doge, di breve durata e sottoposta a un cerimoniale sempre più complesso e gravoso, era molto scarsa e solo formale e la carica si andò facendo sempre meno desiderata a misura che le cerimonie dell'elezione diventavano più sontuose e fastose. Il periodo dei dogi biennali, tolte poche eccezioni, non presenta perciò alla testa del governo, che assunse un carattere nettamente collegiale, figure di molto rilievo. In questa età, e massime dopo lo stabilirsi del dominio spagnolo in Italia, la vita politica di Genova subisce un mutamento profondo. Perdute le colonie, cessata la grande politica marinara, nel formarsi e nel combattersi dei grandi stati, la repubblica, che continua ad avere con alcuni di essi per la sua funzione finanziaria e mercantile cospicui interessi, rivolge tutta la cura alle conservazione del proprio territorio in terraferma e nella Corsica, che le dà ancora importanza nel Tirreno. L'attività diviene così prevalentemente diplomatica, spesso abile e accorta, talvolta, nel progressivo indebolimento, complessa ed equivoca.
Il predominio dei Doria. - Andrea Doria, assunto il titolo di priore perpetuo dei sindacatori, esercitò con la sua autorità, con le forze militari, con la nomina dei magistrati, una vera dittatura. Non sono mancati tuttavia in quegli anni, e con il favore della Francia, tentativi di malcontenti per riprendere il potere perduto; più celebre la congiura ordita da Gian Luigi Fieschi nel 1547 e miseramente fallita e punita, con la rovina della sua casa, dall'irosa vendetta del Doria. Il quale tuttavia, opponendosi alla pretesa di Carlo V e di Ferrante Gonzaga di costituire una fortezza e di presidiarla con truppe spagnole, riuscì a conservare a Genova, che voleva atteggiarsi a neutrale tra Francia e Spagna, quel tanto d'indipendenza che era ancora possibile; e la nuova legge del Garibetto gli permise di continuare nell'opposizione alle pretese spagnole anche dopo la congiura di Giulio Cybo (v.), quasi appendice di quella del Fieschi.
Mentre i pirati e specialmente il celebre Dragut infestavano il mare toccando anche le coste liguri, la flotta franco-turca minacciava la Corsica aiutando l'insurrezione di Sampiero da Bastelica. Il vecchio Doria fece qui la sua ultima campagna veramente notevole e gli fu accanto il nipote Gian Andrea. La guerra si trascinò a lungo; alla fine nella pace di Cateau Cambrésis, restituite all'ufficio di San Giorgio le fortezze occupate, Enrico II abbandonò i Corsi. Tuttavia l'insurrezione fu domata soltanto dopo la morte di Sampiero, assassinato per vendetta privata (1567), e la repubblica, cui frattanto, dopo lunghe trattative, il Banco aveva nuovamente ceduto l'isola, organizzò uno speciale ufficio detto appunto di Corsica. Negli stessi anni si dibatteva la questione del Finale (v.), che, scoppiata l'insurrezione contro Alfonso II Del Carretto (v.), la repubblica tentò invano di occupare. Dopo complesse vicende e una lunga lite diplomatica con l'impero, quel territorio che s'incuneava nei possessi della repubblica veniva in dominio della Spagna (1598), rappresentando così un pericolo economico e militare per Genova che soltanto il 20 agosto 1713 poté venirne in possesso, acquistandolo.
Morto Andrea Doria (1560), Gian Andrea continuò nei suoi uffici, e fu ancora in prima linea tra gli appaltatori navali; ma ebbe minore autorità e minor prestigio mentre altri sorgevano e si arricchivano, per lo più servendo allo stesso modo la Spagna. Gian Andrea ebbe anche parte notevole nelle vicende interne per cui parvero riaccendersi le vecchie lotte violente. Il dissidio tra le due nobiltà si era acuito per l'ostentato lusso e la superbia delle grandi famiglie che le immense ricchezze accrescevano nei prestiti e nei cambî fruttuosi, mentre si costruivano le splendide dimore che ancora si ammirano. Mercanti e popolani appoggiando i nobili nuovi o di San Pietro, cominciarono ad agitarsi chiedendo l'abolizione della legge del Garibetto e di alcune tasse. Allora i nobili abbandonarono la città e Gian Andrea, dopo aver chiesto, col pretesto delle aspirazioni francesi, che l'armata spagnola comandata da don Giovanni di Austria venisse in aiuto della nobiltà, sbarcato a Porto Venere mosse in armi su Genova mentre suoi luogotenenti minacciavano dalla Riviera di Ponente. La guerra civile fu interrotta dall'intervento della diplomazia; le due parti accettarono la mediazione del cardinal Morone inviato dal papa, dei rappresentanti dell'impero e di Spagna, che, raccoltisi a Casal Monferrato, emisero il lodo del 10 marzo 1576 col quale la costituzione di Genova ebbe la forma che conservò poi per oltre due secoli immutata.
Savoia, Francia e Corsica. - La stabilità costituzionale faticosamente raggiunta non fu senza scosse e minacce ulteriori: la vecchia turbolenza e il malcontento degli esclusi dal potere si esprimevano in una serie di cospirazioni costrette a ricorrere all'aiuto di potenze straniere cupide di estendere il dominio su una posizione economica e politica di sempre cospicuo valore. Una congiura per ridare il governo nelle mani dei popolari fu ordita da un Bartolomeo Coronata nel 1576, altre che si appoggiavano alla Francia nel 1602 da certi Vassallo e Leveratto, nel 1648 da Gian Paolo Balbi e due anni dopo da Stefano Raggio.
Anche più pericolose le congiure rivolte ad avere aiuto o a dare il dominio ai duchi di Savoia, divenuti i vicini più pericolosi della repubblica. Già Emanuele Filiberto nel 1576 aveva acquistato dai Doria il principato di Oneglia. L'opposizione di Genova all'acquisto di Monaco da parte di Carlo Emanuele I (1604) accrebbe tra i due vicini i sospetti e i malumori, scoppiati in lotta aperta per il possesso del feudo di Zuccarello già appartenuto ai Del Carretto, conteso tra i due stati vicini e dopo una serie di questioni e di trattative diplomatiche venduto segretamente dall'impero a Genova nel 1622. La guerra combattuta da Carlo Emanuele alleato della Francia mise in grave pericolo la repubblica; il mancato accordo tra i collegati e l'intervento delle forze spagnole fecero però fallire l'intento del duca, che ricorse allora ad altri mezzi e favorì la congiura ordita dal nizzardo G. C. Vacchero, scoperta e severamente repressa dal governo genovese che anche di fronte alla Spagna difese con grande dignità i suoi diritti sovrani. Conseguenza della congiura fu l'istituzione dei sei inquisitori di stato e, nel ripetersi di analoghi pericoli, la costruzione della nuova cinta di mura dalla Lanterna sulla cresta dei colli sino in Val Bisagno e poi della cintura dei forti che sbarravano lo sbocco delle valli e l'accesso alla città. Altre congiure furono scoperte: importante quella di R. Della Torre d'accordo con Carlo Emanuele II (1672), che s'innesta nella nuova guerra tra Genova e Savoia sulle Riviere e in particolare intorno a Oneglia, combattuta con valore e fortuna da Genova, ma terminata per l'imposta mediazione di Luigi XIV nel 1673.
Gelosa tutrice della propria dignità la repubblica voleva parità di trattamento nei saluti tra le navi, pretesa che sembrò assurda a Luigi XIV, irritato anche dai tentativi genovesi di rinnovare i commerci orientali, dalla fortunata concorrenza genovese al porto di Marsiglia, da questioni doganali, dal rifiuto di restituire a Sinibaldo Fieschi i beni tolti alla sua famiglia, e specialmente dal fatto che "il piccolo staterello italiano" osava fornire per mezzo dei proprî privati appaltatori navi e armati ai suoi nemici. Egli impose al governo di disarmare i legni che si apprestavano al servizio della Spagna; e mentre pendevano le trattative fece improvvisamente rinchiudere nella Bastiglia l'ambasciatore Paolo De Marini, e mandò una flotta a imporre soddisfazione alle sue pretese e l'invio di un'ambasciata di scuse. Alla dignitosa risposta del Senato cominciò un rovinoso bombardamento continuato ininterrottamente dal 17 al 22 maggio (1684) e sospeso soltanto per rinnovare l'intimazione con la minaccia di sterminio. La risposta che il Senato non poteva deliberare sotto il fuoco nemico costituisce una delle più alte pagine della storia genovese e rivendica quella nobiltà troppo spesso e ingiustamente rappresentata vile e neghittosa. Ma, fallito l'intervento conciliativo del papa Innocenzo XI, Genova, non aiutata da Spagna e Olanda, fu costretta a sottomettersi di fronte a nuove minacce accettando molte delle condizioni imposte, più grave e umiliante l'invio del doge Francesco Maria Imperiale Lercari e di quattro senatori a presentare le scuse al re a Versailles (maggio 1685).
Dopo il bombardamento s'intensifica ancora più la già accentuata sorveglianza della politica francese sulla vita e la politica di Genova. Anello di congiunzione fra gli Asburgo di Spagna e l'Austria, base navale necessaria per tenere aperte le vie dell'alto Tirreno fra Spagna e Lombardia, capace col vasto retroterra di sbarrare l'accesso d'Italia alle merci che vengono dal mare, centro economico e bancario internazionale di prim'ordine, Genova, senza più grande forza e vitalità propria, conserva una funzione marittima importante col possesso della Corsica. Essa diventa perciò un importante osservatorio diplomatico, e acuisce nella difficile situazione l'attiva abilità dei suoi politici, che si appoggiano alternativamente alle maggiori potenze in conflitto. La delicata e complessa situazione è dominata da due problemi e da due grandi preoccupazioni: le aspirazioni minacciose del Piemonte sabaudo, la perpetua insurrezione della Corsica, pedina ormai importantissima nel serrato giuoco di predominio del Mediterraneo tra le potenze navali, cui si aggiungono i Savoia divenuti padroni della Sardegna. Incomprensioni ed errori determinano quello stato d'insofferenza degl'isolani nel quale interessi esterni si affannano ad approfondire l'abisso. L'insurrezione scoppiata apertamente nel 1729 dura 40 anni con varie vicende, e con l'intervento armato degli Austriaci e poi, dopo il trattato del 1737, dei Francesi in favore di Genova (v. corsica).
Una breve sosta si ha al principio di quella guerra di successione d'Austria durante la quale si svolge l'episodio più popolarmente celebre della storia genovese. Tra le due parti in conflitto, il blocco franco-spagnolo e l'alleanza anglo-imperiale, Genova, legata da cospicui interessi alle due parti belligeranti e ormai per tradizione avversa a ogni intervento guerresco, rimane neutrale. Ma quando col trattato di Worms (13 settembre 1743) l'adesione piemontese agli Anglo-imperiali è compensata con la cessione del Marchesato di Finale acquistato nel 1713 dalla repubblica, Genova, accetta le non disinteressate offerte gallo-ispane e col trattato di Aranjuez in compenso della promessa integrità territoriale s'impegna a permettere il passaggio degli alleati per il suo territorio e a fornire un corpo di truppe. Equivoca situazione, perché il governo intende con questo di non aver rotto la neutralità: se mai quelle sue truppe dovranno combattere soltanto contro i Piemontesi. Ma i Gallo-Ispani battuti a Bassignana ripiegano sulla Liguria e ritirandosi sulla Riviera di Ponente lasciano scoperta Genova, che, dopo inutili trattative e vani tentativi di spiegazione, mentre Carlo Emanuele si avanza nella Riviera e gl'Inglesi bloccano il porto, deve aprire le porte all'occupazione degli Austriaci comandati prima dal Generale Brown poi da Antoniotto Botta Adorno, figlio d'un ligure esiliato (6 settembre 1746). Le prepotenze esose dei generali austriaci e le imposizionî forzate e intollerabili destano una violenta esasperazione scoppiata in insurrezione aperta il 5 dicembre. Cominciata con una sassaiola, provocata secondo la tradizione da un ragazzo, Balilla (v.), la rivolta si estende e organizza attraverso varie fasi, interrotte da trattative, e si conchiude con la cacciata degli Austriaci fuori delle mura il 10 dicembre. Una radicata tradizione ancora tenacemente sostenuta contrappone nettamente alla generosa azione popolare la viltà del governo e dei nobili che, ricusando le armi al popolo insorto e opponendosi alla sua azione, avrebbero ostacolato in ogni modo il moto popolare. In realtà è stato dimostrato che il governo aiutò e, sottomano, quasi diresse il movimento lasciandone la responsabilità e l'iniziativa al popolo e assumendo un atteggiamento di passiva impotenza per non venir meno al patto firmato e per poter trattare più facilmente col nemico. Contegno debole e tortuoso, ma non di viltà o di tradimento. Qualche giorno dopo la cacciata degli Austriaci, il governo provvisorio creato dal popolo durante la sommossa cede il potere al governo regolare che rientra senza difficoltà in funzione. Intanto il Botta Adorno, umiliato dello scacco subito, tenta di rioccupare la città anche con l'aiuto di Carlo Emanuele e degl'Inglesi. Ma le operazioni durate tutto l'inverno del '47 non riescono; la città, aiutata anche dai Francesi, resiste e l'assedio deve essere tolto.
Come conseguenza di questa vittoria, nella pace di Aquisgrana (1748) fu compresa la condizione del ritorno in possesso genovese della Corsica, ove frattanto il duca di Savoia aveva provocato altri torbidi. L'insurrezione tuttavia tornò ad ardere ben presto e questa volta diretta da Pasquale Paoli. Lunga, aspra, dispendiosa la guerra. Varie, complesse, non sempre chiare le trattative diplomatiche con la Francia, che col trattato di Compiègne (1764) prometteva soccorsi militari e la propria opera conciliatrice ma occupava le fortezze che prima non si erano mai volute cedere, e finalmente col trattato di Versailles (15 maggio 1768) otteneva la cessione dell'isola con diritto di riscatto quando le fossero compensate le spese sostenute. Illusorio diritto, al quale tuttavia Genova non rinunciò mai formalmente; e occorre notare che il governo si indusse a grande stento e in mezzo a tenaci e irriducibili opposizioni ad un passo del quale molti, specialmente della vecchia nobiltà conservatrice delle antiche tradizioni, comprendevano le rovinose conseguenze.
Il predominio francese e il Risorgimento. - Dopo l'insurrezione del 1746 e la cessione della Corsica, Genova si restringe nella sua chiusa vita locale. Ormai da oltre due secoli gli ultimi tentativi della Riviera, specie di Ponente, per sottrarsi alla signoria della Dominante sono cessati; lo stato regionale è costituito; la repubblica immobile nei suoi confini. La classe dominante, rigida custode delle tradizioni e del governo, è indebolita dal lungo incontrastato esercizio del potere, dalla scarsa immissione di sangue nuovo e dalla poca cura che, in genere, i suoi membri hanno dei pubblici interessi, tutti affidati ai Serenissimi Collegi. La borghesia commerciante, ma più la borghesia colta delle professioni, malcontenta e insofferente; il popolo dei lavoratori attaccato agli usi e alle costumanze tradizionali, alla religione dei padri, all'ossequio verso i nobili che forniscono con il lusso sicuri guadagni, avverso per lunga consuetudine e per tenace senso della libertà individuale ad ogni servizio militare. In questo ambiente, esposto per l'ancora viva attività economica e bancaria a rapporti numerosi e frequenti coi vicini e specialmente con la Francia, convengono avventurieri; sorgono logge di Franchi Muratori, si diffondono con facilità le idee novatrici e rivoluzionarie, soprattutto tra gl'intellettuali e tra i nobili poveri irritati che il governo sia divenuto una casta nella casta. A questi elementi si rivolge la propaganda degli agenti francesi dopo l'89: il contrasto è però sulle prime tra le due parti della nobiltà, come appare allorché (1794) i nobili poveri ordiscono una trama presto sventata per ridurre l'autorità dei Serenissimi Collegi e del Consiglio minore e accrescere quella del Maggiore ormai esautorato. Quando scoppia la guerra tra la Francia e i collegati nel 1792, Genova, che teme i rivoluzionarî ma anche gli Austro-Piemontesi, difende tenacemente la propria neutralità; e l'atteggiamento neutrale non muta, anche quando si combatte sulla Riviera ormai acquistata alle idee rivoluzionarie. Ma le vittorie napoleoniche del 1796 fanno precipitare gli eventi; la neutralità, per i rapporti di vicinanza e per le arti degli emissarî divenuta sottomissione, si converte in un'unione che serve alla Francia e al suo generale per ottenere aiuti finanziarî sempre più vistosi; eppure la repubblica si illude di conservare l'esistenza autonoma, anzi di vedere un ingrandimento a danno del Piemonte. Altri sono gl'intendimenti del Bonaparte e del Faypoult ambasciatore a Genova; anche qui deve avvenire al momento opportuno il movimento interno che con l'abbattimento del governo oligarchico faccia della repubblica democratica un'appendice della Francia. I novatori con la loro azione inconsiderata precipitano le cose, provocando la reazione popolare controrivoluzionaria (22 maggio 1797) che fornisce al Bonaparte l'attesa occasione. Il governo deve accettare di trasformarsi: una commissione inviata alla villa di Mombello concorda o subisce le norme del nuovo governo democratico installato il 14 giugno. La repubblica aristocratica è finita.
Dal giugno al dicembre 1797 governa una commissione provvisoria, designata appunto a Mombello e che, per quanto costituita di elementi generalmente moderati, non può esimersi dagli eccessi verbali e demagogici proprî di queste nuove repubbliche e da esagerazioni che provocano il 6 e 7 settembre un furioso moto controrivoluzionario da parte dei contadini e montanari delle vallate contermini, represso dalle armi francesi. Nel gennaio '98 entra in vigore la nuova costituzione di tipo nettamente francese con un direttorio e due consigli: complicata e macchinosa costruzione che non funziona per gli eccessi dei più violenti, per le gare furiose dei partiti, per l'opposizione passiva e irriducibile della maggioranza della popolazione, per l'intromissione continua e la tutela opprimente e vessatoria dei rappresentanti francesi. Una piccola guerra disgraziata col Piemonte nel '98, finita per imposizione della Francia, contribuisce ad accrescere il disordine interno con accanite discussioni e accuse e polemiche di stampa. Intanto le vicende della seconda coalizione e la reazione generale contro le prepotenze e le violenze degli eserciti francesi rendono sempre più precaria la situazione della nuova repubblica agitata e turbolenta. Conseguenza del 18 brumaio, la scoperta di una congiura porta per opera del console Belleville e del generale Saint-Cyr a un colpo di stato (7 dicembre 1799) che trasferisce i poteri a una commissione di nove membri, maggiore dei quali è Luigi Corvetto, già appartenuto al direttorio.
Durante il celebre assedio del 1800, sostenuto con invitta e inflessibile tenacia dal Massena e con atroci sofferenze dalla popolazione ridotta agli estremi, decimata dalla fame e dalle malattie, i poteri civili sono raccolti in una ristretta deputazione e quasi soltanto nel Corvetto che accanto al generale tenta di attenuare gli atroci disagi. Il 4 giugno, compiuta ormai la funzione della resistenza, Massena si arrende; entrano gli Austriaci, ma la battaglia di Marengo muta ancora la situazione. Il primo console manda allora a Genova a riorganizzare il governo Gian Francesco Déjean, che nomina una commissione esecutiva e una consulta e le presiede lasciando loro appena un'illusione di autonomia; sconsiglia l'unione della Liguria alla repubblica cisalpina, in questo concorde col governo locale rigido nella concezione della locale indipendenza; e cede l'ufficio a Cristoforo Saliceti quando la nuova repubblica ligure è riordinata con un doge (Gerolamo Durazzo), un senato di 30 membri, una consulta legislativa di 70 che non entra mai in funzione. Per tre anni dura una situazione di reale dipendenza dalla Francia. Rovinati i commerci dal blocco inglese e dalle barriere doganali verso l'interno, Genova ha tutti gli svantaggi, nessun utile da quella equivoca situazione, cosicché è facile al Saliceti, allorché Napoleone diviene imperatore e re d'Italia, ottenere che sia deliberata, senza entusiasmo e con l'avversione dei più tenaci, l'annessione all'impero convalidata da un plebiscito. La repubblica di Genova è finita e la sua sorte anche avvenire segnata. La giustificazione ufficiale dell'annessione, essere Genova il porto del Piemonte, riempie di gioia Vittorio Emanuele I, esule in Sardegna, e i suoi ministri: quando Napoleone cada, quell'affermazione giustificherà l'unione di Genova al Piemonte. Appunto al 1805 risale la prima promessa inglese di quella futura annessione.
Genova è necessaria a Napoleone per ragioni militari e marittime come punto di capitale importanza nella lotta navale con l'Inghilterra e perciò nell'interesse stesso dell'impero ne vorrebbe la floridezza. Dall'altra parte l'annessione è stata accettata rassegnatamente nella speranza della pace sempre promessa e della felice ripresa dei traffici. La continuazione della guerra con le sue disastrose conseguenze per effetto del blocco continentale è destinata così a determinare un grave malcontento aggravato dalla soppressione del Banco di S. Giorgio, dal sempre più rigido sistema accentratore nell'amministrazione, dall'imposizione del francese come lingua ufficiale e persino nei giornali, dall'imposizione continua e gravosa delle tasse e delle leve militari. È vero che il regime napoleonico con le cure all'istruzione universitaria e media, con le provvidenze sanitarie e di carità pubblica che s'innestano sopra un'antica e gloriosa tradizione (basta ricordare l'Albergo dei poveri) svolge un nobile programma di civile e sociale progresso. Lo stato civile, il sistema metrico, il catasto, i lavori pubblici, specialmente le strade delle Riviere e dei Giovi e l'ampliamento del porto, il progetto del gran porto militare alla Spezia, le rinnovate costruzioni navali e il favore ai cantieri, sono, oltre il rinnovato, per quanto ostico e avversato, servizio militare, benemerenze delle quali si è sentita più tardi l'efficacia.
L'ultima repubblica. - Eppure per quella pesante compressione la fine del regime napoleonico è salutata come una liberazione tanto più che l'ammiraglio inglese Guglielmo Bentinck, occupata Genova nell'aprile 1814, promette, malsicuro interprete degl'intendimenti del suo governo, il ristabilimento della vecchia repubblica. È costituito allora un governo provvisorio con a capo Gerolamo Serra che nelle vicende anteriori ha avuto gran parte e che mira soprattutto a conservare l'autonomia preparando anche una costituzione nella quale si tenta di contemperare le vecchie forme aristocratiche con la necessità di far posto alle nuove classi salite con la Rivoluzione. Ma le potenze hanno deciso diversamente e gli sforzi diplomatici di Agostino Pareto a Parigi e poi di Antonio Brignole Sale presso il Congresso di Vienna falliscono. Così è deliberata l'annessione di Genova al regno di Sardegna verso alcune condizioni che appaiono poi come concessioni del sovrano. Il 26 dicembre il governo provvisorio con dignitosa protesta abbandona il potere; ai primi di gennaio Ignazio Thaon di Revel riceve dalle mani dei rappresentanti inglesi il possesso di Genova.
L'unione al Piemonte. - Agitatissimo il primo anno del nuovo dominio per i timori di ripercussioni dei Cento giorni napoleonici e dell'avventura murattiana. Genova è stata certamente uno dei centri maggiori del lavorio sotterraneo delle sette e dei maneggi e dei rapporti con l'Elba. Ma intanto il nuovo governo si viene organizzando, e, falliti quei tentativi, sottentra una plumbea calma. Il governo di Torino non ignora l'avverso stato d'animo dei Genovesi e i suoi uomini più illuminati lo comprendono. In realtà, le intenzioni del re e dei ministri sono ottime, purché si accetti benevolmente il fatto compiuto; essi desiderano attirarsi le simpatie delle popolazioni e specialmente delle classi più elevate e più avverse. Onori e cariche sono largamente distribuiti alla nobiltà e alla borghesia colta e commerciante; un genovese, Gian Carlo Brignole, è subito nominato ministro delle Finanze, un altro, Luigi Carbonara, presidente del Senato, supremo tribunale locale. Ma la grettezza delle idee, la lentezza burocratica e il pesante ordinamento statale che si vuole tutto esteso alla Liguria contribuiscono a ritardare i vantaggi sperati da quella unione. Dopo un primo periodo di grave depressione per la crisi generale e un'eccezionale carestia, per l'incomprensione dei bisogni specifici del commercio locale, per le mantenute barriere doganali col Piemonte, le condizioni migliorano per l'accresciuto retroterra, per il maggior rispetto alla nuova bandiera specie dopo la spedizione di Tripoli nel 1825 cui prendono parte ufficiali liguri, per l'accresciuta importanza della marina da guerra rinnovata dall'ammiraglio Giorgio Des Geneys, a lungo anche governatore di Genova, per i trattati commerciali con l'impero ottomano e altre potenze, per lo sviluppo della marina mercantile.
La costituzione accordata dal reggente Carlo Alberto nel 1821 è accolta a Genova con lieto favore. L'insurrezione scoppia invece alla revoca della costituzione in un violento moto d'indignazione popolare e studentesca, aggravata da elementi militari e settarî, da insinceri mestatori e dalle subite voci di tradimento del Des Geneys e d'imminente occupazione austriaca di Genova. Ma alle notizie dei rovesci dei costituzionali piemontesi il moto si spegne e il Des Geneys liberato dalla prigionia riesce ad evitare la temuta discesa austriaca e favorisce anche la fuga di quei proscritti che destano la commozione del Mazzini giovinetto. Ripreso per quell'atteggiamento e avverso alle violente repressioni, si dimette. Non mancano punizioni e condanne e l'università rimane chiusa per misura politica fino all'ottobre 1823. Genova pare chiudersi allora in una passiva e sdegnosa resistenza di fronte al governo di Carlo Felice; ma, accanto alla sprezzante opposizione dei nobili e all'opera disordinata e incoerente delle sette carbonare, un centro vivo di azione si stabilisce nel gruppo dei giovani che si stringono intorno al Mazzini; quel nucleo che si raccoglie con apparenti intendimenti letterarî nella libreria di Antonio Doria. Gli avvenimenti del 1830 in Francia e del '31 nell'Italia centrale con le temute ripercussioni determinano l'arresto dei più temuti carbonari, primo il Mazzini l'occupazione militare e la nuova chiusura dell'università; e nell'ambiente già preparato e per varie ragioni ostile la propaganda della Giovine Italia trova facile terreno, si diffonde in tutte le classi sociali e ha il suo primo martire in Iacopo Ruffini e altre vittime nei processi militari del '33. Le ragioni della severità di Carlo Alberto contro il tentativo d'insurrezione nell'esercito sono troppo note; ma dagli avvenimenti del '33 e dal fallito moto del '34, cui partecipa Garibaldi, ha origine un nuovo periodo di avversione e d'incomprensione che le forme esteriori non riescono a celare né l'interessamento e il pronto accorrere del re durante l'epidemia colerica del '35 a calmare. Nella vita civile e commerciale e culturale l'impulso riformatore del re ha invece benefiche conseguenze. Lentamente, una notevole evoluzione si va compiendo negli spiriti, di fronte a quell'impulso innovatore e all'insuccesso dei moti mazziniani un partito nuovo senza riti e senza statuti si va costituendo. Accanto ai più accesi e fedeli alla parola del maestro altri, discordanti da lui nei mezzi pratici, cominciano a guardare con minore sospetto al Piemonte. Le diverse correnti sembrano confondersi in quel congresso scientifico del '46 che pare preludere alla guerra nazionale. Da allora Genova assume una funzione notevole nel movimento riformatore e costituzionale; e la sua azione e la sua accensione in quegli anni hanno un'importanza particolare nel determinare gli atteggiamenti del governo piemontese. Questa azione culmina nella costituzione del Comitato dell'ordine presieduto da Giorgio Doria, ma del quale sono gran parte anche i mazziniani più accesi come Nino Bixio e Goffredo Mameli, nel pellegrinaggio al Santuario di Oregina nel dicembre '47, che è un'aperta sfida all'Austria, e nell'invio a Torino di una commissione incaricata di chiedere la costituzione. Tutti i capi del movimento sono volontarî nel 1848; ma le delusioni succedute a quegli entusiasmi determinano una situazione torbida nella quale i partiti tornano a mettersi di fronte; il vecchio Comitato trasformato in Circolo nazionale è sopraffatto dai più accesi del Circolo italiano, le passioni violente esplodono dopo le infelici vicende della campagna del '49, sotto l'assillo della temuta occupazione austriaca della città, in quelle dolorose giornate del principio di aprile che, non tanto determinate da intenti separatisti quanto da un'esaltata esasperazione dei sentimenti patriottici dei capi e da un inconsiderato timore nel popolo, costituiscono una delle pagine più tristi del Risorgimento per gli eccessi e le violenze così degl'insorti come delle truppe mandate alla sottomissione. L'amnistia quasi generale del nuovo re non basta a eliminare risentimenti e rancori durati ancora a lungo.
Nel decennio tra il '49 e il '59 Genova ha avuto ancora una funzione assai importante come uno dei maggiori centri dell'emigrazione politica delle altre regioni d'Italia. Essa rimane anche, naturalmente, il maggior centro del partito mazziniano che qui ha il suo giornale; di qui parte Carlo Pisacane per la sua spedizione infelice; qui è ancora compiuto nel 1857 l'ultimo grande tentativo mazziniano, destinato a paralizzare le autorità per permettere ai profughi di ogni regione d'imbarcarsi per una spedizione contro il Borbone. In questi anni Genova diviene porto esclusivamente mercantile, trasferito dal Cavour il porto militare alla Spezia. A Genova sbarca larga parte dell'esercito francese per la campagna del '59; da Quarto salpano i Mille e da Genova seguono le spedizioni ausiliari. Da allora la storia di Genova si confonde con quella d'Italia di cui diventa il maggiore emporio marittimo.
Fonti: Cronisti e storici genovesi: d'importanza fondamentale Annali di Caffaro e dei continuatori, a cura di L.T. Belgrano (I) e di C. Imperiale di S. Angelo (II-V), in Fonti dell'Istituto storico italiano, Roma 1895-1929 (trad. in voll. 9 a cura del municipio di Genova per opera di C. Roccatagliata Ceccardi e di G. Monleone, 1924-1930). Poi i Commentari di A. Gallo e di B. Senarega a cura di E. Pandiani, in Rerum Ital. Scriptores, nuova ed. XXIII, 1, e XXIV, viii. Degli annalisti si possono utilmente consultare Iacopo da Varazze (sino al 1297) in Muratori, Rer. Ital. Script., IX, e Giorgio e Giovanni Stella (1298-1355), ibid., XVII; U. Foglietta (sec. XVI); P. Partenopeo (1528-38); I. Bonfadio (1528-1550); A. Roccatagliata (1581-1608) e specie A. Giustiniani (fino al 1528) e Filippo Casoni (sec. XVI-XVII), e per le età più tarde Gaggiero (1777-1797) e Clavarino (1797-1805).
Istituzioni della repubblica. - Dal sec. XI al 1528. - Nella prima età comunale alla testa del governo sono i consoli, da sei a dieei, capi dell'amministrazione della milizia e della giustizia; dalla seconda metà del sec. XII la giustizia è amministrata dai Consoli dei placiti. Col 1190 comincia il governo del Podestà; col 1257 il Capitano del popolo, abolito nel 1262, poi ripristinato spesso in forma di diarchia, e durato saltuariamente fino al 1477. Nel 1339 appare il doge vitalizio, abolito più volte e definitivamente nel 1528. Anche dopo il periodo consolare, la suprema potestà è temperata da un collegio variamente eletto e composto, detto Consilium sapientium o antianorum o semplicemente Consilium. Dal secolo XII cominciano a costituirsi uffici speciali così per la giurisdizione come per l'amministrazione e la giustizia, ma è difficile determinarne con sicurezza il momento; tali l'Officium guerre, l'Officium monete, amministrazione finanziaria. l'Officium mercantie, tribunale civile di seconda istanza. Gli Emendatori delle regole soprintendono alla redazione delle leggi e dei decreti; l'Officium provisorum è incaricato dell'approvvigionamento. I Maestri razionali controllano la gestione morale e finanziaria dei magistrati. Due uffici, di Romania e di Gazaria, regolano la vita delle colonie del Mediterraneo e del Mar Nero. Tutte queste magistrature sono minutamente regolate dalle leggi del 1413.
Dal 1528 al 1797. - Aboliti il doge perpetuo e i più degli uffici precedenti, la costituzione del 1528 pose a capo dello stato il Doge biennale (di almeno 50 anni) con potere esecutivo esercitato a voto pari coi dodici Governatori o Senatori biennali costituenti il Senato, autorità sovrana in materia civile, e con gli otto Procuratori biennali formanti la Camera, con mansioni più propriamente amministrative. I dogi usciti di carica erano procuratori perpetui; gli elettivi che, come i senatori, dovevano avere almeno 40 anni, erano sorteggiati per un terzo ogni semestre. Senato e Camera riuniti per gli affari più gravi costituivano i Collegi.
Organi essenziali della costituzione erano anche il Minore e il Maggior consiglio. Il primo, composto di duecento nobili (cioè ascritti agli Alberghi fino al 1576, poi all'Ordine patrizio) di almeno ventisette anni, votava le leggi ed esaminava le materie prima trattate nei Collegi prendendo le deliberazioni di maggiore importanza (guerra, pace, alleanze, ecc.). Per la validità delle adunanze occorreva la presenza di centotrenta consiglieri e per le votazioni i quattro quinti dei presenti. Dogi e Collegi presiedevano i Consigli. Al Maggiore, di quattrocento nobili di almeno ventidue anni, spettava il supremo potere legislativo e il conferimento delle principali cariche dello stato. Le assunzioni ai Consigli erano fatte da trenta Elettori designati nel dicembre di ogni anno dal Minor consiglio. Nel 1629 sorsero con poteri amplissimi di sindacato su tutte le magistrature, compreso il doge in carica, i supremi sindacatori cui spettava anche nei casi dubbî l'interpretazione delle leggi fondamentali dello stato. Alla quiete e alla sicurezza pubblica vegliavano gl'Inquisitori di stato.
Importanza particolare tra gli ordini consultivi e amministrativi ebbe la Giunta dei confini, Ministero degli affari esteri e organo di consulenza nelle contestazioni territoriali fra i comuni. Specialmente dal sec. XVII, per una tendenza che mirava al decentramento nell'amministrazione e a richiedere il parere di persone tecniche e specializzate, si costituirono giunte permanenti o transitorie come il Magistrato della virtù (pubblici costumi), l'Ufficio dei poveri, il Magistrato del riscatto degli schiavi, l'Ufficio di Pammatone, massimo ospedale cittadino, il Magistrato di guerra e marina, quello di Sanità, la Giunta di giurisdizione a cui erano commessi lo studio e la consulenza dei rapporti fra Chiesa e Stato.
La città era amministrata dai Padri del comune, il porto dagli antichi Salvatores portus et moduli (molo). L'amministrazione degli altri municipî era sorvegliata dal Magistrato delle comunità. Il territorio dello stato si divideva in: a) città e luoghi convenzionati, conservanti cioè i proprî ordinamenti interni e tenuti a dare armati in guerra e una somma fissa annuale in denaro: in alcuni di questi la repubblica mandava il podestài b) città e luoghi di diretto dominio, interamente sotto il governo della repubblica; c) feudi posseduti in tutto o in parte (carati) dalla repubblica. La zona più vicina a Genova era governata e amministrata anche nella giustizia dai tre Capitaneati di Voltri, Polcevera e Bisagno; la Corsica dallo speciale Ufficio di Corsica.
L'amministrazione della giustizia era affidata alla Ruota criminale istituita nel 1576, alla Civile, ai Consoli della regione derivati da quelli dei Placiti, per le cause civili non superiori a cento lire genovine, e al Magistrato dei Rotti, creato nel 1474 per i giudizî di fallimento.
Affatto separato dallo stato, il Banco o Casa di S. Giorgio, istituito di credito, banco di deposito e gestore delle entrate pubbliche, era retto da otto Protettori presieduti da un Priore. Al Gran consiglio, di 400 membri, poteva appartenere senza distinzione di ceti chi avesse una data proporzione di carati o luoghi. L'Ufficio di S. Giorgio, istituito nel 1444 per regolare le questioni correnti, era vigilato dai Sindaci.
La repubblica democratica ligure istituita nel 1797 ebbe una costituzione ricalcata sulla costituzione francese dell'anno VIII.
Arti figurative.
Genova è ricca di opere d'arte medievale: gli edifici compresi nella cinta del 1155 (v. sopra: Sviluppo topografico) conservano ancora, sotto gl'intonachi delle facciate affrescate e decorate di architetture, le logge e le ampie quadrifore duecentesche e quattrocentesche. Sono anteriori al sec. XI, ma non tutte egualmente congenite, le chiese di San Donato, dei Ss. Cosma e Damiano, di Santa Maria di Castello, di S. Stefapo, di S. Maria delle Vigne; e in parte il duomo; appartiene al sec. XII la chiesa di S. Giovanni di Prè. La Porta Soprana, splendido esemplare di architettura militare è del 1155; la Torre degli Embriaci ricorda, unica superstite, le numerosi torri che si elevavano sul colle di Sarzano.
Il Duecento fu secolo di grande risveglio edilizio cittadino, non soltanto limitato alle chiese, ma esteso ad ogni specie di costruzione della città, chiusa ancora nella cinta del Barbarossa, e alle ville dei dintorni (casa di Simon Boccanegra a S. Martino). Le principali famiglie edificarono sui loro terreni gruppi di palazzi dalle ampie logge e chiese: i Doria a S. Matteo le case con la facciata listata di marmo bianco e pietra nera; gli Spinola a San Luca i palazzi adorni di grandioso bugnato, i Maruffi in Canneto il Lungo gli edifici con le logge di pietra, il corpo di mattoni: tipo di casa che ritroveremo presso la Porta soprana, a San Donato, in Piazza Invrea e, meglio illustrato, nel palazzo di S. Giorgio restaurato da A. D'Andrade, in quello detto del Podestà (vico Fieno). Le case di Piazza S. Matteo ricordano i grandi della famiglia Doria e alcune furono donate dalla repubblica agli ammiragli vittoriosi: a Pagano, a Lamba e ad Andrea. Anche la Ripa si arricchì di palazzi dalla facciata di marmo bianco e di pietra nera, muniti di ampî porticati prospettanti il lido marino e numerose si elevano le torri. Sorsero in quel secolo le belle chiese di S. Matteo, di S. Agostino (restaurata nel 1931 da O. Grosso), di S. Tommaso, di San Francesco di Castelletto, di Nostra Signora del Carmine, di San Domenico, con i caratteristici chiostri. La cattedrale di S. Lorenzo, dove si conserva la Tazza di smeraldo, fu ornata, intorno alla metà del secolo XIII, del bel portale d'influenza francese. Sulla fine dello stesso secolo si costruì il Palazzo del comune, munito di torre, presso la chiesa di S. Lorenzo, palazzo che fu incorporato poi nell'edificio costruito da Antoniotto Adorno e poi dal Vannone completamente sistemato a grandioso edificio fortificato, A questo sviluppo edilizio corrisponde un notevole movimento artistico. Pittori senesi, fiorentini e pisani affrescano case e chiese: scultori toscani eseguiscono statue funerarie e tra essi si nota Giovanni Pisano, che scolpì la tomba di Margherita di Brabante, conservata oggi nella Galleria di Palazzo Bianco, e Giovanni Balducci. Le costruzioni trecentesche sono poco numerose e ripetono il tipo duecentesco con leggiadria di forme e decorazioni. Alla decorazione murale ad affresco succede una fiorente scuola di pittori d'ancone, d'influenza senese, specialmente nota per il trentennio di operosità in Genova di Barnaba da Modena.
Nel Quattrocento la città ammirata dal Petrarca si trasforma. Nei primi decennî le nuove case risentono dello stile genovese trecentesco, con facciata a zone alterne di marmo bianco e di pietra nera, come si nota ancora nel Palazzo Spinola di Piazza Fontane Marose. Sulla metà del secolo è usata per le facciate la decorazione pittorica. Anche le case medievali furono sistemate secondo lo stile nuovo e, murate le logge e intonacate le facciate, adorna la casa il portale con il San Giorgio vincitore di draghi, con il Battista, con l'Annunciazione, con i Trionfi. Le case dell'ultimo decennio risentono dello stile lombardo; si avverte una nuova originale manifestazione con influenza di varî stili, il lombardo, il veneto e il moresco, gustosamente fusi in particolari costruttivi e nelle decorazioni scultoree e pittoriche. Il palazzo donato dalla repubblica ad Andrea Doria (restaurato nel 1930 da O. Grosso) ne è uno dei più tipici esempî. Di questo periodo si hanno gli edifici di Vico Mele, di Vico Doria, di Via Posta vecchia, di Piazza Pinelli, di Santa Maria di Castello, di Via Orefici, ecc. Scultori lombardi, i Gaggini, i Sormano, D'Aria e i Della Porta eseguirono portali per i palazzi, statue per il banco di San Giorgio, e tombe per le chiese; i pittori lombardi Foppa, Braccesco, Sacchi, con i piemontesi Masone e Canavesio, e con il Brea della Riviera di Ponente, lavorarono nella città che albergò il renano Giusto di Ravensburg, autore dell'Annunciazione di S. Maria di Castello, e dove affluirono dalla Fiandra le opere dei Van Eyck, di Roger van der Weyden, del David (Palazzo Bianco), del Prevost.
La pace politica instaurata da Andrea Doria contribuì al rifiorire di un nuovo movimento edilizio e Perin del Vaga (1525) e il Montorsoli, da lui chiamati per le opere del suo palazzo a Fassolo, portarono nella tradizione del Rinascimento ligure-lombardo l'arte di Roma. I patrizî genovesi, abbandonate le loro case della vecchia Genova, gareggiavano nell'innalzare nuovi palazzi. Vicino alle vecchie mura furono edificati il palazzo attuale della prefettura (1542), i palazzi di Piazza Fontane Marose, il palazzo di Via Posta vecchia (1531), il Palazzo Cicala (1542) e, fra le numerose ville, quella Imperiale a S. Fruttuoso, la Villa Maria a Cornigliano e quella Rostan a Pegli. Queste costruzioni presentano un'architettura prealessiana, che, rinnovata dallo stile dell'Alessi, continuò in parte ancora nel Lurago, autore dell'attuale Palazzo del comune, e negli architetti seguaci della tradizione ligure lombarda. Nel 1550 venne messo in esecuzione il piano regolare della Via Aurea (Via Garibaldi) e nella seconda metà del secolo furono costruiti i bei palazzi che la fiancheggiano: l'Alessi diede i disegni per i palazzi Cambiaso e Lercari, il Bergamasco fu autore del Palazzo Imperiale, di quelli Doria e Podestà. Sono pure dell'Alessi i tre palazzi - "Bellezza", "Fortezza", "Armonia" - la chiesa di Carignano, la porta di Molo, la cupola della cattedrale, la villa Cambiaso in Albaro, ed è ispirata al suo stile la famosa Loggia dei Mercanti a Banchi. Con l'Alessi si forma quel gruppo armonico di costruttori, scultori e pittori che contribuirono alla creazione della decorazione genovese, celebre per il Cambiaso, il Tavarone, il Castello, i Semini e i Carlone. È sorta così quella scuola che ebbe il suo splendore nel secolo XVII con Valerio Castello, il Fiasella, il Piola, il De Ferrari, i Guidobono, decoratori dei palazzi Patrone e Rosso, delle chiese di Santa Maria in Passione, di Santa Marta, di San Luca, di S. Croce e dei Santi Giacomo e Filippo. All'arte dell'Alessi è pure ispirato il palazzo attualmente Belimbau sulla piazza dell'Annunziata dipinto dal Tavarone, autore dei robusti affreschi del Palazzo Adorno e del Palazzo Spinola. I Carlone affrescarono sul principio del Seicento, con l'Ansaldo, la chiesa dell'Annunziata, ricca di opere dello Strozzi, del Procaccino; la chiesa di S. Ambrogio, ove si conserva la Circoncisione e il Sant'Ignazio del Rubens, la Crocifissione del Vouet, l'Assunta del Reni, e la chiesa duecentesca del Carmine.
La scultura aveva abbandonato lo stile goticizzante dei Gaggini per l'esempio del Rinascimento portato a Genova dal Sansovino (1504) e dal Civitali (San Lorenzo), per la nobiltà delle forme eroiche del Montorsoli e del Francavilla e per le castigate forme del Giambologna (R. Università). Bernardino di Novo, i Della Porta, e i Carlone ornarono chiese e palazzi con austerità classica.
Il Seicento è il secolo dei pittori genovesi: sussiste con l'influenza toscana, lombarda, bolognese, quella fiamminga, presente in tutto il Cinquecento e specialmente nota, nei primi decennî del secolo successivo, per il soggiorno di Rubens, di Van Dyck e del cenacolo fiammingo. Lo Scorza, l'Ansaldo, Bernardo Strozzi, G.A. De Ferrari, il Fiasella, il Borzone, Valerio Castello, i Carlone, l'Assereto, il Carbone, il Langetti sono le personalità più spiccate di questa scuola che felicemente si diffuse in Lombardia e nel Veneto e diede, sulla fine del secolo, il Tavella, il Mulinaretto e il grande Alessandro Magnasco. Le ville dei dintorni si arricchirono di graziosi giardini e parchi e seguirono agli scultori cinquecenteschi i fantasiosi Schiaffino, il Parodi, che avevano appreso dall'Algardi e dal Bernini e dalle opere del Puget, eseguite per la chiesa di Carignano e dell'Albergo dei poveri e per la cappella dei Lomellini, eleganti e agitati movimenti di forme. La sistemazione della città aveva interessato gli architetti del Seicento: e la Via Balbi è opera di quel tempo. I palazzi e le case sono costruite con i concetti del Lurago; e Bartolomeo Bianco, con la sua peculiare sapienza scenografica, edificava il Palazzo dell'università, il Palazzo Balbi, il Palazzo Durazzo Pallavicini; lo Scaniglia l'Albergo dei poveri, il Corradi il Palazzo Rosso, il Fontana il Palazzo Durazzo, oggi Reale.
Nei primi decennî del Settecento la grazia degli arcadi sopravvisse nelle ultime generazioni della grande scuola genovese: seguirono poi raccoglimento, austerità di pensiero, castigatezza accademica di forme. L'Accademia ligustica fu istituita nel 1750, quando la riforma del Mengs si stava diffondendo e il noto artista era stato chiamato per succedere nella decorazione del palazzo ducale a Domenico Tiepolo e al Solimene. L'arte pittorica con Lorenzo De Ferrari, il Boni, ecc., era decaduta, ma sulla fine del secolo difesero con nobiltà la fama della scuola ligure il David, il Baratta, il Banchero. Anche la scultura si risollevò per opera di Nicolò Traverso.
Le grandi opere di architettura del sec. XVIII non sono molte: il francese Langlade unì con un ponte le colline di Sarzano e di Carignano; fu tracciato l'allacciamento fra la Via Balbi e la Via Nuovissima (Via Cairoli) e Gregorio Petondi sistemò il Palazzo Balbi Andrea Orsolino ampliò l'ospedale di Pammatone, il Wailly ornò il Palazzo Serra di Via Garibaldi, il Tagliafichi costruì il Palazzo dello Scoglietto e a Sampierdarena il palazzo ora occupato dalla Società Ansaldo; Simone Cantone rifece la facciata del palazzo ducale. Il Tagliafichi aveva studiato il disegno di molti palazzi e del nuovo teatro: gli succedette nel sec. XIX Carlo Barabino, che sistemò la Piazza De Ferrari, la Via Giulia, la Piazza Colombo e a lui si debbono le costruzioni d'importanti edifici cittadini: il Teatro Carlo Felice, il Palazzo dell'Accademia, ecc., la sistemazione dell'Acquasola e il primitivo progetto del Camposanto.
La stazione di Porta Principe è del 1853; della seconda metà del secolo sono i palazzi della piazza Acquaverde e il grandioso monumento a Cristoforo Colombo, opera di M. Canzio, P. Freccia, G. Gaggini, S. Varni, A. Costoli, E. Santarelli, G.B. Cevasco, S. Revelli. Il cimitero di Staglieno che, ideato dal Barabino, fu poi studiato ed eseguito da G.B. Resasco, raccoglie le migliori espressioni della scultura ligure: del Varni, del Cevasco, del Monteverde, del Villa, del Grasso, autore della tomba di Giuseppe Mazzini, del De Albertis, del Baroni, del Galletti, del Messina, ecc., e opere significative dei più grandi statuarî italiani.
L'arte della pittura passò dal classicismo al romanticismo accademico, fu poi influenzata dal verismo piemontese e dall'impressionismo toscano. Eccelse nella pittura storica Nicolò Barabino.
I seguaci di Carlo Barabino diedero alla città i bei palazzi della Via Carlo Felice, della Via S. Lorenzo e della Piazza Umberto I; ma la nuova città dopo il 1870 assunse l'aspetto borghese delle città italiane e soltanto oggi si rinnova.
Sulla fine del secolo fra le due colline dell'Acquasola e di Carignano, si voltò l'ardito Ponte Monumentale e fu tracciata la Via XX Settembre. Sorsero in Genova nel sec. XIX i monumenti a Garibaldi, a Vittorio Emanuele II, a Mazzini e al duca di Galliera.
Dopo il 1925 fu costruito il grandioso Arco trionfale ai caduti e alla Vittoria, opera del Piacentini, del Dazzi, del De Albertis, del Prini; e furono aperte le Gallerie Regina Elena, Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini. Dei comuni annessi a Genova nel 1926, Sampierdarena ricca di chiese romaniche, divenne nel sec. XVI sede di bellissime ville. I comuni della Riviera di Ponente, a causa delle vie di comunicazione con la Francia, il Piemonte e la Lombardia sono ricchi di cose d'arte dei secoli XIII, XVI e XVIII, intimamente legate al movimento artistico e culturale genovese.
V. Tavv. LXXXI-XCVI.
Musica.
In Genova, fin dall'alto Medioevo ogni solennità della Chiesa ebbe sempre degna corona di inni. Alla fine del Medioevo l'aristocrazia accoglie i suoi trovieri, mentre il popolo si entusiasma alle voci dei laudesi. Nel 1178 l'arcivescovo Ugo della Volta emana severe disposizioni per il decoro del canto nella cattedrale. Eguale vigilanza dimostrano i successori e monsignor Percivalle Fieschi, già segretario di Iacopo da Varazze, lega nel 1313 alcuni beni perché il duomo continui a tenere insegnanti di canto per i fanciulli. Nel 1434 il doge Tommaso Fregoso, volendo rendere più splendida la Cappella ducale, richiede musici a Ferrara, allora convegno di cantori e di strumentisti famosi. Nel 1477 Franchino Gaffurio è cantore e maestro nella Cappella degli Adorno, e vediamo i musicisti del tempo studiare i suoi importanti trattati. L'organaro veneziano G. di Matteo Torriani viene chiamato intanto a costruire due organi in S. Lorenzo, la cui cantoria vantava allora un doppio coro e abili organisti. Infine nel sec. XV, si vuole per l'ispirazione di una santa genovese, Caterina Fieschi-Adorno, e, certo, per l'attività di un benefattore, E. Vernazza, sorse l'oratorio del Divino Amore, cui un papa ligure, Giulio II, nel 1512 diede la definitiva approvazione. Dal 1540 al 1545 F. de Monte è precettore presso la nobile famiglia Pinelli, e avvia all'arte musicale G. Battista de Gherardis e G. Battista de la Gostena. Il primo, nato verso il 1530, fu maestro di cappella in Vicenza, poi alle corti di Dresda e di Praga; scrisse un libro di messe (1582) e libri di mottetti, di madrigali, il Buch deutsche Lieder, ecc., e morì a Praga il 15 giugno 1587. Il secondo fu cantore e direttore in S. Lorenzo, compose madrigali, canzonette, mottetti e musica per liuto. Nel 1565 Battista Grimaldi fondò una scuola di canto, assai reputata, base delle successive istituzioni.
All'inizio del sec. XVII troviamo una bella schiera di rinomati musicisti genovesi: Simone Molinaro, direttore in S. Lorenzo, di cui O. Chilesotti ha trascritto e pubblicato nella raccolta di Rarità musicali (Milano) alcune pregevoli intavolature di liuto; B. Borlasca autore di Canzonette a 3 voci, con chitarrone e altri strumenti; G. B. Rossi compositore di messe e autore del trattato Organo de cantori, ecc. (1618); T. Sanguinetti, geniale costruttore di canoni enigmatici; C. Cocchi, autore degli Armonici concentus (1626), di una messa a 5 voci, di un Te Deum (1627), della Ghirlanda sacra (1632), ecc.; P. Reggio, liutista e, fra gli altri, G. P. Costa, che scrisse cantate su parole del genovese A. Passano. Al principio del '700 il teatro di S. Agostino, con esecuzioni d'opere e di concerti, accosta all'arte anche il popolo. Alla fine del secolo, si diffonde nel mondo la fama di Niccolò Paganini (v.), del quale celebre violinista furono maestri il padre Antonio, il violinista Servetto dell'orchestra del teatro, G. Costa, maestro di cappella della cattedrale. Il 7 aprile 1828, con Bianca e Fernando di Bellini, s'inaugura il Teatro Carlo Felice. Angelo Mariani ne tenne la direzione dal 1852 al 1872, portando la rinomanza dei suoi spettacoli oltre la regione. Per iniziativa di A. Costa, nel gennaio del 1830 viene inaugurata la Scuola gratuita di canto, da cui deriva l'attuale Conservatorio. Alla morte del Costa avvenuta il 9 gennaio 1849, la detta scuola passa al comune e prende il nome di Civico Istituto di musica N. Paganini. L'organista G. Bossola istituisce in seguito una Società corale, organizza audizioni di musica da camera nella sala Sivori e prepara inoltre stagioni liriche nei teatri che l'impresario Chiarella veniva costruendo: Paganini, Margherita e Politeama. L'Italia del Risorgimento deve a Genova gl'inni di Mameli e di Garibaldi: il primo è infatti opera di Goffredo Mameli e del musicista Michele Novaro, nati ambedue a Genova; il secondo di Luigi Mercantini, nato nelle Marche ma ospite di Genova che lo accolse profugo, e di Alessio Olivieri genovese, capobanda della brigata Savoia.
Attualmente, oltre al Conservatorio, vivono cinque scuole private: l'Istituto G. Verdi, l'Istituto Sivori, i licei Zanella, Mascagni e Gasperini. Il teatro Carlo Felice e le due società di concerti, la Giovane orchestra genovese e la Società del quartetto, svolgono un'attività assai notevole, mentre l'Associazione di S. Cecilia tende a riportare le Cappelle genovesi all'antico splendore.
Letteratura dialettale.
Sul dialetto, v. liguria: Dialetti.
L'istintiva praticità che caratterizza i Genovesi, e li ha fatti considerare come il "momento economico" della vita spirituale italiana, investe anche le loro manifestazioni letterarie, dal cosiddetto Anonimo fino all'età moderna.
L'Anonimo genovese (fine del sec. XIII-inizî del XIV) ha lasciato componimenti poetici che si riducono a sermoni religiosi, morali, didattici, qua e là interrotti e avvivati da impeti di patriottismo municipale e da segni e rivelazioni di una consumata esperienza della vita pratica e mercantile. Sono essi un monumento notevolissimo della nostra prima letteratura, e, quanto a vigoria di vena, si sollevano su quelli degli altri poeti coevi dell'Italia superiore. Nel sec. XVI, in cui la musa genovese subisce l'influsso della poesia in lingua italiana, spicca Paolo Foglietta, il primo inventore del genovese Parnaso", e più per le poesie civili e patriottiche che non per quelle di carattere amoroso e occasionale (si v. l'antologia cinquecentesca di Rime diverse, in lingua genovese, molto dilettevoli, ecc., Torino 1612). Il poeta maggiore del sec. XVII è Gian Giacomo Cavallo (1590-1658?), autore de Ra Çittara Zeneize (1635) e che godette fama in tutta Italia. Il Settecento ha, nel secondo cinquantennio, Stefano De Franchi, che collaborò alla traduzione della Gerusalemme Liberata e riprodusse in genovese, fra altro, commedie di Molière: Ro Chitarrin o sø strofoggi dra Muza è del 1772. Rappresentante cospicuo di alcuni tratti tipici della vecchia anima genovese è Martin Piaggio (1774-1853): le sue Poesie complete sono state pubblicate dai fratelli Pagano, in varie edizioni; si aggiunga Martino Piaggio (Sciû Regin-na): Chittarin zeneize, poesie inedite, a cura di A.G. Barrili (Genova, s. a.), di spirito pratico, casalingo e borghese, con rime alla buona. Il Piaggio forma, col Bacigalupo e il Malinverni, la triade classica moderna dei poeti dialettali. Niccolò Bacigalupo (1838-1904) più profondo e fine del Piaggio, tradusse l'Eneide di Virgilio e le Odi ed Epodi di Orazio, scrisse Loritto o ô papagallo de Môneghe (imitazione del Vert-vert del Gresset), Montecatini e so aegue e i so contorni, O canto da rumenta, inni e commedie. Di Carlo Malinverni (1855-1922) vanno ricordate Due brocche de viovetta e Bolle de savon. Tra i più giovani, riscuote plauso Edoardo Firpo (nato nel 1889) con la bella raccolta dal titolo O grillo cantadö. L'organo del movimento letterario in dialetto è A Compagna, che si pubblica dal 1928.
Istituti di cultura e musei.
Università e scuole superiori. - La vera Università con carattere pubblico sorse dopo l'estinzione della Compagnia di Gesù nel 1773 ed ebbe sede nel collegio massimo degli estinti gesuiti; ma fin dal sec. XV papa Sisto IV e l'imperatore Massimiliano avevano concesso ai Collegi dei giudici e dei medici la facoltà di fare gli esami e conferire i gradi accademici. Riordinata più volte durante l'età della repubblica ligure e la napoleonica, per deliberazione del Congresso di Vienna fu equiparata a quella di Torino. Passata attraverso varie vicende e classificazioni, per il r. decreto-legge 30 settembre 1930 fu conservata tra le più importanti di tipo A. La costruzione della città universitaria a S. Martino d'Albaro e il degno collocamento di scuole e uffici nel vecchio palazzo gesuitico di Via Balbi l'hanno interamente rinnovata. La convenzione 1931 con la R. Scuola d' ingegneria navale istituita nel 1871, e con gli enti politici amministrativi economici delle tre provincie liguri, ha permesso d'istituire accanto alle antiche lauree conferite dai due istituti anche le lauree in ingegneria civile, ingegneria industriale e chimica tecnica.
Molto florente il R. Istituto superiore di scienze economiche e commerciali sorto come R. Scuola superiore di applicazione per gli studî commerciali nel 1884 col concorso del comune, delle provincie e della Camera di commercio (statuto approvato con r. decr. 21 marzo 1884).
Istituti di cultura. - Società lingustìca di scienze e lettere. - Ha sede presso la R. Università ed esplica notevole attività scientifica; pubblica ogni anno un volume di Atti a fascicoli trimestrali; è sorta nel 1922 dalla trasformazione della Società ligustica di scienze naturali e geografiche (dal 1890, 32 voll. di Atti) che a sua volta riprendeva la tradizione dell'Istituto nazionale creato nel 1798 e divenuto nel 1805 Accademia imperiale di scienze e belle lettere durato fino al 1814 (3 voll. di Memorie) e che si tentò invano di far rivivere nel 1845.
Società ligure di storia patria. - Fondata nel 1858, ha portato fondamentale contributo agli studî storici della regione coi 60 volumi dei suoi Atti, e con pubblicazioni sussidiarie. Ha incominciato anche una Serie del Risorgimento; possiede una ricca biblioteca storica.
Accademia medica. - Si può considerare la continuazione della Società medica di emulazione, di 24 membri, durata dal 1801 al 1814 (4 voll. di Memorie), che si tentò invano di far rivivere nel 1845 come Società di scienze mediche, fisiche e naturali. Risorta come Accademia medico-chirurgica nel 1855, divenne R. Accademia medica nel 1885. Pubblicò dapprima un Bollettino, poi dal 1887 al 1892 le Memorie, quindi ancora il bollettino, ora intitolato L'Accademia medica.
Accademia ligustica di belle arti. - Istituita nel 1751 da un gruppo di patrizî, ora ente morale. Gli accademici sono divisi nelle classi di pittori, scultori, architetti, ornatisti e scrittori d'arte. Vi s'insegnano le stesse materie delle accademie regie. Possiede una pinacoteca di arte genovese.
Società di letture e di conversazioni scientifiche. - Fondata da G. Ramorino (1866), cominciò nel 1870 la pubblicazione di un periodico Effemeridi, poi Giornale della società di letture, divenuto dal 1900 al 1917 Rivista Ligure. Il periodico non si pubblica più; ma la società è sempre fiorente.
Istituto idrografico della R. Marina. - Fondato nel 1872 come Ufficio centrale idrografico della R. Marina sotto la direzione del capitano di fregata G.B. Magnaghi, valoroso marinaio e valente scienziato, assunse il nome attuale nel 1897 per opera del direttore del tempo, capitano di fregata Leonardi-Cattolica. Sorge sulle alture di Oregina in luogo appartato e tranquillo e ha per obiettivo principale gli studî e la preparazione del materiale relativo all'idrografia marittima e alla navigazione. Del tutto autonomo, possiede un complesso di laboratorî e di officine (tipografia, officina meccanica, gabinetto fotografico, ufficio cronometrico) dove può essere eseguito per intero il lavoro necessario specialmente per la cartografia, e una ricca biblioteca sugli argomenti che si riferiscono alla marina mondiale, cosicché le sue pubblicazioni di carte e di studî idrografici possono competere con le migliori dell'estero.
Biblioteche. - R. Biblioteca universitaria. - Ebbe origine nel secolo XVIII dalla libreria del collegio dei Gesuiti. Ha una collezione di oltre 15 mila autografi, duemila libri rari e manoscritti, una collezione di 10 mila opere e una raccolta di 6 mila volumi donati dalla Repubblica Argentina come primo nucleo di pubblicazioni riguardanti i rapporti intellettuali ed economici fra l'Italia e l'Argentina. È in allestimento il nuovo locale attiguo all'Università, nell'antica chiesa di S. Gerolamo.
Biblioteca civica Berio. - Fondata dall'abate Vespasiano Berio nella seconda metà del sec. XVIII, offerta dagli eredi al re Vittorio Emanuele I nel 1817 e da lui ceduta alla città, ha sede nel palazzo dell'Accademia. Di carattere generale, ha una preziosa raccolta colombiana e un'importante collezione di libri e manoscritti di materia ligure.
Altre biblioteche. - Sono municipalizzate anche la Biblioteca Brignole Sale De-Ferrari, donata al Comune dagli eredi del marchese Antonio Brignole Sale, importante specialmente per la storia della repubblica democratica e per il risorgimento considerato dal punto di vista cattolico, la Biblioteca Lercari, di carattere popolare e generale, e la Biblioteca circolante Mazzini. Sono anche aperte al pubblico: la Franzoniana, che ebbe origine dall'abate P. G. Franzone (1708-1778) e quella della Missione Urbana (1739), dotata di una notevole raccolta di codici.
Museo civico del Risorgimento e della guerra. - Ricco di ricordi e cimelî, occupa l'ultimo piano del Palazzo Bianco. Ne è deciso il trasporto nella casa di Mazzini destinata a passare al comune che vi creerà, oltre al Museo e alla Biblioteca del Risorgimento, l'Istituto mazziniano.
Archivio di stato. - Dal 1816 ha sede nel Palazzo criminale. È diviso in tre grandi sezioni: la Notarile che comincia con i rogiti notarili del sec. XII, i più antichi che si conoscano, e finisce col sec. XVIII; quella di S. Giorgio coi documenti del celebre Banco (secoli XV-XIX); la Governativa con gli atti dell'antico Comune e della Republica di Genova, e con l'Archivio di Corsica. Complessivamente comprende oltre 120 mila registri, buste e filze dal sec. IX al XIX.
Gallerie e musei. - Galleria civica di Palazzo Rosso e Museo Brignole. - Occupa l'ultimo piano del palazzo omonimo. La galleria fu radunata nel sec. XVII e poi notevolmente aumentata nel XIX. Le sale, decorate dai migliori affreschisti genovesi del Seicento, conservano opere del Van Dyck, Dürer, Holbein, Teniers, Veronese, Licinio, Strozzi, Bordone, Piola, Guercino, ecc. È stata legata alla città dalla duchessa di Galliera nel 1874. Il museo Brignole, ordinato nel 1928, raccoglie mobili e documenti già appartenuti alla famiglia e la ricca collezione degli abiti e dei mobili genovesi dei secoli XVIII e XIX.
Pinacoteca civica di Palazzo Bianco. - Occupa il piano terreno e il primo piano del palazzo omonimo che è stato legato alla città dalla duchessa di Galliera nel 1884. Raccoglie pregevoli opere di scultura pisana e ligure-lombarda dei secoli XIV-XVI e una notevolissima collezione di arte fiamminga, tedesca, francese, spagnola e, soprattutto, di pittori genovesi dei secoli XIV, XV, XVI, XVII, XVIII. All'ultimo piano è raccolto il Museo civico del Risorgimento e della guerra che sarà prossimamente trasferito alla casa di Giuseppe Mazzini in Via Lomellini.
Museo civico archeologico ligure. - È raccolto nella palazzina della villetta Di Negro. Vi si trovano le collezioni preistoriche liguri provenienti dalle caverne della Riviera di ponente, i vasi, le armi e le suppellettili del sec. V e VI a. C. rinvenuti a Genova, le collezioni di oggetti provenienti dalla Liguria romana (Libarna, Ventimiglia, Tortona, Luni, ecc.) e la raccolta di materiale archeologico generale donata a Genova nel 1866 dal principe Odone. Il museo è stato ordinato nel 1928.
Museo civico di architettura ligure. - Occupa l'ex-tempio di S. Agostino recentemente restaurato. Raccoglie tutti i marmi provenienti dalle chiese e palazzi demoliti a Genova nei secoli scorsi e i più caratteristici esempî dell'architettura ligure nei varî tempi.
Galleria civica d'arte moderna Principe Odone. - È stata ordinata nel 1928 nel palazzo della Villa Serra a Nervi. Raccoglie la migliore produzione dei pittori genovesi del sec. XIX e numerose e pregevoli opere di artisti italiani e stranieri contemporanei.
Un'importante raccolta di quadri è anche nel Palazzo Reale, già Durazzo, che conserva ancora l'ammobiliamento antico.
Museo civico navale. - Costituito nel 1908 da una prima raccolta municipale accresciuta poi con doni del cap. De Albertis e specialmente dell'ing. Garelli, ordinata prima nella villa Cambiaso (Scuola navale), ha dal 1928 degna sede nella villa di Andrea Doria a Pegli, già abitazione estiva dell'ammiraglio. Raccoglie cimelî della storia marinara di Genova, attraverso varie rappresentazioni dello sviluppo storico navale, dalle riproduzioni delle caravelle di Colombo alle odierne costruzioni.
Museo civico di storia genovese e di etnografia ligure. - Vi sono radunati una mostra di etnografia ligure, i ritratti dei dogi di Genova e altri caratteristici ricordi della vecchia Genova. Ha attualmente sede nel palazzo Durazzo Pallavicini in Pegli. Ma è in progetto la costituzione, nel Palazzo Ducale tornato in possesso del comune, di un museo storico cittadino con ricostruzione di ambienti e con la raccolta di quanto riguarda la storia della vecchia Repubblica.
Museo civico di storia naturale. - Fondato nel 1873 e intitolato al nome dell'insigne naturalista Giacomo Doria (v.) occupa un grande edificio a tre piani nella Piazza della Vittoria. Contiene assai ricche collezioni di animali indigeni ed esotici con esemplari anche rarissimi. La raccolta entomologica generale, specialmente per i coleotteri, può gareggiare con quelle dei maggiori musei e per alcune regioni, come la nuova Guinea e le isole vicine, può dirsi unica. Importanti anche le collezioni mineralogiche e gli erbarî. Il museo rappresenta una delle maggiori istituzioni scientifiche cittadine. Dal 1870 ha pubblicato per molti anni gli Annali del Museo Civico di storia naturale, rivolti in gran parte all'illustrazione del materiale posseduto.
Castello D'Albertis. - Legato al comune nel 1932 dal cap. Enrico A. D'Albertis raccoglie pregevoli ricordi di viaggio del capitano, una ricca collezioni di armi antiche ed esotiche, la collezione etnografica raccolta dall'esploratore Luigi Maria D'Albertis e quella archeologica peruviana ed etnografica americana già di proprietà del comune.
Museo giapponese Edoardo Chiossone. - È nel palazzo dell'Accademia ligustica di belle arti. È un'importante raccolta di pitture, stoffe, armature e altri oggetti cinesi e giapponesi legati alla città dall'incisore Edoardo Chiossone (v.). È aperto al pubblico dal 1905.
Arte della stampa.
È attestata l'operosità in Genova di un Antonio del fu Andrea Mathia, di Anversa, associato con Lamberto del fu Lorenzo di Delft prima e con Baldassarre Cordero poi, negli anni dal 1471 al 1473; ma nessuna edizione è conosciuta col loro nome e neppure con la sola indicazione del luogo, mentre a questa officina viene attribuita la stampa del libretto La raxone de la Pasca e de la Luna e le feste (di cui si conosce il solo esemplare della biblioteca comunale di Bergamo) e una Oratio ad Sixtum IV di Bernardo Giustiniani. In questo stesso tempo dové giungere a Genova Mattia Moravo di Olmütz, che nel 1474 pubblicò in Genova, in società con Michele De Monacho, la Summa Pisanella di Nicolò da Osimo, primo libro conosciuto sicuramente stampato a Genova (un esemplare nella biblioteca di quella università). Un'altra società fu conclusa nel 1476 fra i patrizî Tommaso Centurione, Giuliano Spinola e Battista Cavallo, frate carmelitano, per la stampa e la vendita di 300 breviarî, e un'edizione del detto Cavallo "in domo B. Mariae Cruciferorum" si conserva nella Biblioteca civica di Genova. Nel 1516 fu pubblicato un Salterio in cinque lingue (araba, greca, ebraica, caldea, latina) curato da Agostino Giustiniani, e stampato da Pietro Paolo Porro: esso è celebre non solo per essere il primo saggio di una pubblicazione poliglotta, ma per il passo su Cristoforo Colombo, che si legge a carta 25, in forma di glossa al salmo Coeli enarrant gloriam Dei. Più tardi Antonio Bellone, Girolamo Bartoli e Giuseppe Pavoni impressero libri; poi, a partire dal sec. XVII, la decadenza fu completa.
La conferenza di Genova.
La conferenza di Genova (10 aprile-19 maggio 1922) fu convocata dal governo italiano, anche a nome dei governi di Francia, Inghilterra, Belgio e Giappone, in conformità di una decisione presa nello stesso anno durante la conferenza di Cannes (v.). Doveva avere come scopo di mettere la pace su basi solide e di preparare la ricostruzione economica dell'Europa. Ma R. Poincaré, succeduto nel frattempo ad A. Briand come capo del governo francese, la vedeva con diffidenza: in un colloquio, avuto a Boulogne il 25 febbraio con D. Lloyd George, primo ministro britannico, ottenne che a Genova non si discutessero né i trattati di pace né le riparazioni e che una commissione di periti delle cinque potenze invitanti preparasse le proposte per la ripresa delle relazioni politiche ed economiche con la Russia, che era il compito principale della conferenza.
Fu, dopo la guerra mondiale, la prima riunione a cui, oltre il Giappone, partecipassero su un piede di assoluta eguaglianza tutti gli stati europei, meno la Turchia, perché non aveva concluso ancora la pace con l'Intesa. Mentre le maggiori potenze europee ebbero come principali delegati i capi dei governi e i ministri degli Affari esteri (Italia: L. Facta e C. Schanzer; Inghilterra: Lloyd George; Germania: Wirth e W. Rathenau; Russia: Čičerin), Poincaré preferì non parteciparvi e fece rappresentare la Francia da Barthou. La conferenza aveva da poco cominciato i suoi lavori quando apprese che i rappresentanti tedeschi e sovietici avevano concluso a Rapallo (16 aprile) un trattato, il quale stabiliva la ripresa delle relazioni diplomatiche e consolari fra i due stati e concretava le basi per la liquidazione delle vertenze, pendenti fra essi dall'epoca della guerra in poi. Ciò la turbò pronfondamente, lasciandone subito intravedere l'insuccesso. Ma Lloyd George fece di tutto per salvare le apparenze. Le potenze dell'Intesa e della Piccola intesa inviarono una protesta alla Germania, la quale fu esclusa dalle trattative circa la questione russa, che essa aveva già risolto separatamente. Tali trattative si trascinarono a lungo senza progredire, perché i delegati sovietici facevano un cavilloso ostruzionismo. Finalmente, per uscire dal ginepraio fu deciso che una commissione, composta dei varî stati europei, s'incontrasse il 26 giugno all'Aia con una commissione russa per continuare i negoziati circa i debiti, i crediti e la proprietà privata. In attesa che queste commissioni assolvessero il loro compito, i varî governi s'impegnavano ad astenersi, fino a quattro mesi dopo la fine della conferenza dell'Aia, da ogni aggressione contro i territorî reciproci sulla base dello statu quo, da ogni atto di propaganda sovversiva e da ogni intromissione nelle cose interne degli altri stati. I rappresentanti della Francia, del Belgio e della Norvegia non si pronunciarono, riservando le decisioni dei rispettivi governi. La Germania non fu ammessa ad aderire alla deliberazione presa. Gli Stati Uniti, invitati a partecipare alla conferenza dell'Aia, declinarono come avevano rifiutato di farsi rappresentare a quella di Genova. La conferenza si occupò anche di questioni economiche e finanziarie e dei trasporti, ma giunse soltanto a enunciazioni teoriche. Tentativi fatti da varî stati per sollevare questioni politiche non comprese nel suo programma rimasero senza risultato.
La S. Sede non partecipò ufficialmente alla conferenza, ma il papa, con lettera del 29 aprile, incaricò il cardinale Gasparri, segretario di stato, di trasmettere ai governi con cui era in relazione i suoi voti per il successo della riunione. Mandò poi a Genova mons. Pizzardo, sostituto per gli affari ecclesiastici straordinarî, per trattare coi delegati sovietici circa un accordo per la protezione dei cattolici in Russia. Falliti tali approcci, chiese alla conferenza di comprendere nell'eventuale accordo con la Russia clausole atte a garantire la libertà di coscienza e l'esercizio dei culti.
Il dominio coloniale.
La concessione di strade e fondachi in Antiochia, con larghi privilegi commerciali, fatta da Boemondo di Taranto alla spedizione genovese che lo aveva aiutato nel celebre assedio fra l'ottobre 1097 e il giugno 1098, costituisce il primo possesso e il preannuncio dell'espansione coloniale genovese. Subito dopo l'aiuto che la flotta armata dal Comune nel 1100 reca a Baldovino re di Gerusalemme nell'acquisto di Cesarea e di altre città costiere, che assicurano le comunicazioni col mare, condizione di esistenza al nuovo regno, è compensato con la terza parte di Cesarea, di Arsuf, di Acri, con un quartiere in Gerusalemme e in Giaffa. Di colpo, Genova prende il primo posto nell'attività delle repubbliche italiane in Levante: qui è il vero principio del suo impero coloniale. In pochi anni si moltiplicano le spedizioni in Terra Santa; ai dominî iniziali si aggiungono un quartiere a Laodicea, a Tolemaide, a Tiro, un terzo della città di Tripoli. E Tiro rimane centro principale e sede del console genovese in Siria anche dopo la caduta di Gerusalemme e la terza crociata.
Queste colonie, come in genere avviene nel Medioevo, hanno carattere quasi esclusivamente commerciale; rappresentano lo stabilirsi di un gruppo di mercanti per lo sfruttamento di prodotti locali o di quelli che affluiscono dall'interno o per mare. Sorgono, almeno in principio, con la cessione fatta dai signori locali di una parte, per lo più la metà o un terzo, di una città con forni, bagni, fondachi, chiese e strade. Nei luoghi marittimi si ha cura di ottenere una banchina per l'approdo e uno spazio per tenervi il mercato ed esercitarvi liberamente le operazioni di commercio. Indipendenti dai governi locali, amministrate da funzionarî proprî eletti dai coloni o dalla madre patria, e chiamati generalmente visconti o consoli o viceconsoli, queste colonie costituiscono tanti lembi di terra ligure, sempre in contatto con la madre patria a mezzo delle infinite galee che solcano il mare. Qualche volta però, per ragioni fiscali e di difesa, sono cedute a famiglie feudali: noto soprattutto il caso di Gibeletto, al confine tra il regno di Gerusalemme e la contea di Tripoli, per lungo tempo dominio degli Embriaci.
Prodotte dalle crociate e dal movimento commerciale che ne è conseguenza, nella ricerca dei maggiori centri di produzione e di scambio delle merci più preziose, le colonie maggiori nel sec. XII sono naturalmente sulle coste di Siria, ove attirano una parte notevole del commercio carovaniero dell'Asia centrale e orientale, fonte d'immensi lucri ma anche di rivalità ferocissime con le repubbliche concorrenti, Pisa e Venezia. Ad Antiochia, la città maggiore della regione, nel porto di San Simeone denso di traffico, i Genovesi imbarcano i ricchi prodotti dell'interno e delle industrie avanzate: armi, broccati d'oro, sete, mussole, essenze, indaco e porpora; a Laodicea trovano droghe e vini, a Giaffa vetrerie e vasellame, ad Acri perle, oro e pesanti sete preziose, a Tiro e a Beirut la canna da zucchero. E intanto non trascurano il bacino occidentale del Mediterraneo, che l'acquisto (1146) di Almeria e di Tortosa nella Spagna porta a un vero dominio anche politico di breve durata e di carattere diverso dalle colonie orientali, a cui sono più affini invece quelle sui porti africani del Mediterraneo, specialmente Bugia e Ceuta. L'avanzarsi dei Turchi e la rovina degli stati cristiani di Siria portano seco la rovina delle colonie siriache, alla metà del sec. XIII tutte perdute o ridotte a meschina importanza. Il movimento si sposta allora più a settentrione lungo le coste dell'Asia Minore e verso il punto d'incrocio delle maggiori vie commerciali tra l'Oriente e l'Occidente; la lotta si svolge perciò per il predominio a Costantinopoli e per il passaggio alle coste del Mar Nero ove confluiscono le più importanti vie dall'Oriente. La partita, che sembra perduta dopo la vittoria veneziana con la quarta crociata, è riguadagnata col ristabilimento dell'impero greco e col trattato di Ninfeo nel 1261, per cui Genova, che aveva avuto un suo quartiere in Costantinopoli causa d'infinite questioni con l'impero, ottiene una vasta terra situata di là dal Corno d'oro, sul Bosforo, la quale, tosto recinta di mura, vede sorgere una popolosa città, ricca di logge, di palazzi e di chiese: Pera o Galata, baluardo che assicura il dominio del Bosforo e il passaggio al Mar Nero, anello centrale della catena di possessi e di colonie che legano la Dominante sino sul Mar d'Azov. Per il trattato di Ninfeo, e per i rapporti a Tana ora amichevoli ora ostili coi Paleologi, a Scio, Samo, Nicaria, Negroponte, Metelino, Lemno e per qualche tempo a Candia si stabiliscono colonie commerciali e consolati. Ammiragli o avventurieri hanno in feudo isole e possessi: così Andrea Moresco ottiene dall'imperatore Andronico l'isola di Scarpanto, perduta però al principio del sec. XIV. Più fortunati gli Zaccaria nel possesso di Focea, posta all'ingresso del porto di Smirne e celebre per la ricchissima produzione dell'allume; a loro succedono i Cattaneo, che fondano anche Focea Nuova e ne sono spogliati da Andronico III (1330). Questi riacquista anche l'isola di Scio, occupata nel 1304 da Benedetto Zaccaria e passata al fratello Martino, possesso importantissimo per i ricchi prodotti e specialmente per il mastice, del quale è allora solo luogo di produzione. Tanto Scio quanto le Focee sono però riconquistate dalla spedizione (1346) capitanata da Simone Vignoso e armata da un gruppo di capitalisti, costituenti una società, o Maona, i cui aderenti assumono il nome di Giustiniani, che possiede e amministra l'isola fino al 1561. Le Focee sono perdute invece sin dal 1456. Nel 1355 Francesco Gattilusio ottiene dall'imperatore Giovanni V l'isola di Lesbo (rimasta in possesso della sua famiglia fino al 1462) e i suoi successori nella prima metà del secolo XV hanno anche Lemno e Taso, mentre Niccolò, fratello di Francesco, intorno al 1384 per cessione degli stessi abitanti si impadronisce di Eno sulle coste della Tracia, che accentra il commercio tra questa regione e l'Arcipelago. Il figlio di lui avrà a titolo di feudo le isole di Imbro e Samotracia e così le maggiori isole del mare Egeo sono in possesso di principi genovesi.
Di grande importanza anche la colonia di Cipro. Qui da lungo tempo Genova ha stazioni commerciali nei maggiori centri, Nicosia, Famagosta, Limisso e Baffo, causa di continue contese con Venezia; nel 1373 un'altra Maona s'impadronisce di Famagosta, e ne tiene a lungo il dominio, cedendolo poi al Banco di S. Giorgio, che lo conserva sino al 1464.
Nella caratteristica catena formata dalle colonie liguri, Scio e Caffa costituiscono i due anelli fondamentali e più saldi, uniti insieme dal possesso di Galata, che rende libere le comunicazioni col Mar Nero. La penisola di Crimea diventa il maggiore centro della colonizzazione ligure, di qui estesa a tutte le coste pontiche. Base principale Caffa (v.), la perla del Mar Nero. Un ufficio speciale detto Gazaria, dal nome dato alla Crimea, costituito nel 1341, dirige da Genova, con Caffa, tutte le colonie sul Mar Nero cui è riconosciuta però, con un console e due consigli, una larga autonomia amministrativa. Tutte le altre sparse nei mari d'Oriente dipendono invece dal console e dai consigli di Galata; al principio del sec. XV sotto il dogato di Giorgio Adorno le due amministrazioni però sono fuse in una sola. Accanto a Caffa (Teodosia), in Crimea sono stazioni principali Soldaia (Soudak) e Cembalo (Balaklava), dove avanzi di castelli, di torri e di mura con iscrizioni e stemmi ricordano ancora l'opera genovese e nomi di luoghi e termini marinari e commerciali travisati nelle lingue locali conservano traccia dell'azione e dell'influenza esercitata da quella colonizzazione. Dalla Crimea le colonie si estendono a tutte le coste del Mar Nero: a Trebisonda, una delle porte maggiori verso l'Asia centrale, i Genovesi hanno un console alla fine del XIII e un proprio quartiere intorno al 1300, e così a Simisso (Samsun), Sinope, Amastri (Amasra) sulle coste meridionali del Ponto. Altre colonie sono più a Nord, Licostomo alla bocca settentrionale del Danubio e Moncastro (Akkermann) sul Dnestr, mentre isolati, avventurosi pionieri possiedono spesso castelli e fortilizî a tutela e sicurezza delle strade: così Merualdo Spinola presso Cherson e i fratelli Senarega presso il fiume Ilice, oggi Aleshki. Ultima sentinella avanzata verso l'Oriente, Tana (Azov), ove più volte i coloni rifabbricano le mura del loro quartiere, fortezza contro i numerosi nemici. Anche qui, come nell'Egeo e nel Mar Nero, alcune località vicine e minori appartengono non alla città e ai suoi rappresentanti ma a privati cittadini, per lo più nobili, come Mastrega divenuta signoria dei Ghisolfi e il castello di Bachar posseduto da Ilario Demarini.
Dalle rive del Mar Nero come da quelle del Mediterraneo (Laiazzo nella piccola Armenia è il punto più importante e che ha lasciato maggiori ricordi) le colonie si spingono nell'Armenia e sino al Caucaso: tracce ancora sopravviventi di un'antica colonia genovese nel Caucaso sono state studiate recentemente.
Tutta questa attività non è opera organizzata di governo, ma effetto delle private iniziative di mercanti, che vanno a stanziarsi nei punti più redditizî e nei passaggi obbligati delle vie commerciali. Lo stato interviene a governare le colonie, quando non siano privato possesso di qualche famiglia, finché nel sec. XV il Banco di S. Giorgio si sostituisce alla repubblica o, come a Famagosta, ai Maonesi nel governo delle colonie, armandole, allestendo anche flotte ed eserciti per loro difesa. Ma i tempi cominciano a volgere poco propizî; i Mongoli di Tamerlano prima, i Turchi poi, avanzatisi dall'Oriente verso l'Asia Minore, l'Armenia e le rive del Mar Nero, tagliano le vie commerciali e occupano i punti più importanti inghiottendo le colonie europee. Gli sforzi e i sacrifici dell'ufficio di S. Giorgio sono vani; caduta Costantinopoli, il sobborgo di Galata ne segue la sorte; la via al Mar Nero è chiusa. Abbandonate a sé stesse, Trebisonda cade nel 1461, Caffa il 6 giugno 1475; delle ricche colonie tauro-liguri non resta che il ricordo. Frattanto anche le isole dell'Egeo sono perdute; Scio, tenacemente mantenuta e difesa, sopravvive un secolo: ma nel 1561 anche l'ultima delle colonie genovesi del Levante scompare. E ormai le nuove vie commerciali ne hanno esaurito la funzione. Ultimo tentativo coloniale nel Mediterraneo l'acquisto dell'isola di Tabarca, fatta nel 1547 da Francesco Grimaldi e Francesco Lomellini. Ma la fortuna e l'opulenza del commercio corallino che vi fiorì destarono l'ingorda gelosia delle altre potenze che esercitavano la pesca del corallo sulle coste africane e Genova fu presto sopraffatta.
La provincia di Genova.
Secondo la circoscrizione amministrativa al 21 aprile 1931 la provincia di Genova abbraccia una superficie di 1767,44 kmq., molto ridotta rispetto a quella che aveva prima della formazione delle nuove provincie di La Spezia (r. decreto 2 settembre 1923) e di Savona (r. decreto 2 gennaio 1927): 4098,01 kmq. Entro gli attuali confini la provincia di Genova comprende quel tratto del versante tirrenico dell'Appennino Ligure che scende al mare press'a poco fra Arenzano e Moneglia, e parte del corrispondente versante padano dell'Appennino, cioè gli alti bacini dell'Orba, della Scrivia e della Trebbia.
La parte occidentale della provincia a O. del Colle dei Giovi è compresa in quella sezione dell'Appennino che forma trapasso tra questo e le Alpi (v. appennino); tocca la massima altezza nel M. Reixa (1183 m.) e vi si aprono i passi del Turchino (532 m.), per il quale passa la carrozzabile Voltri-Ovada, e della Bocchetta (772 m.), per il quale passa la carrozzabile che conduce dalla Val Polcevera a Novi Ligure. A E. del Colle dei Giovi s'inizia la struttura caratteristica dell'Appennino Settentrionale: catene con direzione NO.-SE., valli longitudinali interposte (la prima è appunto quella del Lavagna che appartiene per intero alla provincia di Genova), spostamento dello spartiacque verso l'interno, ecc.: vi culmina la cima del M. Antola (1598 m.) e vi si apre il Passo della Scoffera (679 m.), per il quale passa la carrozzabile Genova-Piacenza; il Passo dei Giovi è attraversato invece dalla carrozzabile Genova-Ronco. I monti scendono ripidissimi sulla linea costiera, nella quale sporge il caratteristico aggetto di Portofino.
La superficie agraria e forestale occupa il 93% del territorio della provincia: di essa i boschi e castagneti occupano il 47,6%, i prati e pascoli il 27,7%, il seminativo arborato e vignetato il 17,6%, il seminativo semplice il 2,3%. Le colture più importanti sono quelle dell'olivo (19.000 q. di olio nel 1928-29), della vite (339.000 q. di uva, 187.000 hl. di vino nel 1929), degli alberi da frutta (peschi, susini, albicocchi, ciliegi, peri, meli, ecc.), degli ortaggi, dei fiori e piante ornamentali; minore importanza hanno le patate, il grano, il mais; l'allevamento del bestiame ha relativamente scarsa importanza come in genere in Liguria; fiorente la pollicoltura. La silvicoltura (la formazione più estesa è il castagneto) è trascurata e in lotta con le colture agrarie. Ma la provincia di Genova eccelle sulle altre provincie liguri per l'attività industriale (nel 1921 solo il 10% della popolazione era addetta all'agricoltura, il 27% alle industrie), che si concentra in gran parte nella Grande Genova: secondo il censimento industriale del 15 ottobre 1927 la provincia di Genova possiede 14.707 esercizî industriali con 155.048 addetti, di cui 10.256 esercizî e 132.473 addetti nella zona della Grande Genova. A questo grande centro industriale seguivano, per numero di esercizî e di addetti, Sestri Levante, Chiavari, Rapallo, Lavagna (v. queste voci).
Secondo i dati del censimento del 1921, ma entro la circoscrizione amministrativa al 21 aprile 1931, la provincia di Genova contava una popolazione presente di 769.689 ab., cioè 435,5 per kmq., saliti a 831.651, cioè 471 per kmq., nel 1931. La popolazione vi si addensa dunque singolarmente, in relazione all'intenso sviluppo industriale: la provincia di Genova viene terza tra le provincie del Regno, dopo quelle di Milano e di Napoli, per la densità di popolazione.
Gli 831.651 ab. censiti nella provincia di Genova al 21 aprile 1931 si distribuiscono in 64 comuni, di cui 4, oltre al capoluogo, contano più di 10.000 ab.: Chiavari (17.586 ab.), Rapallo (14.670). Santa Margherita Ligure (10.315) e Sestri Levante (15.341); dei rimanenti, 5 hanno più di 5000 abitanti.
Bibl.: Oltre gli scritti pubblicati in Genova, Rivista Municipale (1921 segg.; ebbe precedentemente il titolo: Il comune di Genova, poi La Grande Genova), e in Atti della Società ligure di storia patria (1858 segg.), vedi:
La città odierna e il porto: B. Roselli, Censimento industriale e commerciale al 15 ottobre 1927 nella Provincia di Genova, a cura del Consiglio prov. dell'economia di Genova, Genova 1928; La ville de Gênes, a cura del Municipio di Genova, Genova 1929; Ufficio Idrografico della R. Marina, Portolano del Mediterraneo, Le coste d'Italia da Ventimiglia a Monte Circeo, 3ª ed., Genova 1930; Consorzio autonomo del porto di Genova, Le opere del porto di Genova nell'ultimo venticinquennio, Genova 1931; id., Movimento complessivo marittimo e commerciale del porto di Genova nel 1930, Genova 1931; G. Andriani, Le basi geografiche e storiche della Grande Genova, in Le opere e i giorni, 1928, pp. 21-28, 15-26; A. Bianchi, Osservazioni sul clima, sul territorio e sulle acque della Liguria Marittima di un coltivatore di Diano, Genova 1817-18; G. Boccardo, Note e memorie di un economista, Genova 1873; E. Ehrenfreund, Le vie di comunicazione del porto di G., in Rivista ligure, Genova 1904; C. Festa, Guida del porto di Genova, 4ª ed. italiana, Genova 1922; T. Fischer, La penisola italiana, saggio di corografia scientifica, Torino 1892; S. Grande, La Liguria, Torino 1929; P. Gribaudi, Il porto di Genova e i trafori alpini, in Boll. R. Società geografica italiana, s. 4ª, XI (1910), pp. 574-91, 720-45.
Storia artistica, topografica ed edilizia della città: F.M. Accinelli, Carta della città di Genova antica (ms. nella Bibl. Civica Berio, Genova); G.A. Oldoino, Descrizione della città e fortificazioni di Genova (ms. 1619 nell'Archivio di stato di Torino); G.A. Interiano, Genova illustrata, Genova 1644; G. Brusco, Antica città di Genova nel giro delle sue vecchie mura, delineate nel 1656 e copiata nel 1785 (ms. presso il Municipio di Genova); Pianta delle muraglie vecchie della città di Genova (ms. 1752 presso il Municipio di Genova); G.C. Ratti, Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura, scoltura ed architettura, Genova 1766 e 1780; R. Soprani, Notizie dei pittori, scultori ed architetti forestieri che in Genova operarono, in Vite dei pittori scultori ed architetti genovesi, Genova 1768; Description des beautés de Gênes et de ses environs, Genova 1773, 1781, 1788; Orso Partecipazio (pseud. di Giovanni Minuto), Staglieno, Genova, 1883; F. Alieri, Guida artistica per la città di Genova, Genova 1846; id., Guida illustrativa del cittadino e del forestiere per la città di Genova e sue adiacenze, Genova 1875; F. Podestà, Il colle di S. Andrea a Genova e le regioni circostanti, Genova 1901; id., Il porto di Genova dalle origini alla caduta della Repubblica Genovese, Genova 1913; W. Suida, Genua, Lipsia 1906; J. De Fauville, Gênes, Parigi 1907; I. Hanquet, Le port de Gênes dans l'antiquité, in Revue des questions scientifiques, 20 luglio 1907; R.W. Carden, City of Genoa, Londra 1908; G. Poggi, Origini del porto di Genova, in Palazzo Bianco, Genova 1908; id., Genova preromana, romana e medioevale, Genova 1914; F. Donaver, Le vie di Genova: notizie storiche, Genova 1913; O. Grosso, Genova nell'arte e nella storia, Milano 1914; id., Genova, Bergamo 1927; C. Manfroni, Genova, Roma 1929; D. Castagna, Genova. Guida storico-artistica, Genova 1929.
Storie generali della città: Le più notevoli sono: F. Accinelli, Compendio della storia di Genova, voll. 2, Lipsia 1750; G. Serra, La storia dell'antica Liguria e di Genova, voll. 4, Torino 1834; C. Varese, Storia della Rep. di Genova, voll. 8, Genova 1835-39; M.G. Canale, Storia... dei Genovesi, voll. 5, Genova 1844-49; id., Nuova istoria della Rep. di Genova, voll. 4, Firenze 1858-1864; É. Vincens, Histoire de la Rép. de Gênes, voll. 3, Parigi 1842. Recenti e con carattere divulgativo, F. Donaver, La storia della Rep. di Genova, voll. 2, Genova 1913; C. Manfroni, Genova, Roma 1929.
Monografie e studî particolari sui varî periodi: U. Formentini, Le origini di Genova, in Bollettino municipale del comune di Genova, 28 febbraio 1926; id., Conciliabuli, pievi e corti nella Liguria di Levante, Spezia 1926; F. Gabotto, I municipi romani dell'Italia occidentale, in Bibl. d. Società storica subalpina, XXXII (1908); A. Holder, Alt-celtischer Sprachschatz, Lipsia 1896 segg.; K. Miller, Itineraria romana, Stoccarda 1916; H. Nissen, Italische Landeskunde, II, Berlino 1902; G. Oberziner, I Liguri ed il loro commercio, in Giorn. stor. e lett. d. Liguria, III (1902); R. Paribeni, Necropoli arcaica rinvenuta nella città di Genova, Roma 1910; A. Ferretto, I primordi e lo sviluppo del Cristianesimo in Liguria, Genova 1907; C. Desimoni, Sulle Marche dell'Alta Italia e sulle loro diramazioni in Marchesati, Genova 1869; De Cesari Rocca, Origine de la rivalité des Pisans et des Génois en Corse (1014-1117), Genova 1901; C. Manfroni, Storia della marina italiana, Roma 1897 e Livorno 1899-1902, voll. 3; O. Langer, Politische Geschichte Genuas und Pisas im XII. Jahrhundert, Lipsia 1882; C Imperiale di Sant'Angelo, Caffaro e i suoi tempi, Torino 1894; id., Genova e le sue relazioni con Federico II, Venezia 1923; id., Jacopo Doria e i suoi annali, Venezia 1930; G. Caro, Genua und die Mächte am Mittelmeer 1257-1311, voll. 2, Halle 1895-99; V. Samanek, Die verfassungsrechtliche Stellung Genuas 1311-1313, in Mitteilungen des Instituts für österr. Geschichtsforschung, 1906-1907; C. Manfroni, Relazioni di Genova con Venezia dal 1270 al 1290, Spezia 1901; L. Levati, I Dogi perpetui di Genova, Genova 1928; C. Manfroni, Le relazioni fra Genova, l'Impero bizantino e i Turchi, Genova 1898; U. Assereto, Genova e la Corsica, 1358-1378, Spezia 1900, 2ª ed., Bastia 1901; E. Marengo, Genova e Tunisi, in Atti Soc. ligure st. pat., XXXII (1901), pp. 1-312; E. Marengo, C. Manfroni, G. Pessagno, Il Banco di S. Giorgio, Genova 1911; L.-G. Pélissier, Documents pour l'histoire de l'établissement de la domination française à Gênes, in Atti cit., XXIV (1892), pp. 333-511; E. Jarry, Les origines de la domination française à Gênes, Parigi 1896; E. Pandiani, Un anno di storia genovese (1506-07), in Atti cit., XXXVII (1905), pp. 1-713; A. Sorbelli, La lotta fra Genova e Venezia per il predominio del Mediterraneo, in Memorie Accad. delle scienze, Istituto di Bologna, 1921; id., Francesco Sforza a Genova (1458-1466), Bologna 1901; L. Belgrano, La presa di Genova per gli Sforzeschi nel 1464, Genova 1888; M. Rosi, La congiura di Gerolamo Gentile, Firenze 1895; C. Bornate, La guerra di Pietrasanta (1484-85), Torino 1920; L. Volpicella, La guerra di Pietrasanta nell'anno 1496, in Atti cit., LIV (1930). - Sui Doria, Fieschi, la congiura, v. le voci relative; inoltre: M. Rosi, Storia delle relazioni fra la Rep. di Genova e la Chiesa Romana, Roma 1899; F. Poggi, Le guerre civili di Genova, in Atti, cit., LIV (1930); G. Arias, La congiura di G. Cesare Vacchero, Firenze 1897; R. Quazza, Genova, Savoia e Spagna dopo la congiura del Vacchero, in Bollettino stor. bibl. subalpino, XXXI (1929), pp. 265-326; ibid. XXXII (1930), pp. 171-216; L. Levati, I dogi biennali, 1528-1699, voll. 2, Genova 1930; id., I dogi di Genova dal 1699 al 1797 e vita genovese negli stessi anni, voll. 4, Genova 1912-1916; F. Casoni, Storia del bombardamento di Genova nel 1684, Genova 1877; G. Demaria, Le trattative diplomatiche circa il bombardamento di Genova del 1684; Novara 1893; A. Pescio, Settecento genovese, Palermo 1922; E. Pandiani, La cacciata degli Austriaci da Genova nell'anno 1746, Torino 1923; V. Vitale, L'insurrezione genovese del dicembre 1746, in Gior. stor. lett. della Liguria, n. s. VI (1930), VII (1931); M. Ruini, Luigi Corvetto genovese, Bari 1929; V. Vitale, Onofrio Scassi e la vita genovese del suo tempo, in Atti cit., LIX (1932), con la bibliografia sistematica anteriore; J. Borel, Gênes sous Napoléon Ier, Parigi 1929; C. Bornate, L'insurrezione di Genova nel marzo 1821, in Bibl. di st. ital. recente, XI, Torino 1923; La Liguria nel Risorgimento, a cura del Comitato Ligure della Soc. per la Storia del Risorgimento, Genova 1925; A. Codignola, La giovinezza di Giuseppe Mazzini, Firenze 1926; id., Goffredo Mameli, I, Venezia 1927; Dagli albori della libertà al proclama di Moncalieri (carteggio Petitti-Erede), in Bibl. di storia ial. recente, XIII (1931); id., Giovanni Ruffini e i suoi tempi, Genova 1931; F. Ridella, La vita e i tempi di Cesare Cabella, Genova 1923; G. Gallo, L'opera di Giorgio Doria agli albori della libertà, Genova 1927.
Musica: C. Da Prato, Il teatro Carlo Felice di Genova, Genova 1875; A. Neri, Rappresentazioni nei teatri di Genova e feste private dei nobili negli anni 1747-49, in Giornale ligustico, IX-X (1883); F. Podestà, Gli organisti del comune di Genova, Genova 1908; Associazione musicale ital., Catalogo generale delle opere musicali. Città di Genova, Biblioteca universitaria, Parma s.a.; P. Montani, Il Conservatorio N. Paganini di G., in Rivista musicale ital., XXXVI (1929).
Letteratura dialettale: F.L. Mannucci, L'anonimo genovese e la sua raccolta di rime, Genova 1904; per altri documenti dialettali dei primi secoli: E.G. Parodi, Studi liguri, in Archivio glottologico ital., XIV (1898), pp. 1-110; ibid., XV (1899-1901), pp. 1-82; ibid., XVI (1902-905), pp. 105-161; F. Donaver, Antologia della poesia dialettale genovese con introduzione, note e glossario, Genova 1910; A. Salucci, Cento sûnetti zeneixi, Genova 1930.
Istituti di cultura: Oltre a V. Promis e A. Manno, Bibliografia stor. degli stati della Monarchia di Savoia, Torino 1884 segg.; L. Isnardi e E. Celesia, Storia dell'università di Genova, Genova 1861-67; L'università di Genova, in Atti della R. Univ. di Genova, XXV (1923), e in Atti Soc. ligustica, n.s., ii, I, 1922; M. Staglieno, L'Accademia ligustica di belle arti, Genova 1863; L. Valle, Catalogo delle pubblicazioni relative al Risorgimento della Bibliot. Brignole Sale-De Ferrari, Pontremoli 1925; M. Maylender, Storia delle accademie d'Italia, Bologna 1926-30, voll. 5 (cfr. i singoli indici); A. Gazzolo, Catalogo della Biblioteca M. Belgrano, Genova 1927.
Arte della stampa: N. Giuliani, Notizie della tipografia ligure sino a tutto il sec. XVI, Genova 1869; M. Staglieno, Sui primordi dell'arte della stampa in Genova, Genova 1877; P. Bergmans, Un imprimeur belge du XVe siècle, Bruxelles 1889; T. De Marinis, Nota per Mattia Moravo, in Gutenberg-Jahrbuch, a cura di A. Ruppel, V, Magonza 1930; G. Fumagalli, Lexicon typograph. Italiae, Firenze 1905, s.v.
Conferenza di Genova: Les documents de la Conf. de Gênes, con introd. di A. Giannini, Roma 1922; Processi verbali e docum. relativi alla questione russa, Roma 1922; F. Coppola, La conferenza di Genova, in Politica, IV (1922), pp. 19-43; R. Cantalupo, La Santa Sede a Genova, ibid., pp. 93-100; F.H. Simonds, Histoire de l'Europe d'après guerre, trad. franc., Parigi 1929.
Dominio coloniale di Genova: Oltre le storie di Genova: G. Heyd, Le colonie commerciali degli italiani in Oriente nel Medioevo, trod. di G. Müller, Venezia 1866-68; id., Storia del commercio del Levante nel Medioevo, in Biblioteca dell'economista, s. 3ª, Torino 1913; A. Schaube, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo, trad. di P. Bonfante, Torino 1915; E. Skrzinska, Inscriptions latines des colonies gén. en Crimée, in Atti Società ligure di storia patria, LVI (1928); G.J. Bratianu, Recherches sur le commerce génois dans la Mer Noire au XIIIe siècle, Parigi 1929 (con bibliogr.); E. Marengo, C. Manfroni, G. Pessagno, Il Banco di San Giorgio, Genova 1911, p. 465 segg.; F. Podestà, L'isola di Tabarca e le pescherie di corallo, in Atti Soc. lig. di storia patria, XIII (1884).