GENOVA
(lat. Genua; Ianua nei docc. medievali)
Città della Liguria, capoluogo di regione e sede arcivescovile.Nata come oppidum ed emporio delle tribù liguri sulla collina di Castello, durante la seconda guerra punica (233 a.C.) fu sede di un castrum romano, distrutto nel 205 da Magone e ricostruito due anni dopo dal console Spurio Lucrezio, che ampliò l'area abitata. La sua importanza crebbe nell'ambito delle guerre contro i Liguri settentrionali e con la definizione del sistema viario romano, in seguito alla quale G. si trovò all'innesto fra l'antica via Aurelia e la nuova via Postumia (148 a.C.). Città federata ancora nel 117, fu poi innalzata a rango di municipium (sec. 1° a.C.). Menzionata nell'editto dioclezianeo del 301 come emporio marittimo commerciale, G. vide confermato il proprio ruolo fra il sec. 5° e il 6° (quando essa era ormai sede vescovile), con la costituzione del limes appenninico e della Provincia Maritima Italorum, dell'impero d'Oriente prima, e, dopo la conquista di Rotari, del regno longobardo.A questo centro dall'incerta fisionomia diede forma la cerchia muraria (che cintava un'area di ha 22 ca.) eretta nel sec. 9° a difesa del litus maris per impulso diretto della dinastia carolingia. È di quest'epoca (fine sec. 8°-primi 9°) anche il trasferimento della cattedrale dal burgus suburbano di San Siro alla sede intramuraria di S. Lorenzo; ma una seconda domus vescovile (nota dal 987), fortificata, si ergeva sul colle di Castello. L'autorità del presule - basata anche sui vasti possessi fondiari, sviluppati nel corso del sec. 10° grazie a un'accorta politica di colonizzazione e di urbanizzazione sostenuta dalle fondazioni monastiche della città e del contado - si affiancò via via a quella dei vicecomites, espressi dall'aristocrazia locale, finché, nel 958, i re Berengario II e Adalberto conferirono alla comunità genovese piena libertà giuridica (un unicum, fino ad allora, in età precomunale), nell'osservanza di quelle antiche consuetudini gestionali che, nel 1056, anche il marchese Oberto si obbligò a rispettare.In piena atmosfera comunale era G. a metà di quel sec. 11° in cui essa appare già attiva in campo commerciale marittimo (in forma pacifica, con la presenza di mercanti in Egitto verso il 1060-1070, e bellicosa, con le imprese antisaraceniche di Sardegna, nel 1016, e di Mahdiyya, nel 1088), ma che vide, con la nascita della compagna communis e della forma di governo consolare (1099, ma forse già in atto da qualche decennio), il pacificarsi e il formalizzarsi della dialettica fra i soggetti sociali e politici (vescovo, nobiltà, ceti mercantili emergenti) e lo stabilirsi di nuove articolazioni interne: dell'abitato, giuridicamente tripartito in un castrum, una civitas e un burgus, e della popolazione, suddivisa in sette (poi otto) compagne rionali. Coerente con tale dinamica è l'istituzione delle sette parrocchie urbane (accresciute poi nel secolo successivo). Insediamenti monastici e della nobiltà feudale inurbata caratterizzarono la nuova forma urbis, accresciuta per l'afflusso di capitali a seguito della crociata del 1099 e governata dalle magistrature civiche (dopo il 1133 la gestione della cosa pubblica fu affidata ai consoli de communi, quella della giustizia ai consoli de placitis), che avviarono la costruzione della via porticata della Ripa maris (1133-1134) e del nuovo circuito murario (1155-1161), che portò a ha 55 l'area urbana.Del nuovo ruolo mediterraneo - che vide i rapporti con Bisanzio e con il regno di Sicilia e le presenze nel variegato mondo arabizzato - ed europeo, con la dialettica all'interno del mondo comunale italiano, con il papato (che nel 1133 eresse in archidiocesi la sede genovese) e con l'impero (che nel 1139 concesse a G. il diritto di battere moneta e, nel 1162, con Federico Barbarossa, la infeudò di tutte le riviere da Monaco a capo Corvo, ponendo così le basi della formazione di uno stato territoriale), ebbero coscienza immediata le classi di governo, che trovarono negli Annales Ianuenses di Caffaro e dei suoi continuatori (Parigi, BN, lat. 10136) una precoce dimensione di autocoscienza storica e celebrativa. Ma furono proprio i nuovi compiti a rendere presto obsolete le strutture consolari, dimensionate su un'ottica esclusivamente urbana, e a imporre al Comune di intraprendere quella strada di privatizzazione dello Stato che caratterizzò G. fino alla fine della repubblica aristocratica (1797). Si avviò con il 1191 il regime dei podestà forestieri, una fase 'critica' nella storia di G., segnata dai conflitti di fazione fra ghibellini (mascarati) e guelfi (rampini), dall'acuirsi del conflitto con Pisa - concluso fra 1284 (battaglia della Meloria) e 1290 (distruzione del porto pisano) -, dalla ricerca di un ruolo determinante nell'impero e nell'intero quadrante orientale del Mediterraneo (trattato del Ninfeo, 1261). In quest'arco di tempo si consumò anche l'esperimento istituzionale di Guglielmo Boccanegra (capitanato del popolo, 1256-1262), sostenuto dal populus e da un settore dei nobili ghibellini, sostituito ben presto dalla diarchia di due capitani (1270-1285), espressione dell'alleanza fra Doria e Spinola e destinata a durare fino a fine secolo, quando si sviluppò il conflitto con Venezia, nel momento di più spiccato incremento del volume dei traffici commerciali.Sempre di più la città duecentesca si venne caratterizzando per una struttura urbanistica determinata dalla dialettica del potere delle consorterie, articolato su base territoriale in nuclei omogenei. Queste curiae, insieme alla cattedrale (unica vera platea pubblica polifunzionale di una città che difettava di spazi collettivi), ai mercati e alla Ripa furono i luoghi deputati della vita associata, mentre si diffondeva una dinamica abitativa su base di mestiere (contrade dei fabbri, lanaioli, scudai, ecc.) e di provenienza (le colonie di Lucchesi, Fiorentini, Romani, ecc.), che, insieme al fenomeno insediativo mendicante, completò la saldatura fra nucleo antico e cerchia muraria. La monumentalità del manufatto urbano genovese duecentesco divenne in seguito quasi un luogo topico: Francesco Petrarca la definì "imperiosam urbem lapidosi collis in latere, turribus et moenibus superbam, quam dominam maris aspectus ipse pronunciat" (Itinerarium Syriacum, 1358).L'instabilità politico-istituzionale e la conflittualità interna fra i principali 'alberghi' nobiliari, unitamente alla criticità dei rapporti con le potenze confinanti e allo stato di guerra con Venezia, portarono nel sec. 14° a una continua ricerca di alleanze: dopo la dedizione (1311) a Enrico VII, si passò da Roberto d'Angiò (1318-1339) ai Visconti di Milano (1351-1398), a Carlo VI di Francia (1421-1435), mentre con l'istituzione del dogato - nominalmente vitalizio - e con l'articolata riforma costituzionale operata da Simone Boccanegra (1339) solo teoricamente si conferì stabilità al governo dello Stato (insediato per la prima volta in un edificio che, iniziato nel 1291, divenne nel Trecento il palazzo Ducale). Fu proprio l'insicurezza interna ed esterna a consigliare un nuovo ampliamento del circuito difensivo, che, attuato in due fasi (1320-1327 e 1347-1350), inglobò altri ha 100 nell'area urbana, comprendendo, in particolare, oltre ai crinali delle colline, i borghi rurali di San Tommaso, a O, e di Santo Stefano, a E, situati lungo le vie di comunicazione, borghi caratterizzati dai recenti insediamenti religiosi, cistercensi, agostiniani, benedettini.
Bibl.: U. Formentini, Genova nel Basso Impero e nell'Alto Medioevo, in Storia di Genova dalle origini al tempo nostro, II, Milano 1941, pp. 10-278; V. Vitale, Breviario della storia di Genova. Lineamenti storici ed orientamenti bibliografici, 2 voll., Genova 1955; T.O. De Negri, Storia di Genova, Milano 1968; E. Poleggi, Iconografia di Genova e delle Riviere, Genova 1977; L. Grossi Bianchi, E. Poleggi, Una città portuale del Medioevo: Genova nei secoli X-XVI, Genova 1980; E. Poleggi, P. Cervini, Genova (Le città nella storia d'Italia), Roma-Bari 1981; G. Airaldi, Genova e la Liguria nel Medioevo, Torino 1986 (con bibl.); G. Petti Balbi, Simon Boccanegra e la Genova del '300, Genova 1991; id., Una città e il suo mare. Genova nel Medioevo, Bologna 1991 (con fonti e bibl.).
Lo studio dell'architettura medievale a G. si può giovare di alcune indagini mirate alla 'verifica testuale' dei monumenti superstiti (per recuperarne un'immagine attendibile, al di là degli interventi di restauro otto-novecenteschi che pure ne hanno garantito l'esistenza) e alla ricomposizione per imagines di testi architettonici scomparsi.Sono le indicazioni dell'archeologia e della tradizione erudita, piuttosto che quelle del costruito, che consentono di delineare - o, meglio, di ipotizzare - i caratteri della cultura architettonica a G. fra il sec. 6° e il 10°: indicazioni assai ambigue, soprattutto nella carenza di documentazione scritta, che solo verso la fine di questo lungo periodo diviene disponibile, e solo in casi di edifici eminenti, come S. Lorenzo o S. Siro. In qualche caso, invece, è la presenza di reperti scultorei ad additare percorsi di ricerca altrimenti insospettabili.Le certezze consolidate a proposito della cattedrale paleocristiana di G. (solo nel sec. 9° la basilica intramuraria di S. Lorenzo sostituì, forse dopo un periodo di concattedralità, la domus dei Dodici Apostoli, dalla fine del sec. 6° intitolata a s. Siro, sita sull'omonimo borgo suburbano ed esposta alle scorrerie saracene) sono state poste in discussione dal recente riesame dei dati degli scavi archeologici effettuati verso il 1965, in particolare per ciò che riguarda un pavimento in cocciopesto che indicherebbe la presenza in S. Lorenzo di una basilica tardoantica (secc. 5°-6°). Ciò sarebbe in apparenza confermato dalle notizie circa il ritrovamento di un'abside in muri di ciottoli sotto l'altare attuale e di un altro muro che, per la sua ubicazione (braccio sud del transetto romanico) e per la sua correlazione con un altro lacerto pavimentale in cocciopesto, potrebbe dimostrare a un tempo l'ampiezza notevole e la cronologia di quell'antico edificio, di cui sarebbe arduo non postulare anche la cattedralità, vista la presenza nell'area dell'attuale battistero di due setti murari in ciottoli a spina di pesce connessi ad angolo ottuso, resti di una più antica struttura battesimale, tipica di un complesso episcopale. Potrebbe trattarsi proprio dell'edificio ottagono cupolato che nel primo Trecento - quando ancora esisteva - fu raffigurato in un affresco del muro nord della cattedrale, allo scopo di accreditare la dignità 'apostolica' della diocesi genovese e la sua autonomia dalla metropoli milanese. Ma all'accettazione di tale tesi ostano considerazioni d'ordine storico-documentario che ribadiscono lo status speciale della basilica di S. Siro; i resti di un nucleo episcopale in S. Lorenzo (già cattedrale nell'878, quando vi vennero recate da San Remo le spoglie di s. Romolo, ma che forse divise tale dignità con la sedes antica, che ancora nel 952 riscuoteva le decime suburbane, mentre quelle urbane spettavano alla nuova) si potrebbero datare al sec. 9°, come farebbero pensare le notizie circa la tecnica dei muri ritrovati. La basilica tardoantica, sorta presso la sede di metropoliti milanesi, potrebbe risalire alla committenza di costoro, anche nella dedicazione, e nel primo sec. 9° - dotata di un battistero - sarebbe divenuta cattedrale.La diffusione della cultura postambrosiana si accentuò dopo il 569, durante i settanta anni passati a G. da vescovi, clero, nobili e mercanti fuggiti da Milano. Insediati nell'area del Brolium, dove eressero una cappella dedicata a s. Ambrogio, e in altri burgi suburbani (San Siro, Santo Stefano e San Tommaso), contribuirono molto allo sviluppo urbanistico della città fra Tardo Antico e Alto Medioevo e, forse, alla costruzione di nuovi edifici religiosi (oltre ai citati, possono avere eziologia milanese i tituli di S. Nazaro e S. Pancrazio, ma non S. Vittore, dipendenza del grande monastero marsigliese omonimo). Nessuna conferma archeologica ha finora avuto l'ipotesi che vuole la chiesa dei Dodici Apostoli (poi intitolata a s. Siro e ritenuta la cattedrale primitiva) nata in forma di croce, sul modello degli apostoléia tardoantichi.Nella carenza di certezze oggettive, non è possibile tracciare un quadro delle permanenze e dei mutamenti di cultura architettonica dopo la conquista longobarda della città (642), rimasta fino ad allora luogo "di confine tra il mondo barbarico e il mondo greco-arabo" (Lopez, 1937, trad. it. p. 287). Anche in questo caso, sono i tituli a far ipotizzare origini longobarde per alcuni edifici (S. Michele, S. Donato), mentre per altri (S. Maria di Castello, fondata dal re Ariperto nel 658 in riparazione dell'eresia ariana) tale eziologia riposerebbe su base documentaria, invero mai verificata. Si datano verosimilmente in questi secoli, tuttora 'bui' dal punto di vista della storia architettonica, alcune fondazioni in cui si ravvisa una connessione fra ubicazione suburbana, presenza di tracce di fortificazioni e di sepolture. È il caso dei resti di un sacello altomedievale identificati nell'abside della cripta di S. Stefano, la cui torre campanaria viene accreditata di origini bizantine (ma è, comunque, anteriore alle strutture protoromaniche della chiesa, cui si addossa), e quelli (noti da disegni) di una chiesuola mononavata in muri di mattoni e tegoloni romani disposti a spina di pesce che fu all'origine dell'insediamento, divenuto monastico solo alla fine del sec. 10°, di S. Tommaso in capite Arenae. Databile forse tra il sec. 6° e il 7°, si ipotizza che sia stato eretto al tempo dell'insediamento in quest'area di una parte della comunità milanese trasferita a G. come luogo di culto protetto da un dispositivo murario e forse da una torre d'avvistamento.Di nessi con la cultura padana d'età longobarda parla S. Pietro della Porta, cella del monastero di S. Colombano di Bobbio, nota dall'862, eretta nei pressi di un varco a mare della cinta muraria carolingia (862 ca., di cui rimane da precisare un eventuale nesso con il castrum vescovile presso l'area archeologica di S. Silvestro, i cui resti più antichi si datano però al sec. 10°); mononavata, aveva probabilmente facciata adiabasica e ingresso su un fianco, in rapporto con la situazione topografica circostante.Per quanto scarsa, la produzione superstite dei secc. 10°-11° mostra un'indubbia accentuazione qualitativa, da un lato per l'esistenza di opere di architettura civile, che manifestano l'elevarsi del tono e della complessità della vita associata e della dialettica sociale in città (e anche i suoi primi tentativi di proiezione mediterranea, dopo l'ultima scorreria saracena del 935), dall'altro per la maggiore complessità compositiva e tecnologica degli edifici religiosi, prodotto della nuova fase di fioritura monastica benedettina promossa dai vescovi Teodolfo e Giovanni II. Tale impressione è peraltro accentuata dalla possibilità di datare molte strutture con sufficiente precisione, grazie anche alle metodologie di indagine archeologica del costruito.È credibile un intervento ottoniano in favore del restauro dell'antica basilica dei Dodici Apostoli, divenuta benedettina nel 1006. Il nesso con l'altra fondazione protetta dall'imperatrice Adelaide e passata ai Benedettini, S. Fruttuoso di Capodimonte, è palese. Questa chiesa, eretta al principio del sec. 11°, è in massima parte conservata: di notevole monumentalità, ha pianta condizionata dalla situazione orografica; l'interno, voltato, è dominato da una cupola sormontata esternamente da una torre nolare costruita in corrispondenza di una sottostante sorgente perenne. Non è soltanto la torre nolare ottagona a far sospettare un ruolo esemplare di S. Fruttuoso nello sviluppo dell'architettura medievale genovese, anche i contatti con i resti del chiostro e i capitelli della coeva fase benedettina di S. Tommaso in capite Arenae non si possono attribuire al caso, ma a un comune impiego di maestranze da parte di esponenti diversi dell'élite monastica. E infatti, nonostante la frammentarietà del tessuto superstite, altri dati sembrano confermare l'esistenza di maestranze locali: le tecniche murarie e le soluzioni decorative, per es., che legano in tendenziale unità (varia è la qualità esecutiva, in funzione dei materiali disponibili e dell'abilità professionale delle maestranze) le fondazioni citate con la chiesuola mononavata di S. Agostino a Sampierdarena, fondata fra il sec. 10° e l'11° come cella del monastero pavese di S. Pietro in Ciel d'Oro e nobilitata con un'apposita leggenda che ne legava l'origine alla traslazione liutprandea delle reliquie del santo di Ippona (725); con il sacello di S. Nazaro (oggi nella chiesa delle Grazie), eretto a fine sec. 10° e trasformato in cripta di una chiesa romanica solo nel sec. 12°, inserendo le colonne e le volte, che interrompono pareti con muri ad arcate cieche affini all'abside di S. Agostino. E una tecnica in tutto simile, sebbene più evoluta, mostrano i muri della prima fase del palatium del vescovo sulla collina di Castello (sec. 11°; noto dal 1116), i resti archeologici della primitiva aula di S. Silvestro, che di esso era parte integrante, e quelli, in elevato, della casa detta di Agrippa, nell'od. piazza Cavour.Resta arduo dare conto - se non con argomenti d'ordine storico generale - dello stacco abissale che si percepisce, in termini di maturità di cultura architettonica, di magistero edilizio, di articolazione planimetrica e compositiva, fra le realizzazioni citate e gli edifici che possono rappresentare, tra la fine del sec. 11° e gli inizi del 12°, il momento di definizione di una cultura architettonica 'genovese' in senso stretto. Non si hanno documenti probanti, ma le rare fondazioni appartenenti a questa fase (la chiesa benedettina di S. Stefano, compiuta in mattoni solo verso il 1306, sita nell'immediato suburbio; S. Siro di Struppa, fondazione benedettina del contado, sulla via per Bobbio e l'Emilia; S. Ambrogio di Uscio, dipendenza della precedente, e S. Siro di Nervi, di cui esiste ancora la facciata, inglobata nelle strutture barocche) rivelano, accanto a caratteri lombardi, un certo sperimentalismo, frutto della risoluzione di problemi specifici (il presbiterio sopraelevato, nella prima, per conservare la chiesuola altomedievale come cripta), e una semplificazione decorativa, più che un indirizzo consolidato. Già matura è invece la tecnica muraria (paramenti di conci di pietra calcarea locale di media pezzatura, squadrati e legati da sottili letti di malta, ordinatamente apparecchiati; muri in pietra appositamente cavata, senza elementi di reimpiego o di raccolta, lavorati da scalpellini specializzati), che attesta un'inedita organizzazione e divisione del lavoro. Le chiese di Struppa, Uscio e Nervi, pur nella diversità di dimensioni, appaiono strettamente correlate: icnograficamente e proporzionalmente assai simili, costruite dalle stesse maestranze, identiche per scelte decorative, accomunate dalla collocazione rurale, sono emblematiche di questo momento di trapasso culturale, tecnologico e produttivo.Giunte a G. forse allo scadere del sec. 11°, le maestranze di Antelamus (impresari edili, carpentieri, muratori) seppero darsi, già a metà del sec. 12°, un'organizzazione corporativa. Impegnate nell'edilizia civile (e forse giunte dapprima per rispondere alla nuova domanda di case in pietra, a seguito dell'esplosione urbanistica) e in quella religiosa, grazie a una rigorosa organizzazione d'impresa, a un sistematico sfruttamento delle cave di pietra calcarea locale, alla standardizzazione delle tipologie e delle tecniche edilizie (e a una notevole capacità di adattarle alle concrete condizioni operative e alla normativa urbanistica vigente), queste maestranze imposero una fisionomia definita all'architettura romanica a G. e determinarono un'omogeneità assoluta fra i due settori della produzione nell'arco di almeno tre secoli. Esempio magnifico di questa circolarità di esperienze sono le mura e le porte civiche (restano le due principali: quella Soprana o di S. Andrea a E e quella di S. Fede a O), erette fra 1155 e 1158, nella cui costruzione (come confermano le epigrafi) i magistri Antelami ebbero parte. Semplici planimetrie basilicali senza transetto, variamente conformate per adeguarle all'ubicazione, e divise da muri-diaframmi longitudinali spesso caratterizzati come falsi matronei, coperture miste (lignee, a travetti, sulle navi e a volta sulla zona presbiteriale e absidale), configurazione dell'alzato esterno a blocchi composti (oblungum, presbiterio e torre nolare o campanile), decorazione architettonica semplificata (lesene angolari, zoccolature, arcatelle pensili, denti di sega), semplici monofore a doppio strombo e oculi di limitate dimensioni, facciate a capanna o a salienti in cui spicca il portale, spesso inquadrato in avancorpo e non di rado dotato di protiro: questi i caratteri standard degli edifici religiosi romanici, in cui la scultura (in marmo, con frequenti episodi di reimpiego di pezzi classici; rara quella in pietra) si concentra in pochi luoghi deputati, come portali e protiri, capitelli interni ed esterni, chiostri.Questa presenza, un vero e proprio 'carattere originale' e distintivo della situazione genovese, spiega l'improponibilità dell'esistenza di una 'architettura degli ordini' rigidamente intesa e autonoma da quella antelamica. Le fonti d'archivio, infatti, mostrano - per tutto il Medioevo - attivi in campo edilizio e urbanistico e anche nei rari edifici cistercensi di cui sopravvivano resti medievali (come S. Maria de Valle Christi, presso Rapallo, del 1204 ca., e S. Bartolomeo dell'Olivella, a G., del sec. 14°) soltanto i magistri Antelami, protetti dagli statuti corporativi e forti di una consolidata capacità di rispondere alla domanda sociale.In tal senso si deve leggere anche la straordinaria continuità che lega le esperienze dell'architettura civile fra sec. 12° e 13°, con il perfezionamento di una serie di tipi abitativi originali, strettamente funzionali all'articolazione, alla dinamica sociale e ai comportamenti economici di una città organicamente inserita nella dimensione mediterranea. La casa a schiera con loggia continua al piano terreno, a generare vere e proprie vie porticate (emblematico il caso della Ripa maris, eretta dal 1133), le curiae, piazze private (spesso dominate dalla chiesa gentilizia) delle consorterie che si spartivano il potere pubblico, ma anche i fundici e le voltae, a uso commerciale, hanno probabilmente alle spalle un nesso con la cultura islamica della Spagna, dell'Africa settentrionale e della Siria, che lascia traccia anche in altri caratteri salienti dell'architettura, civile e religiosa: la dicromia dei paramenti esterni, in bianco marmo apuano e nera 'pietra di Promontorio', calcare locale della varietà più scistosa (strutturalmente ed esteticamente diversa da quella pisana, di cui è erroneamente ritenuta una derivazione), riservata a edifici di non comune dignità, e l'uso precoce dell'arco acuto (portici della Ripa, 1133; porte urbiche, 1155), che divenne rapidamente una delle opzioni costruttive disponibili, comunemente utilizzato per i suoi vantaggi statici.Tuttavia, già agli inizi del secolo, anche l'architettura religiosa presenta - come s'è detto - una fisionomia strutturata, capace di attingere forme solennemente monumentali. È il caso di S. Maria di Castello (nel cui cantiere la presenza antelamica è attestata), antica collegiata canonicale, la cui ricostruzione come basilica a colonnati di reimpiego, con coperture miste, fu attuata nel primo quarto del sec. 12°, in concomitanza con la chiesa, dell'Ordine mortariense, di S. Giovanni in Paverano (1118 ca., parzialmente conservata, assai arcaica nel profilo degli archi, nella forma e nella fattura dei capitelli lapidei, nella qualità e nella tipologia dei reimpieghi) e con la cattedrale di S. Lorenzo, eretta a spese del Comune, di cui nel 1118 furono consacrati solo l'altare e l'oratorium ma ancora largamente incompiuta nel 1174, sebbene già da tempo fosse utilizzata normalmente per le assemblee popolari convocate dai consoli. La sua facies romanica - impostata nel periodo (1133) in cui alla sede episcopale genovese venne conferita la dignità metropolitana - è in parte conservata e mostra evidenti tracce di diverse fasi costruttive, di riprese, modifiche di progetto e nuove interruzioni. Uno studio è ostacolato dagli interventi del sec. 16°, che causarono fra l'altro la distruzione della torre nolare, nota solo da vedute antiche, elemento che qualificava l'edificio, insieme all'articolazione plastica e decorativa degli esterni (gallerie cieche) e alla singolare connotazione degli spazi interni, alti, continui e ininterrotti, di derivazione piuttosto tardoantica che 'lombarda' e romanica. Sviluppano una ricerca spaziale affine altre basiliche urbane, come S. Donato e S. Maria delle Vigne. Qui, poi, il campanile, impostato su una galleria archiacuta che unisce la chiesa al chiostro travalicando la strada, ripropone da un canto una tipologia fortunata, esemplata su quella del distrutto campanile di S. Siro, e riproposta anche in S. Giovanni di Pré (dopo il 1180), S. Tommaso (1186), S. Salvatore di Cogorno (1245 ca.), forse di derivazione oltralpina, e dall'altro modalità di adattamento alla cogente realtà urbanistica, che si riscontrano, per es., nella zona absidale della chiesa di S. Damiano (eretta verso la metà del secolo, benché spesso accreditata di maggiore antichità per incomprese suggestioni documentarie).Leggere l'architettura romanica a G. come lineare work in progress è indebito: lo conferma, fra l'altro, la costruzione nello stesso momento (1180 ca.) di tre chiese come il distrutto S. Tommaso, S. Marco al Molo e S. Giovanni di Pré, impostate su uno schema planimetrico quasi identico ma diversissime nell'alzato e nei sistemi di copertura, segno di uno sperimentalismo inteso dai costruttori intelviesi come ricerca costante di equilibrio fra le esigenze dei diversi committenti e le concrete possibilità di attuazione, nel solco di una tradizione operativa e di retaggi culturali, per es. quelli lombardi, comaschi, intelviesi, ancora vivi (Di Fabio, 1982, p. 144ss.). Significativo, in questo senso, è l'esempio della chiesa mortariense di S. Maria del Prato, fondata nel 1172, che presenta una soluzione a doppio presbiterio sovrapposto, motivata dalle concrete esigenze della vita monastica, e navate spartite da arcate su alti pilastri cruciformi che trovano riscontro in edifici lombardi (Lomello) e la cui adozione si spiega con l'origine lomellinese dell'istituzione canonicale.Altri specimina di una dialettica di questo tipo sono le due fondazioni vallombrosane intitolate a s. Bartolomeo, dette del Fossato e di Promontorio a causa della rispettiva collocazione, in ambo i casi suburbana. La prima (la chiesa-madre, maggiore per dimensioni, distrutta) era forse il più antico edificio romanico cittadino in cui fosse dato riscontrare, ancora in pieno sec. 12°, l'impiego contestuale di pietra squadrata e mattoni. La sua pianta a croce latina commissa, avvicinabile a esempi di area pavese e toscana, venne ripresa nella filiazione (e fornì la falsariga planimetrica anche al S. Nicolò di Capodimonte, fondazione dei Canonici di s. Rufo d'Avignone, a fine sec. 12°, che mostra prette forme antelamiche), in cui si accentuano tuttavia i caratteri indigeni nella tecnica muraria e nella torre nolare, tanto da farla ritenere una versione riveduta e corretta dell'exemplum importato. Quest'ultimo rivela nessi stringenti anche con una chiesa urbana 'tipica', quale S. Donato, di cui agli inizi del secolo fu impostata la zona presbiteriale con il tiburio cupolato e parte dei muri perimetrali, ma cui venne data compiutezza solo nella seconda metà del sec. 12° con la prosecuzione delle navate, l'erezione della facciata e del portale archiacuto (non il protiro, che è di restauro), il consolidamento del corpo presbiteriale per l'innalzamento della torre nolare, in forme di immediata ascendenza cluniacense e borgognona ma già radicate nella tradizione locale (dall'antico S. Fruttuoso di Capodimonte al recente S. Damiano). La contrazione e la semplificazione della decorazione architettonica esterna, tanto evidente in questa chiesa (e in S. Damiano, S. Sabina, S. Tommaso), caratterizzarono la produzione genovese del 12°-13° secolo. Costruita appunto allo snodo fra i due secoli (iniziata nel 1180, fu compiuta appena dopo il 1216) come chiesa dell'ospedale gestito dai Cavalieri di s. Giovanni (centro di raccolta dei pellegrini in transito da e per la Terrasanta), la chiesa di S. Giovanni di Pré è un episodio che, in forza del suo carattere eccezionale, conferma la regola. Edificio complesso, contiguo all'ospedale e perciò privo di una vera facciata, è costituito da due chiese sovrapposte: a uso interno quella superiore, aperta sull'esterno con un portale quella bassa, che era sede dell'istituzione parrocchiale, retta da un parroco sottoposto all'autorità dell'abate e svincolato da quella diocesana. Fuori dalla consuetudine progettuale locale, ma solo con indebita semplificazione direttamente riconducibili a esperienze 'gotiche' sono i matronei praticabili, il complesso sistema voltato - su campate rettangolari nella nave maggiore e su spazi quadri in quelle minori - e molti altri aspetti dell'alzato, in quanto generati da uno schema planimetrico impiegato anche in S. Tommaso e S. Marco al Molo. Anche in questo caso, perciò, solo la duplice funzione della chiesa, ospedaliera e parrocchiale, e la sua collocazione in un sistema di relazioni mediterranee possono spiegare le eccezioni alla regola; sono significativi, in questo senso, i rapporti, colti dalla critica, con edifici di Terra Santa.Nel solco della tradizione si pone a G. e nelle aree collegate una serie di edifici accomunati dalla committenza nobiliare. È il caso di S. Salvatore di Cogorno, nell'entroterra di Lavagna, eretto fra 1244 e 1252 per impulso di Sinibaldo Fieschi, papa Innocenzo IV, e di suo nipote, il cardinale Ottobono, anch'egli papa con il nome di Adriano V: la volontà culturalmente conservatrice e antifedericiana dei committenti si manifesta nelle forme dell'edificio (e nella sua arcaizzante decorazione scolpita), che continuano una tradizione romanica 'indigena' (opera muraria, planimetria basilicale senza transetto, coperture miste, torre nolare), in cui solo la zona presbiteriale inserisce elementi nuovi (tre cappelle quadrangolari voltate, comunicanti; schema ad triangulum delle finestre absidali: due monofore, un oculo, una croce), di derivazione cistercense. Il portale, che sclerotizza le formule urbane del secolo precedente, e la vasta rosa si ritrovano in seguito come formule standard nell'architettura cittadina del Duecento, cui si rapporta organicamente anche il vicino e coevo palatium residenziale, loggiato e magnificato dal paramento dicromo. Alla basilica fliscana si ricollegano altre fondazioni del Levante ligure erette da maestranze antelamiche (come già, nel tardo sec. 12°, la parrocchiale di S. Lorenzo di Portovenere), che precise ragioni storiche obbligano a integrare all'architettura cittadina: da un lato il distrutto S. Adriano di Trigoso (fondazione fliscana del 1245), dall'altro il corpo aggiunto nel 1277 al S. Pietro di Portovenere e la cappella di S. Anastasia nel castello di Lerici (1256-1260 ca.). Questo stesso filone 'conservatore' (per possibile volontà dei committenti e per continuità della prassi di cantiere) si ravvisa in città nella chiesa gentilizia di S. Matteo, ricostruita nel 1278, fulcro della curia della consorteria dei Doria, circondata su tre lati dai palazzi con loggia di vari esponenti della famiglia; come nella facciata dell'antica S. Stefano, il cui portale, non a caso, riproduce quello di S. Damiano, mentre la facciata della navatella sinistra è un interessante esempio di continuità delle forme romaniche nel primo Trecento, come S. Maria in via Lata, eretta dopo il 1336 con il legato del cardinale Luca Fieschi.Non ebbe influenza, su questo tessuto tenacemente 'introverso', l'episodio di punta del Duecento a G., la ricostruzione, intrapresa verso il 1220 - verosimilmente per volontà coordinata del Comune, che ne era il proprietario, e dell'arcivescovo Ottone Ghilini - ma presto interrotta, della cattedrale nelle forme del più aggiornato opus francigenum. Recenti ricerche ribadiscono l'imprinting normanno delle forme architettoniche, esemplate sui modelli di Rouen e Lisieux, in Normandia, ma tuttavia declinate in una versione specialissima (e strutturalmente 'concentrata', per mantenere la larghezza dell'edificio romanico, scelta obbligata per non interferire con il denso tessuto urbanistico circostante), in cui le membrature, ricavate in marmi colorati, e l'apparato scultoreo copioso e raffinato (a sua volta dipinto e arricchito da intarsi in smalto, ceramica, mosaico, cristallo) dialogano con la marmorea policromia delle pareti, impreziosita da variegati intarsi geometrici. Percepito già in età medievale come un exemplum eccezionale (Fazio degli Uberti, Dittamondo, IV, 3, 3-39), si tratta in effetti di un caso forse unico di ricezione creativa, segno della reattività dell'assetto culturale e produttivo locale (improntato dalla dimensione 'mediterranea' della città) a una progettualità e a una tecnologia importate. Nello stesso periodo in cui questo trapianto avveniva e in cui si compiva il S. Giovanni di Pré, nell'area delle case dei Fieschi alle spalle della cattedrale, sulla collina di Serravalle, veniva eretto un vero e proprio donjon, esemplato su quelli che si conoscono nella Francia nordoccidentale (e che di là furono esportati in Inghilterra e in Oltremare). Questa possente costruzione residenziale-difensiva - per la quale l'analisi delle tecniche murarie e delle malte e la mensiocronologia dei mattoni delle sue fondazioni limitano l'incertezza cronologica fra 1190 e 1230-1250 -, identificata nel corso di scavi archeologici, appare del tutto enigmatica; certo è suggestivo pensare che l'ignoto committente fieschino, per una finalità ancora ignota, sia ricorso alle maestranze impegnate nel cantiere del vicino duomo.Il potere pubblico non ebbe sede stabile fino agli ultimi anni del sec. 13°: i consoli (1099-1190) si riunivano presso il Capitolo della cattedrale o l'episcopio, ma altre magistrature convenivano in alcune chiese o addirittura in palazzi privati, e la situazione non cambiò con il governo podestarile (1217), finché Guglielmo Boccanegra, divenuto capitano del popolo, nel quadro di una svolta politica accentratrice, non promosse la costruzione al centro dell'arco portuale (in posizione, cioè, alternativa rispetto alle sedi tradizionali del potere cittadino) del palatium communis Ianue de Ripa (palazzo S. Giorgio). L'unico aspetto eccezionale, che lo distingue nella tradizione costruttiva antelamica dei palazzi con loggia e delle domus magnae delle grandi famiglie, è l'isolamento dal tessuto urbano, la sua ipostatizzazione come volume architettonico 'assoluto' per evidenti ragioni simboliche. Si deve sfatare il mito storiografico locale che vuole fra Oliverio, monaco cistercense di S. Andrea di Sestri e minister et operarius del porto e del molo, progettista del palazzo e, in genere, architetto. Una rilettura dell'epigrafe che lo menziona (murata sul prospetto verso la città) dà infatti risultati diversi da quelli divulgati: fu Boccanegra a ordinare, nel 1260, l'erezione del palazzo e poco dopo (postmodo), il sagace monaco lo adattò all'uso dell'autorità di allora; è tuttavia arduo stabilire se postmodo si debba intendere dopo il 1262, anno dell'esilio di Boccanegra, e se quell'autorità fosse il Capitanato stesso, la diarchia che gli successe o, più modestamente, la dogana, che vi è documentata però solo con il 1340. Una funzione di questo genere converrebbe assai meglio a una figura di natura tecnico-amministrativa. E ciò trova conferma nel fatto che mai i documenti attribuiscono a fra Oliviero l'inequivocabile titolo di magister, cioè di architetto, ma solo e sempre quello di minister et operarius, che comporta sicuramente, oltre all'esercizio di capacità amministrative, anche il possesso di competenze di scelta e di indirizzo, ma non certo compito di progettazione architettonica e di sorveglianza tecnica del cantiere. Si deve dire, infine, che è stata proprio l'errata lettura della lapide citata a far ritenere ammissibile una confusione di ruoli fra minister e magister e un nesso diretto fra erezione del palatium communis Ianue de Ripa e operato del monaco. Senza contare che proprio il suo ruolo di "minister et operarius portus et moduli" farebbe ritenere più plausibile un suo intervento per la modifica d'uso del palazzo, piuttosto che per l'erezione di questo, che l'epigrafe non collega né sintatticamente, né logicamente, né temporalmente, al suo intervento.Furono le case delle famiglie magnatizie (Doria e Spinola) che ripresero il potere dopo l'intermezzo di Boccanegra, sostenuto dalla parte 'popolare', a ospitare le magistrature dopo il 1272; solo nel 1291 si avviò il processo che portò, nel 1312, a dare al Comune una sede definitiva, presso il palazzo arcivescovile: non si trattò, tuttavia, di una realizzazione di alto profilo, ma di una semplice ristrutturazione di due fabbricati, quelli di Accellino Doria e di Alberto Fieschi, nucleo del palazzo del Capitano del popolo, poi inglobato nel seicentesco palazzo Ducale.Favorito dalle grandi famiglie (Fieschi, Doria), l'insediamento degli Ordini mendicanti nelle aree disponibili dentro o nei pressi della città difesa dalle mura del 1155 è il fenomeno dominante del Duecento genovese. Ancora prima che una rivoluzione spirituale, culturale e formale, esso ne indusse una percettiva e dimensionale. È infatti la vastità, inaudita a confronto dei modesti spazi delle chiese urbane locali, l'aspetto saliente della nuova edilizia mendicante, funzionale alla predicazione, che prende a dominare la sagoma urbana: chiese alte e ampie, di pianta basilicale variamente proporzionata, e chiostri (quadrati, rettangolari, perfino triangolari) annessi a compositi edifici conventuali, dominati da svettanti torri campanarie cuspidate. Se accanto alle tecniche edilizie consuete sono largamente usati materiali più poveri, come il mattone e l'intonaco, non certo estranei ma opzionali nel 'sistema' antelamico, anche le soluzioni architettoniche più manifestamente d'importazione appaiono come metamorfizzate, assunte con estrema flessibilità. L'associazione di pilastri polilobati e colonne, di sistemi voltati e di tetti lignei è quasi una costante che rende omogenea la produzione architettonica mendicante. Non vi si scorgono tipologie distintive dei singoli Ordini ma, al di là dei diversi accenti e di qualche originalità, risalta una tendenza verso l'unificazione delle esperienze dovuta forse alla capacità delle maestranze antelamiche di elaborare soluzioni standard da impiegare a seconda della necessità. E se spicca in questi edifici l'abbandono tendenziale della scultura architettonica in favore di semplici decorazioni fitomorfe, si concentra in essi la grande scultura figurata, in genere funeraria.Ricostruibile da disegni e dettagliati rilievi eseguiti prima della demolizione (dal 1805), la grande fondazione minorita di S. Francesco di Castelletto fu eretta dal 1250 per impulso di Simone Marabotto, Guglielmo Cibo e di alcuni dei Fieschi, tra cui il fratello del papa Innocenzo IV, Andrea, arcidiacono della cattedrale. Solo nel 1302 l'arcivescovo Porchetto Spinola consacrò l'edificio compiuto, nel frattempo già dotato di un chiostro quadrangolare sul lato nord, utilizzato per sepolture, consacrato nel 1290. Fin nei caratteri della facciata l'edificio manifestava la sua natura di chiesa-madre dell'Ordine a G.: se il grande rosone è infatti tipico dell'architettura genovese dell'epoca, le due bifore alte e strette e il portale doppio, con i due ingressi separati da un trumeau, si devono leggere come rimandi alla chiesa-madre assisiate (secondo procedure di scomposizione e reimpiego selettivo; Krautheimer, 1942). Strettamente motivata da funzionalità liturgica è l'alternanza delle coperture e dei sostegni (tetto a travetti su colonne nella parte anteriore delle navi, cui si accedeva solo dalla facciata, volte su pilastri nella zona a uso conventuale, in comunicazione con gli ambienti claustrali); segnale di presenza, di magnificenza e di continuità 'genovese' sono la torre nolare ottagona, la facciata dicroma a quattro spioventi e, almeno in parte, l'icnografia cruciforme; riaggancio a tipologie mendicanti di referenza umbro-toscana è la presenza delle cappelle absidali a fondo piano.A questo schema, sia pur con significative varianti, fanno riferimento le altre due grandi chiese mendicanti cittadine, S. Domenico e S. Agostino. Fondata sempre nel 1250, la prima (anch'essa demolita nel sec. 19°), la più vasta della città, punto di riferimento per una comunità domenicana ricca di figure di spicco intellettuale (Giovanni Balbi, Jacopo da Varazze), pone alcuni problemi (coperture, campanile) che meriterebbero approfondimenti. Segno del lunghissimo iter costruttivo (fu compiuta solo dopo il 1440) erano lo spezzarsi dell'asse longitudinale dell'edificio, a causa dell'interruzione dei lavori, e la facciata, semplificazione quattrocentesca di formule tradizionali, deprivate di ogni contenuto plastico.Originariamente dedicata a s. Tecla in ricordo dell'antico insediamento in val Bisagno, la chiesa degli Eremitani, intitolata a s. Agostino, fu eretta al limite di una delle rare piazze pubbliche cittadine, quella di Sarzano. Un'iscrizione sepolcrale nel campanile, datata 1282, ricorda un magister Pietro Bono di Antelamo, che potrebbe essere stato uno dei costruttori del tempio, fondato nel 1260 (o nel 1256, secondo altre fonti, ma la data si dovrebbe forse anticipare di qualche anno), eretto con notevole rapidità e compiuto nel 1289 (data della facciata e del chiostro dalla forma triangolare, inedita allora per la Liguria, ma non del campanile, compiuto nel sec. 15°). Come in S. Francesco, la giustapposizione di un corpo anteriore coperto in legno a uno presbiteriale voltato, corrispondente a due diversi livelli pavimentali, si spiega con la funzionalità conventuale (non è un caso che anche qui gli accessi originali al settore voltato immettano in ambienti claustrali) di un edificio in cui la critica ha notato anche taluni elementi lessicali di ascendenza francese, assai mediati tuttavia dalla cultura mendicante lombarda. Il tema architettonico del capocroce di S. Agostino, l'alternanza - su campate quadre - di piedritti forti e deboli diventa dominante nell'altra chiesa mendicante pervenuta integra, S. Maria del Carmine, fondata nel 1262 grazie all'intervento di Ottobono Fieschi. E la contiguità fra le due realizzazioni è tanto netta che si potrebbe ritenerle frutto dell'evoluzione di un'unica idea progettuale, che comunque, anche qui (dove le volte delle due campate anteriori sono frutto di un intervento successivo), si doveva confrontare con l'esigenza 'conventuale' di coperture alternate.
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Il sarcofago conservato nella chiesa di S. Marta (sec. 6°-7°) può essere preso a simbolo del trapasso fra tradizione figurativa bizantina e altomedievale a Genova. Ma quest'opera raffinata, proveniente da un centro di alto livello, forse Ravenna, in cui tale dinamica si propone più come osmosi di forme che come svolta di cultura, se attesta l'esistenza in città di nuclei 'forti' di committenza, non rispecchia certo il livello, le capacità e il gusto delle botteghe locali. Di esse la critica ha infatti riconosciuto la modestia, soprattutto a paragone delle coeve esperienze scultoree norditaliche, fra l'età liutprandea e quella carolingia.Regna la più grande incertezza circa la produzione del 7° e della prima metà dell'8° secolo. Ma si dovrebbe parlare quasi di vuoto di documentazione, visto che le uniche opere finora riferite al sec. 7° - un capitello nel sacello di S. Nazaro (oggi nella chiesa delle Grazie) e un altro dalla cripta di S. Stefano - sono di cronologia incerta, il primo per il cattivo stato di conservazione, il secondo, non più reperibile, per l'apparente seriorità della tipologia 'a crochets a frutto' e del canone cilindrico del kálathos.Riverberano in forme impoverite esperienze figurative albinganesi e intemelie, ma anche bobbiesi e, più genericamente, lombarde, le rare sculture di sicura origine genovese databili tra la fine del sec. 8° e il 9°, segno di una condizione marginale della produzione locale rispetto a quelle dei centri maggiori, cittadini e monastici, della Maritima e, più in generale, di un'ancor debole identità culturale cittadina. È questo il caso di un pluteo reimpiegato in S. Maria di Castello - la chiesa, di probabile origine longobarda, situata nei pressi del castrum altomedievale -, di un pilastrino decorato con intreccio a matassa (Palazzo Reale, depositi delle Soprintendenze per i Beni Archeologici, Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici della Liguria), ritrovato negli scavi di S. Sabina, distrutta dai saraceni nel 936, e del pluteo reimpiegato nel portale di S. Nicolò dell'Isola, a Sestri Levante, assai notevole per fattura e per possibilità di rimandi.L'identità urbana genovese si consolida e si precisa, fra sec. 10° e 11°, nell'intreccio fra i poli egemoni, in termini di committenza artistica e di autorità politico-economica, quello monastico e quello vescovile. Segno tangibile di tale propositivo assetto culturale è la lastra frammentaria (non reperibile) con due pavoni in ambito paradisiaco, in origine parte dell'iconostasi di quella basilica di S. Siro che fu la primitiva cattedrale cittadina. Databile nel sec. 10° e di probabile provenienza costantinopolitana, ribadisce i legami fra il centro ligure e la capitale d'Oriente, forse rinnovati a questa data in rapporto con l'azione della dinastia ottoniana nei confronti della basilica e della città. In chiave simile sono da leggere anche i documenti scultorei e plastici del monastero di S. Fruttuoso di Capodimonte, della fine del secolo. Fra i capitelli del chiostro, uno, con un'aquila ad ali spiegate entro un cerchio su una faccia e un mostro alato anguipede nell'altra, presenta contatti con la plastica bizantina di età macedone e con quella eburnea di età ottoniana. A quest'aulica produzione si riallacciano, nello stile e nella decorazione, anche gli imponenti stucchi parietali con intrecci fitomorfi e figure di animali che, di recente ritrovati a S. Fruttuoso, sono un documento capitale per lo studio della plastica altomedievale, non soltanto genovese. Si spiegano solo con l'impulso della cultura di corte ottoniana, raffinata e classicista, che, a opera di Adelaide di Borgogna (m. nel 999), attuò un preciso programma di protezione e munificenza nei confronti del cenobio costiero, per il quale, nel corso del sec. 11°, venne rilavorato un pilastrino marmoreo in cui fu figurato un Crocifisso oggi a San Fruttuoso di Capodimonte (Mus. dell'abbaziale), immagine iconica di per sé notevole, in un contesto genovese, che ha verosimilmente per modello una croce astile abbaziale, argentea o bronzea.Alla fine del sec. 10°, quando l'antico luogo di culto dedicato a s. Tommaso, eretto sul promontorio del Capo d'Arena, divenne un monastero benedettino, in coerenza con la politica dei vescovi genovesi, esso fu dotato di un chiostro i cui capitelli a stampella (Mus. di S. Agostino) rivelano "modi scultorei bizantino-macedoni che ripropongono la provenienza neoellenica di questa facies culturale mediterranea, interessante anche l'Italia sullo scorcio del X secolo" (Dufour Bozzo, 1987) e trovano confronti a Montecassino (fase sigefrediana), a Benevento (chiostro di S. Sofia), a Vieste sul Gargano (cattedrale) e a Eschau, in Alsazia. Realizzati in marmo di Carrara, si possono leggere come segno delle potenzialità economiche della committenza monastica e dell'esistenza di officine locali di buon livello, visto che nella serie "compaiono [...] alcuni casi di non finito a diversi livelli di lavorazione" (Dagnino, 1992a).L'arrivo delle maestranze antelamiche, confermato dai documenti solo nel pieno sec. 12° (quando esse sono ormai strutturate in corporazione cittadina) ma credibilmente retrodatabile agli inizi del secolo, generò nuove condizioni operative per gli scultori e maggiori possibilità di lavoro e di confronto, nel generalizzato accrescersi e diversificarsi della domanda da parte di committenti laici ed ecclesiastici e nell'instaurarsi di una 'forma-cantiere' la cui struttura, fino al sec. 14°, non variò affatto. La figura dello scultore vi è subordinata a quella del magister Antelami, imprenditore, architetto e costruttore, e forse non vi è integrata stabilmente ma reclutata in base alle esigenze concrete. Se questa condizione strutturale giustifica la tendenza ricettiva del centro genovese in campo scultoreo e la sua congenita multiformità linguistica, è anche vero che le opere databili nei primi decenni del sec. 12° mostrano nessi con la cultura lombarda (comasca e milanese, soprattutto), in rapporto con l'inserimento della città nella Marca Obertenga e nel regnum Italiae e con le origini e l'educazione dei magistri Antelami. È il caso di due capitelli (uno corinzio e uno composito a foglie lisce, in pietra locale) dalla chiesa di S. Sabina e del sarcofago con Daniele nella fossa dei leoni (Mus. di S. Agostino), di un doccione leonino, di due lastre - con coppia di leoni, con intrecci vegetali - e di un fregio con colombe e draghi reimpiegati nella cattedrale e del corredo scultoreo del portale nord di essa (dopo il 1118 e prima del 1142), dedicato a s. Giovanni Battista. Il fatto che il citato capitello di S. Sabina sia in pietra locale e che il sarcofago con Daniele e un frammento di stipite con leone passante proveniente da un portale del duomo (Mus. di S. Agostino), di cui tutto s'ignora (ma più antico dei due romanici superstiti), non siano scolpiti in marmo apuano ma (nel caso dello stipite) comasco attesta come il nesso fra produzione scultorea e riapertura delle cave di Carrara ancora non fosse operante o assoluto e ribadisce la connotazione lombarda degli esordi della scultura romanica in città. Ma nel ricordato portale nord della cattedrale si colgono gli altri aspetti salienti di questo esordio: il reimpiego di marmi classici in funzione estetica, architettonica e decorativa, e la ripresa delle forme antiche per nobilitare le opere moderne. In varie soluzioni, lo esemplificano i portali di S. Maria di Castello, S. Damiano e S. Donato, finché, con la metà del secolo, segni di palese rinnovamento si ravvisano nei protiri delle porte di città (1155), in quello aggiunto al portale nord della cattedrale e soprattutto nel portale sud (1155-1160). In quest'ultimo cantiere, artefici di formazione padano-nicolesca diedero vita a un programma iconografico articolato e didascalico, a un vero 'discorso per immagini' che esaltava la funzione comunicativa, civica e urbanistica dell'ingresso in quell'edificio sacro che era anche il simbolo e il luogo di riunione della collettività. La fattura dei capitelli del suo protiro mostra un trattamento del marmo identico a quello ravvisabile nei capitelli interni del portale nord, di oltre trent'anni anteriori, e a quelli, datati ai primi del sec. 11°, all'interno dell'abside della chiesa di S. Stefano. Letti in chiave 'preromanica', questi ultimi sono l'incunabolo di una linea stilistica riconoscibile nei principali cantieri antelamici, che si evolvette verso il 1160, fino all'esito sclerotizzato dei capitelli del secondo chiostro di S. Tommaso (Mus. di S. Agostino), del 1186. Su un percorso di narratività si indirizzano invece i capitelli figurati del falso matroneo di S. Donato (1160 ca.) e del chiostro di S. Andrea della Porta, non a caso contemporanei alle tendenze narrative e celebrative attestate dalle più antiche miniature degli Annales Ianuenses di Caffaro (Parigi, BN, lat. 10136) e con gli affreschi realizzati nel 1148 ca. all'interno della cattedrale.Con l'apertura dei grandi cantieri ecclesiastici e con il moltiplicarsi delle costruzioni civili in pietra, si organizzò e si strutturò il rapporto 'ombelicale' di G. con Carrara, dove il marmo tornava a essere cavato e commercializzato proprio per soddisfare il bisogno dello sviluppo urbanistico ed edilizio genovese. Sono un simbolo e un esito di tale nesso le coincidenze fra il citato portale nord della cattedrale e quello sud del duomo di Carrara, omogenei per cultura litotomica, architettonica e scultorea. E appunto la fabbrica della cattedrale e quella di S. Maria di Castello, rinnovate quasi in contemporanea ai primi del secolo dai maestri antelamici, offrirono l'occasione per un impiego in grande stile di marmo, in parte reimpiegato, ma per la maggior parte cavato appositamente nel centro apuano.Oltre ad artefici 'lombardi' e locali (il discrimine fra le due categorie è arduo e forse, a ben vedere, illegittimo), i cantieri antelamici accolsero, dalla metà del sec. 12°, anche scultori di provenienze diverse: pisani (forse attivi in S. Maria di Castello e nelle porte della città) e padani (nei portali di S. Gottardo in duomo e di S. Damiano, nei capitelli di S. Andrea, S. Donato e della loggia di piazza Luxoro). Per quanto si debba parlare piuttosto di contiguità e giustapposizione di tendenze e linguaggi che di vera sintesi stilistica, queste presenze contribuirono indubbiamente a riconvertire l'offerta e a 'educare' la domanda, a portarla più o meno in sintonia con quella svolta narrativa che miniatura e pittura (ma si rammenti anche la 'scrittura monumentale', ad alto contenuto celebrativo, storico e narrativo; Dagnino, 1987) avevano intrapreso con qualche anticipo. È una cultura figurativa 'media', dotata tuttavia di un proprio potenziale di esportazione e di diffusione (portali di S. Giacomo di Gavi, del 1174 ca., e di S. Pietro a Castelnuovo Scrivia, datato 1183) lungo le maggiori vie di traffico commerciale fra G. e la pianura Padana.Senza rammentare che la 'ricettività strutturale' di scultori da parte dei cantieri dei magistri Antelami è il vero carattere originale e distintivo della cultura del Romanico a G. (in campo architettonico, l'oligopolio antelamico sortì un effetto contrario, poiché determinò una tendenziale uniformità della produzione e conferì agli edifici civili ed ecclesiastici una facies riconoscibile come 'genovese'), è impossibile giustificare uno dei fenomeni salienti della seconda metà del secolo: la contemporaneità di realizzazioni stancamente ancorate alla tradizione altomedievale, talora al limite del ritardo, e di altre, invece, moderne o addirittura di avanguardia. Nel primo caso rientrano un basamento con leoni affrontati e una lunetta di monofora da S. Tommaso e due altri capitelli, uno da S. Andrea e uno di provenienza ignota (Mus. di S. Agostino). L'opera emblematica di questo filone è comunque per certo la già citata seconda serie di capitelli del chiostro di S. Tommaso (1186); realizzata in marmo apuano appositamente cavato e di ottima qualità, comportò sicuramente un esborso notevole da parte dei committenti, che ebbero o imposero qualcosa di simile a una traduzione 'volumetrica' dei capitelli antichi: la piena padronanza nell'uso degli strumenti fa pensare che vi abbia lavorato uno scultore (non un semplice scalpellino), ma specialista di ornato, non di figure. Nel secondo caso si debbono citare i due leoni stilofori e i coevi capitelli, provenienti dal portale sud della chiesa di S. Siro (Mus. S. Agostino), realizzati da un seguace del pisano Guglielmo fra 1170 e 1180 su modello di quelli del pulpito ora nella cattedrale di Cagliari. Il tipico motivo a girali che decora la base delle colonne fa ritenere forse campionese questo artefice, rinnovatore a G. della tipologia del protiro su colonne. Ma assai più innovativa e aggiornata era stata, un quindicennio prima ca., in un altro cantiere antelamico cittadino, quello di S. Maria delle Vigne, l'attività dello scultore francese impegnato nella decorazione di uno dei portali di facciata dell'edificio, forse il maggiore, con i simboli degli evangelisti ai lati di un Agnus Dei. Ne resta un concio d'arco con l'angelo di s. Matteo (Mus. Diocesano), che denuncia una formazione avvenuta nel foyer protogotico dell'Ile-de-France, precocissima ambasceria in Italia di una cultura progressiva, appena sbocciata. Nella medesima chiave si deve leggere la statua di Maria Regina assisa (1180-1190) di Santa Margherita Ligure (convento dei Cappuccini), forse proveniente da G., vero - anche se danneggiatissimo - capolavoro di delicata tensione fra schemi romanici e gotica ricerca del 'naturale'. Quasi contemporanea (datata 1180) è la lapide posta alla base del campanile di S. Giovanni di Pré, con il ritratto di profilo di fra Guglielmo, precettore dell'Ordine degli Ospedalieri e committente dell'edificio, eretto dal 1180 al 1230 circa.La presenza di tali opere ha fatto ipotizzare che proprio in un cantiere genovese dei maestri antelamici si sia formato come costruttore e scultore, a contatto con le esperienze protogotiche francesi in atto a G. (e di cui le sue prime opere note già risentono), Benedetto Antelami. E se nessuna scultura genovese si può purtroppo ritenere di sua mano - diversa l'opinione di Quintavalle (1990) -, è vero che un'officina di scultori dai suoi modi strettamente dipendente lavorò, alla fine del sec. 12° o agli inizi del 13°, all'apparato scultoreo di un portale con protiro - incompiuto e mai posto in opera per un improvviso mutamento progettuale - i cui elementi (due basi con scene di venationes concepite su modello di sarcofagi romani; due mensole decorate, di cui una non finita nella faccia a vista; due leoni stilofori modellati su quelli parmensi e relative basi figurate di colonne, nella cattedrale di S. Lorenzo) si rivelano stilisticamente assai interessanti e originali, per l'inedita vena classicistaarcheologizzante che si sposa al solido ed elegante 'protonaturalismo' derivato dalla lezione di Benedetto, Antelami dictus. Che anche questi nobili artefici fossero integrati nell'oligopolio corporativo antelamico locale e che operassero sia in cantieri di edifici ecclesiastici, com'è noto, sia in quelli civili, come non si poteva finora dimostrare con certezza, è attestato dai capitelli della loggia di un palazzo protoduecentesco (via di S. Bernardo, nr. 18), che, sebbene mutili, mostrano un linguaggio identico a quello dei leoni stilofori e dei rilievi con venationes della cattedrale.La ricostruzione di quest'ultima in forme gotiche fu avviata verso il 1220 da una maestranza straniera guidata da un architetto-scultore di formazione franco-normanna che, oltre a impostare la nuova facciata, ne eseguì le sculture di proporzione maggiore (Di Fabio, 1990; 1992a), mentre un secondo artefice, di estrazione mosana e di formazione diversa, più attento alla tradizione della miniatura, della toreutica e dell'oreficeria, eseguì l'apparato di sculture narrative di minori dimensioni, intervenendo anche nel 'restauro' del romanico portale di S. Gottardo e, soprattutto, nel rifacimento dell'altare-cappella di S. Giovanni Battista, per cui eseguì l'arca marmorea e altre figurazioni. Riconducibili indubbiamente alle linee portanti dello 'stile 1200' europeo, anche nel variegato rapporto con l'eredità classica, sono ormai entrate a pieno titolo - dopo secoli di pervicace esclusione - nel dibattito critico sulla cultura del Duecento italiano ed europeo. I contributi più recenti (Cervini, 1993) spostano verso l'Inghilterra plantageneta l'asse culturale di queste sculture e ne propongono una leggera retrodatazione; a parte la differente accentuazione, la tesi integra piuttosto che contraddire le tesi fin qui esposte (Di Fabio, 1984; 1986b; 1987; 1990; 1992a; Romano, 1992), poiché conferma in effetti una delle componenti di questa cultura trapiantata, quella 'normanna', che a G. si connota tuttavia in termini originali per l'impiego 'strutturale' della policromia marmorea in dialettica con sculture realizzate in attuazione di un preciso programma iconografico di natura dottrinale (Di Fabio, 1987; 1992a).La dimensione pienamente europea delle sculture duecentesche della cattedrale trova parallelo solenne nel busto marmoreo, ritenuto dell'imperatore Federico II, ora a Roma (coll. privata) ma proveniente da G., sintesi di Gotico e Classicismo, databile al più tardi verso il 1230, ricco di rimandi alla glittica classica, alla scultura eburnea francese e alla statuaria reimsiana (da stabilire se per annunciare quest'ultima o per seguirne i modelli). Se fosse un dono 'di Stato' recato a G. da Enrico di Malta nel 1218, un dono privato del sovrano a una delle grandi famiglie ghibelline (i Doria, presso cui egli soggiornò nel 1212, i De Mari, gli Spinola), o un frutto del sacco di Vittoria, presso Parma, nel 1247, è oggetto di discussione, come da approfondire è anche la valutazione tecnica. Aperto resta anche il problema se proprio a Federico II si debba far risalire il gusto per il reimpiego di sculture e pezzi classici come segno di glorificazione privata e dinastica che culmina nella facciata di S. Matteo (dopo il 1278, dove un busto imperiale romano, un sarcofago e una statua frammentaria si affiancano a epigrafi celebrative) e nella nuova casa abbaziale di S. Fruttuoso di Capodimonte.Questa attenzione per i fatti più vivi della cultura europea contemporanea trova suggello nella lapide funeraria di Simonetta e Percivalle Lercari (Mus. di S. Agostino), opera complessa e tipologicamente eccezionale, sinolo di micro e macrotecniche, di scultura e oreficeria, in cui è palese l'aggiornamento delle botteghe locali sui più recenti modelli di gotica, colloquiale narratività parigina (cattedrale di Notre-Dame, portale sud).A parte sta il caso del clipeo marmoreo con Cristo benedicente (Mus. di S. Agostino), di problematica provenienza, eseguito verso il 1204 da un artefice bizantino forse edotto anche dell'operato della maestranza costantinopolitana trapiantata a Pisa dopo la quarta crociata e qui attiva per il battistero e per S. Michele degli Scalzi. Isolata oggi, ma non quando venne eseguita, si legge come simbolo di quei nessi 'mediterranei' (di segno bizantino e arabo) tanto rilevanti per G. fra sec. 12° e 14° anche sul piano della promozione del gusto e della cultura artistica locale (ispirato a modelli islamici e 'tedeschi' fu quel magister Oberto che eseguì, nel 1226, un grifone bronzeo da porre in cattedrale come simbolo civico, di cui resta, nella chiesa, la copia prototrecentesca; Di Fabio, 1989).Una sorta di spaccato delle tendenze della scultura a G. fra metà Duecento e primissimo Trecento è offerto dall'esame delle formelle decorative del chiostro di S. Francesco di Castelletto, in parte in loco, in parte reimpiegate in S. Andrea di Sestri Ponente, altre presso il Mus. di S. Agostino e altre a Firenze (Mus. Bardini). Vi si succedettero, dal 1250-1260, scultori educati nel cantiere dei portali della cattedrale; un notevole artefice, avvertito delle novità di Nicola Pisano, vi operò a fine secolo, mentre un altro scultore, di piglio differente e di minori capacità ma di origini postnicoliane, eseguì per la stessa chiesa francescana l'angelo a rilievo (Mus. di S. Agostino).Fra 1312 e 1318, lavorò al chiostro di S. Francesco di Castelletto anche il cantiere contemporaneamente attivo per il chiostro di S. Matteo (1308-1310), per il sepolcreto Doria in S. Fruttuoso di Capodimonte (1305) e per il ripristino della cattedrale genovese (1307-1312) incendiata nel 1297: tutti questi cantieri erano strettamente legati fra loro anche da nessi di committenza, com'è stato accertato. Accanto al capomastro, il Maestro di Giano, altre due personalità di scultori sono riconoscibili: un Marco Veneto e il Maestro degli Angeli del duomo, quello nel quale l'ascendenza lombarda, comasca e campionese, che prevale all'interno della maestranza, si mostra più netta (Di Fabio, 1992b). Non può essere un caso se proprio a questa bottega, operante in situazione pressoché monopolistica per almeno un quindicennio (fu attiva anche in edifici pubblici civili, come il Macello nuovo di Soziglia, di cui eseguì i capitelli e un Agnus Dei nel 1291-1292, e in dimore private, come quel palazzo Doria i cui capitelli sono reimpiegati nel 'munizioniere' del palazzo Ducale), venne affidato il compito di illustrare con la scultura nella cattedrale (busto di re Giano, grifo, epigrafi monumentali) il mito delle origini di G. dal punto di vista della storia civile, mentre un solenne pittore costantinopolitano suscitò immagini allusive alla sua eziologia ecclesiastica (Di Fabio, 1989).All'assetto stabile e statico della produzione scultorea cittadina venne impresso un sussulto, fra 1313 e 1314, da un fatto imprevedibile: l'erezione in S. Francesco di Castelletto della tomba di Margherita di Brabante - la moglie dell'imperatore Enrico VII di Lussemburgo - a opera del maggior scultore del tempo, Giovanni Pisano. Un bilancio di centoventi anni di studi su questa opera - l'unica dell'artista a destinazione funeraria, smembrata già nel sec. 16° e nota solo da frammenti, in parte a G. (Mus. di S. Agostino; Gall. Naz. di Palazzo Spinola) in parte in Svizzera (coll. privata) - è stato operato da Seidel (1987), con acquisizioni più notevoli tuttavia sul piano iconologico che su quello ricostruttivo. Recenti studi (Di Fabio, in corso di stampa) hanno consentito tuttavia di identificare altri frammenti del monumento, una figura stante di accolito (Mus. di S. Agostino) e una testina (già coll. privata), oltre che di reperire un importante disegno di primo Seicento (Arch. di Stato) raffigurante una buona parte delle sculture oggi perdute, tra cui il sarcofago, la statua della regina morente sorretta da due figure e altre statuette minori del corredo. Tali acquisizioni consentono di affrontare su più solide basi conoscitive le problematiche complesse di un capolavoro innovativo sul piano architettonico, scultoreo, tecnico-esecutivo e iconografico, tanto sbalorditivo, soprattutto sullo sfondo della situazione genovese, che il suo primo esito fu di imporre un repentino scarto rispetto al continuum della tradizione delle botteghe locali. Prima del 1313 non ha senso parlare di 'influsso pisano' sulla scultura a G., ma solo di presenze individuali, integrate nella prassi dei cantieri. Dopo quella data, invece, le presenze di scultori toscani s'infittirono, si ripeterono, e le loro opere fornirono parametri nuovi, che indussero varie botteghe locali a una rapida riconversione linguistica. In questa chiave sono da leggere le tre statue reperite (Quartino, 1991a; 1991b) in due diverse coll. private della città, che non mostrano rapporti diretti né con lo stile né con i problemi della tomba imperiale.Dopo Giovanni Pisano, fra 1325 e 1328 anche Giovanni di Balduccio lavorò in S. Francesco di Castelletto a due tombe i cui resti sono al Mus. di S. Agostino (inv. nrr. 48, 1688; PB 2100a, b), mentre un suo stretto collaboratore scolpì nel lato ovest del chiostro alcune formelle con simboli degli evangelisti, subito imitate da almeno due artefici locali attivi per lo stesso edificio, che le tradussero in forme impacciate. Semplificarono indubbiamente lo stile tardo di Giovanni Pisano i due scultori pisani che, fra 1336 e 1341, elaborarono l'idea architettonica (basata sulla dialettica fra capella e sepultura) del monumento funerario del cardinale Luca Fieschi, eretto in cattedrale, e ne eseguirono buona parte del corredo scultoreo (Genova, Mus. Diocesano; Mus. di S. Agostino; e forse Boston, Mus. of Fine Arts). Di essi, il Maestro della tomba Fieschi è il più originale per il suo drammatico e spigoloso modellare, che risente anche della lezione di Tino di Camaino (spiccata soprattutto nel ritratto del cardinale giacente e nel S. Antonio Abate, che trovano riscontro nella tomba del cardinale Riccardo Petroni nel duomo di Siena, ma anche nel sarcofago con l'Incredulità di s. Tommaso, tema allusivo alla dignità del papato e del collegio cardinalizio, eccezionalmente figurato a pieno campo), e si ritrova, oltreché in un dossale (Mus. di S. Agostino), anche in almeno due formelle del chiostro di Castelletto (Firenze, Mus. Bardini), mentre dipende dai suoi modi un frontale d'altare (Mus. di S. Agostino) proveniente dalla chiesa di S. Domenico. Più debole e pacato il Maestro degli angeli Fieschi, che eseguì infatti anche vere e proprie copie delle statue di Virtù della tomba di Margherita di Brabante (chiesa di S. Maria Maddalena), la cui pertinenza alla tomba Fieschi si può per il momento solo ipotizzare.Diversa educazione, probabilmente lombarda, hanno altri scultori: quelli campionesi del rilievo della 'Madonna Bozolo' (1324; cattedrale, portale nord), del sarcofago di Pagano Doria (1360 ca.; Mus. di S. Agostino), delle tre statue acroteriali della chiesa di S. Agostino (Mus. di S. Agostino) e quelli, di simile estrazione, che, attivi forse nell'ambito della fabbrica della cattedrale, aggiornando il proprio faticato linguaggio in base a modelli giovannei di secondo grado, ripresero a lavorare, nel 1343, all'incompiuto monumento di Luca Fieschi in duomo, di cui forse eseguirono, oltre che le parti architettoniche, anche la Madonna con il Bambino (chiesa di S. Maria Maddalena). Culmine di queste esperienze campionesi è, ormai nei primissimi anni del sec. 15°, la tomba pensile marmorea di Antonio Grimaldi, già in S. Giovanni di Pré (ora nella cattedrale, fianco sud), opera che inaugurò la fase di transizione verso nuovi equilibri linguistici e produttivi, esemplificati dalla incipiente cultura gaginesca e dal monumento funerario equestre di Francesco Spinola (Gall. Naz. di Palazzo Spinola; Mus. di S. Agostino). A esso si ricollegano due mensole leonine in pietra locale dello stesso museo e una testa coronata da villa Rosazza (Acqui Terme, coll. privata), già creduta d'ambito pisano e datata nel primo Trecento.Il filone più originale e propositivo della scultura locale del sec. 14° si coglie forse nel campo del ritratto: exempla di matrice pisana (l'effigie celebrata di Margherita di Brabante, le prove notevoli del Maestro della tomba Fieschi) vivificano l'algido plasticismo di matrice lombarda e campionese, in coerenza con le ricerche figurative italiane ma sotto l'impulso di necessità politiche e celebrative specificamente locali, come il mutamento dell'assetto dello Stato, con l'istituzione del dogato vitalizio. Già l'arcivescovo Jacopo da Varazze, gran moderatore delle discordie civiche, ebbe l'onore di un'arca con statua giacente nella chiesa del suo ordine, S. Domenico (Mus. di S. Agostino): opera che, realizzata fra 1298 e 1299, non presenta agganci 'pisani' ma si può comprendere bene alla luce delle esperienze in atto a G. in quel momento. E in questa direzione si devono leggere anche i due ritratti scultorei (ma un terzo, dipinto, che lo rappresentava tra gli anziani sullo sfondo della città è ricordato dalle fonti in S. Agostino, la chiesa delle corporazioni artigiane) del primo doge di G., quel Simone Boccanegra che, organizzando la mort de soi, si fece raffigurare (1356-1363 ca.) ieraticamente assiso in un rilievo (disperso, ma noto da fotografie) che non fu forse mai posto in opera nella chiesa di S. Francesco di Castelletto per opposizione del nuovo doge, Gabriele Adorno, che decise la damnatio memoriae del predecessore e l'esilio della sua famiglia. Qui fu sostituito nel 1363 dalla statua giacente (Mus. di S. Agostino), capolavoro della scultura propriamente genovese del Trecento, originale nella ricerca di una verità ritrattistica filtrata da una puntuale volontà di stilizzazione sposata a un senso volumetrico della forma che non trova riscontro in modelli pisani di alcun tipo. Non può essere infatti un caso se l'astrazione che caratterizza il modellato dei volumi corporei di questa figura si ritrovi in altre due statue dell'epoca: quella mutila del doge Leonardo Montaldo assiso, sovrastante un grande monumento funerario eretto nel 1384 in cattedrale (in cui essa era affiancata da alcune figure, forse magistrati suoi collaboratori), e quella stante dei primi anni del sec. 15°, anch'essa già nel duomo, che raffigura forse un doge in forme dotate di una rude ma eloquente efficacia simbolica (Mus. di S. Agostino).
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A differenza di altri centri della Liguria ove restano testimonianze, certo sporadiche, ma spesso di qualità elevata, come il mosaico del battistero di Albenga o il crocifisso di Guglielmo della cattedrale di Sarzana, a G. fino alla metà ca. del sec. 12° la mancanza di opere pittoriche eseguite in loco o d'importazione rende impossibile ricostruire il quadro della cultura figurativa cittadina, del resto frammentaria almeno fino alla metà ca. del secolo seguente.Anche se fortuito, è pur sempre significativo il fatto che due opere locali della seconda metà del sec. 12° - i lacerti di affreschi che commemoravano la conquista di Minorca, Almería e Tortosa sul muro sud della cattedrale di S. Lorenzo, realizzati verosimilmente poco dopo la conquista di quest'ultima città (1148; Di Fabio, 1986), e gli Annales Ianuenses di Caffaro e dei suoi continuatori (Parigi, BN, lat. 10136), redatti e miniati a partire dal 1166 (Avril, Gousset, Rabel, 1984, pp. 27-29) - non abbiano carattere religioso ma civile e celebrativo della storia cittadina. Se i quasi illeggibili affreschi del duomo non si prestano a una lettura stilistica, i caratteri individuati nelle prime tre campagne d'illustrazione degli Annales (1166-1173; 1173-1196; 1196-1200 ca.), indirizzati prima in senso gotico transalpino poi verso la cultura pittorica centroitaliana (Romano, 1986, p. 25), e la possibilità di una precoce acquisizione da parte del Capitolo di S. Maria delle Vigne di un antifonario miniato (S. Maria delle Vigne, arch.), databile alla metà del sec. 12°, d'area emiliana occidentale (Milanese, 1992) o toscana (De Floriani, 1994), compongono un quadro di eclettica compresenza di diverse tradizioni figurative che restò una costante della cultura pittorica locale non solo nel Basso Medioevo, ma anche per tutto il sec. 15° (Algeri, De Floriani, 1991), fondando il giudizio di G. come 'centro-relais' (Castelnuovo, Ginzburg, 1979, p. 344).L'apertura verso l'arte gotica transalpina, testimoniata per l'ultimo quarto del sec. 12° dall'acquisizione della cassettareliquiario del braccio di s. Stefano, in argento dorato e sbalzato nell'omonima chiesa (Romano, 1986, p. 25; Di Fabio, 1987, p. 98; Cervini, 1993, p. 151), e dell'arca argentea delle ceneri del Battista, nel Mus. del Tesoro di S. Lorenzo (v. anche Botto, in Il passato presente, 1991, p. 57), culmina nel primo quarto del sec. 13° nella decorazione plastica della facciata del duomo (Di Fabio, 1986; 1987, pp. 95-104; Cervini, 1993) e trova riscontro, nella miniatura, nel sacramentario-lezionario oggi ad Albenga (Bibl. Capitolare, A.6). Questo codice, databile entro il 1230 e giunto assai per tempo a G., mostra una singolare commistione di caratteri franco-inglesi nelle iniziali decorate e di elementi bizantineggianti in quelle figurate (De Floriani, 1982; Cervini, 1992).Se l'apporto costantinopolitano costituisce una delle costanti della cultura figurativa genovese - favorito anche dall'afflusso di opere e reliquie (Botto, 1994, pp. 21-22) -, si deve ricordare come tra i canali che resero possibile la conoscenza dell'arte d'Oltralpe vada annoverata la presenza a G. di orafi e battiloro francesi e inglesi tra la fine del sec. 12° e la prima metà del 13° (Cervini, 1993, p. 150ss.); in questi anni si registrano pure le più antiche ma laconiche menzioni di pittori 'locali' (1203: Guifredus e Pascalis; Alizeri, 1870, p. 32), alle quali non è possibile collegare peraltro alcuno degli scarsi documenti pittorici pervenuti: né gli affreschi con storie della Vita di Cristo e figure di profeti, staccati da S. Agostino a Sampierdarena, ora a S. Maria della Cella, la cui datazione, oscillante tra la fine del sec. 12° (Toesca, 1906; Romano, 1986, p. 32, n. 12) e la fine del 13° (Terminiello Rotondi, 1966; Torriti, 1970, p. 33), si ritiene debba orientarsi ai primi anni del Duecento, visti i rapporti tra alcune delle scene cristologiche e gli affreschi della pieve di S. Maurizio a Roccaforte Mondovì (Segre Montel, 1986, p. 41), senza escludere la possibilità di un'esecuzione in diverse fasi (Toesca, 1927, p. 989); né il Giudizio finale affrescato entro tondi in un sottarco della chiesa inferiore di S. Giovanni di Pré, da collegare alla cultura pisana fra il sec. 12° e il 13° (Ghezzi, 1980); né i dipinti murali recentemente scoperti in alcune sale del chiostro dei canonici di S. Lorenzo - dei quali Bozzo sta curando il restauro -, tra cui il meglio leggibile, con la raffigurazione del Calendario, mostra rapporti con l'arte francese della prima metà del 13° secolo. Tali rapporti sono evidenti nell'epigrafe di Percivalle e Simonetta Lercari, datata 1259, proveniente da S. Giovanni di Pré, ora nel Mus. di S. Agostino, dove le figure dei committenti e della Vergine, in argento, derivano dalla statuaria parigina (Di Fabio, 1986, p. 156), mentre le righe dell'iscrizione circondano l'immagine come, nelle bibbie parigine e nei codici giuridici bolognesi, la glossa si dispiega attorno al testo (Cervini, 1993, p. 152).Proprio sotto il segno congiunto della cultura figurativa francese e di quella bolognese si formò, nell'ultimo trentennio del sec. 13°, la scuola miniatoria ricostruita recentemente attorno ai corali già in S. Domenico e ora in parte conservati in S. Maria di Castello (De Floriani, in Corali miniati, 1976; Avril, Gousset, Rabel, 1984, pp. 23-53). Al gruppo di codici raccolti da Gousset (Avril, Gousset, Rabel, 1984; Gousset, 1988) attorno a quei corali va peraltro sottratta la massima parte dei manoscritti cavallereschi (già ritenuti di scuola napoletana e a questa verosimilmente da restituire) collegati alla produzione genovese sulla base di non probanti rapporti nella decorazione filigranata e senza riscontri nell'apparato più propriamente figurativo (Gibbs, 1985). Al nucleo si devono invece aggiungere almeno - dopo le opportune verifiche - alcuni codici inediti, conservati nella Bibl. Univ. (F.V.2; F. VII.7) e a Pavia (Bibl. Univ., Aldini 224), o poco noti, come due manoscritti liturgici destinati verosimilmente a Morimondo (Cambridge, Fitzwilliam Mus., McClean 114; CFM 6), che testimonierebbero dell'attività della scuola genovese anche per committenze extracittadine.La miniatura di fine secolo, che va rivolgendosi sempre più verso modelli bolognesi (De Floriani, 1979b; Romano, 1986), interpretati talora con peculiari durezze di segno - come nell'antifonario firmato da Giovannino da Genova (Vercelli, Mus. C. Leone), che però, proprio per via dell'appellativo, difficilmente si può immaginare attivo nella città natale -, sembra non risentire degli esiti della pittura monumentale, orientata in senso cimabuesco in seguito all'attività genovese di Manfredino da Pistoia, della quale restano gli affreschi con l'Arcangelo Michele e la Cena di Betania, staccati nel sec. 19° da S. Michele a Fassolo, ora nel Mus. di S. Agostino. Se il loro carattere cimabuesco è comunemente accettato e posto in relazione con gli affreschi della basilica superiore di Assisi, la collocazione cronologica dei dipinti di Manfredino rispecchia la dibattuta questione dell'intervento assisiate di Cimabue (entro il 1279 o tra il 1288 e il 1292): alla tradizionale datazione degli affreschi di Fassolo al maggio 1292 - basata su un'iscrizione, oggi pressoché cancellata, letta sul primo frammento all'epoca del distacco, accolta da buona parte della critica moderna (Torriti, 1970, p. 32; Romano, 1986, p. 28) e che trova riscontro in un documento con cui, nel novembre 1293, Manfredino poneva a bottega a G. presso un corazzaio il figlio Obertino (Alizeri, 1870, pp. 392-393) - si contrappone l'ipotesi di quanti tendono a retrodatare i dipinti genovesi di Manfredino al 1282-1287 (Donati, 1972; Botto, in Il passato presente, 1991, p. 39), postulando quindi, non del tutto convincentemente, un soggiorno del pittore pistoiese a G. anteriore di cinque o dieci anni a quello attestato dalle fonti.Le superstiti testimonianze dell'attività genovese di Manfredino - nella quale Romano (1986, p. 28) ha proposto d'includere il dossale della Coll. Acton di Firenze, ipoteticamente individuato nel dipinto presente nel 1899 a G. nella Coll. Villa (Galassi, 1987, p. 38) - rivelano comunque uno stile più maturo e aggiornato di quello espresso nelle opere recentemente riferite alla sua giovanile produzione pistoiese (Donati, 1972; Neri Lusanna, 1984; 1992) e in grado di esercitare un sicuro influsso sulla cultura figurativa locale. Tale influenza è evidente negli affreschi con storie dell'Infanzia del Battista, già nelle carceri di S. Andrea, oggi al Mus. di S. Agostino, nei quali si rileva anche una forte componente bizantina, tradotta in termini narrativi ed espressivi di gusto quasi popolareggiante, a differenza di quanto si verifica nella pur deteriorata Madonna con il Bambino e due angeli affrescata nella lunetta del portale di S. Maria del Prato e soprattutto nel mosaico raffigurante S. Matteo nella lunetta del portale dell'omonima basilica, opere che si rifanno ai modelli più aulici della cultura costantinopolitana. Essi erano d'altronde ben noti a G., dove tra l'altro, dal 1261, si conservava nel duomo, oggi nella Gall. di Palazzo Bianco, il pallio serico ricamato con storie dei Ss. Lorenzo, Sisto e Ippolito, donato da Michele VIII Paleologo all'indomani della riconquista di Costantinopoli, dove il pallio fu realizzato verosimilmente da maestranze bizantine e occidentali (Parma Armani, 1983-1985).Alla cultura bizantina, sia d'età paleologa sia d'epoca anteriore (Neff, 1982), e anche a modelli tardoantichi (Genesi di Vienna; Bertelli, 1989, p. 12) s'ispirano i disegni acquerellati che chiudono le Suplicationes variae (Firenze, Laur., Plut. 25.3) realizzate per una comunità genovese - e forse a G. stessa - tra il 1293 e il 1300. Il codice reca inoltre iniziali e miniature 'a corpo' di derivazione bolognese e d'impronta ancora romanica (Conti, 1979, p. 18), a testimoniare della permeabilità della cultura figurativa genovese di fine secolo ai più diversi apporti.La compresenza di differenti tendenze pittoriche contraddistingue, tra il sec. 13° e il 14°, dipinti di destinazione eminentemente decorativa - per es. la trave dipinta proveniente da S. Matteo (Di Fabio, 1994, pp. 30-31) e le tavolette di soffitto di varie chiese della Liguria come quelle genovesi di S. Lorenzo oggi al Mus. di S. Agostino e della Commenda di Pré (Botto, 1994, pp. 8-9; Di Fabio, 1994, pp. 29-30) - o prodotti d'impronta popolareggiante, come la cassetta-reliquiario in legno dipinto che racchiude il più antico reliquiario argenteo del braccio di s. Stefano (Romano, 1986, p. 28), oscillanti fra modelli gotici e bizantini, quanto opere di gusto più aulico, a partire dagli affreschi del Maestro del Giudizio in duomo. Questi, che investono la controfacciata (lunetta interna del portale maggiore: Etimasia e Giudizio universale, Cristo fra angeli con simboli della Passione, Déesis e apostoli), la parete sinistra (S. Giorgio tra i ss. Pietro e Giovanni Battista) e le lunette del portale di S. Gottardo (Madonna con il Bambino tra i ss. Nicola e Lorenzo) e del portale nord (Cristo di pietà fra la Vergine e il Battista), sono opera di un pittore di formazione costantinopolitana (Conti, 1979, p. 9) molto vicina a quella espressa negli affreschi del parekklésion e nei mosaici del nartece del S. Salvatore di Chora, del 1315 ca. (Galassi, 1983; Nelson, 1985), ma rivolta all'illustrazione di temi iconografici occidentali; il ciclo si configura inoltre come celebrazione della città in chiave storico-religiosa, ispirata forse dal pensiero di Jacopo da Varazze (Di Fabio, 1989).Se i dati documentari non consentono che in via d'ipotesi l'identificazione del Maestro del Giudizio con un Marco Greco da Costantinopoli, a G. nel 1313 (Conti, 1979, p. 27, n. 27; Galassi, 1983), essi permettono almeno di registrare un graduale infittirsi, tra la seconda metà del sec. 13° e la prima metà del 14°, delle presenze di pittori locali e forestieri: la penetrazione della cultura pittorica umbro-toscana a G. è testimoniata, per il primo Trecento, dal S. Cristoforo affrescato in un palazzo di Borzoli, noto ormai solo dalle foto pubblicate da Grosso (1931; Romano, 1986, p. 28), e dal ditticoreliquiario con vetri a oro graffiti realizzato verosimilmente per il convento dei Ss. Giacomo e Filippo, ora in quello di S. Maria di Castello, opera d'impronta assisiate (Di Fabio, 1991, pp. 272-274; 1994).Caratteri senesi - desunti soprattutto da Pietro Lorenzetti giovane - e inflessioni bizantineggianti si fondono in peculiare commistione nell'opera del Maestro di S. Maria di Castello, che, entro il 1325, realizzò la Madonna tra due figure frammentarie di santi al Mus. di S. Maria di Castello (da cui l'anonimo trae l'appellativo convenzionale) e la croce di Nostra Signora della Consolazione nella chiesa omonima (Torriti, 1956; Bologna, 1961). Se del composito linguaggio del pittore - identificato plausibilmente da Bologna (1994) con Opizzino Pellerano da Camogli, noto dal 1302 al 1325 e morto prima del 1361 - si sono rintracciate derivazioni in ambito locale (Torriti, 1970, p. 40; Algeri, 1986, pp. 17-18), esso trova anche significativi paralleli in dipinti di controversa assegnazione, quali la Vergine con il Bambino (Torino, Mus. Civ. di Torino, Mus. d'Arte Antica; Toesca, 1951, p. 519; Galassi, 1987, p. 43) e soprattutto il dittico Sterbini (Roma, Mus. del Palazzo di Venezia), databile a poco oltre il 1317 (Venturi, 1902, pp. 114-118; Toesca, 1951, p. 702): esso mostra indubbi rapporti tanto con i santi affrescati nel duomo dal Maestro del Giudizio quanto con la Madonna di S. Maria di Castello, che vanno ulteriormente indagati anche in relazione alle opere raccolte attorno al dittico stesso.All'incremento registrato, tra 1340 e 1370, delle menzioni documentarie relative a opere e ad artisti liguri o forestieri (soprattutto toscani) corrisponde un pur parziale arricchimento del patrimonio figurativo, indirizzato prevalentemente alla formazione di un linguaggio 'mediterraneo' di matrice toscana e avignonese, ma con diramazioni fino alla penisola iberica e lungo le coste tirreniche. A esempi martiniani - avignonesi, ma anche assisiati - si rifà l'unica opera conosciuta di Bartolomeo Pellerano da Camogli (noto dal 1339, m. entro il 1348), una Madonna dell'Umiltà datata 1346 (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia; De Floriani, 1979a); dello stesso clima partecipa la miniatura dedicatoria degli Statuti dei Caravana, scaricatori del porto di G., del 1340 ca. (Genova, Arch. di Stato, A), mentre più arcaizzante e legato a certo giottismo 'riformato' (Bologna, 1969, p. 258) è il polittico (1345) della cattedrale di Albi, in Francia, già in un oratorio presso Savona (De Floriani, 1979a). Tutte queste opere - in diversa misura - si collocano in parallelo con gli esiti di certa pittura catalana (Baltimora, Walters Art Gall., trittico, 1350 ca.; Bologna, 1961, pp. 29-30; 1969, pp. 304-305) e forse napoletana (coll. privata, Annunciazione e Crocifissione, 1360 ca.; Bologna, 1969, pp. 304-305) e con derivazioni sino alle soglie del sec. 15° (Madonna della parrocchiale di Capreno, presso Sori; De Floriani, 1981).Più direttamente collegata alla produzione pisana è la lunetta con la Madonna con il Bambino tra i ss. Domenico e Giovanni Evangelista, proveniente da S. Domenico, oggi al Mus. dell'Acc. Ligustica di Belle Arti (Galassi, 1987, p. 44), firmata da Francesco d'Oberto e già datata 1368; il pittore è noto dal 1357, alla vigilia cioè dell'arrivo a G. di Barnaba da Modena, che nel 1361 assumeva un aiutante. L'attività del maestro emiliano a G. - protrattasi almeno fino al 1386 (Algeri, 1989; Algeri, De Floriani, 1991, pp. 17-25) - si configura inizialmente come un'adesione a moduli prototrecenteschi (Francoforte sul Meno, Städelsches Kunstinst. und Städt. Gal., Madonna, 1367), per acquisire in seguito (Genova, Ss. Cosma e Damiano, Madonna; S. Maria dei Servi, Madonna della Misericordia; S. Bartolomeo del Fossato, polittico; Murcia, Mus. de la Catedral, polittici) caratteri di più attento naturalismo e di monumentalità che, soprattutto dopo il rinnovato contatto con la cultura toscana (ca. 1380), diventarono prevalenti nelle opere databili al penultimo decennio del sec. 14° (Genova, Gall. di Palazzo Bianco, trittico; Lavagnola presso Savona, parrocchiale, polittico; coll. privata, S. Caterina; Genova, S. Agostino, affresco del Giudizio finale), alle quali va forse aggiunta la controversa croce già in S. Maria delle Vigne, ora nel Mus. di S. Agostino (Algeri, 1989, p. 208, n. 39; Bologna, 1994, p. 27; Botto, 1994, pp. 14-16, 46).Il persistente influsso di Barnaba sulla cultura figurativa ligure, che è testimoniato da numerose derivazioni - tra le quali si ricordano il trittico di ignota ubicazione di Pietro Gallo da Alba, a G. dal 1385 al 1398, e lo stendardo processionale destinato probabilmente ai Disciplinati di s. Antonio in S. Domenico (Londra, Vict. and Alb. Mus.) -, si coglie anche nel ciclo con Storie della Vergine e di Cristo affrescato nella cappella Olivieri in S. Caterina a Finalborgo (Savona), realizzato nei primi anni novanta da due artisti di formazione toscana e da Taddeo di Bartolo, cui è stata attribuita l'Annunciazione. Essa risale quindi al primo periodo (ca. 1391-1394) dell'attività del pittore senese in Liguria, dapprima nel Ponente e poi proprio a G., ove resta il Cristo in gloria già affrescato nella volta della cappella dei Calafati in S. Maria di Castello, oggi al Mus. di S. Maria di Castello. A un secondo soggiorno genovese di Taddeo (1397-1398 o 1399) si debbono alcuni affreschi in S. Gerolamo di Quarto e la Madonna di S. Maria delle Vigne; tali opere sono contraddistinte - come il Battesimo di Cristo del 1397 nella collegiata di Triora (prov. Imperia) - da una dilatazione delle forme e da un accentuarsi del decorativismo che, nei primi decenni del sec. 15°, Giovanni da Pisa e Turino Vanni svilupparono in senso gotico-internazionale.Il gusto ornamentale investe anche la produzione matura di Niccolò da Voltri (notizie dal 1394 al 1417), che pure, nelle opere databili entro i primi anni novanta (Madonne di S. Rocco e di coll. privata), si era ispirato principalmente a Barnaba da Modena; ma l'artista, nella Madonna di S. Donato e nei polittici dell'Annunciazione, già in S. Maria delle Vigne (Roma, Mus. Vaticani, Pinacoteca, depositi; 1401), di S. Colombano (Genova, Gall. di Palazzo Bianco) e di S. Pietro (coll. privata), si accostò man mano ai modi di Taddeo di Bartolo e a quelli dei pittori pisani attivi a Genova. Ai primi anni del sec. 15° appartiene inoltre il S. Giorgio della chiesa dei Minori di Termini Imerese, firmato da Niccolò, ulteriore testimonianza dei rapporti fra G. e la Sicilia intrecciati già dal secolo precedente e attestati - fra l'altro - dalla lunetta con la Trinità e l'Annunciazione dal convento di Santo Spirito ad Agrigento (Palermo, Gall. Regionale della Sicilia), opera di tarda derivazione barnabiana (Algeri, De Floriani, 1991, pp. 26-70).Anche le relazioni con l'Oriente bizantino restarono vive nel sec. 14°, come dimostrano tanto la presenza a G. (1371) di un Demetrio da Pera pittore, quanto l'arrivo (1336) dell'argentea 'croce degli Zaccaria', databile al 1268-1283, oggi al Mus. del Tesoro di S. Lorenzo, e - prima del 1384 - del Volto Santo di S. Bartolomeo degli Armeni, icona risalente al sec. 11° ma più volte rimaneggiata e circondata da una trecentesca cornice d'argento sbalzato con storie dell'Immagine edessena, di cultura paleologa (Dufour Bozzo, 1974; Ragusa, 1989). Sul retro dell'icona è stata inoltre ritrovata una stoffa 'a rota' d'ambito bizantino-sasanide (secc. 8°-11°), che attesta la diffusione a G. di questo tipo di manufatti, indirettamente confermata dalla ripresa di motivi decorativi tipici di quella produzione tessile nei fondi oro di vari dipinti trecenteschi (per il caso di Barnaba da Modena v. Lunghi, in Botto, 1994, pp. 30-34).Sono scarse, nel sec. 14°, le testimonianze dell'arte orafa genovese, alla quale va probabilmente riferita la croce-reliquiario destinata all'abbazia della Cervara e ora conservata al Mus. Diocesano di Chiavari, databile al 1376-1378 (Algeri, 1986, p. 34; Di Fabio, 1991, pp. 241-243), ed è difficile anche ricostruire il frammentario panorama della produzione miniatoria coeva. Se alla prima metà del Trecento risalgono - oltre ai citati Statuti dei Caravana - due corali del convento domenicano di Taggia presso Imperia (Mus. dei Domenicani, A; B), che furono realizzati forse nel capoluogo ligure (De Floriani, 1981-1982), sul finire del secolo Gregorio da G. rivela una formazione emiliana e opera in area lombardo-veneta (Gibbs, 1992), mentre per lo smembrato Tractatus de vitiis septem (codice Cocharelli, Londra, BL, Add. Ms 27695 e 28841; Egert. 3127 e 3781), già riferito a un non meglio noto Cybo, monaco delle Isole d'Oro (Hyères) citato dalle fonti (Soprani, 1674, p. 9), mancano finora agganci con la cultura figurativa genovese, tanto che la critica più recente ha ipotizzato, per questo manoscritto, un'origine campana (Bologna, 1969, pp. 55, 75, n. 272) o pavese (Bertelli, 1989, p. 12).
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