Hegel, Georg Wilhelm Friedrich
Filosofo (Stoccarda 1770 - Berlino 1831).
Dopo aver compiuto gli studi ginnasiali nella sua città, entrò nel 1788 nello Stift di Tubinga, una sorta di seminario protestante, dove ebbe come condiscepoli Schelling e Hölderlin, con i quali strinse una viva amicizia e condivise gli entusiasmi per la Rivoluzione francese. Nel 1790 conseguì il titolo di «Magister» in filosofia e nel 1793 quello di «candidato» in teologia. Terminati i suoi studi, rinunciò alla professione di pastore e diventò precettore presso una famiglia a Berna, e più tardi (1797) a Francoforte, dove ritrovò l’amico Hölderlin. Gli scritti più importanti del periodo francofortese sono: Der Geist des Christentums und sein Schicksal (trad. it. Lo spirito del cristianesimo e il suo destino), il Systemfragment e Die Positivität der christlichen Religion (trad. it. La positività della religione cristiana). Tali scritti verranno pubblicati nel 1907 con il titolo Hegels theologische Jugendschriften (trad. it. Scritti teologici giovanili). Di questi anni, densi anche di interessi per i problemi storico-politici ed economici, sono gli abbozzi di quello che sarà il saggio su Die Verfassung Deutschlands (1802-03; trad. it. La costituzione della Germania). Alla morte del padre, avvenuta all’inizio del 1799, H. si trovò a disporre di un piccolo patrimonio che gli consentì di ripensare alla carriera universitaria e di trasferirsi a Jena (1801), dove allora insegnava Schelling, con il quale doveva stabilire in quegli anni una proficua collaborazione. A Jena conseguì la libera docenza, e vi insegnò prima come docente privato, poi (1805) come professore straordinario. Nel periodo di Jena diresse insieme a Schelling il Kritisches Journal der Philosophie (1802-03). Qui pubblicò alcuni articoli di grande impegno: Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie (trad. it. Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling), Glauben und Wissen (1802; trad. it. Fede e sapere), dove H. faceva i conti con la filosofia di Kant, Jacobi e Fichte, riportandole tutte al soggettivismo che aveva dominato nell’età moderna, Verhältnis des Skeptizismus zur Philosophie, Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts (1802-03), dove polemizzava contro le concezioni, tanto puramente empiristiche quanto formalistiche, del diritto. Agli anni di Jena risale anche una cospicua mole di inediti riguardanti la logica, la filosofia della natura e la filosofia dello spirito, la Jenenser Logik, la Jenenser Realphilosophie, il cosiddetto System der Sittlichkeit (1802; trad. it. Sistema dell’eticità) e la Phänomenologie des Geistes (1807; trad. it. La fenomenologia dello spirito) (➔), che determinava la rottura speculativa con Schelling. Intanto, sotto l’infuriare della guerra, la situazione a Jena si era fatta insostenibile anche economicamente e nel 1807 H. si trasferì a Bamberga dove diresse un giornale locale, e poi, in seguito a difficoltà e scontri con la censura, passò a Norimberga (1808), come direttore e prof. di filosofia nel ginnasio della città, e vi rimase fino al 1816. In questo periodo raccolse i corsi delle sue lezioni, i quali formano la cosiddetta Philosophische Propädeutik (pubbl. post. nel 1840; trad. it. Propedeutica filosofica). A Norimberga sposò Maria Tucher (1811). Scrisse in questi anni la Wissenschaft der Logik (2 voll., 1812-16; trad. it. La scienza della logica) (➔), che gli valse la chiamata all’univ. di Heidelberg. Da Norimberga si trasferì quindi nel 1816 a Heidelberg, come prof. ordinario di quella università. Nel 1817 pubblicò l’Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (trad. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) (➔), scritta anche per esigenze didattiche. Nel 1818 H. fu chiamato all’univ. di Berlino, sulla cattedra che era stata di Fichte, dove il suo insegnamento ebbe il massimo della risonanza e diede luogo alla formazione di una scuola di grande prestigio, pur tra le polemiche suscitate già in parte dalle Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821; trad. it. Lineamenti di filosofia del diritto), circa il carattere conservatore della sua concezione del diritto e dello Stato. Del periodo di Berlino sono anche alcuni viaggi di grande importanza culturale, in Olanda (1822), a Vienna (1824), a Parigi (1827). Nel 1827 uscì una seconda edizione notevolmente accresciuta dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche cui seguì una terza nel 1830; di questi anni sono anche alcuni saggi comparsi nella rivista Jahrbücher für wissenschaftliche Kritik, pubblicata da H. insieme ad alcuni allievi. Dall’ott. 1829 all’ott. 1830 fu rettore dell’univ. di Berlino e in tale veste pronunciò un importante discorso celebrativo della Confessione di Augusta nel suo terzo centenario (25 giugno 1830). Rimase a Berlino fino al 1831, e in quell’anno vi morì di colera. Negli anni di Berlino H. tenne importanti cicli di lezioni sull’estetica, la filosofia della religione, la filosofia della storia, la storia della filosofia. Dagli abbozzi delle sue lezioni berlinesi e dai quaderni di appunti dei discepoli sono state ricostruite le Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte (1ª ed. 1837; trad. it. Lezioni sulla filosofia della storia), le Vorlesungen über die Ästhetik (1ª ed. 1936-38; trad. it. Estetica), le Vorlesungen über die Philosophie der Religion (1ª ed. 1832; trad. it. Lezioni sulla filosofia della religione) e le Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie (1ª ed. 1833-36; trad. it. Lezioni sulla storia della filosofia).
Il pensiero di H. si forma e si sviluppa in un’epoca di grandi tensioni politiche e spirituali che vanno dalla Rivoluzione francese allo scontro tra le correnti illuministiche e quelle romantiche, dalle nostalgie classicistiche all’aspirazione a un profondo rinnovamento morale e politico ispirato anche a un cristianesimo di stile non tradizionale. Di questi fermenti sono permeati i cosiddetti Scritti teologici giovanili, dove emerge già la tendenza a considerare gli avvenimenti dal punto di vista dello «storico pensante», cogliendone significati storico-speculativi che vanno molto al di là delle stesse intenzioni e, ancor più, della consapevolezza dei loro protagonisti. Tale riflessione sulla storia e sul destino dell’uomo si collega strettamente a quella sulle condizioni della Germania, dove H. constata una completa dissoluzione dello Stato dovuta a una concezione puramente astratta del diritto, e all’assenza di una più diretta partecipazione delle vive e concrete forze politiche alla vita statale. I primi scritti di H. annunciavano già alcune tendenze di pensiero destinate ad ampi sviluppi, e segnatamente la tendenza a identificare l’autenticità umana con esperienze che riproducano l’immagine della totalità vivente e armonica, di contro a ciò che è divisione, esteriorità, separazione di parti. Al centro dei suoi interessi è il fenomeno religioso, considerato come un fattore di coesione morale e sociale. Influenzato da Hölderlin e dal neoclassicismo di Winckelmann, H. vede nella città antica un esempio di unità organica e nella religione della polis un prolungamento naturale e non problematico del costume. Il contrario di questa religione è la religione autoritaria consistente in un certo numero di proposizioni e di leggi imposte dall’esterno. Ebraismo e cristianesimo sono i modelli di questa religione autoritaria, che si afferma nel mondo in connessione con la decadenza dello Stato romano. In seguito, rivedendo la sua valutazione del cristianesimo, H. lo concepisce, in contrapposizione all’ebraismo, come religione della conciliazione. Non soltanto, ma ravvisa nell’esperienza religiosa intesa nel senso più stretto la possibilità di essere vissuta come un’esperienza autentica. H. contrappone ancora la conciliazione alla scissione, il vivente al morto, sottolineando però che la conciliazione è una conciliazione raggiunta, conquistata attraverso il superamento del momento della scissione. Un’esperienza come quella dell’amore, un concetto come quello della vita sono esempi della totalità organica, che resta paradigmatica. Attraverso questi sviluppi di pensiero se ne viene ampliando e precisando il contenuto polemico, in senso antilluministico e antintellettualistico. H. però non fu mai antilluminista con presupposti reazionari, perché attribuì sempre all’Illuminismo e alla stessa Rivoluzione francese una funzione storica altamente positiva ed emancipatrice. Ma ritenne che l’Illuminismo fosse ideologicamente inferiore al suo compito, e in questa insufficienza ravvisò la vera ragione del parziale fallimento della Rivoluzione francese. Lo strumento ideologico dell’Illuminismo è infatti per H. l’intelletto (Verstand) capace di negare e dividere, ma non di ricostituire a unità ciò che ha negato e diviso. Questa polemica contro l’intelletto non mira a espungerne la funzione dalla vita spirituale, ma ad assegnargli in essa un posto determinato, un posto non esclusivo, ma insostituibile. In tale ambito di pensiero H. polemizza con Kant, con Fichte, con Jacobi, i quali partecipano di questa sorta di pregiudizio che è la scissione, la divisione (di soggetto e oggetto, di finito e infinito), e non sono poi in grado di ricomporla. La vera speculazione è quella che sa ritrovare, oltre le differenze e le opposizioni, l’identità e l’unità. Essa è il risultato delle operazioni non dell’intelletto, ma della ragione (Vernunft) che viene così ad avere una funzione totalizzante. L’intelletto è un momento necessario, ma non è capace da solo di cogliere l’insieme, perché lo altera con le sue divisioni. Mentre in un primo tempo H. in questa polemica parve condividere le posizioni di Schelling (anche nella terminologia adottata), più tardi si allontanò da lui per un diverso modo d’intendere l’assoluto e la totalità: modo indifferenziato e non includente le determinazioni molteplici, e quindi mistico in Schelling, differenziato, unificante le determinazioni in Hegel. Si ha così una duplice direzione polemica: contro l’intelletto che divide e fissa i prodotti della riflessione e contro le intuizioni misticheggianti di Schelling e dei romantici, che rifiutano totalmente l’intelletto e pretendono di cogliere l’assoluto per vie diverse da quelle razionali. Accanto a queste polemiche, destinate a essere ribadite lungo tutta la sua carriera filosofica, H. nei corsi tenuti a Jena offre una prima costruzione filosofica sistematica, una logica, una dottrina del conoscere, una filosofia della natura, una filosofia dello spirito. Si tratta di una sistemazione in cui si ritrova il tema già svolto della scissione e della ricomposizione, che dà alle categorie e alle esperienze descritte un dinamismo, per cui l’una genera l’altra. L’analisi è condotta in modo da mostrare come il fenomeno esaminato finisce per sorpassare il concetto che dovrebbe rappresentarlo e, con ciò, per esigere un concetto diverso e più adeguato. I contenuti delle varie dottrine saranno poi ripresi e arricchiti nelle opere più tarde. Ma il frutto maggiore di questo periodo è la Fenomenologia dello spirito, pubblicata nel 1807.
L’opera comprende la descrizione di una serie di esperienze, dalle più elementari alle più complesse, ed è definita «scienza dell’esperienza della coscienza». Come appare già dagli Scritti teologici giovanili e diventa peraltro sempre più chiaro ed esplicito negli scritti di Jena, per H. i problemi storico-politico-religiosi possono trovare soluzione solo attraverso una rinnovata concezione della filosofia e della ragione come superamento e integrazione delle prospettive limitate e unilaterali. In questo senso H. critica la riflessione e l’intelletto come sapere puramente finito, per affermare il loro superamento in un «sistema», inteso come espressione di una più profonda nozione di verità come totalità che ricomprende in sé, come suoi momenti, le diverse prospettive che l’intelletto aveva fissato nella loro accidentalità e particolarità. Tutto questo comporta altresì, come si vede già in Fede e sapere, un superamento delle usuali contrapposizioni tra finito e infinito e della concezione dell’infinito come ideale irraggiungibile, anche se sempre perseguito, in cui è ancora rimasta impigliata la stessa filosofia di Kant e di Fichte. La scoperta e la conoscenza scientifica della verità passano perciò attraverso la «fenomenologia» come «scienza dell’esperienza della coscienza», nel duplice senso dell’esperienza compiuta dalla coscienza sulle cose e sul suo stesso modificarsi nel corso dell’esperienza. La fenomenologia segue lo sviluppo della coscienza, dalle sue «figure» più semplici ed elementari fino a quelle più elevate e complesse, scorgendovi le tappe necessarie con cui essa si libera da quello che ancora al criticismo appariva un limite assoluto, ossia la convinzione che l’oggetto in sé sia qualcosa di assolutamente opposto ed estraneo al soggetto, determinando uno stato di alienazione della coscienza rispetto a sé stessa. Tale processo poi è intrinsecamente «dialettico», poiché i suoi momenti si succedono attraverso rovesciamenti radicali di cui la «negazione determinata» è la molla e la condizione essenziale, e opera in funzione di un compimento del processo che consente, mediante la «rammemorazione», la riconquista del senso dell’intero processo, dalla cui totalità lo spirito riceve e comprende la propria interna ricchezza e completezza. Scoperta e conclusione della fenomenologia è quindi che l’assoluto, lo spirito, non è soltanto sostanza, ma soggetto, ossia principio del proprio movimento, un movimento che ha lo scopo di portarlo al sapere assoluto. Tale processo però non è semplicemente un itinerario pedagogico o psicologico del singolo, ma coinvolge l’intera storia dell’umanità dalle sue forme più primitive e selvagge fino all’avvento delle grandi civiltà. Si parte dalla coscienza sensibile, si passa alla percezione, poi all’intelletto, poi alla coscienza di sé, raggiunta attraverso una lotta con l’altrui coscienza perché questa si sottometta e riconosca l’altra (quindi un’esperienza eminentemente pratica, nella quale sono presenti le vicende della schiavitù antica), e così via. Vi si esaminano anche momenti storici, quali la comunità greca antica, il mondo del diritto romano, l’Illuminismo, la Rivoluzione francese. L’intento di queste analisi è mostrare come l’uomo sia venuto evolvendo, mediante la tesaurizzazione delle sue esperienze, da atteggiamenti spirituali elementari e ingenui verso atteggiamenti più critici e maturi. Il punto di arrivo, ossia il risultato del corso storico svoltosi fino a H., è la massima maturità spirituale, ossia la consapevolezza che gli oggetti esterni all’uomo e, in genere, tutto ciò che gli è in apparenza esterno (per es., il movimento della ricchezza, l’autorità dello Stato, i dogmi delle religioni) non sono nulla di estraneo a lui, né hanno alcunché di misterioso e inafferrabile. Presa di coscienza dunque della libertà dell’uomo intrinseca al mondo e alla storia. Questa presa di coscienza si ha attraverso l’arte, la religione, la filosofia; esperienze teoretiche ancora imperfette l’arte e la religione, esperienza lucida e razionale la filosofia. Nel disegno grandioso e ambizioso della Fenomenologia, pertanto, rientrano sia motivi e momenti tratti dalla storia dell’arte e della religione, della scienza e della politica, sia tematiche concernenti la natura, considerati però tutti per la funzione che hanno avuto nell’itinerario della coscienza verso il sapere assoluto, per le «figure» (particolarmente fortunate quelle del rapporto «servo-padrone» e della «coscienza infelice») a cui hanno dato luogo nell’ideale galleria di immagini da cui la storia dello spirito è costituita.
La Fenomenologia è il presupposto del cosiddetto sistema di H., che ha nell’Enciclopedia la sua trattazione più completa. Tale sistema non è da intendersi come la riduzione dei molteplici aspetti della realtà a un principio che in qualche maniera li generi e comunque li spieghi, ma come un’esposizione dei diversi aspetti della realtà, pensati ed espressi in concetti. Ciò che la Fenomenologia ha descritto come esperienze vissute, il sistema ritrova come momenti di un insieme razionale. Il diritto, per es., ha nel mondo romano la sua manifestazione più tipica, che la Fenomenologia descrive. Ebbene, questa esperienza diventa il concetto del diritto (che H. chiama diritto astratto o formale) nell’esposizione sistematica. Il riferimento storico passa in secondo piano, e rimane l’esame del concetto, diventato ormai patrimonio della cultura dell’umanità, presupposto dei suoi svolgimenti ulteriori. Il punto di partenza del sistema è la logica, che a sua volta comincia dalla categoria più semplice, quella di essere, e si viene svolgendo, di categoria in categoria, verso le forme più complesse. Attraverso la fenomenologia, comunque, per H. è possibile accedere a quella che rimarrà una delle parti fondamentali del suo sistema, la «scienza della logica» come studio delle «determinazioni» dell’idea, ossia delle pure essenze considerate nella loro interna sistematicità. Si tratta di una scienza del tutto particolare, il cui inizio non può essere dato che dal pensiero puro o, meglio, dalla decisione di pensare in modo puro, e quindi di muovere dalla nozione più pura e indeterminata possibile, che per H. è quella di «essere». La logica si divide in tre grandi parti, la logica dell’essere, dell’essenza e del concetto; a loro volta, le due prime parti costituiscono la logica oggettiva, mentre la terza la logica soggettiva. Nelle due prime parti infatti vengono considerate quelle nozioni che costituiscono l’ossatura del pensiero metafisico e scientifico (dalle nozioni più astratte come l’essere, il nulla, il divenire, a quelle della qualità e della quantità, alle categorie in senso kantiano, ai grandi principi logico-metafisici come quello di identità, contraddizione, ragion sufficiente, ecc.). Nella terza parte soltanto vengono affrontate le nozioni centrali della logica (concetto, giudizio e sillogismo), sottraendole alle tradizionali definizioni e considerandole come momenti di un processo attraverso il quale il concetto si divarica nel giudizio e si recupera, arricchito e realizzato, nel sillogismo che esprime a livello formale la legge stessa della realtà, sorta di grande sillogismo nel quale la finitezza delle cose corrisponde al momento del giudizio, ossia del distinguersi e contrapporsi dialettico, necessario perché l’unità conclusiva sia razionale, ossia internamente articolata e compiuta. In questo senso la logica hegeliana è diversa non soltanto dalla logica formale tradizionale, ma anche dalla logica trascendentale di tipo kantiano; essa è piuttosto, come dice H. stesso, una sorta di studio delle essenze quali sono in Dio avanti la creazione, ossia una esposizione dell’articolazione razionale interna della realtà senza la quale non sarebbero comprensibili né la natura né lo spirito.
Dalla logica si passa alla filosofia della natura, che è un ripensamento delle scienze naturali secondo schemi logici. La natura rappresenta per H. l’estraniarsi dell’idea da sé stessa, il momento della sua dispersione e frantumazione che prelude e condiziona il suo ritrovarsi nello spirito. In questo senso H. si oppone alle tendenze volte a divinizzare la natura o a considerarla come manifestazione privilegiata dello spirito poiché, al contrario, la caratteristica della natura è la sua «impotenza» a realizzare pienamente il concetto. Per altro verso però H. respinge tutte le concezioni puramente materialistiche, meccanicistiche, matematizzanti della natura, poiché nella natura si può e si deve riscontrare lo sforzo di realizzare l’idea, anche se questo avviene sempre e soltanto in forma contraddittoria, poiché neppure nella sua forma più alta, ossia nell’animale, la natura giunge a risolvere la contraddizione dell’esteriorità dell’idea a sé stessa, e cioè alla coscienza. Pertanto la filosofia della natura si divide in tre grandi parti che studiano la crescente complessità delle diverse forme o dei diversi ordinamenti della natura nel loro rapporto dialettico. Anzitutto la «meccanica», che studia la natura nella sua esteriorità (i rapporti spazio-temporali, attrazione e repulsione, gravitazione); in secondo luogo la «fisica», che studia la materia in quanto «si strappa alla gravità» e assume una propria unità interna (processi magnetici, elettrici e chimici) e, infine, l’«organica», che dalla natura geologica (i cristalli sono già individualità dotate di una consistenza e struttura diversa rispetto a quella degli stessi processi chimici) giunge alla vita vegetale e animale. Anche nelle sue forme più alte, però, nella natura non c’è vero sviluppo e progresso, ma piuttosto pura ripetizione. Una vera conquista spirituale può avvenire soltanto nel mondo della storia e a opera dello spirito. In questo modo si passa, per H., al mondo dello spirito.
Anche la filosofia dello spirito è articolata in tre momenti, quello dello spirito soggettivo, oggettivo e assoluto. La filosofia dello spirito soggettivo considera le diverse forme di vita e attività dello spirito, da quelle più elementari della sensazione, o addirittura del sogno, a quelle più elevate di intelligenza e di volontà; anche qui, come già nella logica, si tratta però di uno studio dialettico, per cui quelle che nella tradizione filosofica erano state considerate come «facoltà» isolate, vengono invece considerate come momenti di uno sviluppo unitario che muove dalle zone più profonde e oscure della vita dell’anima e, attraverso il linguaggio, tende alle forme più alte di sapere (antropologia, fenomenologia, psicologia). Nello spirito oggettivo, invece, vengono studiate le forme in cui lo spirito si realizza come in una «seconda natura», ossia nel mondo della storia e delle istituzioni, anche qui secondo uno schema triadico per cui dal diritto astratto, come insieme di norme che regolano estrinsecamente la vita delle persone e i loro rapporti di proprietà, si passa alla morale come momento dell’universalità etica, per giungere all’eticità (➔), sintesi di diritto e di morale, che si articola a sua volta nei tre momenti: la famiglia, la società civile e lo Stato. Il processo dello spirito oggettivo ripercorre in sostanza la storia stessa dal punto di vista delle istituzioni, che per H. sono sempre strettamente legate alla peculiarità dello «spirito di un popolo». In questo senso è possibile ravvisare in essa l’attuarsi di un disegno razionale di progressiva realizzazione della libertà dal mondo orientale, dove uno solo è libero, a quello greco dove si realizza la libertà di alcuni nella forma etico-estetica della vita della polis, alla libertà universale astratta del mondo romano con la sua affermazione del diritto, fino al mondo cristiano-germanico, che pone il principio della libertà universale come libertà interiore e viceversa. La storia appare così (nonostante tutti i suoi innegabili aspetti drammatici e tragici, le ingiustizie e le sofferenze, inspiegabili in una prospettiva puramente individuale e moralistica) come una vera «teodicea», ossia una giustificazione di quel disegno divino di liberazione dello spirito che tocca poi alla filosofia comprendere concettualmente quale spirito assoluto che coglie quel disegno, nella forma dell’arte mediante l’intuizione e nelle sue configurazioni sensibili, nella forma della religione con la rappresentazione, e nella forma della filosofia attraverso una conoscenza concettuale. Per questo rapporto tra arte, religione e filosofia sono significativi soprattutto i cicli di lezioni a esse dedicate, pubblicati postumi. Così, nell’arte lo spirito percorre tre grandi tappe, costituite rispettivamente dall’arte simbolica, classica e romantica. La prima è caratterizzata dalla presenza del simbolo che, con il suo ambiguo accostamento di sensibile e spirituale, corrisponde a una concezione ancora inadeguata che lo spirito ha di sé. È l’arte che si realizza nel mondo orientale e che culmina nell’immagine della Sfinge, figura ambigua di animale e di uomo e perciò stesso espressione più alta del simbolico. Nella nuova fase storica che si apre con il mondo greco, lo spirito giunge a un grado di consapevolezza dell’idea che trova piena e adeguata espressione nella figura umana, l’unica che può realizzare la perfetta compenetrazione e armonia tra spirituale e sensibile nel sensibile. La scultura, dunque, e non più l’architettura, incarna la forma «classica» di arte come perfetto equilibrio spirituale e sensibile, destinato a scomporsi e dissolversi irrevocabilmente con l’avvento del cristianesimo. Rispetto agli dei greci che «non hanno occhi», Cristo rappresenta la scoperta da parte dello spirito di essere infinito, di essere soggettività, libertà, ossia di avere una natura che non può più trovare espressione adeguata in nessuna figura sensibile. Da questa consapevolezza nasce così l’arte romantica, caratterizzata da una serie di forme artistiche di crescente astrattezza rispetto al sensibile, ossia la pittura, la musica e la poesia, dove si manifesta sempre più evidente la sproporzione tra l’espressione sensibile e il contenuto spirituale, in una direzione però opposta a quella dell’arte simbolica e dovuta alla superiorità del contenuto rispetto alla forma. Di qui il concetto di «morte dell’arte» nel senso che, dopo la classicità e con la scoperta del carattere infinito dello spirito, l’arte non è più in grado di esprimere la verità dello spirito, verità che vive ormai nelle forme della religione e della filosofia. Anche la religione presenta uno sviluppo storico necessario che porta dalle religioni determinate alla religione assoluta, quella cristiana, suo culmine e compimento. Soltanto con il cristianesimo si ha infatti l’universalità dello spirito che si è concretamente e organicamente articolato, attraverso la rivelazione, nella storia sino a giungere alla conciliazione dei credenti nella comunità, dopo la Riforma non più contrapposta come Chiesa allo Stato, ma vissuta come superamento della loro opposizione. Nella concezione della religione assoluta H. riprende pertanto lo schema trinitario cristiano, interpretandolo però come sviluppo dello spirito attraverso la natura e la storia per giungere al sapere di sé, in una filosofia che non si pone in alternativa alla religione, ma ne esplica il contenuto e il significato in forma concettuale. La specificità della filosofia consiste, infatti, nell’essere un sapere concettuale che ha come oggetto la sua storia, ossia il processo stesso attraverso il quale si è formato o, meglio, la totalità delle posizioni in cui tale processo si è articolato. In questo senso la storia della filosofia appare come qualcosa di ben diverso da quella semplice «filastrocca di opinioni» a cui taluni la riducevano, e si rivela così processo necessario perché il sapere si realizzi in modo sistematico, ossia come consapevolezza concettuale della necessità dei momenti in cui si è articolato e della loro integrazione, che ne supera la limitatezza. Filosofia, come sistema della razionalità, e storia della filosofia vengono così a coincidere, ma questa coincidenza non va però in nessun modo intesa come un ritrarsi della filosofia in sé stessa, quale sapere concettuale, poiché la filosofia è veramente tale solo in quanto è il «proprio tempo appreso con il pensiero». Per quanto riguarda poi specificamente il suo tempo H. ritiene che segni il culmine dell’età moderna, la risoluzione dell’opposizione tra soggettivo e oggettivo, tra finito e infinito, il superamento dell’estraniazione dell’autocoscienza rispetto a sé stessa; per questo, proprio e soltanto la filosofia dello spirito assoluto corrisponde al bisogno dell’epoca e lascia come retaggio il compito di portare consapevolmente alla luce e all’effettualità la vera natura dello spirito come spirito assoluto quale è stata ormai compresa nella filosofia e dalla filosofia. Il passaggio da una categoria all’altra – come, nella Fenomenologia, da una figura all’altra – avviene secondo lo schema già accennato: insufficienza della categoria esaminata a rispecchiare l’esperienza corrispondente, se questa è vista nella sua totalità e interna coerenza, e quindi suo «superamento» nella categoria superiore. Questo modo di procedere, per cui le categorie sono tra loro in concatenazione, è considerato da H. un procedimento scientifico, in quanto esposizione dello sviluppo del concetto (ossia della verità), che è poi il risultato di una totalità di concetti reciprocamente implicantisi. Compito della filosofia e della conoscenza speculativa è di dimostrare che la ragione governa il mondo; in partic. è compito della «storia della filosofia» dimostrare la razionalità della storia dell’umanità considerata nella sua totalità, in base all’identità di reale e razionale.
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