HEGEL, Georg Wilhelm Friedrich
Filosofo tedesco, nato il 27 agosto 1770 a Stoccarda, dove suo padre viveva in qualità di funzionario del duca del Württemberg. A Stoccarda frequentò con diligenza esemplare il Gymnasium, senza però mostrare né una speciale precocità, né una sorprendente genialita. Ma il diario da lui tenuto nell'adolescenza attesta le sue varie e numerose letture, il suo interessamento per i campi più disparati della cultura e, soprattutto, la sua attitudine a meditare sui fatti storici. Le letterature classiche gli erano familiari; l'Antigone fu la sua tragedia preferita. I problemi sociali, artistici, religiosi attrassero presto la sua mente riflessiva. Nel 1788 venne ammesso al seminario teologico di Tubinga, dove ebbe a compagni il Hölderlin e lo Schelling, con i quali strinse fraterna amicizia. Tutti e tre salutarono con gioia e con giovanile ottimismo la Rivoluzione francese, nella quale scorgevano una rinascita delle migliori energie umane. Terminati gli studî nel 1793, H. trovò da occuparsi come precettore presso una famiglia patrizia di Berna; in lui, che si era educato a un senso tutto umano della bellezza, i paesaggi alpestri, conosciuti in qualche escursione, non suscitarono ammirazione alcuna. Frutto dei suoi non interrotti studî filosofici furono i saggi su La vita di Gesù e su La positività della religione cnstiana. Con l'aiuto del Hölderlin, al quale dalla Svizzera aveva indirizzato la romantica elegia Eleusis, H. si trasferì, sempre come precettore, a Francoforte, dove rimase dal 1797 al gennaio 1801, quando poté recarsi a Jena e iniziare, protetto dallo Schelling, la sua vita accademica. Il periodo di Jena fu per Hegel ricco di esperienze politiche e scientifiche; dopo la pace di Lunéville stese un saggio sulla costituzione della Germania: per le necessità dell'insegnamento abbozzò la sua prima logica e la sua prima filosofia della natura; nel 1801 si rese noto col volumetto polemico Differenz des Fichte'schen und Schelling'schen Systems der Philosophie; l'attività accademica continuò nel Kritisches Journal der Philosophie (1802-03), rivista che voleva essere, come oggi si direbbe, d'avanguardia, redatta dallo Schelling e dal H. stesso, sebbene contenesse quasi esclusivamente scritti di quest'ultimo. Ma la grande opera che H. compose a Jena, tra gravi difficoltà editoriali, è la Fenomenologia dello spirito, uscita con la data del 1807. Lo Schelling, ricevuto il volume a Monaco, rimase indignato per il modo col quale H. aveva trattato la sua filosofia, tanto più che non mancavano allusioni personali; così l'amicizia fra i due vecchi compagni fu spezzata. Intanto a Jena la vita si era fatta difficile, specialmente dopo la battaglia del 14 ottobre 1806 ("Ho visto passare a cavallo l'anima del mondo" scrisse Hegel riferendosi a Napoleone entrato in città il giorno prima), e il filosofo dové accettare l'ufficio di redattore presso un giornaletto di Bamberga, che lo rese del tutto scontento e desideroso di svolgere la sua attività in un istituto statale e per lo stato. Rivoltosi quindi al fedele amico Niethammer, venne assunto nel 1808 come professore e rettore del ginnasio di Norimberga. Qui per i suoi scolari compilò una Philosophische Propädeutik, mentre pubblicava, fra il 1812 e il 1816, la sua grande Scienza della logica. A Norimberga sposò, il 16 settembre 1811, Maria von Tucher, raggiungendo così "la sua meta terrena". Nel 1816 venne chiamato con tutti gli onori alla più antica università tedesca, Heidelberg, dove diede alle stampe l'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817): quest'opera, che offre la più completa esposizione del sistema hegeliano, fu accresciuta nell'edizione del 1827 e ristampata nel 1830. Collaborò ai Heidelberger Jahrbücher con un articolo sul Jacobi e con uno studio (indice del suo non mai diminuito interessamento per la politica) sulle vicende costituzionali del Württemberg. La "scuola" hegeliana cominciò a costituirsi a Heidelberg, dove il Cousin, venuto in Germania per conoscere di persona i filosofi tedeschi, lo vide per la prima volta. Nel 1818 H. fu chiamato all'università di Berlino e conquistò con le sue lezioni, pur non sostenute da facile eloquenza, un successo lento ma sicuro. L'animo suo si manteneva sveglio, pronto ad accogliere le più varie impressioni della vita, come fan fede le lettere indirizzate alla moglie durante i viaggi nei Paesi Bassi (1822), in Austria (1824), in Francia (1827). Il grande filosofo, al quale anche il Goethe rendeva deferente omaggio, si sentiva ormai appagato per ogni riguardo. La Prussia gli appariva come lo stato che, dopo le convulsioni rivoluzionarie, si era consolidato in un ordinamento razionale, nel quale sarebbe fiorito anche "il regno del pensiero": nella Germania egli vedeva la nazione chiamata a custodire il fuoco sacro della filosofia: all'università scolari suoi tenevano lezioni sulla "filosofia hegeliana" p. Nonostante qualche inimicizia vecchia e nuova, un numeroso uditorio frequentava i suoi corsi di storia della filosofia, di filosofia della storia, di filosofia della religione, di estetica, dai quali gli scolari trassero il materiale per le opere postume riguardanti queste discipline. L'unica grande opera del periodo berlinese, edita a cura di H. stesso, sono i Lineamenti di filosofia del diritto. Nell'anno della sua morte, avvenuta per colera il 15 novembre 1831, H. attendeva a un saggio sulla riforma della costituzione inglese, la cui pubblicazione fu interrotta dalla censura.
Il sistema speculativo di H. si presenta conchiuso nei tre noti dominî: logica, natura, spirito. In essi, attraverso un lungo ciclo di esperienze e di forme, lo spirito sviluppa sé stesso, si arricchisce nel contenuto e si plasma nella forma fino a divenire padrone di sé e trasparente a sé stesso. Ciascuno dei gradi ch'esso successivamente percorre, corrisponde, secondo H., a un momento della storia del pensiero, momento di cui ora, come nella logica, verrà messo in rilievo il significato teoretico, ora, come nella filosofia della natura, il significato scientifico, ora, come nella filosofia dello spirito, il significato etico, politico e concretamente culturale; la filosofia è quindi la storia stessa ricondotta alla razionale sistematicità che la sostiene e la anima. "Quello stesso svolgimento del pensiero che vien rappresentato nella storia della filosofia, vien rappresentato anche nella filosofia, ma liberato da ogni esteriorità storica, puro nell'elemento del pensiero. Il pensiero libero e vero è concreto in sé stesso; e così esso è idea e, in tutta la sua universalità, è l'Idea o l'Assoluto. La scienza di esso è essenzialmente sistema; infatti il Vero è come concreto solo in quanto, dispiegandosi in sé, si raccoglie e mantiene in unità, ossia in quanto è come totalità; e solo mediante la distinzione e la determinazione delle sue differenze son possibili la necessità di esse e la libertà dell'intero" (Encyclopädie, 914). Tuttavia la sistemazione della storia interna dell'umanità, quale ci è offerta dall'Enciclopedia, non ha niente di enciclopedico nel senso peggiorativo, ma è il frutto di un intimo travaglio dal quale non si può prescindere per intendere le grandi opere.
H. giovane partecipa, in genere, degl'ideali preromantici; la sua meditazione è mossa da un profondo risentimento contro la concezione illuministica della vita, e contro le istituzioni che ne erano l'espressione. Secondo lui l'illuminismo separa per atto d'arbitrio quei valori molteplici e tutti reali, l'insieme dei quali costituisce l'unità organica dell'uomo (il sentimento e la ragione, la fantasia e l'intelletto, l'individuo e la società). Compiuta questa scissione, l'illuminismo trasceglie una sola facoltà, l'intelletto astratto, e di essa fa la norma del pensiero e dell'azione. Contemporaneamente alla polemica anti-illuministica, H. si volge contro la religione cristiana, anch'essa imputata di separare ciò che in realtà è unito: la carne viene contrapposta negativamente allo spirito, la città celeste viene opposta alla città terrena; la natura umana vien considerata corrotta e incapace di riunificarsi, senza un intervento della grazia, con l'essenza suprema; e il cristiano rifugge dalla vita sociale e statale per chiudersi in una solitaria meditazione della morte. A modello di ciò che avrebbe dovuto costituire la vita concreta degl'individuì e dei popoli, H., partecipe anche in questo di un motivo preromantico, vagheggia il felice equilibrio della civiltà greca. Il mondo greco era il mondo della "bellezza", dove le attività che l'uomo moderno non riesce ad accordare e che in lui si svolgono le une contro le altre, fonte perenne di discordia interiore e di dolore, si conciliavano tutte in una ricca sintesi: il corpo era strumento della libertà dello spirito; gl'individui i gelosi custodi dello stato; gli dei non vuoti spiriti, ma immagine della complessa costituzione umana, vivevano tra gli uomini in domestica confidenza. Il genio greco non fu nutrito con "il pane zuccherato" della mistica; anzi fu educato "a seguire senza lamentele l'incoercibile destino", perché il destino non è che la proiezione esterna della vita che noi stessi ci facciamo. Mentre peraltro il romantico tipico indugia in questa antitesi di moderno e di antico, in H. il mito della Grecia cede dinnanzi a un problema più urgente. Se è vero che la vita dei popoli moderni è minata da una radicale disarmonia, si tratta di vedere come dallo stato di scissione, e attraverso esso, sia possibile giungere non alla ormai perduta unità chimerica, ma a una nuova riunificazione.
A questo scopo H. ricerca anzitutto come e quando la scissione si sia insinuata nel mondo greco-romano. Ciò avvenne allorché l'Impero romano, decaduto e disgregato, non fu più in grado d'imporre un argine al diffondersi del cristianesimo, religione sorta in Oriente presso un popolo vissuto in una ininterrotta condizione di schiavitù politica e di discordia civile: gli Ebrei, dimostratisi incapaci di organizzarsi in un libero stato, non avendo in esso trovato il fine immanente della loro esistenza, trasferirono al regno dei cieli la missione non saputa compiere su questa terra; si sottomisero all'autorità di un Dio estraneo, osservandone supinamente la legge. Contro una tale interpretazione della divinità e della legge insorse bensì Gesù; il Figlio dell'Uomo cercò di convincere gli Ebrei che il Dio da essi adorato al difuori di loro altro non era se non la voce della loro libera coscienza; che la legge da essi esteriormente osservata doveva ritrovare la sua origine più pura: quella della coscienza morale. Ma gli Ebrei fraintesero il verbo di Gesù; non solo continuarono ad adorare un Dio terribile e ignoto, ma fecero perfino di Gesù un principio di autorità; e il regno dei cieli continuò a essere opposto alla vita terrena. Il cristianesimo cosi giudaizzato finì per giudaizzare il mondo intero (cfr. Das Leben Jesu e Die Positivität der christlichen Religion, in Jugendschriften). Si noti peraltro che già nel periodo giovanile la teologia cristiana fu per H. oggetto di profonde meditazioni che condussero a una più matura rivalutazione della religione rivelata.
Poiché l'origine della scissione giace nel popolo d'Israele, H. ne ripercorre la storia, per rendersi conto del come le parti opposte resultanti dalla scissione medesima possano venir condotte alla riunificazione. Epoca fondamentale della storia ebraica e umana è il diluvio; per lo innanzi la natura e l'uomo vivevano in un felice equilibrio; di quell'età nella quale non vi fu traccia d'inimicizia né di dolore, di quella unità sostanziale ancora scevra di riflessione ci restano poche e deboli tracce. Il flagello rese nemici l'uomo e la natura, e impose un problema, che è poi il problema centrale della filosofia hegeliana: come riunificare i membri opposti di un'unità infranta? Anche gli eroi biblici sentirono questa necessità; ma le soluzioni da essi escogitate furono insufficienti. Noè, per porre fine alla lotta, sottomise l'uomo e la natura a un Dio estraneo; l'uomo e la natura, spogliati di ogni libertà e limitati nella loro espansione, furono aggiogati a una regola che li trascendè in tal modo peraltro la scissione non fu concretamente sanata, ma soltanto occultata per l'arbitrio di un intervento estraneo. H. esprime anche l'insufficienza della soluzione di Noè, dicendo che l'unificazione non fu reale, cioè sgorgata dalla realtà stessa delle parti in lotta, ma pensata, ossia sovrapposta per un atto del pensiero di Noè e dei suoi seguaci: motivo ritornante nella prefazione alla Fenomenologia, quando H. nota che la coscienza moderna ha ormai abbandonato e la primitiva unità sostanziale e l'unità stessa come fu ricostituita "nell'elemento del pensiero". Diversa, ma non meno insufficiente, la soluzione tentata da Nimrod: questi pretese di risolvere l'antitesi uomo-natura trasferendo ogni iniziativa all'uno e riducendo l'altra a un elemento passivo; l'uomo non aveva che a rendere identica a sé la natura, spogliata di ogni funzione peculiare.
La critica alle false soluzioni dell'opposizione segna il punto in cui H. abbandona l'esegesi storica e affronta in pieno il problema della dialettica. La sola forza che sia capace di risolvere realmente l'opposizione è, com'egli successivamente la denomina, l'amore, la vita; la conciliazione non discende da un'unità sovrapposta, né rappresenta un'usurpazione di un membro sull'altro, ma conduce dinamicamente a una sfera più vasta capace di contenere i membri di una dualità, i quali altrimenti tendono a escludersi reciprocamente. È questo il concetto hegeliano di superamento: superare (aufheben) significa togliere qualcosa da una sfera inferiore in cui essa sussisteva in opposizione a qualche altra cosa, e conservarla in una sfera superiore nella quale i due termini prima antitetici sono ora fusi in un nuovo prodotto, come nella creatura son fusi i genitori. Il ritmo della realtà è sviluppo e superamento. Propriamente il reale non è mera unità; la mera unità è indifferenziata uniformità ed è perciò priva di flusso vitale; la realtà è piuttosto processo riunificativo, o unità, ma in quanto essa perennemente si scinde e ricostituisce. I grandi lavori sistematici di H. sono disegnati appunto secondo uno schema che deriva dalla concezione della necessità per cui tutto si aliena da sé per riorganizzarsi dialetticamente: il logo passa nella natura per rivivere come spirito; ciò che è in sé diviene per sé e ritorna in sé e per sé.
Il concetto della realtà come superamento o come sintesi dell'identico e del diverso implica una nuova interpretazione dei massimi principî dialettici, quello d'identità e quello di contraddizione. H. distingue nettamente tra il pensare assoluto e la riflessione esterna, tra la ragione che riconduce l'opposizione all'unità della sintesi, e l'intelletto che pone l'opposizione senza risolverla. Non è possibile esprimere la vera sintesi filosofica o l'Assoluto in una formula dell'intelletto; questo sta pago o all'enunciazione del principio d'identità (A = A) inteso come mera identità escludente ogni differenza, o al principio di contraddizione (A = non A) inteso come mera differenza che esclude l'identità; la vera sintesi filosofica è invece totalità che niente lascia fuori di sé; essa perciò non si esaurisce in una delle due formule sopra enunciate, ma è il rapporto attivo di entrambe. Tuttavia è possibile reinterpretare le due formule dell'intelletto dal punto di vista della ragione; in questo caso si dovrà riconoscere che in A = A è già espressa la diversità, giacché in tanto fra due termini si stabilisce un rapporto di eguaglianza, in quanto essi sono, appunto, due, cioè in qualche modo diversi; d'altronde in A = non A si mette in rapporto il diverso, si supera, cioè, in qualche modo la mera diversità. Il movimento dialettico per cui le due formule giungono alla reciproca integrazione è anche ciò che H. chiama il sapere. Ma, per intendere il senso della dialettica hegeliana, occorre tener presente che al sapere vero si arriva solo percorrendo realmente i gradi delle due astrazioni, cioè solo quando i due principî unilaterali siano stati storicamente attuati ed esauriti pur nella loro insufficienza. La filosofia hegeliana si pone quindi come il vertice al quale fanno capo tutte le filosofie precedenti, abbiano esse rilevato l'identità o la differenza: perciò i riferimenti storici e polemici sono per H. momenti necessarî del suo pensiero, e proprio attraverso la polemica così intesa e già sviluppata nei saggi Differenz des Fichte'schen und Schelling'schen Systems der Philosophie e Glauben und Wissen, si determina ulteriormente il suo sistema; anche le grandi opere non sono che un alternarsi di posizioni storiche e di posizioni dialettiche, le quali si commentano reciprocamente.
Dall'affermazione dell'identità, posta come principio assoluto, cominciò lo Spinoza; la differenza gli divenne qualcosa di secondario ed esteriore; egli perciò non concepì l'Assoluto come soggetto unificatore di un contenuto molteplice, ma come sostanza che nega le differenze senza rifletterle in sé. Tuttavia, se l'errore per cui si comincia dall'identico e ad esso si resta non fosse stato consumato nella realtà della storia, la filosofia, secondo H., non sarebbe pervenuta a quella superiore posizione ch'egli sente di rappresentare. "Un tal punto di vista, nota H. a proposito dello Spinoza, non si deve pertanto riguardare come una opinione, una soggettiva arbitraria maniera d'immaginare e pensare propria di un individuo; anzi la speculazione, nel percorrer la sua via, s'imbatte necessariamente in quel punto di vista, e però il sistema è perfettamente vero. Ma non è il punto di vista più alto. Se non che perciò non il sistema può esser riguardato come falso, come bisognoso e capace di confutazione, sibbene soltanto questo è da ritener costì come il falso: che quel sistema costituisca il più alto punto di vista. Quindi è che il sistema vero non può nemmeno avere verso di quello il rapporto di essergli soltanto opposto; perché così questo opposto sarebbe esso stesso un che di unilaterale. Anzi essendo il superiore, deve contenere in sé il subordinato" (Wissenschaft der Logik, ed. Lasson, II, p. 217; trad. Moni, III, p. 14). Anche con i contemporanei H. esercita questa giustizia; e se contro di essi si lascia andare spesso al tono della vera e propria stroncatura, tuttavia già nell'abbozzo di logica steso a Jena egli accoglieva nella sfera che loro si addice le esigenze fichtiane. Per H. il sistema fichtiano costituisce la crassa antitesi dello spinozismo; questo non va oltre la vuota identità, quello non oltrepassa la coscienza soggettiva o empirica la quale s'imbatte sempre in un limite senza riuscire a superarlo e a ricongiungersi con sé: l'Io fichtiano non fa altro che trarre dentro di sé a volta a volta una nuova porzione del non-Io senza poterlo mai esaurire, perché la relazione Io = non-Io vien concepita intellettualisticamente, ossia come originariamente priva d'identità. Così l'Io sempre deve essere e non è mai quel che deve essere; ciò che si rende impossibile è la conciliazione dell'universale e del particolare, ossia l'autocoscienza che non ha barriere esterne, la pienezza del tutto, in una parola Dio. Quando invece la coscienza particolare, con lo sviluppo del suo implicito rapporto d'identità verso ciò che dapprima le appare come opposto e con il superamento della immediatezza, si elevi a forme di vita sempre più perfette, neghi sé stessa per ricongiungersi col tutto, Dio è un resultato che ha incluso in sé la realtà del processo, ed è reale e oggettivo. Allora l'essenza è esistenza. Per contro pensare Dio come non implicante l'esistenza è pensare la vuota identità che non ha presa sulla diversità e che è quindi astratta e arbitraria. (Per il rapporto essenza-esistenza e per l'interpretazione hegeliana della prova ontologica dell'esistenza di Dio, cfr. Wissenschaft der Logik, libro II, sez. 2a, Die Existenz, ed Encyclopädie, § 51). Anche Kant, secondo la critica di H., resta all'idealismo soggettivo; tutto il criticismo è permeato di dualismo e, quindi, di soggettività: le categorie non si dialettizzano con la cosa in sé; se dell'intelletto si fa uso oltre il fenomeno, si incorre in antinomie che la ragione, regolativa, ossia priva di contenuto, ma non costitutiva, non può sciogliere. Appunto perché meramente regolativa, la ragione, in sede morale, resta a un dovere che non si unifica con la costituzione della sensibilità; l'unificazione suprema è data come un postulato, ossia come non-reale. Ma la critica delle dottrine kantiane rileva le migliori esigenze del criticismo. Fu Kant che, in sede teoretica, cominciò a rivalutare la sensibilità assegnandole, nella limitatezza del fenomeno, una propria funzione dialettica; fu Kant che pose mente allo schema del pensare come triplicità che vince la dualità della tesi e dell'antitesi; fu Kant che scoprì la necessità per cui l'intelletto produce le antinomie, e, in generale, la contraddizione: "Questo pensiero, che la contraddizione, la quale, mediante le determinazioni dell'intelletto, vien posta nella ragione, sia essenziale e necessaria, è da considerarsi come uno dei più importanti e più profondi progressi della filosofia moderna" (Encyclopädie, § 48). Inesorabile invece H. è contro lo Schelling, sebbene la polemica contro questo ultimo sia scoppiata soltanto nella prefazione alla Fenomenologia. Per i rapporti H.-Schelling, a parte l'amicizia personale, valga quanto segue. Schelling concepisce l'Assoluto come indifferenza di soggettivo e di oggettivo; l'Assoluto è al di là di questa dualità che in esso non lascia tracce; hegelianamente la dualità (o meglio il processo della dualità) si organizza e s'incorpora nell'unità suprema; schellinghianamente, invece, nell'unità scompare la dualità, come nella notte scompaiono i colori. Inoltre, natura e spirito costituiscono per Schelling due dominî paralleli: la natura s'innalza allo spirito; questo, nell'attività estetica, ritrova il carattere individuale della natura. Per H., invece, "lo spirito è più elevato della natura", ciò che gli permette di stabilire la progressione dialettica logo-natura-spirito e di concepire quest'ultimo come inveramento delle due precedenti sfere. Contro la schellinghiana filosofia dell'identità H. ha lanciato frasi taglienti, e ha formulato esattamente le ragioni del dissidio nelle seguenti parole: "Secondo il mio modo di vedere, che si deve giustificare soltanto nell'esposizione del sistema stesso, tutto sta nel concepire il vero non come sostanza, ma con altrettanta decisione come soggetto" (Phänomenologie. ed. Lasson, 1929, p. 19).
La Fenomonologia vuole essere la dimostrazione di questo assunto. Essa è l'espressione più viva del pensiero hegeliano; qui pathos e riflessione, senso della storia ed elaborazione teoretica animano diversamente il filosofo, che si sente padrone di sé e del suo tempo. Poiché peraltro, secondo H., la filosofia non deve essere la filosofia di un individuo, ma la filosofia in generale; poiché il singolo pensatore non deve turbare il processo dello spirito con colpi di genio più o meno felici, ma rappresentare lo sviluppo del pensiero universale, il suo metodo consiste nel lasciar parlare la "cosa stessa" e nel seguirla nel suo divenire; in tal modo la filosofia dell'età nostra o il grado "su cui posa oggi lo spirito autocosciente", giustificato dal processo storico, assumerà valore di realtà e la certezza soggettiva coinciderà con la verità oggettiva. Non dunque il facile entusiasmo dei romantici (Jacobi, Schleiermacher) o il sentimento soggettivo restituiranno la pienezza dell'essere infinito, anzi la progressiva scientifica risoluzione delle antitesi nelle quali il finito stesso sembra indugiare. Di qui la decisa rivalutazione dell'intelletto che, immanente al contenuto, lo analizza e lo accompagna fino alla contraddizione, cioè fino alla soglia della più vasta sintesi concettuale. L'intelletto separa bensì ed estrania il separato dalla realtà dell'organismo, "ma questo separato, questo stesso irreale è un momento essenziale; sol perché il concreto si separa e si fa irreale, esso è ciò che muove sé. L'attività del dividere è la forza e il travaglio dell'intelletto, della potenza più mirabile e più grande, o meglio della potenza assoluta" (Phänomenologie, p. 29). È chiaro pertanto che l'intelletto hegeliano è lontano dall'intelletto illuministico, quanto l'immanenza dall'astrazione; esso rende possibile la esperienza, cioè l'attenzione al processo del particolare come tale. In questo senso, per H., la scienza è il processo stesso dell'esperienza. Son da dichiararsi senz'altro erronee tutte quelle filosofie che invece di seguire il divenire dell'esperienza cominciano dall'esposizione dei risultati, o dall'enunciazione incondizionata di un principio assoluto (lo A = A dello Schelling); il risultato fuori del processo per cui ad esso si è pervenuti è una mera astrazione e resta del tutto ingiustificato, resta un mero fine rappresentato senza i mezzi, ossia una mera aspirazione sentimentale. Non basta la nozione dell'universale; si tratta anzi di conoscerlo, di toglierlo dall'irrigidimento per cui si presenta come una forma fatta, di renderlo fluido, di ricongiungerlo con il suo contenuto e con il suo primo apparire, cioè di realizzarlo. Di qui l'ulteriore problema del cominciamento, svolto principalmente nella prefazione alla Fenomenologia e nel primo libro della Scienza della logica: la filosofia non comincerà assumendo come principio la forma più perfetta, compiendo così il circolo vizioso di presupporre il risultato; ma comincerà proprio dalle esperienze meno perfette, risolverà progressivamente le diverse limitazioni del contenuto stesso fino a condurlo, dall'interno, al suo risultato che culmina fondando ciò che è in sé e per sé. Ma l'essere in sé e per sé è da prima soltanto in sé o per noi che filosofiamo; quindi divien per sé, ma, ancora, per sé soltanto per noi; finché si attua per sé anche per sé stesso. Il soggetto filosofante è, per così dire, il medio attraverso il quale il contenuto irriflesso giunge a possedere riflessivamente sé stesso e a porsi come spirito: lo spirito che si sa così sviluppato come spirito e come soggetto, è la scienza. Rispetto alla coscienza immediata che ha pure un suo criterio di realtà, la scienza si presenta come l'inverso, come una non-realtà. Ma la scienza si legittima soltanto quando sappia congiungere con sé l'immediatezza della coscienza prescientifica, proprio come la verità non si pone al difuori dell'errore, ma riconosce in esso un momento necessario. Il processo che conduce dallo stato incolto fino al sapere può venire riguardato o come processo dell'individuo universale, o come processo dell'individuo particolare. Questo trova già pronta dinnanzi a sé la sfera della sua civiltà; la trova, come un prodotto a cui non ha partecipato; ma deve riconoscerla, cioè ripercorrerne i gradi e possederla come concetto e come storia, nella quale oblii sé stesso.
La Fenomenologia comincia dunque con la forma più povera del sapere, rappresentata dal movimento della coscienza, la quale attraverso la sensazione e la percezione si sviluppa fino all'intelletto. La coscienza non cerca né costruisce il suo oggetto, ma lo trova dinnanzi a sé e pretende di conoscerlo così come lo trova. Nella sensazione per la coscienza il vero coincide con l'impressione puntuale ricevuta dal mondo esterno; ma l'hic e il nunc non esaurisoono l'ambito della realtà, che si dimostra piuttosto connessione di infiniti hic e di infiniti nunc, cioè universale. Similmente l'intelletto crede di avere a che fare con le cose; ma, in verità, costruisce dei fenomeni soggettivi: contenuto non è l'essenza reale della cosa, la quale sfugge, ma solo la coscienza: e quando essa vorrà indagare quel che ci sia nel fenomeno, incontrerà solo sé stessa. Il risultato di questa esperienza, nella quale H. rappresenta la posizione dell'idealismo soggettivo, è duplice: in primo luogo, la coscienza è ricongiunta con sé ed è divenuta autocoscienza, in secondo luogo essa si accorge che per appropriarsi dell'oggetto occorre abbandonare la via teoretica finora tenuta, ed elaborarlo praticamente, cioè trasformarlo, consumarlo. L'autocoscienza contiene in sé questo duplice risultato; essa e si dialettizza con sé stessa e si comporta praticamente verso l'oggetto. L'autocoscienza si presenta dapprima in una forma esteriore, come rapporto di due coscienze distinte, l'una essenziale, l'altra inessenziale, simboleggiate da H. come signore e servo. Il signore si ritiene libero e indipendente, ma non lo è; egli dipende dal servo che per lui lavora e gli procura di che vivere. D'altra parte il servo nel lavoro impara a dar forma al mondo esterno e ad assoggettarlo a sé; inoltre anche la paura ch'egli ha del signore porta i suoi frutti; il servo trema per la propria vita, si pone il problema di sé stesso e diviene quindi consapevole di sé, diviene egli stesso signore. La coscienza servile prepara così quell'atteggiamento che si è avverato nella storia come stoicismo: pensiero che ha in sé medesimo il metro della verità e che si sente libero dal mondo anche nelle catene. Il mondo tuttavia sussiste, e contro di esso, a disgregarlo, si volgerà lo scetticismo; ma l'autocoscienza scettica dice e disdice, pronuncia la nullità dell'udire e del vedere, e intanto vede e ode; tutto dovrebbe per lei dileguare, ma essa permane. Per tal modo l'autocoscienza giunge a fissare i due lati di questa contraddizione: nell'uno esprime ciò che si presenta eterno sopra ogni trasmutazione; nell'altro esprime la propria caducità. È questa l'esperienza dell'"autocoscienza infelice". Essa sottomette sé stessa, e il mondo che non riusciva ad annullare, a un Dio estraneo. In realtà questo Dio non è che essa stessa, ma essa non è consapevole di questa sua unità con sé; quando l'unità si palesi, si dischiuderà il regno dello spirito. Tuttavia, prima di possedersi come spirito, essa dovrà tentare ancora una via fallace e, come ragione, iniziare un movimento che ricorda quello della coscienza; là, peraltro, la coscienza trovava l'oggetto; qui, invece, essa cerca consapevolmente sé come oggetto. A tale scopo preordina esperimenti e indagini scientifiche; compie osservazioni sulla natura inorganica e organica; analizza il proprio pensare considerato come oggetto (e ne trae le leggi logiche); determina il proprio rapporto con la realtà esterna (e tenta di cavarne leggi psicologiche); si cerca nell'individualità del proprio corpo, studiandosi, mediante le scienze fisionomiche e frenologiche, di incontrare sé stessa nell'espressione del volto o nella configurazione del cranio; ma invano la coscienza si adopera a possedersi come oggetto: la frenologia non è che l'ironizzamento di simili tentativi. Finalmente la coscienza ritorna alla sua unità con sé, intravveduta dalla coscienza infelice. Lo Spirito vero nel suo momento più caratteristico e più hegeliano è "eticità", concetto derivante dalla polis ellenica e scientificamente già elaborato in un System der Sittlichkeit (abbozzo steso a Jena nel 1802). L'eticità è la sostanza dello spirito, il rapporto per cui l'individuo s'immedesima nell'altro individuo, lasciandolo nello stesso tempo libero di sé; per cui nella comunità si unificano le differenze e insieme si potenziano; essa "non è niente altro che l'assoluta, spirituale unità della loro essenza, nell'indipendente realtà degl'individui" (Phänomenologie, p. 256). Così si rappresenta la concreta costumanza di un popolo, allorché non è ancora decaduta in legge astratta, e la legge divina e la umana non conoscono la reciproca esclusione. Ma appena Antigone, esercitando la pietà verso le spoglie del fratello, si ponga contro la legge umana, la sostanza etica, lesa nella sua unità, sta per dissolversi; subentra lo "stato di diritto", che delimita le individualità singole, le quali possono ormai sussistere soltanto se contenute da barriere reprimenti la reciproca attività. Lo spirito si rende estraneo a sé stesso, e si inizia un mondo di generale disgregazione come quello che preparò la Rivoluzione francese, trionfo della libertà individualistica. Lo spirito torna a essere certo di sé nelle varie forme della moralità, con la quale tuttavia non si giunge alla riunificazione: nella morale kantiana l'assoluta essenza è un dovere contrapposto al mondo della natura; nella morale romantica l'"anima bella" tende a mantenersi pura rifuggendo dalla realtà dell'azione. Nella religione invece è presente l'unità dello spirito ontologicamente realizzato nei suoi momenti; e poiché tutte le determinazioni dello spirito son presenti nell'unità, la religione non è mera aspirazione sentimentale, e non è nemmeno pura fede; ma è fede giunta al sapere dell'oggetto creduto. Tuttavia questo sapere non è ancora assurto alla libertà del concetto, ma resta rappresentazione; la religione è appunto "rappresentazione" dell'essenza suprema, la quale nei diversi periodi storici ha preso diversa figura: negli orientali è apparsa in forme naturali (animali, obelischi, ecc.); nei greci è giunta all'espressione artistica sempre più intima dalla statua alla tragedia; nella religione rivelata, infine, l'essenza suprema si fa uomo reale, che liberamente espia le colpe degli uomini per ricongiungerli con Dio. Lo stesso contenuto che costituisce la religione, costituisce anche lo spirito assoluto, la filosofia: ma nella filosofia quel contenuto non vien più rappresentato, bensì concettualmente saputo, cioè lo spirito sa sé stesso come concetto, e perciò è scienza.
Le opinioni dei critici sono tutt'altro che concordi sull'interpretazione della Fenomenologia e sul rapporto di quest'opera con il sistema, architettonicamente presentato nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. L'incertezza nasce dal fatto che gran parte del contenuto della Fenomenologia si ritrova nel sistema e specialmente nella terza parte di esso, la Filosofia dello Spirito. Mentre la Fenomenologia osserva lo sviluppo della coscienza prescientifica e i gradi per cui essa si solleva all'elemento del concetto e della scienza, il sistema si svolge tutto in tale elemento; quel contenuto vi ricompare bensì, ma filosoficamente purificato.
Il primo regno della scienza è la Logica, le cui principali esposizioni sono la grande Scienza della Logica e la Logica dell'Enciclopedia. La logica è il sistema delle essenze pure, lo spirito in sé; e può venire teologicamente rappresentata come il pensiero divino che non si è ancora incarnato; essa è anche metodo assoluto e immanente schema dinamico di ogni realtà. La logica mette in rilievo le determinazioni formali nelle quali la realtà si svolge; e come la realtà è sviluppo, similmente sviluppo sono le sue categorie. Secondo H. esse non costituiscono l'organo mediante il quale un pensiero esteriore possa applicarsi a un contenuto, ma rappresentano l'organizzazione dialettica che il contenuto attua in sé, fino a divenire consapevole di sé come autoconcetto. Per questo, la logica è la dimostrazione della famosa sentenza hegeliana: "ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale". Poiché anche la logica, come ogni altra scienza, è sviluppo, essa non può cominciare dall'esposizione delle forme più complesse, ma deve ricercare la radice del suo processo in quelle forme che posseggono un minimo di determinazione: il puro essere e il puro non-essere; queste, proprio perché prive di altre determinazioni, sono nello stesso tempo identiche e opposte, onde l'una nasce nell'interno dell'altra, e da tutte e due scaturisce l'inquietudine del divenire, la forza che sospinge la realtà di categoria in categoria. Le categorie della sfera dell'essere - qualità, quantità e misura - si svolgono in modo ancora immediato e irriflesso. Nell'essenza, per contro, le categorie si riflettono le une nelle altre, istituendo la sintesi razionale. L'essenza è l'identico che non trova fuori di sé le determinazioni diverse, ma che si scinde in sé stesso, e, attuando lo schema classico della dialettica hegeliana, torna alla propria unità. Nell'identità dell'essenza è già implicito l'atto dinamico dell'autoscissione, dalla quale si generano la differenza e la diversità; e siccome gli elementi della diversità provengono da un'unità comune e ciascuno di essi vorrebbe esaurirla in sé, essi si oppongono, generando la contraddizione, quella figura logica che per sua natura urge verso un'unità superiore. L'unità così ricostituita ha in sé tutti i suoi elementi e rappresenta il "fondamento" dal quale si sviluppano ormai la "cosa" e la "realtà effettuale". Il concetto è la sfera in cui la realtà, soggettivandosi in sé stessa, si dispiega nelle forme logiche tradizionali (appunto: concetto, giudizio, sillogismo) le quali peraltro, secondo H., non appartengono a una mente esteriore, ma costituiscono l'ordine dell'intero mondo oggettivo; anche se il mondo sembra penetrato di impulsi irrazionali, l'"astuzia della ragione" si vale di essi per attuare la propria finalità. L'insieme delle forme logiche presentate nel loro sviluppo costituisce l'idea logica. H. ha spesso rilevato la differenza tra la sua "Idea" e il "genere" della logica formalistica; questo s'ottiene astraendo dal particolare, quella è il processo per cui il particolare, superando la propria limitatezza, si conserva purificato nell'universale.
L'idea logica, giunta alla sua completezza, entra in opposizione con sé stessa, perde la sua libertà e decade nel mondo esteriore della natura, secondo regno della scienza. I caratteri che determinano la natura sono da una parte la mera necessità, dall'altra la mera accidentalità che non consente, per le concrete formazioni naturali, una classificazione rigorosa. Ma ciò non significa, secondo H., che la natura sia un mondo assolutamente separato dal concetto: essa è piuttosto il concetto stesso che da sé ha prodotto le forme della propria negazione, così come, teologicamente, Dio ha creato e vivificato la natura, senza coincidere immediatamente con essa. Data questa dipendenza dal concetto, la forza che muove la natura non risiede in essa, né costituisce una metamorfosi o un'evoluzione da intendersi naturalisticamente; l'intima ragione per cui le formazioni naturali si sviluppano dalla meccanica alla fisica, all'organica proviene sempre dal dialettismo logico. Di qui il tentativo hegeliano di costruire aprioristicamente tutti i fenomeni naturali e di ricondurli all'astratto schema triadico: tesi, antitesi, sintesi. Per citare un solo esempio, il H. aderì alla teoria goethiana, secondo la quale i diversi colori risultano dalla combinazione di due opposti: il bianco e il nero. Si può affermare che la filosofia della natura non solo costituisce la parte meno viva del sistema, ma è pure il campo nel quale con maggiore evidenza affioora il difetto principale del pensiero hegeliano: quello di dedurre rigidamente e talvolta macchinosamente serie triadiche di concetti e di categorie.
La sintesi dell'idea logica e della natura, il logo che torna a sé stesso dalle sue incarnazioni esteriori, è lo Spirito, ultimo regno della scienza, nel quale il processo dialettico attinge la concretezza suprema. Anche il regno dello Spirito ha una sua interna dialettica per cui esso si pone come Spirito soggettivo, Spirito oggettivo e Spirito assoluto. Nella prima sfera H., riprendendo motivi già svolti nella Fenomenologia, tratteggia il progresso dell'unità spirituale dalla sua forma primitiva, unità di anima e corpo, fino alle attività superiori che culminano nel "volere libero", nella sintesi personale di volontà e intelligenza. Ma il terreno nel quale la persona umana si attua è la seconda sfera, lo spirito oggettivo, denominazione con la quale H. indica il processo per cui l'uomo si spoglia della sua soggettività empirica e atomistica e vive nelle istituzioni giuridiche, etîche, politiche che sono argomento dei Lineamenti di Filosofia del Diritto.
Per intendere il pensiero etico-politico di H., occorre anzitutto aver chiaro il suo concetto di libertà: essa non consiste nella delimitazione negativa di una sfera di arbitrio individuale dalla quale esula tutto un mondo di altre individualità; libero è ciò che non è né condizionato né limitato da esteriorità alcuna; l'individuo quindi si rende libero in quanto ha il potere di superare la sua finitezza e di realizzarsi progressivamente come universale. Il grado iniziale di questo processo è il "diritto astratto", connaturato alla volontà della persona che, in quanto persona, prende possesso del mondo esterno e, istituendo la proprietà, rende possibile il contratto, primo accordo delle volontà particolari e primo superamento della loro limitatezza. La volontà del diritto si interiorizza nella moralità: l'essenza di essa si trova nell'intenzione di agire per il bene universale. La moralità, a sua volta, si concretizza nella eticità, che è, hegelianamente, costumanza viva di un popolo nella quale non si conoscono doveri astrattamente formali, ma doveri che hanno un contenuto reale e storicamente determinato. L'eticità è sostanza nazionale, di cui l'individuo rappresenta una libera e consapevole rifrazione; nell'eticità dunque non si dà antitesi fra l'interiore intenzione individuale e l'azione da svolgersi nel seno della comunità; qui il fine del singolo concorda con la finalità di tutti, e l'autorità della legge esprime la volontà di ognuno. L'eticità stessa è intesa da H. come organismo vivente nei suoi organi: da una parte la famiglia, sede dell'ethos più intimo, dall'altra la "società civile", retta dalle istituzioni atte a soddisfare i bisogni comuni, e perciò espressione del lato esteriore dell'eticità. In quanto membro di una società civile, l'individuo, mentre lavora per l'appagamento dei bisogni suoi, "produce e acquista per il godimento degli altri", e ciò secondo le attitudini, la nascita, le condizioni di vita, in virtù delle quali egli appartiene a una delle tre classi: agricoltori, industriali e, al disopra, la "classe generale" con un compito essenzialmente politico-amministrativo. Se la dottrina dell'organizzazione della società in classi è espressione di contingenze storiche riflettenti le condizioni della Prussia d'allora, H. sentì tuttavia modernamente il problema costituzionale della rappresentanza delle classi nello stato, come attestano i saggi sulla costituzione della Germania (1802) e del Württemberg (1817). Poiché peraltro la sostanza etica è organismo, essa non si esaurisce nella famiglia e nella società civile; si pone anzi, come loro ragion d'essere, come loro sintesi, e, divenendo consapevole di sé stessa e della sua unità, si afferma quale fine ultimo di ogni libertà e soggetto supremo di ogni diritto, cioè come stato. Nella considerazione dello stato si riflette il processo dell'Assoluto, che, pur venendo ultimo nella deduzione filosofica, è, nella realtà, il primo, perché autocosciente fondamento etico di ogni altra istituzione. Allo stato spetta il duplice compito di promuovere le attività delle sfere subordinate (famiglia e società civile) e di provvedere, con la sua interna costituzione, che la loro libertà non conduca alla scissione dell'unità sostanziale. Lo stato non conosce potere superiore al suo: esso incarna lo spirito del mondo che attua nella storia la propria verità, elevandosi al sapere assoluto.
Lo Spirito assoluto è per H. il soggetto universale che, superata la limitatezza con la quale esso si attuava nelle esperienze passate, le riassume in sé, dimostrando nello stesso tempo di costituire il loro principio. Le categorie completamente adeguantisi al suo contenuto sono l'arte, la religione, la filosofia, le tre modificazioni diverse dell'essenza assoluta. L'Arte è l'apparire dell'idea in forme sensibili e intuitive, costituenti il carattere specifico della bellezza; anche in natura si dànno figurazioni belle che giustificano una filosofia del "bello naturale", ma l'attributo della bellezza non conviene alla natura in quanto tale, bensì ad essa, in quanto ivi l'infinità dell'assoluto appare, più e meno perfettamente, in forme finite. L'arte compie questo processo di figurazione intuitiva cercando una sempre maggiore adeguazione al suo contenuto ideale, per modo che anche le forme estetiche hanno una loro storia, trascorrente secondo H. dall'arte simbolica degli Orientali (architettura), all'arte classica dei Greci (scultura), all'arte romantica che con la pittura, con la musica, con la poesia esprime nella sua interiorità l'essenza spirituale dell'Idea con un minimo di elementi materiali. L'elemento sensibile costituente il pregio e insieme il limite dell'arte scompare nella Religione, nel cui momento più elevato lo spirito è rappresentato come rivelazione oggettiva di sé stesso sostanziato di tutte le sue intrinseche determinazioni. Le due categorie dell'arte e della religione, abbandonati i loro modi particolari, intuizione e rappresentazione, s'inverano nella Filosofia, sapere totale, adeguazione perfetta di soggettività e di oggettività, risultato che è, nello stesso tempo, il principio del processo. "L'idea, eterna in sé e per sé, si attua, si produce e gode sé stessa eternamente come spirito assoluto". Il processo dell'idea è, secondo H., una cosa sola con la storia della filosofia, e i sistemi che si sono in ordine di tempo e con accidentalità diverse in essa attuati rappresentano gli organi nei quali si estrinseca l'idea stessa nel suo svolgimento, nella sua sempre maggiore determinazione.
Ediz.: Subito dopo la morte del maestro, gli scolari curarono una edizione completa delle sue opere: G. W. F. Hegels Werke, uscita a Berlino dal 1832 al 1845, mentre la raccolta delle lettere uscì nel 1877. Una ristampa dell'edizione precedente è quella curata da Hermann Glockner: Sämtliche Werke, Stoccarda 1927-29. L'edizione critica di tutta l'opera hegeliana, giunta a buon punto, è quella a cura di G. Lasson, Sämtliche Werke, Lipsia. Gli scritti giovanili furono editi da H. Nohl: Hegels theologische Jugendschriften, Tubinga 1907. Traduzioni italiane: Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tradotta da B. Croce, Bari 1907, 2a ed. 1923; Lineamenti di filosofia del diritto, tradotti da F. Messineo, Bari 1913; La scienza della logica, traduz. con note di A. Moni, Bari 1925; Lezioni sulla storia della filosofia, traduz. di E. Codignola e G. Sanna, Perugia-Venezia e Firenze (sono usciti due volumi, 1930 e 1932). Si omettono, perché prive di valore scientifico, parecchie traduzioni uscite nel secolo scorso.
Bibl.: Un'ottima bibliografia in B. Croce, Lebendiges und Totes in Hegels Philosophie, Heidelberg 1900 (trad. tedesca dell'opera citata più sotto). Per la bibliografia tedesca su H. dal 1828 al 1928, v. Literarische Berichte aus dem Gebiete der Philosophie, fascicolo 24°, Erfurt 1931; I. K. F. Rosenkranz, Hegel's Leben, Berlino 1844; R. Haym, H. und seine Zeit, Berlino 1857 (ristampa, Lipsia 1927); B. Spaventa, Le prime categorie della logica di H., in Atti della R. Accad. di scienze mor. e pol. di Napoli, I (1864); ristampa in Scritti filosofici editi da G. Gentile, Napoli 1900; id., Studi sull'etica di H., in Atti ecc., IV, 1869; ristampati da G. Gentile col titolo Principî di etica, Napoli 1904; E. Caird, H., Edimburgo-Londra 1882 (trad. it. di G. Vitali, Palermo 1911); K. Fischer, Hegels Leben, Werke und Lehre, 1a ed., Heidelberg 1901; 2a ed., 1911; J. B. Baillie, The origin and significance of Hegel's logic, Londra 1901; B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di H., Bari 1907, ristampato col titolo: Saggio sullo H., Bari 1913; G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, 2a ed., Messina 1923; F. Rosenzweig, H. und der Staat, Monaco e Berlino 1920; V. Fazio-Allmayer, La teoria della libertà nella filosofia di H,. Messina 1920; Betty Heimann, System und Methode in Hegels Philosophie, Lipsia 1927; N. Hartmann, H., Berlino e Lipsia 1929; G. Della Volpe, H. romantico e mistico, Firenze 1929; Th. Haering, H., sein Wollen und sein Werk, I, Lipsia-Berlino 1929; E. de' Negri, La nascita della dialettica hegeliana, Firenze 1930; A. Banfi, La filosofia della religione in H., in Rivista di filosofia, 1931, n. 4 (tutto il fascicolo è dedicato a H.); Revue de Métaph. et de Morale, 1931, n. 3 (tutto il fasc. è dedicato a H.); G. Gentile, Il concetto dello stato in H., in Nuovi studi di diritto, economia e politica, IV (1931); U. Spirito, Naturwissenschaft u. Philosohpie in der Gesch. des Denkens von H. bis heute, in Logos, XX (1931) e in Giorn. crit. della fil. it., XII (1931); G. Lasson, introduz. alle sue edizioni hegeliane.