Ritter, Gerhard
Storico tedesco, nato a Bad Sooden-Allendorf il 6 aprile 1888 e morto a Freiburg im Brisgau il 1º luglio 1967. Esponente di spicco della tradizione storiografica più esplicitamente connotata in senso prussiano e conservatore, R. rientra, insieme a Friedrich Meinecke (→), nel novero di quegli studiosi novecenteschi che hanno saputo indagare con maggiore acutezza critica i tratti crepuscolari della lotta per il potere. Sullo sfondo di un intenso confronto con il pensiero di M., nei suoi scritti R. si impegnò infatti a ripensare il nesso problematico tra ethos e kratos, riconiugandolo alla luce dei dilemmi posti dai più recenti sviluppi della storia europea e tedesca in particolare. Riallacciandosi agli studi già compiuti da Meinecke, R. ne subì, con ogni probabilità, l’influenza: lo rivela, non da ultimo, il fatto che il suo primo interesse verso M. maturò proprio intorno alla metà degli anni Venti, in coincidenza con la pubblicazione di una sua ampia recensione (in «Neue Jahrbücher für Wissenschaft und Jugendbildung», 1925, 1, pp. 101-14) del capolavoro meineckiano, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte (1924, trad. it. L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, 2 voll., 1942-1944). Da quel momento in poi R. iniziò a nutrire una costante attenzione per il Fiorentino, ma solo alcuni anni più tardi, nelle pagine del saggio Deutscher und europäischer Geist im Spiegel der neuere Kirchengeschichten («Die Tatwelt», 1931, 7, pp. 115-27), sviluppò l’idea che sarebbe stata poi alla base della sua opera più nota: la contrapposizione polare tra il modello continentale della statualità europea e il modello insulare, rispettivamente incarnati dal pensiero politico di M. e di Tommaso Moro.
Punto d’arrivo di un controverso itinerario intellettuale (assimilabile a quello percorso negli stessi anni da Hans Freyer), Machtstaat und Utopie. Vom Streit um die Dämonie der Macht seit Machiavelli und Morus (1940) – dalla quinta edizione (1947) Die Dämonie der Macht. Betrachtungen über Geschichte und Wesen des Machtproblems im politischen Denken der Neuzeit (trad. it. Il volto demoniaco del potere, 1958) – risulta dunque non solo una ricostruzione estremamente suggestiva della storia europea dal Cinquecento in poi e una testimonianza significativa della fortuna machiavelliana nella Germania nazista, ma anche uno dei più articolati tentativi di rideclinazione teorica della politica di potenza entro i limiti della ragione e della morale. Il carattere controverso di quest’opera rimanda in parte allo stesso profilo intellettuale di R., il quale, al pari di numerosi altri storici della sua generazione, concepì la ricerca storiografica in termini strettamente connessi con l’azione politica. Proiettando la sua lettura di M. sul piano dell’analisi politica del presente, in queste pagine egli non esitò infatti a formulare verso il regime nazista allusioni polemiche, che, fattesi più esplicite dalla terza edizione in poi, furono infine ragione, nell’inverno del 1944, del suo arresto da parte della Gestapo.
Ciononostante, anche negli anni seguenti, il volume non mancò di essere criticato da coloro che, contestandone l’impianto conservatore, evidenziarono le forzature a posteriori con cui, nella prefazione alla citata quinta edizione, R. tentò di chiarire le ragioni che lo avevano spinto a camuffare i suoi propositi più autentici. Tra i quali, a suo dire, rientrava quello di effettuare uno «smascheramento del volto demoniaco del potere», da intendersi in termini funzionali alla denuncia dell’ideologia nazista (Die Dämonie, cit., trad. it. 1958, pp. 3-5; tutte le successive citazioni si intendono da questa traduzione).
Oltre ogni possibile polemica, resta comunque indubbio che, rintracciando nel pensiero di M. il modello archetipico della tradizione statuale continentale, R. intese non solo suggerire un’interpretazione del nazismo come esasperazione di tendenze già presenti nella storia europea, ma soprattutto confrontarsi con il tema del potere nelle sue manifestazioni più complesse e patologiche (Cau 2007, p. 172). E infatti, sin dalle prime pagine, una volta chiarito in cosa consista il carattere demoniaco del potere e dopo averne associato il pieno manifestarsi con la nascita dello Stato moderno, R. non esitò ad attribuire a M. il merito di esser stato il primo pensatore europeo ad aver preso coscienza del fatto che nessuna costruzione politica sia possibile «senza grandi distruzioni di valori umano-morali» e, dunque, della «sinistra ambiguità e pericolosità del potere» (Die Dämonie, cit., p. 13). Pur nella convinzione di un necessario superamento della secolare contrapposizione tra «la pura politica di potenza» di M. e «il moralismo umanitario e utopistico» di Moro, nelle pagine di Die Dämonie R. non fece tuttavia mistero della propria ammirazione per il Fiorentino. E ciò non solo perché, a differenza della tradizione moralista di matrice erasmiana e moriana, M. non aveva esitato a mettere in luce l’ambiguità della natura umana e a porre la lotta per il potere al centro delle dinamiche politiche; ma anche perché la dottrina machiavelliana – riducibile, di fatto, a una tecnica moralmente neutrale dell’azione politica – aveva svelato la dimensione fatalmente demoniaca del potere e, con ciò, contribuito a esorcizzarne gli eccessi (p. 36).
Sul piano più strettamente storico, al pensiero politico di M., fondato sul «primato morale del fatto politico» e sulla «fede idealistica nella potenza quale principio ordinatore» (pp. 41 e 45), riconobbe poi un altro merito: quello di aver preparato la via alle grandi monarchie continentali. In tal senso, in linea con il canone interpretativo più classico, anche per R., M. risultava «il primo nazionalista e militarista dell’Europa moderna» (p. 54).
Lungi dal doversi in qualche modo giustificare per aver subordinato la norma morale allo scopo supremo dell’affermazione di potenza, il pensiero machiavelliano aveva però trovato il suo principale limite nel mancato approfondimento dei fenomeni patologici prodotti, nel lungo periodo, dall’irruzione del demoniaco. Proprio a tali fenomeni R. dedicò l’ultimo capitolo del suo libro, nel quale, risalendo alle radici del Sonderweg tedesco, interpretò il nazismo come «nuovo movimento machiavellistico» (p. 168), che, portando alle estreme conseguenze le premesse teoriche della politica di potenza, aveva finito per pervertirne l’essenza stessa. In tal senso, R. intravide nel totalitarismo l’esito di un processo di lunga durata, che aveva finito per palesarsi solo all’indomani del 1918, allorché alla «rivivificazione delle idee machiavelliane» si era accompagnato un inedito processo di militarizzazione della società (p. 173).
Bibliografia: W. Preiser, Das Machiavelli-Bild der Gegenwart, «Zeitschrift für die gesamte Staatswissenschaft», 1952, 108, pp. 1-38; G.M. Barbuto, Machiavelli e i totalitarismi, Napoli 2005; M. Cau, Tra potere demoniaco e virtù democratica. Letture machiavelliane nella cultura tedesca tra le due guerre, in Machiavelli nel XIX e XX secolo, a cura di P. Carta, X. Tabet, Padova 2007, pp. 145-84; W. Schulze, Machiavelli am Anfang des deutschen Sonderwegs. Beobachtungen zur Deutung im späten Historismus bei Friedrich Meinecke und Gerhard Ritter, in Machiavellismus in Deutschland. Chiffre von Kontingenz, Herrschaft und Empirismus in der Neuzeit, hrsg. C. Zwierlein, A. Meyer, München 2010, pp. 241-56.