ANTONELLI, Giacomo
Nacque il 2 apr. 1806 a Sonnino, da famiglia di origine modestissima, arricchitasi poi in fortunate speculazioni immobiliari.
Mandato a Roma dal padre Domenico, che desiderava avviarlo, nonostante la sua scarsa propensione per la vita ecclesiastica, ad una carriera nell'amministrazione pontificia, l'A. compì gli studi umanistici al Collegio Romano e quelli di diritto alla Sapienza, ove conseguì nel 1827 la laurea in utroque, e si iniziò quindi alla pratica degli affari. Nel 1830, avuti dal padre i fondi richiesti per l'ingresso nella Prelatura iustitiae, iniziò la carriera curiale il 15 luglio come ponente del Buon Governo, ossia referendario alla Corte superiore, organo di giustizia amministrativa, e nel 1834 passò come assessore al tribunale criminale di Roma.
L'acume, il senso pratico e i modi eleganti avevano presto attratto sul giovane A. l'attenzione di prelati influenti, in particolare dei cardinali P. Zurla e L. Lambruschiní, che ne favorirono la rapida ascesa. Nel 1835 passava dalla giustizia all'amministrazione provinciale come delegato a Orvieto, dove tentò di migliorare la coltura della canapa e diede prova di coraggio durante la peste di quell'anno. Trasferito a Viterbo nel 1837, vi ebbe a reprimere sommosse scoppiate in occasione del colera; seppe anche rivelare sensibilità politica e talenti di amministratore. Brigò allora per avere un posto vacante alla Segnatura, preferendo i tranquilli impieghi dei tribunali; rimase, però, in via provvisoria, nell'amministrazione provinciale e, nel febbraio 1839, fu inviato come delegato a Macerata. L'energia con cui si oppose alle manovre deiliberali avversari del regime pontificio gli attirò l'ostilità della popolazione, ma ne aumentò il prestigio a Roma, ove fu richiamato alla fine del 1840: ebbe un'importante promozione e divenne sostituto del cardinale M. Mattei al dicastero dell'Intemo. Contemporaneamente Gregorio XVI lo nominò canonico di S. Pietro, con una pensione mensile di 30 scudi, e in tale occasione l'A., ch'era prelato laico, ebbe gli ordini sacri fino al diaconato, pur senza avere mai ricevuto una vera formazione ecclesiastica né studiato teologia. Assumendo il suddetto incarico al ministero dell'Intemo egli introdusse nell'amministrazione pontificia il futuro cardinale T. Mertel, allora avvocato laico, del quale aveva apprezzato le qualità.
Il 5 genn. 1845 Gregorio XVI, che qualche mese innanzi aveva nominato l'A. fra i sette protonotari apostolici permanenti, l'aggregò, come supplente al vecchio cardinale A. Tosti, alla direzione del ministero delle Finanze, col titolo di protesoriere della Camera Apostolica e, poco dopo, in occasione della morte del padre (25 marzo 1845), nel frattempo fatto nobile, gli fece giungere con le condoglianze la nomina a tesoriere generale.
In quanto a competenza e abilità in materia di economia e fìnanza,nessun prelato della curia poteva venir paragonato all'A., che aveva ereditato dal padre uno spirito positivo, il gusto e il senso degli affari e che aveva il vantaggio di poter giovarsi della collaborazione dei fratelli, soprattutto di Filippo, influentissimi tra i "mercanti di campagna", che dominavano allora la politica economica romana. Egli non mancò di compensarli ampiamente.
La prima misura importante, che valse al nuovo ministro delle Finanze l'ammirazione generale, fu la risoluzione di una questione che risaliva al congresso di Vienna,quella dell'appannaggio Beauharnais-Leuchtenberg. Il governo pontificio non era stato in grado di trovare i 3.880.000 scudi necessari al riscatto di quei possessi, che costituivano un vero stato nello stato. Sin dal 4 apr. 1845 l'A. concludeva un prestito ipotecario di 3.750.000 scudi al 6%, garantito da quelle terre stesse, e il 24 dello stesso mese firmava un contratto con una società privata - nella quale i suoi fratelli avevano una parte notevole - che si impegnava a rivendere tali terre a piccoli lotti a sudditi pontifici, il che costituiva, dopo tutto, per le Marche un elemento di progresso. I tentativi, in parte coronati da successo, di ridurre il deficit del bilancio pontificio, condussero tuttavia il tesoriere generale a sospendere, fra lo scontento degli interessati, alcuni lavori intrapresi dal suo predecessore.
A credere al Moroni, l'A. sarebbe stato tra i pochi che assistettero Gregorio XVI sul letto di morte (10 giugno 1846), il che confermerebbe il favore, d'altronde incontestato, di cui egli godeva presso il papa.
L'avvento di Pio IX non fece che accelerare la sua ascesa. Sin dall'11 giugno 1847, l'A., che aveva da poco passato i 40 anni, riceveva la porpora cardinalizia, coi titolo diaconale di S. Agata alla Suburra, ch'egli cambiò più tardi con quello di S. Maria in via Lata.
Tale nomina,come quella di mons. G. Bofondi, sembra essere stata ispirata dal desiderio di Pio IX di rafforzare nel Sacro Collegio il partito favorevole alla sua nuova politica, modulata su toni riformatori e meno condizionata dall'alleanza austriaca. In effetti l'A., se era stato oggetto di critiche per le energiche repressioni operate quale delegato provinciale (si ricordino le proteste suscitate dal progetto di nominarlo legato a Ravenna e il libello anonimo Amica veritas pubblicato nel luglio 1847), si mostrò, tuttavia, favorevole a una certa evoluzione politica, che gli sembrava inevitabile. Sostenne così il progetto di una lega difensiva degli stati italiani contro gli interventi austriaci nella penisola, e si rallegrò della rivoluzione di marzo che portò alla caduta del Metternich. E fino alla metà del 1848 egli godette di una popolarità innegabile negli ambienti liberali moderati, come testimonia il giudizio dell'ambasciatore di Francia Pellegrino Rossi, che vedeva in lui l'uomo più interessante e più considerevole del Sacro Collegio.
Nominato presidente della Consulta di stato, inaugurata il 15 nov. 1847, restio dapprima a consentire la pubblicità dei dibattiti, finì con l'accordarla, ed ebbe una parte importante nell'elaborazione dello Statuto; ne fu anzi il difensore nella commissione ecclesiastica incaricata di esaminarne il progetto: sembra che, consapevole dell'agitazione rivoluzionaria che si sviluppava, l'abbia considerato come una valvola di sicurezza, capace di appagare una frazione dell'opinione liberale, pur lasciando nelle mani del Sacro Collegio il potere effettivo. Il 10 marzo 1848, Pio IX, che, in omaggio ai suoi talenti amministrativi, l'aveva creato pochi giorni prima (22 febbraio) presidente del Pontificio Istituto statistico agrario e di incoraggiamento, lo poneva col titolo di pro-segretario di stato alla testa del primo ministero incaricato di mettere in opera la nuova costituzione.
Pare che l'A. vi si applicasse inízialmente con convinzione, soddisfacendo i suoi colleghi laici; seppe comunque trarsi abilmente d'impaccio nel problema dell'espulsione dei gesuiti, richiesta dall'opinione pubblica, e cominciò col mostrarsi favorevole a un intervento delle truppe pontificie in Lombardia a fianco del Piemonte, intervento che egli considerava come il minor male.
A poco a poco, tuttavía, i rapporti dei nunzi sullo stato degli animi in Austria e in Germania gli fecero comprendere che il papa, schierandosi in qualità di principe italiano nella guerra contro l'Austria, avrebbe corso il pericolo di compromettere la propria posizione di capo della Chiesa universale. Non è, quindi, impossibile che, dopo avere ispirato, il 31 marzo, il proclama di incoraggiamento di Pio IX ai popoli d'Italia, egli sia ugualmente responsabile del testo definitivo dell'allocuzione del 29 aprile, in cui il papa dichiarava che al pastore supremo dei fedeli non era lecito entrare in guerra contro una nazione cattolica. In ogni caso, benché il suo ministero avesse presentato le dimissioni immediatamente dopo l'allocuzione, l'A. conservò integra la fiducia del papa nei mesi successivi e, rientrato nell'ombra per qualche tempo, continuò a venir consultato per l'elaborazione di diversi progetti o per la nomina di funzìonari, e il suo parere decise Pio IX, sempre più incerto, a creare Pellegrino Rossi primo ministro. Il conferimento, avvenuto il 1° novembre, della carica di prefetto dei Sacri Palazzi, ufficio nuovo che comportava la residenza in Vaticano, permise al papa di averlo sempre a propria disposizione per ricorrere ai suoi consigli.
Allorché il 15 novembre fu assassinato il Rossi, l'A., preoccupato di sottrarre alla pressione popolare il papa, di cui conosceva il carattere impressionabile e temeva le concessioni inconsiderate, seppe manovrare abilmente, dapprima presso i diplomatici stranieri per indurli a consigliare e a preparare la fuga, poi, quando ebbe raggiunto - via mare - Pio IX a Gaeta, per dissuaderlo, malgrado il contrario avviso del Rosmini, dal trasferirsi altrove col rischio di cadere sotto l'influenza esclusiva di una delle grandi potenze cattoliche.
Posto dal 26 novembre a capo del governo pontificio in esilio col titolo di prosegretario di stato, l'A. sarà presente per venti anni sulla grande scena diplomatica europea.
Ormai convinto dallo sviluppo degli avvenimenti ch'era vano tentare una laicizzazione e una liberalizzazione, sia pure parziali, del governo dello Stato pontificio e che l'indipendenza del papa, in quanto capo della Chiesa universale, sarebbe stata garantita solo dal ritorno a un regime teocratico, cominciò a seguire, nei confronti del mondo politico romano, la politica del peggio, riponendo tutte le sue speranze in una restaurazione dovuta a un intervento straniero. Mentre Rosmini consigliava di non rompere i ponti col parlamento di Roma, l'A. rifiutò brutalmente di ricevere una delegazione inviata da quel parlamento per pregare il papa di rientrare nella sua capitale e il 4 dicembre invitava le potenze europee a intervenire con le armi per ristabilire il potere temporale del pontefice. Distolse quindi il papa dall'indirizzare ai sudditi il proclama conciliante redatto dal Rosmini; e lo indusse anzi a sconfessare solennemente, il 17 dicembre, il governo provvisorio: e con ciò fu consumata la rottura. Invano Rosmini, resosi conto del rischio implicito nell'identificazione della causa pontificia con quella dell'Austria e delle potenze conservatrici, consigliò il papa di ricorrere a una mediazione piemontese anziché a truppe straniere: l'A., che voleva assolutamente l'intervento austriaco, non ebbe difficoltà a sfruttare le prevenzioni di Pio IX contro il governo di Torino e, dopo qualche settimana, l'ascendente di Rosmini cedeva a quello dell'A., del quale Pio IX aveva apprezzato la devozione e le capacità nelle critiche giornate di novembre.
Il 18 febbr. 1849, all'indomani della proclamazione della Repubblica romana, l'A. rimetteva al corpo diplomatico una nota ove si reclamava l'intervento armato dell'Austria, della Francia, della Spagna e delle Due Sicilie, oltre che "l'appoggio morale" delle altre potenze. Mentre l'azione militare austriaca e, soprattutto, francese, metteva fine al regime repubblicano, la conferenza di Gaeta (30 marzo 1849-22 marzo 1850), ch'egli presiedette in qualità di plenipotenziario del papa, stabiliva le basi di una restaurazione pontificia. L'A., pur ammettendo che il ritorno del regime anteriore al 1848 era impossibile, eluse le proposte francesi di confermare le libertà costituzionali Si giunse così al motu proprio del 12 sett. 1849, che non specificava alcuna libertà politica, ma prometteva larghe immunità ai municipi e riforme nell'ordine giudiziario e amministrativo.
Il documento, che era solo un'edizione riveduta e corretta del memorandum del 1831, era in gran parte opera dell'A. Di lui il diplomatico francese C. Tircuy de Corcelles, un cattolico liberale amico di Montalembert, dava questo giudizio: "È, un dottrinario in tutto il senso dell'espressione, ossia un uomo sinceramente appassionato delle sue idee; egli, come il re di Prussia, applica un sistema di governo dalle antiche radici storiche; un sistema che si impernia sulla vita municipale e provinciale sviluppata con una certa larghezza e democrazia. Ultimamente de Rayneval l'ha sorpreso a studiare la nostra legislazione dei comuni, ch'egli trovava molto illiberale" (20 ott. 1849, Archivio del Ministero Affari Esteri di Parigi, Rome 992).
Attaccato dai liberali per i suoi atteggiamenti reazionari, l'A. incontrava al tempo stesso l'opposizione di queicardinaliche desideravano un ritorno puro e semplice alla situazione del tempo di Gregorio XVI e non volevano sentir parlare di riforine, nemmeno amministrative. In molti prelati della vecchia aristocrazia si aggiungeva l'invidia per questo parvenu, che profittava di tutte le occasioni per arrotondare la fortuna della famiglia e quella propria. Ma l'A. aveva dalla sua, oltre che la innegabile abilità diplomatica che lo rendeva indispensabile in quel momento, la riconoscenza di Pio IX. Questi, alla vigilia del ritorno nei suoi domini, lo nominò segretario di stato titolare, gli promise di non separarsi mai da lui e gli fece dono di uno smeraldo montato su un anello, che l'A. non mancava in seguito di mettersi al dito tutte le volte che aveva ragione di temere che il papa fosse scontento di lui.
Dopo il ritorno di Pio IX a Roma (12 apr. 1850), che l'A. ritardò di parecchi mesi per sottrarre il più a lungo possibile il papa all'influenza liberale della Francia le cui truppe occupavano la città, il segretario di stato si applicò giorno e notte a mettere a punto il nuovo regime, che fu disciplinato da una serie di leggi pubblicate fra il 10 sett. e il 24 nov. 1850. Il sistema prevedeva un certo numero di riforme, ispirate ai principi del cardinale T. Bemetti, che l'A. considerava ormai come il proprio maestro in materia politica, e si fondava, come fa rilevare il Ghisalberti, su programmi in ritardo di diciotto anni nei confronti delle necessità del tempo, giacché si contentava di ritocchi, rifuggendo da riforme di struttura. Le reiterate istanze di Parigi, e persino di Vienna, per qualche concessione costftuzionale, anche se molto moderata, urtarono contro un netto rifiuto. L'A. riteneva definitivo l'insuccesso dell'esperimento del 1848 e considerava impossibile ogni conciliazione tra il potere temporale del papa e una liberalizzazione anche parziale del sistema di governo. Egli trovava già rischioso l'esempio della Toscana e aveva rifiutato nel 1850 l'invito austriaco ad un'afleanza conservatrice tra le corti di Roma, Napoli e Firenze.
Se tali erano le idee dell'A., e se egli si rivela come un reazionario, definitivamente guarito dalle velleità liberali anteriori al '48, occorre, tuttavia, riconoscere qualche merito amministrativo al suo govemo, specie nei primi dieci anni. L'amministrazione provinciale fu riorganizzata con l'istituzione di un consiglio di laici e alti funzionari che doveva affiancare delegati e legati; inoltre quattro membri eletti dalla provincia dovevano controllare gli atti del potere locale e sorvegliare la polizia. L'amministrazione dei comuni fu affidata a consigli municipali eletti; quella delle finanze fu pressoché creata integralmente, e l'A. poté qui mostrare il proprio valore. Le dogane furono migliorate, il corso monetario regolarizzato, l'equilibrio del bilancio perseguito seppur con successo relativo, le poste riorganizzate, le ferrovie sviluppate (perché l'A. vi aveva interesse, in tutti i sensi della parola), numerosi lavori di utilità pubblica íntrapresi, incoraggiata la piccola industria e, soprattutto, l'agricoltura, in cui l'A., possedeva una particolare competenza acquistata dal governo del patrimonio familiare. Tali misure, illustrate largamente nel volume di P. Dalla Torre, testimoniano una attività, uno spirito d'iniziativa, e persino una certa larghezza di vedute; ma talune furono solo parzialmente realizzate e comunque restarono legate ai vecchi schemi del dispotismo illuminato del XVIII secolo: come, d'altronde, la politica svolta nel Mezzogiorno da Ferdinando II, con il quale il cardinale restò in stretti contatti.
I primi anni della restaurazione furono relativamente calmi, sebbene il Diario del Roncaffi, parzialmente pubblicato, ritorni spesso sulle misure di sicurezza adottate dalla polizia nei riguardi dell'A. e nonostante il pericolo da lui corso per l'attentato del 12 giugno 1855. Ma dal congresso di Parigi in poi (1856), il problema delle riforme da introdurre nello Stato della Chiesa divenne il punto dolente dell'Oplnione europea e italiana. Non sappiamo se l'A. fu all'origine del rapporto in cui l'ambasciatore di Francia, A. de Rayneval, rispondeva parzialmente alle critiche dirette contro il governo pontificio da lord Clarendon al congresso: non ne fu comunque soddisfatto e incitò il giornalista cattolico inglese G. F. Maguire a pubblicare una risposta (Roma, il suo governo e le sue istituzioni, Firenze 1858). Per provare la popolarità del papa presso i suoi sudditi, spinse Pio IX, nel 1857, a un viaggio nei suoi stati, ma, specie presso i liberali, i risultati furono inferiori alle speranze.
Allo stato attuale della documentazione è difficile rendersi conto delle idee dell'A. sull'effettiva forza dell'Austria prima del 1859 e quindi sulla sorpresa che poté provocare la sua disfatta. Ma sembra certo che, sebbene indicato da una parte della stampa francese come il capo della fazione austriacante in Vaticano ("c'est un Autrichen revêtu de la pourpre sacrée", si leggeva ne La Patrie), egli contava anzitutto sull'appoggio della Francia per tutelare lo Stato pontificio. L'idea, formulata nei preliminari di pace a Villafranca (11 luglio 1859), di offrire al papa la presidenza di una confederazione italiana, mise l'A. in grande imbarazzo. Se egli infine vi aderì, fu solo dopo molte esitazioni, dovute al timore che la Santa Sede fosse obbligata a consentire quelle riforme che egli aveva sempre rifiutato. Voleva cedervi solo col contagocce, ottenendo in cambio il massimo delle garanzie diplomatiche, specie riguardo alla restituzione delle Romagne. Allorché, nel dicembre 1859, si parlò di riunire a Parigi il congresso che doveva regolare la questione italiana, Pio IX designò l'A. come plenipotenziario, il che avrebbe dato al cardinale l'occasione d'uscire per la prima volta dall'Italia. Ma il congresso non si tenne, con soddisfazione dell'A., che non si rendeva conto a quale punto critico l'attività di Cavour aveva portato la questione romana.
Mentre il segretario di stato continuava con la Francia un serrato gioco diplomatico, tale da esasperare talvolta l'imperatore e i suoi rappresentanti, la sua situazione andava compromettendosi a Roma stessa per ragioni completamente opposte.
Da molti mesi uno dei favoriti più ascoltati di Pio IX, mons. F. de Merode, fortemente anti-bonapartista e portato ad esagerare il doppio gioco condotto da Napoleone III negli ultimi mesi nei confronti della S. Sede, spingeva il papa a rinunciare clamorosamente alla protezione delle truppe francesi e ad organizzare un proprio esercito, facendo appello a volontari di tuttoil mondo cattolico. L'A., che si era già opposto nel 1852 all'idea francese di affidare la difesa degli stati romani a una sorta di legione straniera, era troppo realista per mostrarsi favorevole al progetto. Non soltanto sapeva che la S. Sede non ne aveva i mezzi finanziari, ma l'impresa gli pareva assolutamente inutile. Egli disapprovava, soprattutto, il carattere antifrancese che de Merode intendeva imprimere alla sua nuova politica: consapevole della precaria situazione, stimava essenziale mantenere a ogni costo buoni rapporti con Napoleone III e blandirlo almeno nella forma, per quanto deludente egli si fosse mostrato. Ma Pio IX, indignato contro la politica dell'imperatore, mal sopportava in queste ore di crisi la prudenza calcolatrice dell'A., sicché la stella di questo impallidiva. Quindici giorni dopo l'arrivo di Chr. Lamoricière a Roma, se l'ambasciatore di Francia constatava con soddisfazione che il segretario di stato era lungi dall'incoraggiare quella agitazione "imprudente", non si parlava a Roma che dell'imminente ritiro del cardinale. Questi conservò tuttavia la direzione generale degli affari, ma si vide aggregare, col titolo di proministro delle Armi, il suo avversario de Merode, incaricato di organizzare il nuovo esercito.
Ben presto la spedizione di Garibaldi modificò ancora una volta i dati del problema. Il regno napoletano, con cui l'A. cercava più che mai, dopo Villafranca, di stabilire un'azione comune, crollava in poche settimane e le truppe italiane occupavano definitivamente le Marche e l'Umbria, dopo aver schiacciato a Castelfidardo il piccolo esercito del Lamoricière. L'A. fu accusato apertamente di aver fornito al generale notizie inesatte sulle intenzioni francesi nei riguardi dell'aggressione del Piemonte: si lasciava anche intendere che interessi personali non erano estranei a questo "tradimento" È ovvio, come ha dimostrato p. P. Pirri, che l'A. non indusse consapevolmente in errore il Lamoricière; avrebbe, tuttavia, potuto metterlo più in guardia contro il poco credito che meritavano le notizie ufficiali che gli trasmetteva. Né può eludersi l'impressione ch'egli non fosse dispiaciuto di vedere il generale in serie difficoltà, così da rendere impossibile il perseguimento della politica poco realista preconizzata da mons. de Merode.
Si è ugualmente accusato l'A. di aver prestato orecchio, agli inizi del 1861, a certi tentativi di corruzione da parte di Cavour, preoccupato di raggiungere una soluzione amichevole della questione romana. La cosa non è del tutto chiara, ma sembra che l'A. in quell'occasione fosse vittima degli intrighi di intermediari indelicati. là certo, in ogni modo, che i negoziati abbozzati dal cardinal V. Santucci e dal padre C. Passaglia urtarono presto contro il malvolere del segretario di stato e fallirono totalmente ai primi di aprile.
In effetti l'A. non si aspettava nulla dai negoziati diretti col Piemonte. Incapace di comprendere quanto le condizioni politiche e ideologiche si fossero modificate negli ultimi dieci anni, pensò che la politica riuscita a Gaeta - ossia l'appello alle potenze cattoliche nel nome dei diritti imprescrittibili del sovrano pontefice - avrebbe permesso di salvare ancora il potere temporale. Un tale programma comportava l'intransìgenza più assoluta sul piano dei principi, escludendo persino la possibilità di un compromesso. Fu questa la posizione da lui assunta nelle numerose note, nei dispacci e nelle dichiarazioni, in cui continuò a opporre al "nuovo diritto" rivoluzionario il principio di legittimità e il diritto delle genti quali erano stati formulati nel congresso di Vienna - si riconosce qui l'allievo del Bemetti - e da questi principi continuò a dedurre con fredda logica le conseguenze relative ai diritti del papa sui suoi Stati. Se poi talvolta invocò anche il diritto divino, tralasciò sempre le considerazioni d'ordine nústico, contrariamente a quanto faceva Pio IX nei suoi discorsi.
La posizione stricte giuridica assunta dall'A. gli permetteva di temporeggiare, ponendo i gabinetti europei in una situazione delicata; senza dubbio l'A., che incoraggiava sottomano la resistenza napoleta-na, sperava come molti in quel tempo che il giovane regno d'Italia si disintegrasse rapidamente e che si aprissero nuove possibilità. Era necessario tener duro fino a quel momento, e quindi conservare l'appoggio francese, il solo su cui si potesse ancora contare dopo la disfatta austriaca, sostenendo per mezzo della nunziatura la pressione esercitata dalla attiva minoranza dei cattolici "ultramontani" sul governo imperiale, ma con cautela, in modo da evitare gli urti frontali (si spiega cosi, fra l'altro, la relativa freddezza dimostrata dall'A. a L. Veuillot).
Il de Merode, il cui ardore cavalleresco non comprendeva la prudenza diplomatica del segretario di stato, era vieppiù tentato di vedervi la prova di connivenze, magari interessate, coi nemici del potere temporale, o almeno una tendenza "italiana" a un compromesso che gli sembrava indegno della Santa Sede. Questi sospetti, uniti a profonda antipatia fra temperamenti quanto mai diversi, spinsero il de Merode a sfruttare il proprio ascendente su Pio IX per minare l'influenza dell'A. e a persuadere il papa a togliergli la segreteria di siato, tanto più che l'opposizione all'A. di divesi ambienti romani andava crescendo. Il pubblico accusava il cardinale di aver sostituito il nepotismo dei papi col nepotismo del segretario di stato, calcolava i profitti realizzati specialmente dal fratello Filippo, da lui posto alla testa delle ferrovie romane e del Banco di Roma. Inoltre numerosi cardinali, con a capo l'Altieri, che non nascondeva la propria avversione per "l'impopolare e interessato ciociaro", gli rimproveravano a ragione di aver gradualmente privato il Sacro Collegio di ogni influenza reale negli affari dello stato.
Per questa diffusa opposizione, e per il favore goduto dal de Merode presso il papa, i diplomatici accreditati a Roma credettero più di una volta che l'A. dovesse essere posto nella necessità di ritirarsi. Ma Pio IX, che intervenne spesso a moderare l'ostilità troppo aperta del suo ministro delle Armi nei confronti del segretario di stato, non desiderava affatto separarsene: "Merode vuole che congedi Antonelli" - egli confidava a F. Dupanloup nel 1862 -; "non lo farò: non val niente na' offensiva, ma è senza uguali nella difensiva". L'A., d'altronde, abile abbastanza per non attaccare frontalmente il favorito di Pio IX, pativa in silenzio le offese che il rivale gli infliggeva penodicamente e attendeva la sua ora, facendo sì che da diversi settori della curia pervenissero al papa le critiche su decisioni o atteggiamenti discutibili del prelato. Sul finire dell'estate del 1865, quando apparve chiaro che, contrariamente alle speranze vaticane, il governo francese si preparava ad applicare la convenzione firmata tra Parigi e Torino il 15 sett. 1864 e a ritirare le proprie truppe dallo Stato pontificio, Pio IX accolse l'opinione che in quelle circostanze sarebbe stato assai imprudente che de Merode continuasse ad assumersi responsabilità. In effetti, nella fase critica in cui la questione romana stava entrando, andava tolto ogni pretesto d'intervento al governo italiano, e al contempo occorreva blandire il governo di Parigi perché continuasse nonostante tutto a proteggere quel che restava al papa dei suoi stati. La duttile diplomazia del cardinale diveniva sempre più necessaria, sicché egli continuò a reggere i destini politici dello stato fino al 20 sett. 1870.
Uno dei numerosi punti sui quali l'A. e de Merode si trovavano in contrasto, era la questione delle riforme interne. Per togliere agli avversari della S. Sede uno degli argomenti più pesanti, il secondo avrebbe voluto costruire uno stato modello, moderno quanto più possibile; l'A., invece, aveva interrotto dal. 1859 le riforme intraprese nove anni prima, di cui molte erano ben lontane dalla realizzazione. Non che egli ne fosse divenuto un avversario, almeno per quanto riguardava gli aspetti amministrativi ed economici di talune: se per impellenti ragioni di bilancio rifiutava i progetti grandiosi del de Merode, non approvava nemmeno l'atteggiamento immobilista, che qualificava "conservatore", ed è significativo che un giornale così poco favorevole alla politica pontificia come il Times lo definisse "un uomo molto illuminato" (2 febbr. 1865). L'intendimento del segretario di stato, data la situazione, era di doversi contentare "a preparare la riforma in silenzio", aspettando che la questione romana si raffreddasse: cedere alla pressione dello "spirito rivoluzionario" che soffiava da Torino, da Parigi e da Londra, sarebbe stato interpretato come un segno di debolezza.
Era un ragionamento che non teneva conto dell'opinione pubblica europea, scandalizzata da certe situazioni anacronistiche di cui lo Stato pontificio offriva lo spettacolo. Ma l'A. non comprese mai la forza nuova costituita nel mondo moderno da quell'opinione, sicché egli continuava a riporre tutte le speranze nelle cancellerie e nei negoziati diplomatici. D'altronde, qualche successo immediato non gli mancò. L'intervento della Francia nel 1867, all'epoca di Mentana, fu uno dei risultati di questa politica e, senza il disastro del 1870, l'agonia del potere temporale nelle forme antiche si sarebbe forse prolungata ancora. Ma l'ascesa della Prussia, che, spingendo l'Austria a ricercare l'alleanza italiana, l'aveva obbligata a rinunciare a sostenere la causa dei pontefice, doveva presto rendere illusorio anche l'appoggio francese. Secondo il Soderini, che ha consultato gli archivi vaticani, l'A. si sarebbe reso conto dei pericolo a partire dal 1868. Sintomatica è in ogni caso la sua dichiarazione a un diplomatico belga nella primavera del '70: "Il cardinale aggiunse che, astraendo da ogni simpatia per le persone, occorreva augurarsi la stabilità delle istituzioni attuali dell'Impero; che non ci si trovava più di fronte a questioni dinastiche, ma a un problema sociale la cui soluzione esigeva i più temibili rivolgimenti; che per garantirsene, tutte le forze conservatrici vive dovevano coalizzarsi per vincere le forze sovversive interne e contenere la Prussia, che sembra spiare l'occasione propizia per completare il suo sistema di assorbimento" (Archivio del Ministero degli Affari Esteri di Bruxelles, Saint Siège, XIII, 4 maggio 1870).
La politica dell'A., fondata sull'appoggio diplomatico delle cancellerie europee e del governo di Napoleone III in particolare, lo rendeva ansioso di evitare le occasioni di frizione. Egli non incoraggiò certo la pubblicazione del Sillabo; moltiplicò, invece, le dichiarazioni lenitive, spiegando che questa dichiarazione di "principi astratti" non esigeva affatto che si mettessero nuovamente in discussione le istituzioni liberali concrete, su cui si fondava ormai la maggior parte delle cosfìtuzioni europee. Così, al tempo del concilio vaticano, cominciò col tenersi lontano dai partigiani dell'infallibilità pontificia e dei diritti della Chiesa sulla società temporale, facendo mostra presso i diplomatici di ignorare quello che andava preparandosi, per poi minimizzare la portata di ogni dichiarazione. Dopo una conversazione con lui, l'ambasciatore d'Austria scriveva il 9 marzo 1870: "Egli mantiene questo punto di vista: che la Chiesa deve stabilire i propri principi; che quanto il concilio sarà chiamato a definire e decretare non è nuovo; che si tratta solo di questioni religiose di fede, che non toccano la politica e i poteri laici; che per stabilire i propri principi la Chiesa deve restare completamente libera e indipendente, pur ammettendo che la tutela e l'esecuzione dei principi resta materialmente al di fuori dei poteri della Chiesa" (Haus-Hof- und Staatsarchiv, Wien, XI, 223, n. 27). Tuttavia, sebbene personalmente favorevole alle risoluzioni moderate, non lasciò mai trasparire alcun disaccordo con l'orientainento preso dal concilio o con le idee di Pio IX, allo stesso modo col quale nei venti anni precedenti aveva evitato d'intervenire nel governo spirituale della Chiesa, limitandosi a eseguire minuziosamente gli ordini del papa e a incitarlo, nelle questioni politicoreligiose, a una prudenza almeno formale. La cosa si spiega, in parte, con la riservatezza di un uomo che si sapeva né prete né teologo né canonista, ma forse anche con la sua convinzione che tale era la conditio sine qua non per conservare la fiducia del pontefice.
La guerra franco-tedesca diede il colpo fatale allo Stato pontificio. L'A., che si oppose a ogni negoziato preliminare col governo italiano, fece un ultimo tentativo per ottenere un intervento austriaco, ma ebbe una netta risposta negativa che, nonostante le scarse illusioni nutrite, provocò una sua amara reazione. Era ormai ovvio che dal 1848 in poi la situazione si era modificata profondamente, e che non si poteva più contare, al momento, su una nuova conferenza di Gaeta. Così, contro il parere contrario di un settore della cerchia di Pio IX, il cardinale, che avrebbe sconsigliato ogni resistenza alle truppe italiane, insistette più di tutti perché il pontefice non abbandonasse Roma dopo l'occupazione.
Era la soluzione più ragionevole, e coloro che ne fecero carico al segretario di stato difettavano di realismo. Sembra invece stupefacente che l'A. non abbia pensato, alla vigilia dell'occupazione di Roma, di mettere al riparo in Vaticano i valori dispersi nella città, e specialmente la riserva monetaria depositata alla Zecca. Temeva che altrimenti le truppe italiane avrebbero fatto un'incursione all'intemo del palazzo pontificio? Oppure agirono motivi di interesse personale? Si è anche molto rimproverato al segretario di stato di avere il 25 settembre richiesto a Cadorna, benché l'armistizio non prevedesse l'occupazione della città leonina, di stabilirvi, come nel resto della città, posti di polizia italiani e un servizio d'amministrazione militare. Negli ambienti papalini si parlò di tradimento, mentre in realtà fu il governo italiano a subodorare un'insidia. Quasi certamente l'A. temeva che la sicurezza del papa fosse compromessa dai gruppi di mazziniani e di anticlericali che venivano a manifestare in piazza S. Pietro mentre ogni autorità regolare era sparita dai Borghi; forse il suo gesto fu anche una manifestazione di quella "politica del peggio" cui l'astuto cardinale aveva già fatto ricorso nel 1848 nella speranza di commuovere ancor più l'Europa cattolica.
Negli anni che seguirono, l'A. non figurò mai tra coloro che preconizzarono negoziati diretti o accostamenti al governo italiano. Dopo aver respinto, d'accordo con il papa, la legge delle guarentigie, si tenne fermamente sulle posizioni difese dal 1859: reiterato reclamo contro la violazione di principi giuridici e intransigente subordinazione di ogni discussione al ristabilimento dello status quo ante.
Tale atteggiamento rigido, che manteneva nelle masse cattoliche l'idea di una restaurazione necessaria, scontentò profondamente Bismarck, e qualcuno ha supposto che bisogna vedervi una delle cause del Kulturkampf. Una volta che questo fu scoppiato, non sembra che l'A. facesse alcunché per sedarlo. Consapevole invece dell'impossibiltà di un efficace intervento della Francia vinta in favore della S. Sede, evitò di aggravare la situazione del governo francese, che la stampa favorevole al Veuillot avrebbe voluto spingere all'azione. Al momento della morte dell'A., il ministro degli affari esteri L. Ch. Decazes riconosceva ch'egli si era sempre mostrato benevolo nei confronti della Francia; persino un repubblicano come E. Ollivier lo lodava per aver sempre evitato di "confondere la causa della religione con quella del conte di Chambord". Per converso, l'A. appoggiò la restaurazione borbonica in Spagna nel 1874.
L'attività del segretario di stato non si limitò, dopo il 1870, al settore diplomatico. Egli non doveva certo più preoccuparsi dell'amministrazione generale dello stato, ma intraprese a riorganizzare su solide basi finanziarie la nuova situazione della S. Sede. Nel corso delle trattative del settembre-ottobre 1870 era riuscito ad ottenere la restituzione dei cinque milioni dell'obolo di S. Pietro. Questo venne regolato in modo sistematico e diventò una delle fonti prime dei redditi del papa, dopo che questi ebbe rifiutata l'indennità offerta dal governo italiano; l'A. riuscì a economizzarne una parte che investì con giudizio, accumulando così un certo capitale che avrebbe permesso di affrontare la situazione il giorno in cui si fosse affievolita la generosità dei cattolici.
L'atteggiamento passivo e modesto adottato dal segretario di stato non poteva piacere agli esaltati intransigenti, che gli rimproveravano di limitarsi a una resistenza verbale. Sicché la sua popolarità, che non era mai stata grande nella cerchia dì Pio IX, diminuì ulteriormente, insieme con la fiducia che gli accordava il papa stesso. Ciò contribuì a rendere più melanconica la vecchiaia del ministro, che aveva dovuto assistere al fallimento della propria politica e condivideva col sovrano la volontaria prigionia dentro le mura vaticane.
Da tempo sofferente di gotta, si aggravò, agli inizi del 1876, per una complicazione alla vescica. Non intendeva tuttavia abbandonare le redini del potere e, sopportando stoicamente la sofferenza, continuò a vedere il papa ogni mattina, ma l'amministrazione corrente ne soffriva. Nel settembre si verificò un miglioramento, sensibile ma momentaneo.
Si spense il 6 novembre verso le otto del mattino.
L'ammontare della sua eredità fu argomento di chiacchiere e dicerie. La voce pubblica gli attribuiva una fortuna favolosa; il ministro del Belgio a Roma la stimava a più di 7 milioni di franchi, comprese le collezioni di pietre preziose. In seguito, l'inventario ufficiale presentò un attivo di 623.341,96 franchi contro un passivo di 194.238,20, ossia un totale di 429.103 franchi oro. Ma ci si può domandare se somme relativamente importanti non fossero già state rimesse direttamente, per esempio, a certi figli naturali: è il caso dei 100.000 franchi versati nel 1872 per la dote della giovane Loretta Marconi (su quest'ultirna che, diventata contessa Lambertini, rivendicò davanti ai tribunali italiani, seppur invano, l'íntera eredità dei cardinale, di cui si pretendeva figlia, cfr. P. Pirri, Il cardinale A. tra il mito e la storia, cit. in bibl. pp. 105-118). L'opinione pubblica fu anche sfavorevolmente impressionata dalla mancanza di legati destinati al papa, ai poveri o agli Ordini religiosi di cui il cardinale era protettore ufficiale, di modo che questi sembrò aver pensato soltanto alla famiglia.
L'A. era stato prefetto della Sacra Congregazione Lauretana, e fino alla morte aveva fatto parte delle congregazioni dell'Inquisizione, dei Vescovi e Regolari, del Concilio, dello Stato dei Regolari, di Propaganda Fide e degli Affari orientali, della Disciplina regolare, degli Affari ecclesiastici straordinari e degli Studi; era stato anche designato presidente della congregazione speciale per la Ricostruzione della basilica di S. Paolo.
Magro, di media statura, ma di bell'aspetto, facile parlatore: piaceva al bel sesso, incantava i diplomatici. Le sue lettere giovanili rivelano un uomo semplice e buono, e se era talvolta crudele e vendicativo allorché qualcuno gli attraversava il cammino, egli sapeva dimostrarsi anche generoso. Indifferente al rimprovero come all'elogio, osò sfidare l'opinione pubblica e tener testa alle pressioni e agli intrighi dei gabinetti stranieri. Sottile e perspicace intravvedeva subito le conseguenze di una decisione o la via di uscita dalle situazioni più intricate.
Ma, accanto a queste qualità, c'erano anche difetti innegabili. Mancava di ampi orizzonti nelle concezioni e di nobiltà nell'azione, pronto a sopportare tutti gli oltraggi pur di issarsi al primo posto e di mantenervisi. Ambizioso, non esitava a spezzare coloro che gli facevano ombra senza preoccuparsi dei servizi ch'essi avrebbero potuto rendere alla causa della Chiesa, preferendo d'altronde alla lotta aperta e leale le vie traverse e le insinuazioni messe avanti a piccole dosi. Era interessato, avido di denaro e dominato dall'idea di "fare unsi famiglia". Attorniato da una folla di clienti, non aveva amici.
Taluni hanno avuto persino sospetti sulla sincerità del suo sentimento religioso, e si è perfino preteso talvolta che fosse massone. In realtà, l'A. assisteva quotidianamente, alle sei del mattino, a una messa che talora egli stesso serviva e, almeno negli ultimi anni, si confessava e comunicava settimanalmente. Fu un grande benefattore delle opere di don Bosco. Conduceva, tuttavia, un genere di vita che si adattava più all'uomo di mondo che all'uomo di Chiesa, analogamente a quanto facevano, d'altronde, molti altri prelati di vecchio stampo, ben sistemati nell'amministrazione temporale dello Stato pontificio.
Sebbene sia tuttora impossibile dare un giudizio definitivo sull'opera dell'A. come ministro, molto diversamente apprezzata dai suoi contemporanei, si comincia oggi ad apprezzare l'opera del cardinale in termini meno rigidi. Attivo e competente in materia economica e amministrativa, l'A. aveva le qualità del buon funzionario. anche se il cardinale K. A. Reisach metteva in dubbio le sue doti di organizzatore. Il temperamento autoritario lo condusse a una concentrazione eccessiva del potere nelle sue mani e lo spinse di frequente a collocare in posti importanti persone a lui più sottomesse che capaci, e ad allontanare dal papa coloro la cui indipendenza di vedute rischiava di minare la sua influenza. La sua opposizione, soprattutto dal 1859, alle necessarie riforme, contribuì ad accentuare l'avversione al potere temporale.
L'azione diplomatica svolta per vent'anni dall'A., allievo diligente, ma senza grandi orizzonti, dei diplomatici pontifici del tempo di Gregorio XVI, non ha portato né slanci originali, né vedute nuove per la soluzione di un problema i cui dati erano venuti modificandosi profondamente in un quarto di secolo. Tuttavia P. Pirri, dopo aver scorso le numerose istruzioni inviate ai nunzi di Parigi e di Vienna, o all'incaricato d'affari a Torino, giudica che tali fonti rivelano un diplomatico di valore, emulo non indegno di Cavour pur senza averne il genio. Ma buoni osservatori scorgevano appunto ch'egli non controllava gli avvenimenti e che la sua arte consisteva soprattutto nel transigere continuamente, nello spianare ostacoli minuti, nel ricucire gli strappi prodotti dal linguaggio di un pontefice facilmente dimentico delle forme cancelleresche. C'è del vero nella dura osservazione dell'Omodeo che l'A. "quasi per atavismo seguì una politica da grande fattore di un grande proprietario: di quei fattori contadini che pur facendo gli interessi propri, difendono con ostinazione per tutte le vie, per tutti i gradi di giurisdizione, con tutti gli appigli, i cavilli, le eccezioni, la terra: con la stessa tenacia con cui il contadino cerca di usurparla". A. Boudou, paragonandolo al geniale segretario di stato di Pio VII, conclude: "Consalvi fu un grand'uomo; A. fu un uomo abile". Ci si può domandare se l'A. colse, come Pio IX, il contenuto ideale del Risorgimento o l'aspetto spirituale dell'indipendenza politica della S. Sede.
In che misura l'A. influì sulla politica di Pio IX? Il papa era troppo impulsivo per legarsi ad una sola persona ed in realtà subì diverse influenze pararele, che parzialmente si neutralizzavano. Tuttavia, nel campo politico, per il quale si sentiva poco dotato, egli apprezzava il talento dell'A. e, benché la sua condotta non fosse dettata dal segretario di stato, teneva spesso conto dei consigli di questo per adattare o attenuare le proprie nuziali decisioni.
In tal senso può dirsi col Ghisalberti che l'A.. fu a un certo momento "il vero ispiratore e la guida temporale del papa, il quale, come avvenne nello stesso tempo tra Vittorio Emanuele e Cavour, amava poco il sempre più onnipotente suo primo ministro, ma non sapeva rinunciare alla consumata abilità, alla furberia, alle doti positive, alla scaltra capacità di compromesso dell'uomo, di cui gran parte del Sacro Collegio invocava l'allontanamento dal potere pregando, nello stesso tempo, Iddio che non venisse esaudita la propria invocazione". Occorre, però, aggiungere che, col passar del tempo, Pio IX divenne sempre più geloso della propria autorità, particolarmente riguardo alle nomine dei nunzi, e a più riprese, e non solo ai tempi di mons. de Merode, ma anche alla vigilia del 1870 e ancor più in seguito, vi fu una seria tensione tra il papa e il suo segretario di stato. Questi però teneva troppo al potere per tirare la corda oltre misura e, dopo aver tentato di influenzare indirettamente le decisioni del pontefice, ne eseguiva fedelmente gli ordini, sicché Pio IX non poté mai dire ch'egli li avesse oltrepassati.
Fonti e Bibl.: Non esiste ancora una biografia critica dell'A.; l'apertura degli Archivi vaticani ne costituisce il presupposto indispensabile. L'averli potuti consultare conferisce un interesse speciale all'articolo di P. Pirri, Il cardinale A. tra il mito e la storia, in Riv. di Storia della Chiesa in Italia, XII (1958), pp. 82-120. Ugualmente notevole è A. Lodolini, Un archivio segreto del cardinale A., in Studi Romani, I(1953), pp. 410-424, 510-520, che fa conoscere un considerevole fondo privato attualmente in deposito all'Archivio di Stato di Roma. Sull'azione svolta dall'A., nel corso delle trattative fra il governo italiano e la S. Sede dopo il 20 sett. 1870, cfr. ora I documenti diplomatici italiani, seconda serie, I (21 settembre-31 dicembre 1870), a cura di F. Chabod, Roma 1961, passim.
Le memorie e le corrispondenze dei contemporanei contengono spesso dei ritratti dell'A. o per lo meno note su di lui. Si trovano numerose informazioni sull'uomo, la sua cerchia e l'opera amministrativa nel Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica di G. Moroni, Venezia 1840-1878 (vedere i volumi di tavole, in particolare il t. I). Le corrispondenze dei diplomatici accreditati a Roma forniscono molte precisazioni sul suoi interventi politici e dei giudizi spesso parziali, ma che si correggono e si completano l'uno con l'altro.
In mancanza d'opere specificamente dedicate all'A., si potranno utilizzare con profitto i principali lavori sul pontificato di Pio IX. Soprattutto: N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia, VII e seg., Napoli-Roma 1870-72; P. Balan, Continuazione della Storia universale della Chiesa dell'abbate Rohrbacher, dall'elezione al pontificato di Pio IX nel 1846 sino ai nostri giorni, 3 voll., Torino 1879; G. S. Pelczar, Pio IX e il suo pontificato, 3 voll., Torino 1905-11; R. De Cesare, Roma e lo Stato del papa dal ritorno di Pio IX al 20 settembre, 2 voll., Roma 1907; J. Maurain, La Politique ecclésiastique du Second Empire de 1852 à 1869, Paris 1930; S. Jacini, Il tramonto del potere temporale, Bari 1931; G. Mollat, La question romaine, Paris 1932; S. Negro, Seconda Roma, 1850-1870, Roma 1943, pp. 161-166, 435-437; P. Pirri, Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, 5 voll., Roma 1944-1961; P. Dalla Torre, L'opera riformatrice ed amministrativa di Pio IX dal 1850 al 1870, Roma 1945; R. Aubert, Le pontificat de Pie IX (1846-1878), Paris 1952; E. E. Y. Hales, Pio IX, London 1954; R. Aubert, La chute de Mgr. de Merode en 1865, in Riv. di Storia della Chiesa in Italia, IX(1955), pp. 331-392; Id., Mgr. de Merode, mínistre de la guerre sous Pie IX, in Revue générale belge, mai et juin 1956, pp. 1102-43, 1316-34; F. Engelianosi, Oesterreich und der Vatikan, I, Graz 1958, passim; A. M. Ghisalberti, Roma da Mazzini a Pio IX, Milano 1958, passim.
Sebbene superficiali e laudativi, gli abbozzi biografici pubblicati in vita dell'A. o al momento della sua morte offrono taluni spunti. Si vedano in particolare: Tres nombres ilustres: Pio IX, Lamoricière y A., Madrid 1860; E. Veuillot, S. E. le cardinal A., Paris 1862 (ripreso in Célébrités catholiques contemporaines, Paris 1866, pp. 33-48); E. de Mirecourt, Portraits et silhouettes au XIXe siècle, n. 98, Paris 1870; A. De Waal, Cardinal A., Bonn 1876. Tra i saggi ulteriori: A. Gennarelli, G. A., in L. Carpi, Il Risorgimento italiano, II, Milano 1886, pp. 223-236; B. Labanca, Antonelli, in Saggi storici e biografici, Palermo 1912, pp. 227-38.
Tra le voci di enciclopedie, più esaurienti sono quelle di E. Soderini in Encicl. Ital., III, pp. 547 s.; di M. Rosi, in Diz. del Risorgimento naz., II, pp.85-87, e di P. Richard, in Dict. d'Hist. et de Géogr. Ecclés., III, coll. 832-837, così come quella preparata da A. Omodeo per il Diz. del Risorgimento (che, diretto da M. Menghini, doveva essere pubblicato dall'Istituto per l'Encicl. Ital.) e pubblicata in Rass. stor. del Risorgimento, XLVII (1960), pp. 319-324. Da aggiungere. A. De Waal, in Kirchenlexikon, I, coll. 978-980; P. Dalla Torre, in Encicl. cattolica, I, coll. 1514-1517; J. Wodka, in Lex. für Theologie und Kirche, I, 2 ediz., col. 663; H. Bastgen, in Staatslexikon, I, coll. 224-226; E. Wolf, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart, I, 3 ediz., col. 460.