Gian Domenico Romagnosi
Fu lo stesso Romagnosi a definire la propria riflessione matura una «civile filosofia», entro la quale si individuano i due temi principali della ‘Costituzione’ e dell’‘incivilimento’. La legge naturale di socialità è l’asse attorno a cui ruota tale filosofia e l’incivilimento è il fine naturale della società. Quest’ultima è un dato naturale (anticontrattualismo). Anche la sua dottrina della conoscenza, consegnata a scritti apparsi in età matura, si basa su un fondamentale naturalismo.
Gian Domenico Romagnosi nacque a Salsomaggiore l’11 dicembre 1761. Studiò giurisprudenza a Parma, ove si laureò ed esercitò la professione notarile. Tra il 1787 e il 1789 fu notaio a Piacenza, in seguito si spostò a Trento, con il ruolo di pretore (1791) e poi di consigliere aulico del Principato (1793), dove finì per trascorrervi tutti gli anni Novanta, esercitando anche l’avvocatura. Nel 1791 pubblicò in forma anonima la Genesi del diritto penale, un’opera di impronta ancora tutta settecentesca, con al centro il tema della pena, che non soltanto era stato argomento cruciale di dibattito nel corso dell’Illuminismo italiano, ma rappresentava anche la prosecuzione e il frutto di ricerche che, dopo essere state avviate nel Seicento tedesco dal giurista Christianus Thomasius (1655-1728), avevano successivamente interessato buona parte della cultura europea.
I due brevi scritti politici redatti subito dopo, volti a definire i concetti di eguaglianza e libertà declinati in senso antigiacobino, sono testimonianza di un atteggiamento antidispotico che può ben essere assunto a cifra caratterizzante la sua complessiva visione politica del mondo. Proprio sul terreno di un comune orientamento antidispotico era destinato a incontrarsi con un’altra forte personalità intellettuale del tempo, quella di Carlo Antonio Pilati (1733-1802), lo scrittore politico che aveva profuso impegno nel contrastare la politica del principe vescovo del Tirolo, ma che non esiterà a schierarsi contro Napoleone I Bonaparte nel momento dell’occupazione francese del Trentino, negli anni 1796-97.
Al ritorno degli austriaci a Trento nel 1799, Romagnosi fu arrestato per alto tradimento, rimanendo in carcere per quindici mesi; tradotto a Innsbruck per la celebrazione del processo come reo di Stato, fu assolto e scarcerato. Quando poi il Tirolo divenne di nuovo francese, gli fu affidato l’ufficio di segretario generale del Consiglio superiore del Tirolo meridionale, presieduto proprio da Pilati – incarico ricoperto per alcuni mesi, tra il 1801 e il 1802, fino a quando ricevette la chiamata dall’Università di Parma a insegnare diritto naturale e pubblico.
L’apice così raggiunto nella carriera accademica è il segno del riconoscimento tributato dall’amministrazione napoleonica a Romagnosi per il suo valore scientifico, ma testimonia anche una consonanza ideale che legava il giurista ai protagonisti del nuovo corso della politica lombarda. Consonanza che si dispiegava su un duplice piano, giacché da un lato in lui era ancora vivo l’entusiasmo per le lumières e l’interesse per i punti di forza colà coltivati, quali la massoneria o una nuova pedagogia, e d’altro lato – e questo è l’aspetto certo più rilevante – il sentimento nazionale era all’origine della sua gratitudine verso i francesi che avevano liberato il suolo italiano dall’occupante austriaco. Complessivamente, Romagnosi mostrava adesione convinta al rinnovamento politico, istituzionale e amministrativo avviato da Napoleone, anche se, nel tempo, non mancò di manifestare con le opere – con gli scritti, ma anche con l’azione politica – riserve nei confronti del suo operato (il culmine fu toccato con lo scritto uscito anonimo Giudizio sul Regno di Napoleone Bonaparte, del 1814, in cui Napoleone è raffigurato come il traditore della rivoluzione).
In ogni caso, i primi anni del nuovo secolo videro da parte di Romagnosi grande e sodale partecipazione al progetto napoleonico. Nel 1806 fece parte della commissione incaricata di redigere il codice penale del Regno e subito dopo fu chiamato a Milano dal ministro della Giustizia come consulente scientifico. Nel 1807 passò dall’Università di Parma a quella di Pavia, chiamato come professore di diritto civile; l’anno successivo si spostò definitivamente a Milano, per insegnare all’Università ma anche nelle Scuole speciali di diritto ch’egli stesso aveva promosso e fatto istituire. Già nella denominazione del suo insegnamento (Alta legislazione civile e criminale nei suoi rapporti colla pubblica amministrazione) si trova espresso con buona sintesi il contributo scientifico offerto dal giurista, all’interno del quale è da sottolineare il suo apporto alla nascente scienza dell’amministrazione in Italia: Romagnosi fu infatti tra i creatori del diritto amministrativo. Dal 1812 al 1814 diresse il «Giornale di giurisprudenza universale», inaugurando una stagione di intensa attività pubblicistica, che si protrarrà fino ai suoi ultimi anni.
Al ritorno degli austriaci fu destituito dall’insegnamento universitario. Agli inizi ottenne la licenza di insegnare privatamente; fra gli allievi più ragguardevoli di questo periodo si annoverano personaggi come Carlo Cattaneo, Cesare Cantù, Giuseppe Ferrari. Al centro della sua riflessione stava adesso la delineazione di un ordinamento complessivo dello Stato, ch’egli immaginava sotto forma di monarchia costituzionale, ossia rappresentativa, e nazionale (secondo il titolo dell’opera del 1815, fatta circolare anonima e in forma clandestina). Quando non poté insegnare più neppure privatamente, si dedicò per intero all’attività pubblicistica, proseguendo la collaborazione a riviste quali la «Biblioteca italiana», «Il Conciliatore», l’«Antologia» e soprattutto impegnandosi, a partire dal 1827, negli «Annali universali di statistica», fondati di recente (1824), e a cui per anni offrirà un contributo regolare.
A Romagnosi va il merito di avere introdotto nella cultura italiana la disciplina della statistica; alla rivista collaborarono attivamente i suoi allievi, da Ferrari a Defendente Sacchi, dal cugino di quest’ultimo, Giuseppe Sacchi – che all’indomani dei moti del 1848, raccogliendo l’eredità di Romagnosi, assumerà a sua volta la direzione degli «Annali» (1852) –, a Melchiorre Gioia, che nel 1796 si era aggiudicato la vittoria al concorso indetto dall’amministrazione generale della Lombardia sul quesito: Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia? (la dissertazione con lo stesso titolo fu pubblicata nel 1798), poi a Milano aveva diretto l’Ufficio di statistica, finché, dopo Campoformio, era tornato, senza mai abbandonare la propaganda repubblicana, a dedicarsi agli studi; fra le opere che vale la pena di menzionare qui si annovera una Filosofia della statistica, pubblicata nel 1826.
Erano stati i moti del 1821 la causa dell’ennesimo ‘nuovo corso’ nella vita di Romagnosi: come era già accaduto nel 1814 a proposito di una congiura militare, così anche adesso egli veniva accusato di non aver denunciato i preparativi per il moto carbonaro organizzato da Silvio Pellico, con cui in effetti intratteneva rapporti stretti. Fu perciò incarcerato, ma le prove non ressero al processo e nel dicembre del 1821 fece ritorno a Milano. Da allora in poi condusse una vita raccolta nello studio, contornato dagli allievi, afflitto da una salute sempre più malferma. Morì l’8 giugno del 1835.
Nelle sue opere l’eco del pensiero dei maggiori esponenti dell’Illuminismo meridionale, da Antonio Genovesi a Gaetano Filangieri, è viva, e ben esemplificativa degli intrecci fecondi allacciati dall’Illuminismo lombardo con il resto della cultura italiana. Ricche e articolate anche le componenti europee della sua formazione, quella francese innanzitutto ‒ da Étienne Bonnot de Condillac a Montesquieu ‒, ma anche quelle di area tedesca.
Figura difficile da schizzare, quella di Romagnosi, per l’enorme massa di scritti che non sono ancora stati ordinati e raccolti in un’edizione nazionale, dopo due tentativi rimasti entrambi incompiuti. In queste pagine si tenterà di seguire il filo dei concetti giuridici e storico-politici che punteggiano le opere più significative, ricomponendoli in un quadro che dia forma e consistenza alla sua filosofia civile, definita dall’autore stesso come una scienza intermedia «fra la pura filosofia razionale e la scienza della legislazione».
Lo studio e l’insegnamento del diritto pubblico furono l’occupazione centrale di Romagnosi. Ma altrettanto fondamentali furono le ricerche avviate agli inizi della sua carriera di studioso sul diritto penale. Un vero e proprio monumento del tardo Illuminismo giuridico ci appare oggi la sua Genesi del diritto penale. L’obiettivo generale dell’opera fu quello di elevare il sapere giuridico al rango di scienza – obiettivo peraltro perseguito anche successivamente, nelle altre articolazioni del diritto a cui l’autore di volta in volta si applicò. L’intento sistematizzante è ben rilevabile nell’ordinamento more geometrico, che caratterizza sia questo scritto sia l’opera di un quindicennio più tarda, dedicata a esporre e ordinare sistematicamente la disciplina del diritto pubblico: l’Introduzione allo studio del diritto pubblico universale, del 1805.
Innanzitutto, occorre precisare che diritto pubblico universale è espressione dal significato molto ampio, giacché comprende ben più di quanto oggi non si intenda con la dizione diritto pubblico: da un lato, esso ingloba in sé anche il diritto civile, dall’altro, e soprattutto, coltiva legami stretti sia con la sfera della politica sia con quella della morale. Inoltre, al suo interno si individua sì una parte dedicata al diritto pubblico positivo, ma la più larga cornice in cui esso si inserisce è data dal diritto naturale. Rilevante come nozione di per se stessa considerata, ricca di un’antica tradizione rinverdita dall’età dei lumi, essa lo è più ancora nella misura in cui immediatamente rinvia alla generale concezione filosofica cui Romagnosi si ispira. Se, infatti, poniamo l’attenzione sull’attributo prima che sul sostantivo, otteniamo subito contezza della peculiare prospettiva da cui muove ogni ulteriore considerazione dell’autore: è la natura stessa il punto da cui l’analisi deve procedere. Natura nei suoi molteplici aspetti: la natura fisica regolata da leggi, quale è stata descritta dalla rivoluzione scientifica dell’età moderna, che non ha potuto non avvalersi del contributo conoscitivo offerto da un’esperienza sensatamente orientata; la natura umana, che si eleva su ogni altro essere animato perché è dotata di ragione, ma è innanzitutto guidata dai sensi e di essi deve tener conto, e deve inoltre essere capace di far degnamente convivere queste sue parti costitutive; tale natura umana è suscettibile di civilizzazione e caratterizzata dal principio di socialità, che gioca un ruolo sistematico di primo piano anche in Romagnosi, come già in tanti pensatori del Sei e Settecento. E per finire, la «natura stessa delle cose», come Romagnosi la definisce. È questa a prescrivere ciò che alla società umana è realmente necessario, dal momento che per l’autore all’origine delle società civili stanno proprio i «puri rapporti reali e naturali delle cose»; anche l’elemento del sapere è utile, ma esso interviene sempre con ruolo di supporto.
Conclusivamente si potrebbe dire che è la «natura delle cose» a costituire il criterio per la costruzione o, meglio, per l’organizzazione della società politica. D’altra parte, non va persa di vista l’altra faccia della medaglia, in base alla quale vige ancora l’assunto, di tradizione illuministica, per cui l’ordine naturale è insieme un ordine di ragione; ed è proprio questo ordine quello che si erge a modello nel momento in cui la vita associata si costituisce e intraprende poi il cammino della propria evoluzione. È peraltro bene ribadire che tale percorso, dalla nascita alla crescita e alla maturità della vita degli Stati (che evolve proprio come la vita degli uomini), si svolge tutto in modo endogeno, senza interventi esterni di sorta, senza alcuna azione che operi al fine di costruire artificialmente il corpo sociale, come avveniva secondo la concezione contrattualistica.
Sullo speciale rapporto che lega tra loro diritto e morale si fonda quella «civile filosofia» che rappresenta la cifra dell’opera – dopo essere d’altra parte stata all’ordine del giorno sin dalla prima riflessione di Romagnosi, per permanere poi come tratto dominante anche della sua successiva elaborazione teorica. Diritto e morale di nuovo ricongiunti nel corso dell’Ottocento, mentre a partire dal tardo 17° sec. e per tutto il 18° ci si era tanto impegnati per la loro separazione: i due opposti movimenti danno certamente vita ad aporie, eppure il prodursi di tale duplice gesto ha una sua ragion d’essere e il passaggio dal primo al secondo è governato da una qualche logica interna. L’una e l’altra sembrano essere colte con lucidità da Romagnosi; scrive infatti che i due ambiti devono essere bensì distinti nell’analisi (una necessità, questa, ampiamente motivata e illustrata appunto nell’epoca precedente, dove anzi si era estesa la medesima operazione anche ai campi della religione e della politica), ma quando poi si affronta la sostanza delle cose occorre saperle riunificare e considerarle nel loro insieme. Evidentemente, l’autore ha chiaro come le loro rispettive competenze e attribuzioni, isolate dall’indagine teorica e quindi ben individuate nei loro contorni specifici, debbano tornare ad agire insieme nella vita reale, perché solo se esse operano congiuntamente, aggregando anzi a sé anche la politica, possono assicurare l’armonia della vita umana associata in tutta la concretezza del suo essere. Questa ricomposizione è tanto attiva ed efficace nel pensiero di Romagnosi da fargli scrivere che il fine dichiarato della scienza del diritto pubblico è quello di «produrre la moralità pubblica»; il risultato è la possibilità di associare la giustizia alla «possanza degli Stati».
Obiettivo della filosofia civile è mostrare che la finalità propria della vita umana associata è la «felicità», che quest’ultima ha una dimensione squisitamente pubblica e che lo strumento precipuo per conseguirla è quell’incivilimento che solo si può ottenere attraverso un perfezionamento multilaterale della società. Qui due osservazioni si impongono: in primo luogo, va posto in evidenza come il significato di ‘diritto pubblico universale’ finisca nella sostanza con il coincidere con quello di «arte della sociale felicità particolarmente pubblica» – espressione appunto evocata da Romagnosi nel momento in cui deve descrivere in modo sintetico il senso più genuino della ricerca che sta conducendo. Secondariamente, va notato lo spazio già qui concesso a quella nozione di ‘incivilimento’ cui poco meno di tre decenni più tardi dedicherà l’opera che lo ha reso famoso nella storia del pensiero. Incivilimento è un processo e insieme è il traguardo di un processo che può essere intentato solo da chi è suscettibile di perfezionamento. In altre parole, solo se si ha fede in una possibilità di perfezionamento del genere umano si può porre all’ordine del giorno il tema dell’incivilimento. Romagnosi si adopera a specificare che tale possibilità è in sé diversa dall’astratta perfettibilità illuministica e il motivo principale è quello della maggiore concretezza del primo termine rispetto al secondo: il perfezionamento deve diventare concreto perfezionamento e tale maggiore concretezza è consentita innanzitutto dalla sua multiforme natura, giacché esso deve essere, ed è, insieme perfezionamento economico, morale e politico.
In questa sorta di filosofia della storia, che si delinea per inevitabile connessione con un pensiero incentrato appunto sul tema dell’incivilimento (sulla base del già accennato parallelismo tra le fasi della vita degli uomini e quelle della vita degli Stati), per adesso sono solo due le età storiche individuate: quella della cieca fortuna (à la Niccolò Machiavelli, figura dalla presenza tutt’altro che episodica nel pensiero di Romagnosi) e l’età della ragione illuminata. Anche qui, non c’è nessun meccanico succedersi dell’una all’altra, ma piuttosto una costante compresenza, nella storia, di quei due aspetti primari. La peculiarità è data dal fatto che questi, mai tra loro disgiunti, sono presenti in proporzione inversa – il che avrà un suo effetto sul piano più specifico della teoria politica: maggiore è l’incivilimento e migliori sono le forme dell’organizzazione politica.
Tornando alla invocata felicità per gli uomini – che a sua volta è elemento altrettanto necessario ai fini del perfezionamento –, va detto che essa ha per Romagnosi tanto una dimensione fisica quanto una dimensione morale; la «molla» dell’agire umano è costituita dalla volontà, che è a sua volta sollecitata dai sentimenti del piacere e del dolore. La volontà persegue il primo e fugge il secondo; per tale cagione essa è detta «amor proprio» e con quest’ultimo esattamente coincide quello che Romagnosi chiama anche l’«amor della felicità». Se nell’ordine naturale agisce una «fisica» delle azioni libere degli uomini, delle società e delle genti – come l’autore la designa, ribadendo l’ispirazione empirista e sensista della propria filosofia –, ciò non significa che non sia del pari attivo anche un altro ordine, quello morale, che però, come si è detto sopra, è fondato sul precedente e, quel che più conta, è da esso «atteggiato»: quando Romagnosi parla, con espressione che inizialmente appare vagamente oscura, di «complesso delle regole» (che poi significa: sistema dei diritti e dei doveri), è al combinarsi dei due ‘ordini’ che intende fare riferimento. Se questi ultimi non dovessero andare insieme, gli uomini non potrebbero perseguire il loro fine naturale e, d’altra parte, le società rischierebbero di cadere o nel dispotismo o nell’anarchia.
È il principio di socialità che ci fa comprendere che l’uomo può perseguire la felicità soltanto in società – socialità, si badi bene, che è insieme un diritto e un dovere. Per enfatizzare questo punto, che gli preme più di ogni altro, ossia che la felicità non è scopo né per i singoli né per un aggregato di individualità singole, ma è meta che può essere raggiunta solo collettivamente, Romagnosi fa ricorso a una formulazione tipica dell’utilitarismo settecentesco – il fine è la «massima felicità distribuita nel maggior numero» –, non senza tuttavia tentare di conferirgli un significato più ricco, più carico di contenuti concreti (e insieme accompagnato da una quota di realismo: l’obiettivo minimale è che gli uomini siano «infelici meno che sia possibile»).
Come si sarà compreso fin qui, e soprattutto come diventerà più chiaro esaminando l’opera dedicata alla Costituzione, è proprio per ottenere quella concretezza che, da un lato, non vengono risparmiati oneri alla comunità sociale e, dall’altro, viene immaginato e progettato un complesso insieme di istituzioni politiche e amministrative ove l’una e l’altra strategia hanno la specifica finalità di conseguire l’obiettivo appena indicato. Quest’ultimo deve essere poi saldato insieme con l’obiettivo della giustizia.
Se si guarda più in particolare all’organizzazione del corpo politico, si scopre che il diritto alla felicità è diritto che in sé compendia tutti gli altri diritti – questi ultimi distinti anche da Romagnosi in diritti alienabili e inalienabili. Lo scopo ultimo della vita del corpo politico è il bene comune; ne consegue un’attenzione per l’interesse generale assai più marcata che per l’interesse particolare. È inoltre una specifica richiesta della «giustizia comune» che si lavori per un sempre migliore incivilimento; quest’ultimo è a sua volta all’origine di una progressiva diminuzione della necessità del potere coattivo.
A partire dal primo decennio del Settecento gli austriaci avevano dominato a Milano, dove rimasero fino al 1860 – eccezione fatta per la parentesi, di relativa breve durata, del periodo napoleonico. Si è detto non solo dei buoni rapporti di Romagnosi con l’amministrazione francese, ma della fama e della posizione di prestigio ch’egli raggiunse in età napoleonica. La situazione si capovolse rapidamente con l’avvento della Restaurazione. Se già nel periodo precedente all’ingresso delle truppe francesi sul territorio italiano egli non aveva avuto vita facile, a causa delle sue idee, nel ventennio successivo alla Restaurazione ogni spazio di azione pubblica gli fu precluso e anche nella vita personale si trovò sottoposto a una sorveglianza sempre più stretta.
L’occupazione straniera, oltre a essere una realtà costante della sua vita, rappresentò per lui fin da principio un tema di riflessione e poi, sempre più consapevolmente, un terreno di lotta politica. Alla questione della liberazione della propria terra dallo straniero nell’arco di poco tempo si affiancò quella della costruzione nazionale, e in breve quest’ultima diventò per Romagnosi un compito non meno teorico che politico. È da aggiungere che, sebbene con diversa intensità, tale problematica restò costantemente viva ai suoi occhi, tanto sotto l’occupazione austriaca quanto sotto quella francese, perché anche in quest’ultimo caso egli ebbe percezione precisa delle condizioni in cui versava il Paese, obbligato alla modernizzazione e insieme oppresso sul piano economico e in buona misura anche su quello politico. Non sempre e non necessariamente, infatti, le vedute di Romagnosi coincisero con l’ideologia imposta dai francesi; né poteva, d’altra parte, non tener conto delle perduranti posizioni critiche di patrioti che pure erano stati in prima fila nell’atto di dar vita alla serie di repubbliche succedutesi sul suolo italiano.
Questo il retroscena dello scritto Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa, stampato nel 1815, data altamente significativa. Retroscena storico-politico, al quale va tuttavia aggiunta la menzione di un altrettanto rilevante retroscena teorico. Accanto, infatti, al tema del diritto pubblico, e alla fitta serie di questioni a esso connesse, cui Romagnosi si dedicò nell’opera illustrata nel paragrafo precedente e poi in altri scritti famosi degli anni Venti, come l’Assunto primo della scienza del diritto naturale e le Istituzioni di civile filosofia ossia di giurisprudenza teorica (preparate per alcuni corsi da tenersi all’Università di Corfù, rimasti allo stato di progetto), v’è un’altra problematica, di grande interesse per quei tempi, su cui egli condusse un’impegnata riflessione. È quella della produzione di Costituzioni, intendendo il termine Costituzione nel suo duplice significato: come documento scritto contenente la legge fondamentale di una nazione e come ordinamento, ossia come struttura e organizzazione del complesso delle istituzioni dello Stato. La Costituzione nel primo significato diventa rilevante oggetto d’indagine per la consapevolezza sia dell’epocale mutamento storico-politico che la presenza di una carta fondamentale scritta innesca nella vita di un popolo, sia del grande valore che il solo proporla, prepararla e redigerla riveste sul piano politico-istituzionale. Quanto al secondo significato del termine, l’autore è tra i primi in Italia a cogliere l’importanza di un coerente e funzionale assetto istituzionale e amministrativo, meglio se eretto sul fondamento di una carta costituzionale, per un ‘popolo disperso’ che deve ancora farsi nazione.
Non fu certo un’indagine estemporanea quella da cui scaturì un’opera così articolata e complessa; gli studiosi ritengono che abbia cominciato a redigerla nel 1813, e sicuramente essa offre risposta a interrogativi messi a fuoco e maturati da tempo. L’obiettivo nazionale è il punto prospettico principale a partire dal quale Romagnosi conduce la propria indagine; dello Stato unitario che mira a erigere l’autore analizza con minuzia ogni particolare costruttivo.
Fra i temi che nell’opera occupano una posizione preminente va annoverato il cosiddetto principio monarchico, un argomento che nei primi due decenni del 19° sec. era al centro degli studi e del dibattito in tutta l’Europa continentale. L’espressione non è presente nella lettera, ma la problematica ch’essa sottende occupa con tutta evidenza la riflessione dell’autore, senz’altro sollecitato anche dalla cultura istituzionale di impronta napoleonica con cui si era più di recente confrontato. Il cuore della questione concerneva il potere dominante assegnato al principe, il quale, al di là delle definizioni, da tempo aveva perduto il ruolo di sovrano assoluto e nelle varie parti d’Europa si era trovato di fronte a una cetualità che, in forme diverse e con grado variabile di intensità, aveva preteso una qualche forma di compartecipazione al potere.
Tecnicamente, la dottrina del ‘principio monarchico’, elaborata soprattutto in area germanica, era quella teoria che cercava di determinare la compatibilità di una concentrazione del potere nelle mani del principe con quote di potere cetuale. Naturalmente, era grande la varietà delle situazioni storiche e ampio lo spettro delle dottrine, da quelle che miravano a erodere il più possibile il potere dei ceti, in nome di una centralizzazione considerata fattore di modernizzazione, a quelle che, viceversa, puntavano a garantire una misura alta e possibilmente sempre crescente di compartecipazione, giocando anche sulla novità del fattore rappresentativo. In sostanza – e lo ricordiamo anche a rischio di una semplificazione che ci si augura non risulti fuorviante –, alcuni teorici del tempo interpretarono l’antica rappresentanza territoriale e cetuale e la moderna rappresentanza di tipo parlamentare come fenomeni collocati non solo in continuità temporale, ma anche senza cesure troppo nette fra loro quanto al significato politico. Oltretutto, proprio grazie a Napoleone, questa formula si andava affermando nel cuore dell’Europa: dalla Confederazione renana (1806), formatasi a seguito delle conquiste francesi oltre Reno – alla quale fu concesso di dotarsi di una Costituzione, sebbene mai entrata in vigore, e dove fu istituita una Dieta bicamerale – alla Baviera e al Württemberg, cui Napoleone consentì di costituirsi in regni, dotati anch’essi di una Costituzione. Quando Luigi XVIII, nel 1814, riporterà l’antica dinastia dei Borbone sul trono di Francia, deciderà a sua volta di emanare una Costituzione (Charte octroyée). Analogo fenomeno si verificherà dopo il Congresso di Vienna in molti Paesi tedeschi liberati dal dominio francese.
Su questo sfondo storico Romagnosi si pose il problema di salvaguardare nella sua integrità il potere del re (personificazione di una istituzione forte e coesa attorno a un centro unitario), sottraendo però i governati ai danni di una concentrazione del potere che, a suo modo di vedere, poteva soltanto sfociare nel dispotismo. La questione è tanto più impegnativa in quanto non si trattava soltanto di progettare il migliore degli assetti monarchici possibili, ma di progettarlo all’interno del processo di formazione della nazione. L’autore scrive a chiare lettere che nell’esercizio del potere sovrano il principe è superiore «di fatto e di diritto» ai cittadini, ma non è tale rispetto al «corpo unito della nazione»; sul finire dell’opera, poi, la nazione verrà riconosciuta come «potere predominante», in cui deve essere riposta «l’ultima garanzia costituzionale». A partire da qui non è difficile comprendere come, nel volgere di pochi anni (anche se non si hanno notizie certe sui tempi), Romagnosi abbia guardato con crescente simpatia alla forma di governo repubblicana (tutta la seconda parte dell’opera, uscita postuma, è ormai esclusivamente incentrata sul tema dell’unità nazionale; qui compare il termine etnicarchia come sinonimo di dominio nazionale: «il solo veramente repubblicano»).
Se è vero che le idee maturano in continua interazione con le concrete condizioni storiche e queste a loro volta pongono all’ordine del giorno nuove necessità teoriche, allora trova spiegazione anche quest’ultima torsione subita dal sistema istituzionale da lui ideato. D’altra parte, egli aveva sì colto lo spirito dei tempi lavorando all’ipotesi dell’istituzione di una monarchia costituzionale che al momento era per l’Italia una novità assoluta, ma lo aveva fatto in piena autonomia: ad affiancare il monarca (cui era assegnato il ruolo di «regolatore universale», indice di un potere tanto indiviso quanto limitato e bilanciato) e insieme a opporglisi – sì da dar vita a un antagonismo in cui il conflitto fosse, se non eliminato, almeno regolato – aveva previsto altri poteri, che preferiva definire «funzioni», tutti di rilevanza costituzionale: il Consiglio di legislazione, il Senato e il Protettorato. I primi due incarnavano l’elemento rappresentativo e si dividevano i compiti, l’uno, di un’attività dinamica, innovatrice e anche conflittuale, che rispecchiava l’attività propria della società civile da esso rappresentata, e l’altro, di un’azione moderatrice e conservatrice. Il terzo svolgeva la funzione di arbitro costituzionale e garantiva la conservazione e l’integrità della Costituzione.
Per illustrare lo statuto di quei poteri, Romagnosi li descrive come le quattro ruote principali che, in maniera simile a un orologio, permettono al meccanismo dello Stato di funzionare – principali perché in realtà diversi altri ‘poteri’ erano previsti da questa Costituzione, per es. la Consulta di Stato, con il compito di interpretare la Costituzione, o il Patrocinio politico, deputato a pubblicizzare gli atti di governo. Di quest’ultima funzione Romagnosi sottolinea l’importanza, accanto a quella della pubblicità delle leggi e in connessione con il rilevante ruolo affidato all’opinione pubblica, come strumento non solo di diffusione dei lumi ma, prima ancora, di controllo degli amministratori (mediamente tentati dal curare l’interesse privato). La Costituzione, come legge fondamentale o, tout court, nazionale, stabilita per perseguire le due principali finalità di una «buona» legislazione e di una «saggia» amministrazione, ha anche e sempre il ruolo di correttivo della funzione di governo. Non erano dunque tanto gli altri poteri a limitare quello del monarca, quanto piuttosto il complesso della nazione. A conferma vi è il passaggio in cui Romagnosi dichiara che al regnante è permesso niente più di ciò che è necessario per la prosperità e la sicurezza dello Stato.
Il presupposto di una simile impostazione era un superamento completo e definitivo della struttura feudale, così come di ogni sistema di potere ecclesiastico o militare. Da notare è come questa critica non avesse semplicemente a oggetto situazioni di un lontano passato, ma realtà contemporanee, per es. la Costituzione inglese, della quale Romagnosi (sulla scia di un atteggiamento teorico-politico ispirato, fra i primi, da Gaetano Filangieri) deplorava il ‘petulante’ liberismo economico associato all’assoluta dominanza del ceto nobiliare. Era, questa, una posizione già emersa nella Introduzione allo studio del diritto pubblico universale, dove – come avviene anche nell’opera che stiamo trattando – a questa critica si accompagnava, ancora una volta proprio come in Filangieri, la censura della dottrina dei corpi intermedi teorizzata da Montesquieu.
Come si è visto, la costruzione illustrata fin qui ha senso solo in un quadro di ‘incivilimento’. L’assunto è ribadito in Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia (1832), che raccoglie scritti degli anni 1829-32, in parte già pubblicati negli «Annali universali di statistica». Mentre la prima parte dell’opera, Sulle leggi dell’incivilimento, presenta in forma riordinata e sistematizzata elementi di una visione già esposta nel corso del tempo (e da ultimo riproposti nelle pagine introduttive dello scritto Della ragione civile delle acque nella rurale economia), interessanti novità sono contenute nella seconda, Del risorgimento dell’incivilimento italiano, con la quale Romagnosi si immette, peraltro con originalità, sulla scia di una tradizione della cultura italiana rinnovata relativamente di recente, con la celebrazione delle glorie italiche, per es. nel Platone in Italia di Vincenzo Cuoco (pubblicato in una prima edizione incompleta nel 1804 e poi nel 1806). È interessante notare – anche senza voler aprire un capitolo che esula dalla nostra trattazione – come proprio negli stessi anni prima Victor Cousin e poi François Guizot conducessero analoga operazione in Francia, istituendo anche qui un nesso stretto fra le glorie del passato e i compiti culturali del presente.
Assieme alle influenze del clima e del territorio, solo un «sistema» «artificiale della socialità» consente una condizione in cui sia raggiunto «il massimo di bene ottenibile col minimo di male inevitabile», ovvero un incivilimento maturo. Si è già detto che quest’ultimo si realizza quando sono contemporaneamente coinvolti il piano economico, quello politico e quello morale e il perfezionamento in ciascuno di essi si integra armonicamente con il perfezionamento negli altri (si tenga a mente che armonia non significa assenza di conflitto, ma il massimo possibile della sua composizione). In parallelo si attua il perfezionamento nei «rami» principali della società: beni, forza e opinione. Particolare ruolo svolge lo spirito pubblico, ovvero la pubblica opinione che ha nel ceto intellettuale, sia laico sia religioso, la sua base. Corruzione e decadenza appartengono alla vita di ogni popolo, ma non tutti i popoli riescono ad accedere al livello dell’incivilimento.
Queste ultime notazioni provengono dalla seconda parte dell’opera che muove dal presupposto di un ‘primato’ della cultura italiana, con Dante Alighieri, Machiavelli, Galileo Galilei, e fa leva su due baricentri: le luci, oltre alle ombre, della storia dell’antica Roma e una peculiare interpretazione del Medioevo, considerato come un periodo di risorgimento per la vita civile dell’Italia. Alla storia di Roma appartiene anche l’avvento del cristianesimo, che è riuscito a tenere alte le sorti dell’incivilimento, nonostante il crollo dell’impero. A loro volta tutt’altro che bui furono i secoli dal 10° al 12°, in grado di esprimere un livello culturale, spirituale ma anche politico che ha condotto senza traumi all’età dei Comuni e delle Signorie, affollata di eventi tra cui il più notevole è la creazione, per la prima volta, di una classe media.
L’ultima fase di questa storia inizia con il 16° sec. – da un lato per la rilevante trasformazione economica prodotta dall’espansione commerciale da parte delle potenze europee, dall’altro per i rapporti internazionali ch’esse dovettero giocoforza intessere – e termina con il momento presente, con l’ideazione di una Costituzione capace di tutelare i governati dal dispotismo dei governanti, con la creazione di una nuova scienza sociale, con una più avanzata dottrina economica.
Un excursus di storia dell’incivilimento si può leggere anche nell’opera incompiuta Della vita degli Stati.
Opere, 19 voll., Firenze 1832-1839.
Opere, 8 voll., Milano-Padova 1841-1848.
Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa (1815 e 1848), a cura di G. Astuti, intr. di F. Patetta, Roma 1937.
G. Romagnosi, C. Cattaneo, C. Ferrari, Opere, a cura di E. Sestan, Milano 1957.
Scritti filosofici, a cura di S. Moravia, 2 voll., Milano 1974 (nel 1° vol. si vedano, in partic., le Lettere al signor Gian Piero Vieusseux sull’ordine col quale si devono studiare le sue opere [1832], pp. 76-114).
Della vita degli Stati, a cura di E.A. Albertoni, «Studi Romagnosi», 1979, 1, pp. 225-98; «Studi Romagnosi», 1990, 2, pp. 335-403 (il manoscritto di quest’opera incompiuta è stato pubblicato contemporaneamente anche in E.A. Albertoni, La vita degli Stati e l’incivilimento dei popoli nel pensiero politico di Gian Domenico Romagnosi, Milano 1979).
Fra gli scritti più significativi contenuti nell’edizione fiorentina delle Opere in 19 voll., sopra citata, si segnalano:
nel 1° e 2° vol.: Genesi del diritto penale [1791].
nel 3° vol. (complessivamente intitolato Diritto filosofico): Che cosa è eguaglianza? [1792], pp. 181-90; Che cosa è libertà? [1793], pp. 191-209; Principj fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni [1814], pp. 7-312; Assunto primo della scienza del diritto naturale, con nuovi documenti illustrativi somministrati dall’autore [1820], pp. 1-179 (la numerazione riprende da p. 1); Ragguaglio storico-statistico degli studi di diritto germanico e naturale in Alemagna [1830], pp. 11-31.
nel 5°, 6° e 7° vol.: Istituzioni di civile filosofia ossia di giurisprudenza teorica [1825-1828, pubbl. postuma nel 1839].
nell’8° e 9° vol.: Introduzione allo studio del diritto pubblico universale [1805]. Con aggiunta delle lettere dell’autore al professor Giovanni Valeri sull’ordinamento della scienza della cosa pubblica (le Lettere, apparse nella «Antologia» nel 1826, sono ora in Id., Scritti filosofici, a cura di S. Moravia, 1° vol., Milano 1974, pp. 323-84).
nel 10° vol.: Discorso sull’amore delle donne, considerato come motore precipuo della legislazione, letto nella società letteraria di Piacenza nella sessione pubblica de’ 23 agosto 1789, pp. 26-50; Osservazioni sulla Scienza Nuova di Vico [1822], pp. 118-31 (ora in Id., Scritti filosofici, a cura di S. Moravia, 2° vol., Milano 1974, pp. 19-36); Della primaria istruzione pubblica [1832], pp. 232-70; Discorso sul soggetto e l’importanza dello studio dell’alta legislazione (s.d.), pp. 1-16.
nel 12° vol.: Della ragione civile delle acque nella rurale economia [scritto nel 1829], pp. 1-131.
nel 13° vol.: Quesito sull’incivilimento proposto all’Ateneo delle arti di Parigi [1830], Appendice, pp. 305-307; Alcuni pensieri sopra un’ultra-metafisica filosofia della storia [1832], Appendice, pp. 289-304 (ora in Id., Scritti filosofici, a cura di S. Moravia, 2° vol., Milano 1974, pp. 61-76); Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia [1832], pp. 1-268 (ora in Id., Scritti filosofici, a cura di S. Moravia, 2° vol., Milano 1974, pp. 77-344).
nel 17° vol.: La logica per i giovanetti dell’ab. Genovesi [1832], pp. 17-266; Vedute fondamentali sull’arte logica [1832], pp. 267-72.
nel 18° vol.: Vedute fondamentali sull’arte logica [1832], pp. 273-644.
nel 19° vol.: Che cosa è la mente sana? Indovinello massimo che potrebbe valere poco o niente. Ragione del discorso [1827], pp. 1-55 (ora in Id., Scritti filosofici, a cura di S. Moravia, 1° vol., Milano 1974, pp. 115-67).
C. Forresu, Individuo, società e stato nella filosofia del Romagnosi, Milano 1937.
G. Ferrari, La mente di G.D. Romagnosi, Prato 1839, Milano 19133.
B. Fava, Il pensiero politico di G.D. Romagnosi, Reggio Emilia 1953.
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A. Dentone, Il problema morale in Romagnosi e Cattaneo, Milano 1968.
N. Bobbio, Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Torino 1971.
N. Badaloni, L’incivilimento di Romagnosi, in Storia d’Italia, 3° vol., Dal primo Settecento all’Unità, Torino 1973, pp. 941-44.
E.A. Albertoni, La vita degli Stati e l’incivilimento dei popoli nel pensiero politico di Gian Domenico Romagnosi, con la cronologia degli scritti e delle edizioni italiane e il testo integrale del libro primo Della vita degli Stati, Milano 1979.
G. Ricuperati, I giornalisti italiani fra poteri e cultura dalle origini all’Unità, in Storia d’Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, Torino 1981, pp. 1083-1132.
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Per conoscere Romagnosi, a cura di R. Ghiringhelli, F. Invernici, Milano 1982.
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