Giappone
di Dario Tomasi
Il cinetoscopio di Thomas A. Edison fu introdotto in G. nel novembre del 1896. Nel febbraio dell'anno seguente fu già la volta del Cinématographe dei fratelli Louis e Auguste Lumière. Nel 1899 furono realizzati i primi film di produzione giapponese, fra i quali Momijigari (Una passeggiata per godere della vista degli aceri autunnali) di Shibata Tsunekichi, un dramma in costume che si avvaleva della presenza di attori kabuki. La prima sala cinematografica fu costruita nel 1903, ad Asakusa, il quartiere dei divertimenti di Tokyo. Il cinema giapponese delle origini fu profondamente influenzato sia dal teatro shinpa, nato come rinnovamento del kabuki e particolarmente incline a soggetti melodrammatici, sia dal kabuki stesso. L'influenza dello shinpa si esercitò essenzialmente sul cinema d'ambientazione contemporanea (gendaigeki), quella del kabuki sul cinema d'ambientazione storica (jidaigeki).
Makino Shōzō viene considerato il primo vero e proprio regista del cinema giapponese. Il suo nome è legato anche alle diverse versioni ‒ almeno una decina sulla base delle informazioni disponibili ‒ che realizzò di Chūshingura (Il forziere dei vassalli fedeli) tra il 1910 e il 1928. La storia è quella dell'epica vicenda di un gruppo di quarantasette rōnin (i samurai senza padrone) che, nel 18° secolo, vendicano il loro padrone, ingiustamente costretto a uccidersi, prima di commettere, a loro volta, il suicidio rituale.
Nel 1912 nacque la Nippon Katsudō Shashin Kabushi-ki Kaisha (Società giapponese delle immagini in movimento), nota con il nome Nikkatsu, la prima major nipponica. Essa aprì i suoi studi a Tokyo e Kyoto, realizzando nella prima delle due città film gendaigeki e nella seconda film jidaigeki. Nasceva così istituzionalmente quella divisione della produzione nazionale in due grandi generi che avrebbe segnato buona parte della storia del cinema nipponico. I film di quegli anni erano concepiti in modo ancora fortemente teatrale, le inquadrature tendevano a protrarsi per un'intera scena, i campi erano piani d'insieme e i ruoli femminili venivano interpretati da attori uomini denominati onnagata o oyama. Ma, soprattutto, il cinema muto giapponese venne segnato dall'esperienza dei benshi, i narratori che accompagnavano quelle silenziose proiezioni, commentando la storia e recitando i dialoghi dei personaggi. L'esistenza di narratori di film muti non fu un'esclusiva del G., tuttavia in questo Paese essa assunse un'importanza particolare. I benshi, infatti, divennero vere e proprie star e non era raro che gli spettatori dell'epoca si recassero al cinema innanzi tutto per ascoltare un determinato narratore piuttosto che un altro. I benshi cinematografici traevano origine sia da quella vasta tradizione di narrazioni orali tipica della cultura popolare giapponese ‒ come le narrazioni storiche, kōdan, e quelle comiche, rakugo ‒ sia da quella pratica, comune al nō, al kabuki e al teatro di marionette bunraku, di ricorrere a voci narranti che, oltre a contribuire all'avanzamento della storia, potevano sostituirsi a quelle degli attori presenti sul palcoscenico.Intorno alla metà degli anni Dieci, i film giapponesi iniziarono a utilizzare diverse tecniche cinematografiche come la divisione delle scene in più inquadrature, il primo piano, il controcampo, i movimenti di macchina e il flashback. A tutto ciò diede un contributo anche la diffusione del cinema statunitense e, successivamente, di quello d'arte europeo. Un altro rilevante passo in avanti nella modernizzazione del cinema giapponese fu determinato, nel 1920, dalla nascita di una nuova società di produzione, l'importante Shōchiku. Avvalendosi della collaborazione di intellettuali come Osanai Kaoru e Tanizaki Jun'ichirō, la Shōchiku diede il via a una serie di produzioni in cui erano utilizzate attrici al posto di uomini in vesti femminili; si guardava al repertorio dello shingeki (una nuova corrente teatrale che tentava di modernizzare lo shinpa, rifacendosi a testi occidentali, come quelli di H. Ibsen e A.P. Čechov), s'introducevano nuove figure di linguaggio, come il montaggio alternato, per es. nel celebre Rōjō no reikon (1921, Anime sulla strada), realizzato da Murata Minoru sotto la supervisione di Osanai.
Nel 1923 il G. fu colpito da un terribile terremoto che distrusse buona parte della città di Tokyo. Per un breve periodo, l'industria cinematografica dovette trasferirsi a Kyoto, sino a quel momento la culla dei film in costume. La Shōchiku, guidata dall'abile Kido Shirō, continuò tuttavia a produrre soprattutto film d'ambientazione contemporanea, permeati da un considerevole realismo, da una certa attenzione ai fatti quotidiani, i cosiddetti shomingeki (drammi della gente comune). Nei suoi studi si formarono così registi di primo piano come Gosho Heinosuke, Saitō Torajirō e Ozu Yasujirō. Quest'ultimo, in particolare, guardava, negli anni Venti, al cinema occidentale, come faceva dal canto suo anche Mizoguchi Kenji, sotto contratto alla Nikkatsu. Negli anni Quaranta e Cinquanta questi due cineasti avrebbero, assieme a Kurosawa Akira, consolidato il loro ruolo di autentici maestri del cinema giapponese. Negli anni Venti, tuttavia, le punte artisticamente più alte di un cinema che si ispirava all'esperienza del film d'arte europeo vennero rappresentate dalle produzioni indipendenti di Kinugasa Teinosuke: Kurutta ippeiji (1926, Una pagina di follia), viaggio visionario tra realtà e finzione in un ospedale psichiatrico, influenzato dalle avanguardie tedesche e sovietiche, e Jūjirō (1928, Incroci), che richiama il Kammerspiel espressionista.
Una corrente importante, anche se di breve durata, del cinema nipponico muto fu quella del keikō eiga (film di tendenza), che si sviluppò a cavallo degli anni Venti e Trenta, a seguito della diffusione che in quell'epoca ebbe l'ideologia marxista. Si trattava di un insieme di film che, pur con qualche evidente ingenuità, denunciavano le ingiustizie della società capitalista, come per es. Nani ga kanojo o sō saseta ka (1930, Cosa l'ha spinta a farlo?) diretto da Suzuki Shigeyoshi.Nell'ambito del jidaigeki, oltre che ai film della Nikkatsu, un ruolo di primo piano fu svolto dalle piccole compagnie indipendenti, spesso fondate da attori o registi, come la Makino Eiga e la Bandō Tsumasaburō Production, cui si deve, tra gli altri, un film come Orochi (1925, Il drago) di Futagawa Buntarō, che inaugurò il filone del jidaigeki nichilista, con i suoi rōnin gettati allo sbando, in lotta contro una società ingiusta e crudele. Gli autori più rappresentativi del jidaigeki muto furono Itō Daisuke e Makino Masahiro. Al primo si deve la trilogia Chūji tabi nikki (1927, Diario dei viaggi di Chūji) e la serie Tange Sazen (1928-1934); al secondo la trilogia Rōningai (1928-1929, La strada dei rōnin). Itō, in particolare, tentò anche di coniugare il jidaigeki nichilista con il keikō eiga, approfittando del fatto che per i film in costume il controllo della censura era meno rigido. Ben più del gendaigeki, infine, il jidaigeki fu un cinema di grandi divi: per attori come Bandō Tsumasaburō, Ōkōchi Denjirō, Arashi Kanjūrō, Ichikawa Utaemon e Kataoka Chiezō nacque infatti in G. un vero e proprio culto.
I primi anni Trenta segnarono il passaggio dal muto al sonoro. Per quanto diversi film parzialmente sonori fossero già stati realizzati ‒ tra i quali per es. Furusato (1930, Il paese natio) di Mizoguchi ‒ il primo all talkie fu Madamu to nyōbo (1931, La signora e mia moglie) di Gosho. Il passaggio al nuovo sistema fu tuttavia lungo e travagliato, sia per ragioni di ordine finanziario e tecnico, sia per la strenua opposizione che la corporazione dei benshi mosse contro di esso. L'anno di svolta fu il 1935, quando le maggiori società smisero definitivamente di produrre film muti, che tuttavia furono ancora realizzati dalle piccole case fino al 1938. Verso la fine degli anni Trenta, mentre la realtà politica diveniva sempre più difficile, la Shōchiku e la Nikkatsu dovettero cedere parte del loro mercato a una nuova grande compagnia, la Tōhō: fondata da Kobayashi Ichizō, che aveva rilevato la PCL (Photo Chemical Laboratory), una società nata nel 1929 e diventata indipendente nel 1933, che si era caratterizzata per una politica moderna e liberale, e la JO, altra società indipendente diretta da Ozawa Shokai, la Tōhō si sarebbe contraddistinta per la sua prassi conservatrice, se non addirittura reazionaria.I più importanti registi di jidaigeki degli anni Trenta furono Itami Mansaku e Yamanaka Sadao: Itami è ricordato soprattutto per il modo in cui seppe instillare elementi ironici e parodistici nei suoi drammi storici; Yamanaka, di cui va citato almeno Ninjō kamifusen (1937, Sentimenti umani e palloncini di carta), per l'accuratezza nella descrizione psicologica dei suoi samurai. Con questi due autori, il jidaigeki perse molto del suo spirito avventuroso, privilegiando, al contrario, una dimensione realistica sia nella descrizione dei fatti e dei personaggi, sia nella ricostruzione ambientale.
Nell'ambito del gendaigeki fu la Shōchiku a giocare un ruolo di primo piano, in particolare con i suoi shomingeki, firmati da registi come Shimazu Yasujirō, Nomura Hiromasa, Naruse Mikio e, soprattutto, Ozu. Importante anche l'opera di Shimizu Hiroshi, che nei suoi film, a metà tra finzione e documentario, ricorre spesso alle tecniche dell'improvvisazione, come accade, per es., in Arigatō san (1936, Il signor Grazie). Dal canto suo, la Nikkatsu poteva avvalersi del lavoro di un regista di primo piano come Uchida Tomu, di cui vanno ricordati almeno Jinsei gekijō ‒ Seishun hen (1936, Il teatro della vita ‒ Giovinezza) e Tsuchi (1939, Terra). Oltre ai registi citati, gli anni Trenta videro anche l'affermazione di Mizoguchi, che in quel periodo passò da una casa di produzione all'altra.
Nel 1939, due anni dopo l'inizio della guerra con la Cina, in un clima politico segnato ormai irrimediabilmente dal nazionalismo e dalla volontà espansionistica in Asia, anche il cinema fu richiamato ai suoi doveri patriottici. Una nuova legge sul cinema, creata sul modello legislativo della Germania nazista, inasprì radicalmente la censura, che iniziò a intervenire sui film già allo stadio di sceneggiatura. In questo periodo, nell'ambito del sistema produttivo, il sopravvento fu preso dalla Tōhō, sempre più legata al potere politico; la Shōchiku venne mantenuta in vita, mentre la Nikkatsu fu assorbita nel 1942 da una nuova casa di produzione, la Dai Nihon Eiga (Cinema del grande Giappone, nota con l'acronimo Daiei), fondata da Nagata Masaichi. Anche sul piano del dibattito culturale, il clima degli anni di guerra si fece sentire e si moltiplicarono gli interventi critici a sostegno del ritorno del cinema giapponese alle proprie tradizioni culturali ed estetiche e, soprattutto, all'esaltazione di quella spiritualità che si riteneva antitetica al materialismo occidentale.
I conflitti in corso (la guerra con la Cina e, dal dicembre del 1941, la Seconda guerra mondiale) favorirono la produzione di film bellici, ma quelli strettamente propagandistici, come Hawai Maree okikaisen (1942, La guerra sui mari dalle Hawaii alla Malesia) di Yamamoto Kajirō, non furono poi molti. Tasaka Tomotaka, per es., realizzò Gonin no sekkōhei (1938; La pattuglia) e Tsuchi to heitai (1939, Terra e soldati), rifiutando ogni sorta di eroismo e concentrandosi sulla terribile durezza della vita quotidiana dei soldati che accettano stoicamente il compito loro affidato. Nell'ambito del documentario un particolare rilievo ebbe il lavoro di Kamei Fumio, che in Shanhai (1937, Shanghai) riuscì, nonostante innumerevoli difficoltà, a testimoniare il dramma dei territori cinesi occupati dall'esercito giapponese. Il regista, tuttavia, pagò con il carcere il suo coraggio.Anche il jidaigeki ebbe in quegli anni un inevitabile rigurgito nazionalistico, come testimonia, per es., la trilogia dedicata da Inagaki Hiroshi all'epica figura di Miyamoto Musashi (1940-1942), un campione di spada ma, soprattutto, un modello di ascesi e spiritualità. La necessità del sacrificio e il rispetto dell'autorità, in tutte le sue forme, furono temi ricorrenti anche nei gendaigeki degli anni di guerra, ai quali non poté sottrarsi nemmeno Ozu, che in Toda ke no kyōdai (1941, Fratelli e sorelle della famiglia Toda) racconta, fedele tuttavia alla propria poetica, la dissoluzione di una grande famiglia, salvando solo il figlio più giovane il quale, tornato dalla Manciuria occupata, decide di prendere con sé la madre che i fratelli avevano allontanato. Gli anni di guerra videro anche il debutto di Kurosawa Akira che nel suo film d'esordio, Sugata Sanshirō (1943), diede il proprio contributo all'ideologia dominante, raccontando la storia di un giovane che diventa campione di judo grazie ai duri sacrifici cui sottopone corpo e spirito.
di Dario Tomasi
Dal 1945 al 1952, il G. provò, per la prima volta, l'esperienza dell'occupazione straniera, attraverso il controllo del comando militare alleato. Dalla censura degli anni di guerra si passò così a quella dell'occupazione statunitense. Fu vietato tutto ciò che faceva riferimento allo spirito di sacrificio, alla lealtà nazionale, al patriottismo, alla volontà di vendetta, all'apologia del suicidio. Si invitarono i registi a favorire la diffusione di ideali democratici e nuovi costumi (come quello, per es., di mostrare una coppia che si bacia). Si proibì, nei fatti, la realizzazione di jidaigeki, genere troppo compromesso con il passato feudale. Nel 1947 furono messi al bando alcuni dei produttori ritenuti responsabili di avere girato film di propaganda, ma tre anni più tardi la disposizione fu revocata. Un particolare rilievo ebbero, in quegli anni, i conflitti con i sindacati (mai esistiti prima in G.): nel 1948 i lavoratori occuparono gli studi della Tōhō per quattro mesi, fino all'intervento delle forze armate statunitensi.
L'aspetto più rilevante del cinema giapponese negli anni dell'occupazione statunitense fu rappresentato dal tentativo di adeguarsi al vento della democrazia occidentale. Nacquero così film in cui, per es., i figli spingono i padri a entrare nella nuova era (Anjō ke no butōkai, 1947, Il ballo della famiglia Anjō, di Yoshimura Kōzaburō), si irridono i capifamiglia patriarcali (Yabure daikō, 1949, Il tamburo rotto, di Kinoshita Keisuke), si inneggia agli oppositori del nazionalismo (Waga seishun ni kui nashi, 1946, Senza rimpianto per la mia giovinezza, di Kurosawa), ci si schiera apertamente a favore della liberazione delle donne (Jōsei no shōri, 1946, La vittoria delle donne, di Mizoguchi). Fra i pochi registi che in quegli anni riuscirono a condurre un proprio personale discorso, al di fuori degli imperativi dominanti, ci fu indubbiamente Kurosawa che, in film come Yoidore tenshi (1948; L'angelo ubriaco) e Nora inu (1949; Cane randagio), riesce a rappresentare con grande efficacia la difficile situazione del G. del dopoguerra.
Nel 1952 ebbe termine l'occupazione statunitense e il G. recuperò la propria sovranità. I film giapponesi iniziarono a partecipare ai festival occidentali e, a partire dal Leone d'oro assegnato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1951 a Rashōmon (1950; Rashomon) di Kurosawa, essi ottennero una serie d'importanti riconoscimenti internazionali che determinarono la scoperta del cinema giapponese in Occidente. Gli anni dell'occupazione avevano aiutato i registi giapponesi a trovare un'efficace sintesi tra il proprio patrimonio culturale e i modi espressivi del cinema occidentale, in grado di rendere i loro film più consoni alle esigenze dei circuiti internazionali. Si aprì così una delle stagioni più feconde del cinema del Paese, contrassegnata da una certa solidità del sistema produttivo, organizzato intorno ad alcune grandi compagnie che controllavano il mercato sulla base di una struttura verticale, comprendente cioè produzione, distribuzione ed esercizio. Tra le tendenze del periodo vi furono il ritorno dei jidaigeki, i film sugli anni di guerra, soprattutto con intenti pacifistici (Nijū-shi no hitomi, 1954, Ventiquattro pupille, di Kinoshita; Biruma no tategoto, 1956, L'arpa birmana, di Ichikawa Kon), i film sulla bomba atomica (Genbaku no ko, 1952, I figli della bomba, di Shindō Kaneto), i film sociali che denunciavano le contraddizioni del Paese (Bōryoku no machi, 1950, La città della violenza, di Yamamoto Satsuo; Dokkoi ikite iru, 1951, Eppure noi viviamo, di Imai Tadashi). Questi ultimi, in particolare, erano realizzati da produzioni indipendenti, intorno alle quali si raccoglievano quei registi cacciati dalle maggiori compagnie durante e dopo il periodo del conflitto sindacale con la società di produzione Tōhō.
La stessa Tōhō fu in quegli anni una delle case cinematografiche più attive. Essa ottenne il suo maggior successo con il film Gojira (1954; Godzilla) diretto da Honda Ishirō, il quale ebbe il merito di dare il via a tutta una serie di opere catastrofiche popolate da mostri preistorici ‒ talvolta generati da esperimenti atomici ‒ che conquistarono il mercato. Nell'ambito del cinema d'autore, la Tōhō si avvalse, invece, della presenza di registi come Kurosawa e Naruse che, negli anni Cinquanta, realizzarono i loro film più importanti.
La Shin-Tōhō, nata inizialmente da una costola della Tōhō e poi divenuta a tutti gli effetti indipendente, contribuì allo sviluppo dei film di fantasmi (kaidan eiga), rifacendosi a una ricca tradizione culturale che affondava le sue radici nel nō e nel kabuki, per es. con Tōkaidō Yo-tsuya kaidan (1959, Storie di fantasmi a Yotsuya nel Tōkaidō) di Nakagawa Nobuo. La Daiei, dal canto suo, puntò sul cinema d'ambientazione storica, lanciando alcune serie di grande successo, come Nemuri Kyōshiro (1963-1969) e Zatō Ichi (1962-1971), dirette da vari registi e interpretate da una nuova generazione di divi, quali Ichikawa Raizō e Katsu Shintarō. Guidata dall'abile Nagata, la Daiei fu attiva anche nella produzione di jidaigeki d'autore, spesso pensati appositamente per i grandi festival internazionali. Nacquero così i successi di Jigokumon (1953, La porta dell'inferno) di Kinugasa e, soprattutto, gli ultimi capolavori di Mizoguchi. Sempre nell'ambito del cinema d'autore, la compagnia si avvalse anche della collaborazione di Ichikawa Kon che, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, realizzò alcuni dei suoi film più importanti come Enjō (1958, Conflagrazione) e Yukinojō henge (1963, La vendetta di un attore).
Com'era iscritto nella sua tradizione, la Shōchiku continuò, invece, a privilegiare i film d'ambientazione contemporanea, con un particolare gusto per il melodramma e le piccole cose della vita quotidiana. Questa linea di tendenza era evidente sia nell'ambito del cinema popolare e di genere, come testimoniano gli straordinari successi di Kimi no na wa (1953-54, Qual è il tuo nome?) di Ōba Hideo e della successiva serie Otoko wa tsurai yo (1969-1997, È dura essere uomo) diretta quasi integralmente da Yamada Yōji e interpretata da Atsumi Kiyoshi, nel ruolo del protagonista Torasan, sia in quello d'autore, grazie soprattutto al lavoro di Kinoshita e Ozu. Un discorso a parte merita Kobayashi Masaki che, con uno stile ancora molto classico e un 'umanesimo' che guardava a Kurosawa, puntò invece maggiormente alla decisa denuncia delle brutalità della guerra e del passato feudale.Risorta nel 1951 dalla fusione di altre due case di produzione, la Tōei raccolse nei suoi studi alcuni di quei cineasti di sinistra, tra cui Imai, che erano stati in precedenza cacciati da altre compagnie. Tuttavia ottenne il suo maggior successo grazie alle serie d'ambientazione storica e, in generale, ai film jidaigeki, tra cui spiccano quelli di Katō Tai (Mabuta no haha, 1962, L'amore per una madre) e Yamashita Kōsaku (Seki no Yatappe, 1963, Yatappe di Seki). Il 1963 fu anche l'anno di Jinsei gekijō ‒ Hishakaku (Il teatro della vita ‒ Hishakaku) di Sawashima Tadashi, che lanciò serie dedicate al mondo della yakuza (la mafia giapponese), un genere segnato da una profonda nostalgia per una tradizione idealizzata, dal conflitto fra dovere e sentimento, dal senso di appartenenza al gruppo, dall'importanza del codice d'onore e dall'esaltazione del sacrificio. Altro merito della Tōei fu quello di aver aperto le sue porte a Uchida, rimasto a lungo in Cina dopo la guerra, e che, negli anni Cinquanta e Sessanta, realizzò alcuni dei suoi film più originali, soprattutto nell'ambito del jidaigeki, come la trilogia Daibosatsu tōge (1957-1959, Il valico del grande Buddha), ma anche in quello del gendaigeki, come Kiga kaikyō (1964, Lo stretto della fame), film relativamente poco noto in Occidente ma considerato in G. un capolavoro, in cui sviluppa il suo discorso sulla congenita vocazione al male dell'essere umano. Infine, la Tōei fu la compagnia che, più di altre, seppe trarre profitto dal fenomeno, in gran voga all'epoca, dei program pictures, cioè di quelle produzioni a basso budget e di genere, destinate a essere proiettate in un programma comprendente due film al costo di un solo biglietto.Assorbita dalla Daiei durante la guerra, la Nikkatsu rinacque nel 1954. Non trovando più attori, registi e tecnici disponibili sul mercato (tutti sotto contratto presso le altre compagnie), tentò la carta dei giovani. Proprio grazie a questa politica forzata, divenne la casa più innovatrice del periodo, sia attraverso i film cosiddetti taiyōzoku (cioè sulla 'tribù del sole', gruppi giovanili dal comportamento violento ed edonistico), sia attraverso la serie dei Nikkatsu actions. I film tayōzoku, come Kurutta kajitsu (1956; La stagione del sole) di Nakahira Kō, erano un nuovo genere di melodramma, ispirato ai romanzi di Ishihara Shintarō, che rappresentava con crudezza e cinismo la radicale crisi di valori che aveva colpito il mondo della gioventù giapponese nata durante la guerra, la quale, nella seconda metà dagli anni Cinquanta, non poteva fare altro che rifiutare la generazione dei padri. I film d'azione, pur con diversi sviluppi narrativi, riproponevano attraverso i loro disperati eroi le stesse inquietudini esistenziali. Entrambi i filoni, che avranno un peso non indifferente nella nascita della nouvelle vague nipponica (detta in giapponese Nūberu bagu), segneranno anche l'avvento di una nuova generazione di star, come Ishihara Yūjirō e Shishido Jō.Alla fine degli anni Cinquanta il cinema giapponese raggiunse i risultati numericamente più significativi di tutta la sua storia, sia sul piano della produzione (555 film nel 1960), sia su quello del consumo (un miliardo e 127 milioni di presenze nel 1958). Tuttavia subito iniziò l'inesorabile e rapido declino, che portò il numero degli spettatori a scendere drasticamente, nel 1963, a poco più di 500 milioni di unità. La ragione di questa crisi fu in G., come del resto ovunque, l'avvento della televisione, cui servì ben poco cercare di opporsi attraverso il Cinemascope e il colore.L'evento complessivamente più significativo del cinema giapponese degli anni Sessanta fu l'affermarsi di una nuova generazione di cineasti che, in aperta polemica con l'umanesimo della generazione precedente, guardava con maggiore cinismo alle contraddizioni del presente, condannava il vittimismo del passato, affermava valori come quelli dell'individualismo e del desiderio, affrontava più esplicitamente temi difficili quali sesso, politica e violenza, sconvolgeva i modelli di rappresentazione tradizionali andando alla ricerca di nuove forme di linguaggio. I primi segni di tale rinnovamento furono già evidenti nei film tayōzoku e d'azione della Nikkatsu, così come nell'attività di Masumura Yasuzō. Masumura, che aveva studiato al Centro sperimentale di cinematografia di Roma nei primi anni Cinquanta, pubblicò, al suo ritorno in patria, alcuni saggi polemici sul senso di vittimismo e rassegnazione del cinema giapponese dominante, per passare poi alla regia con film come Kyojin to gangu (1958, Giganti e giocattoli) e Akai tenshi (1966, L'angelo rosso), entrambi prodotti dalla Daiei, contrassegnati, a seconda dei casi, da un particolare dinamismo, da personaggi che cercano risolutamente di realizzare i propri desideri e da un forte senso dell'erotismo. Ma la Nūberu bagu trovò le sue vere espressioni nell'ambito della Shōchiku, per opera, in particolare, di Ōshima Nagisa, Yoshida Yoshishige e Shinoda Masahiro. Fu Ōshima a giocare il ruolo di capofila del movimento, come testimoniano i tre film che diresse nel 1960: Seishun zankoku monogatari (Racconto crudele della giovinezza), Taiyō no hakaba (Il cimitero del sole) e, soprattutto, Nihon no yoru to kiri (Notte e nebbia del Giappone), nel quale, attraverso un esasperato uso del piano-sequenza e anomali raccordi temporali, ricostruisce, con freddezza e cinismo, il conflitto fra due diverse generazioni di militanti rivoluzionari. Il film, girato quasi clandestinamente, fu subito ritirato dagli schermi, fatto che determinò la rottura fra Ōshima e la Shōchiku. Il regista fondò così una sua società, contribuendo a determinare una nuova fase di rinascita delle produzioni indipendenti. Anche Shinoda e Yoshida lo seguirono lungo questa strada. Yoshida, in particolare, realizzò alla fine degli anni Sessanta alcuni film di grande rilievo, fra cui Erosu purasu gyakusatsu (1969, Eros più massacro), che, nel mettere in scena i rapporti fra sessualità e terrorismo, si pone come uno dei risultati più radicali del nuovo cinema giapponese; mentre i film di Shinoda si caratterizzavano per la loro estenuata stilizzazione, come nell'estetizzante Shinjū ten no Amijima (1969, Doppio suicidio ad Amijima).
Oltre al gruppo di registi formatisi nell'ambito della Shōchiku, altre importanti figure del nuovo cinema furono Imamura Shōhei e Teshigahara Hiroshi. Attivo alla Nikkatsu sino ai primi anni Sessanta e poi passato al cinema indipendente, Imamura sviluppò con sempre maggiore rigore il suo discorso sull'istintività umana, sulla dimensione del desiderio, cercando talvolta un legame con la stessa mitologia giapponese, come in Kamigami no fukaki yokubō (1968, Il profondo desiderio degli dei). Teshigahara, con le sue produzioni indipendenti, realizzò alcune delle opere più raffinate del periodo e, ispirandosi ai romanzi dello scrittore Abe Kōbō, lavorò soprattutto sul tema dell'identità, privilegiando un registro metaforico e impregnato di umorismo nero, come accade nel suo film più noto, Suna no onna (1964; La donna di sabbia). Nell'ambito del documentario va poi ricordato il lavoro militante e fortemente politicizzato di Tsuchimoto Noriaki e di Ogawa Shinsuke, formatosi alla scuola documentaria Iwanami, così come quello di Hani Susumu, che realizzò alla fine degli anni Cinquanta un cinema indipendente, a metà tra fiction e realtà, incentrato soprattutto sulla rappresentazione dell'infanzia e dell'adolescenza come stati di innocenza, girando anche all'estero, per es. in America Latina nel caso di Andesu no hanayome (1966, La fidanzata delle Ande).
Gli elementi di estrema novità che la Nūberu bagu introdusse nell'ambito del cinema giapponese finirono anche per influenzare alcuni settori del cinema di genere e di consumo. Ne è un chiaro esempio l'opera di Suzuki Seijun, che, per conto della Nikkatsu, realizzò una serie di film d'azione e di yakuza come Irezumi ichidai (1965, Una generazione di tatuati) e Koroshi no rakuin (1967; La farfalla sul mirino), ma anche personali riletture della nascita del fascismo negli anni Trenta, come Kenka ereji (1966, Elegia del combattimento), in cui il regista sconvolge i canoni dei generi, ricorre a soluzioni visive di estrema stilizzazione, privilegia il registro del grottesco, utilizza provocanti metafore erotiche, costruisce trame spesso indecifrabili. Il carattere estremo del suo cinema fu la causa del suo licenziamento da parte della Nikkatsu, fatto che provocò un ampio movimento di protesta. Anche nell'ambito del cinema erotico, per non dire pornografico, si fece sentire quest'aria di novità. Ciò è testimoniato in particolare dai film diretti dall'indipendente Wakamatsu Kōji che, con i suoi Kabe no naka no himegoto (1965, Il segreto tra le mura) e Taiji ga mitsuryō suru toki (1966, Quando l'embrione caccia di frodo), mescola sesso e politica, violenza e opposizione al potere costituito, in modi decisamente insoliti e provocanti, pur nell'ambito dei codici della censura nipponica (per es., la rigida proibizione d'inquadrare gli organi sessuali) che hanno spesso indirizzato il film erotico verso soluzioni stravaganti.
Pur nascendo nell'ambito delle grandi compagnie, il nuovo cinema giapponese degli anni Sessanta fu soprattutto legato alle produzioni indipendenti. In questo settore la realtà più importante era quella dell'ATG (Art Theatre Guild), fondata nel 1967, che, grazie a un proprio circuito di sale, permise la realizzazione e la distribuzione di un gran numero di film d'autore a basso costo. Particolarmente ricchi per quel che riguarda gli sviluppi di un nuovo cinema, sia sul piano dei contenuti sia su quello dello stile, gli anni Sessanta furono però assai difficili sul piano commerciale, tanto che, agli inizi del decennio successivo, molte compagnie ‒ tra cui la Nikkatsu, la Daiei, la Shin-Tōhō e la stessa ATG, che chiuse nel 1975 per deficit finanziario ‒ furono costrette a interrompere l'attività e altre a ridimensionarsi drasticamente. Inoltre, molti degli autori degli anni Sessanta sembravano aver perso, con l'inizio di un nuovo decennio, la loro vena creativa. Si aprì così uno dei periodi più difficili della storia del cinema giapponese.
Mentre nel 1971 la Nikkatsu, per sottrarsi all'incombente fallimento economico, lanciava sul mercato un genere romantico-pornografico conosciuto come roman porno, sul piano del cinema d'autore, invece, Kurosawa aveva tentato di uscire dalla crisi associandosi con Ichikawa, Kinoshita e Kobayashi nella Yonki No Kai (Società dei quattro cavalieri) che produsse il primo film a colori del regista, Dodesukaden (1970; Dodes' ka- den), il cui titolo richiama onomatopeicamente lo sferragliare di un immaginario tram che passa attraverso la bidonville popolata di emarginati dove l'azione è ambientata. Il film fu un fallimento, eppure era una desolata metafora della pesante crisi recessiva del G. negli anni Settanta. Per la delusione Kurosawa tentò il suicidio nel 1971; l'anno prima si era spettacolarmente tolto la vita lo scrittore Mishima Yukio.Nel clima stagnante di quegli anni emerse però l'originalità del talento poliedrico e iconoclasta di Terayama Shūji, teatrante, pugile, poeta, cineasta già sceneggiatore per Hani e Shinoda. Scomparso prematuramente nel 1983, Terayama fu autore di film come Sho o sute yo, machi e deyō (1971, Gettiamo i libri, scendiamo in strada) o Den'en ni shisu (1974, Nascondino pastorale), portatori dello spirito anticonformista e ribelle degli anni Settanta ma anche pervasi di una malinconica fantasia poetica che si rifaceva ad atmosfere felliniane.
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di Donatello Fumarola
Uno dei dati più rilevanti del panorama cinematografico degli anni Settanta e Ottanta è costituito dalla grande crescita di un particolare settore della cinematografia che per un ventennio ha rappresentato l'asse portante dell'industria dello spettacolo giapponese: il cinema a tematica erotica (pinku eiga, film rosa) e quello più propriamente porno (roman porno). La casa di produzione Nikkatsu ha investito in questo genere che già dagli anni Sessanta (con le prime opere dei registi Wakamatsu Kōji e Takechi Tetsuji) aveva fatto scandalo e si era rivelato economicamente fruttuoso. Il particolare sistema della censura vigente in G., che proibisce di mostrare peli (sia pubici, sia ascellari) nonché di inquadrare gli organi sessuali, anche nei film per adulti, non ha reso possibile uno sviluppo del porno analogo a quello occidentale. I roman porno e i pinku eiga si sono pertanto mantenuti nell'ambito di un erotismo indiretto, spesso a sfondo sado-masochistico, eccedendo nella rappresentazione di corpi e di situazioni estreme e perverse, invece che in quella dell'azione sessuale in sé. I cineasti più significativi che hanno praticato, con grande libertà d'invenzione, il roman porno negli anni Settanta, sono stati Kumashiro Tatsumi e Tanaka Noboru, i quali hanno prodotto opere non meno intense di quelle di Ōshima Nagisa e Imamura Shōhei, caratterizzate da radicalità di scelte visive e da straordinarie figure femminili.
Akai kami no onna (1979, La donna dai capelli rossi) di Kumashiro è un film leggiadro e libertario nella messinscena e di rara forza emotiva, ma anche Jitsuroku Abe Sada (1975; Abesada ‒ L'abisso dei sensi) di Tanaka, variazione dello stesso fatto di cronaca alla base di Ai no korīda (1976; Ecco l'impero dei sensi) di Ōshima, e soprattutto Edogawa Ranpo ryōkikan ‒ Yaneura no sanposha (1976; La casa delle perversioni) sono opere che azzerano la dimensione del piacere senza compiacimenti voyeuristici: l'occhio che guarda è costretto a farlo, attratto da immagini di una sessualità sfinita, condannata a confrontarsi con la consapevolezza della propria mortalità, nella cupa constatazione di un vuoto dei sensi ai quali si resta indissolubilmente vincolati.L'ambito dei film a tematica erotica, dopo il dominio incontrastato della Nikkatsu, ha visto fiorire, tra gli anni Ottanta e Novanta, una nuova generazione di cineasti che hanno partecipato a vario titolo (come registi, assistenti o sceneggiatori) alla produzione di pinku eiga (cioè a più di un terzo dei film prodotti in G.), per seguire poi percorsi individuali al di fuori del genere; tra questi vanno segnalati Ishii Takashi, Sōmai Shinji, Kurosawa Kiyoshi, Sakamoto Junji, Ōki Hiroyuki, Aoyama Shinji, Mochizuki Rokurō e in particolare Zeze Takahisa che, nel suo sperimentalismo disincantato, rappresenta una delle figure più eccentriche nel panorama giapponese. Un cineasta come Murakami Ryū, conosciuto come romanziere anche fuori dal G., ha poi suggellato l'erotismo cinematografico con Topazu ‒ Tō-kyō dekadensu, noto anche come Tokyo decadence (1991), glaciale affresco metropolitano sulla cupa deriva di una città vista nelle sue ossessioni e depravazioni sessuali.A partire dal giugno 1988 la Nikkatsu ha abbandonato la produzione di lungometraggi in pellicola a favore del video, ripristinando in seguito il variegato sistema dei generi (yakuza, pinku, commedie, horror); sistema che, dopo la crisi degli anni Settanta, rischiava di perdere la supremazia nell'ambito di un mercato sempre più popolato da case di produzione indipendenti (come la Director's Company, fondata nel 1982 da Hasegawa Kazuhiko). Uno dei pochi generi sopravvissuto alla crisi degli anni Settanta è stato la commedia, nel cui ambito Itami Jūzō (star televisiva, figlio di uno dei pionieri del cinema giapponese, Itami Mansaku, diventato regista dopo molte esperienze d'attore, anche con cineasti statunitensi come Nicholas Ray e Richard Brooks) ha dispiegato una stravagante corrosività come in Osōshiki (1984, Il funerale), irriverente nei confronti della rigida ritualità giapponese, o Tanpopo (1986), bi-slacca satira dei costumi nipponici.
A partire dagli anni Ottanta, grazie all'espansione di piccole e medie compagnie di produzione e all'aprirsi di un nuovo mercato rappresentato dai video, si è venuto quindi riformulando un sistema di generi, all'interno del quale hanno esordito cineasti che si sono mossi con notevoli accenti personali nell'ambito dei codici prestabiliti del cinema commerciale. I pinku eiga hanno ritrovato una stagione di fertile invenzione ed è nato il cosiddetto v-cinema (film a esclusivo sfruttamento in videocassetta), vero e proprio circuito alternativo da cui hanno preso le mosse cineasti prolifici come Miike Takashi o Kurosawa Kiyoshi. Si è sviluppato inoltre un interessante filone di film horror, anticipato dalle opere a basso budget di Ishii Sōgo, grande inventore di climi inquietanti e iconoclasti: dalla concitazione punk di Kōkō dai panikku (1976, Panico nel liceo) alla rarefazione di Tenshi no kuzu (1994, noto anche come Angel dust) o di Yume no ginga (1997, noto anche come Labirinth of dream). Mochizuki Rokurō è un altro cineasta che ha trasgredito gli schemi, realizzando molti porno, diversi film di yakuza, fino a opere più distaccate dai generi come il bellissimo Chinpira (2001).
Se negli anni Settanta il genere degli yakuza eiga, film sulle bande della malavita giapponese, appariva caricato di frenetica violenza mediante l'esasperazione delle regole e dei codici di linguaggio (come in Jingi naki tatakai, 1973, Lotta senza codice d'onore, di Fukasaku Kinji), l'esordio negli anni Ottanta di Kitano Takeshi (regista presto acclamato in Occidente e celebre in patria anche come intrattenitore televisivo) con Sono otoko, kyōbō ni tsuki (1989, Attenzione quest'uomo è pericoloso, noto anche come Violent cop), ha segnato il di-spiegarsi, all'interno di questo genere, di una poetica personalissima e di grande forza stilistica, che si è imposta e che si è sviluppata poi in maniera originale per tutti gli anni Novanta.
Un importante fenomeno è stato rappresentato inoltre dai film di animazione, strettamente legati all'universo figurativo e al pubblico dei fumetti (manga). Fra le numerose figure di registi, di particolare importanza si sono rivelati: Miyazaki Hayao, che con Mononoke hime (1997; Principessa Mononoke) ha raggiunto la popolarità mondiale, confermata da Sen to Chihiro no kamikakushi (2001; La città incantata), vincitore nel 2002 dell'Orso d'oro al Festival di Berlino, cartoon dove vengono ricreati elementi folcloristici nipponici; Ōtomo Katsuhiro, autore del post-apocalittico Akira (1988); Kon Satoshi, che con Perfect blue (1998), su disegni di Eguchi Hisashi e animazioni di Hamazu Hideki, ha realizzato un film di straordinaria complessità sul delirio di controllo, giocato su tempi di narrazione che si intrecciano e si invertono in un vorticare di piani.
A partire dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta, con l'apporto di registi quali Yanagimachi Mitsuo, Nagasaki Shun'ichi, Sōmai Shinji, cui si sono aggiunti Oguri Kōhei, Hayashi Kaizō, Kumai Kei, si è consolidato un cinema dalle istanze autoriali al di fuori della predominanza dei generi, alimentato dall'attività di giovani cineasti (tra cui Morita Yoshimitsu, Ishii Sōgo, Aoyama Shinji, Kurosawa Kiyoshi, Tsukamoto Shin'ya, Kawase Naomi) che inizialmente utilizzavano e sperimentavano la tecnica leggera del super 8 per produrre in proprio i loro film.Il confronto con la quotidianità sofferente e con una esperienza dolorosa dell'erotismo testimonia, nelle opere di un autore indipendente e dalla scarna filmografia come Yanagimachi, una condizione di sradicamento apolide, vissuta con intransigenza e con la cupa consapevolezza dell'ineluttabilità della perdita, in un sentimento quasi mitologico della natura. Dagli adolescenti inquieti di Goddo supiido yu! Burakku empororu (1976, noto con il titolo God speed you! Black emperor) ai guaritori ambulanti taiwanesi di Tabi suru Pao janghu (1995, I Pao janghu ambulanti), i personaggi vivono nel paradosso di un rapporto costante ma spossante con la propria identità e la terra di appartenenza, che sia la città, la campagna industrializzata, o la montagna, rifugio e rivelazione di uno stato di miseria. Gli animali uccisi di Ai ni tsuite, Tōkyō (1993, Sull'amore, Tokyo) o di Himatsuri (1985, La festa dei fuochi), i ladri, i giovani teppisti in motocicletta, il contadino tossico di Saraba itoshiki daichi (1982, Addio amata terra natale) sono ombre in fuga di fronte alla morte. E di morte è fatto il cinema di Yanagimachi: di animali, donne e bambini, tutti vittime del meccanismo di un sacrificio impietoso, non preordinato ma inevitabile.Il cinema di Nagasaki parte invece da assunti che risultano legati a un'autorialità di stampo europeo ed elaborati da una messinscena estenuata all'interno del codice dei generi, come in Saigo no doraibu (1992, L'ultimo viaggio), un noir cupo in cui i riferimenti a Double indem-nity (1944) di Billy Wilder si traducono nella distanza e nella flagranza dello sguardo sulla morte e sulla voracità distruttiva della seduzione del denaro. Sōmai con Gyoei no mure (1983, noto con il titolo The catch) e Taifū kurabu (1984, noto con il titolo Typhoon club) ha rielaborato il tempo del piano-sequenza scandito dalla fragilità dei personaggi, che agiscono in un vuoto esistenziale in cui risulta cancellata ogni separazione tra i diversi elementi del set (attori, luci, scenografia, suono ecc.). Scelto come miglior regista del decennio dalla rivista "Kinema junpō", ha poi continuato il suo percorso con opere di notevole complessità, basate su una schizofrenia sensoriale per la quale ciò che si manifesta in una situazione riappare poi sempre sotto spoglie diverse. In questo senso, è esemplare, e impressiona per l'estrema essenzialità, il suo Kazahana (2000, Fiori di vento).Con Shi no toge (1990; L'aculeo della morte), film premiato al Festival di Cannes sull'inevitabile slittamento verso la follia di una coppia, Oguri rivela una tenuta stilistica che richiama il sobrio rigore di Robert Bresson; mentre Hayashi Kaizō, fin dal suo esordio di Yume miru yō ni nemuritai (1986, Dormire come sognare), si è fatto apprezzare dalla critica per l'accurata cinefilia e la plasticità della messinscena. Un caso singolare è quello di Tsukamoto, cineasta sicuro del suo stile, esploso con lo sperimentalismo estremo e colto di Tetsuo (1989) e di Tetsuo II ‒ Body hammer (1992), che ha elaborato un mondo cinematografico fortemente inventivo, capace ogni volta di destrutturare gli stilemi da lui stesso creati. La dissoluzione della sensorialità e l'innesto di immagini in una delirante metamorfosi dei corpi e delle identità rappresentano la cifra entro cui si gioca tutto il cinema di Tsukamoto, fondatore nel 1985 (con Joo Kijo) del Kaijū gekijō (Teatro dei mostri marini), con il quale produrrà una serie di spettacoli e, successivamente, tutti i suoi film, con l'eccezione di Hiruko ‒ Yōkai hantā (1991, noto con il titolo Hiruko the goblin), eccentrica e originale incursione nel film di fantasmi commissionatagli dalla major Shōchiku, e Sōseiji (1999, Gemelli), coprodotto dalla Tōhō.Negli anni Novanta ha avuto un certo sviluppo un cinema più accademicamente d'autore, con registi le cui opere sono state presentate in festival internazionali, come Koreeda Hirokazu, Aoyama Shinji, Suwa Nobuhiro, Kumakiri Kazuyoshi (vincitore del Festival di Taormina nel 1998 con il suo film d'esordio, Kichiku daienkai, 1997, La grande festa del diavolo), e Kawase Naomi, autrice di un cinema in bilico tra evanescenza, immediatezza diaristica e distanza documentaristica, che in Moe no Suzaku (1997; Suzaku, premio Caméra d'or al Festival di Cannes) e in Hotaru (2000, Lucciole) intesse ossessivamente le trame di una memoria che appare proiezione e al contempo sospensione del proprio vissuto autobiografico.Anche nel cinema di Kurosawa Kiyoshi si avverte un degrado della memoria come evanescenza del vissuto e illusione del vedere. Autore eclettico di una foltissima filmografia (al pari di Miike Takashi, che però rimane all'interno del cinema di genere anche se con un gusto ambiguamente parodistico), tra le sue opere sono da ricordare almeno la serie Katte ni shiyagare! (Arrangiati o sparati!, sei film girati tra il 1996 e il 1997); Cure ‒ Kyua (1997), un horror metafisico giocato sulla dispersione della narrazione, dissolta nell'intrico delle immagini; e infine il dittico Shura no gokudō/Shura no ōkami (1998, La via violenta dei demoni guerrieri/Il lupo dei demoni guerrieri), incursioni colte nel genere poliziesco.Figura di spicco dell'ultima ondata di cineasti degli anni Novanta si è rivelato il produttore Sentō Takenori, che ha promosso, soprattutto all'estero, molto cinema indipendente, da Helpless (1996) ed Eureka (2000) di Aoyama, a Moe no Suzaku di Kawase, da alcuni film di Ishii Sōgo, all'horror Ring (1998) di Nakata Hideo.L'onda lunga che parte dalla Nuberu bagu degli anni Sessanta ha portato nel cinema giapponese dell'ultimo ventennio del Novecento, insieme a un gusto dell'eccesso (nell'ambito di un dominio totale della riproduzione per immagini, appannaggio della società nipponica contemporanea), anche una sorta di 'insicurezza dell'immagine' che rende problematica, nella fragilità come nella violenza, una visione del mondo condivisa universalmente. Questa poetica dell'eccesso è riscontrabile nelle estenuanti escursioni temporali di Suwa Nobuhiro, Koreeda Hirokazu, Aoyama o Kurosawa Kiyo-shi, così come nella concitata velocità del dittico Tetsuo e nelle messinscene sovraccariche di Ishii Takashi o Ishii Sōgo. Il senso di insicurezza delle immagini ha pervaso quindi le correnti degli anni Ottanta e Novanta e degli inizi del 21° sec. (da Sōmai, Nagasaki e Tsukamoto, fino a Kawase, Koreeda, Suwa), racchiuso nell'esplorazione del vuoto esistenziale come nell'allarmante sgretolamento dei corpi e delle identità.
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