Bruno, Giordano
Filosofo (Nola 1548 - Roma 1600).
Filippo della famiglia dei Bruni assunse il nome di Giordano (che avrebbe poi sempre mantenuto) quando vestì a 17 anni l’abito domenicano nel convento di S. Domenico Maggiore a Napoli. In questo convento trascorse la maggior parte dei suoi anni di chiostro come novizio, professo (1566), sacerdote (1573) e dottore in teologia (1575); spirito irrequieto e ribelle, acquisì uno straordinario sapere leggendo avidamente e meditando poeti, scienziati e filosofi, ortodossi ed eretici, la letteratura ermetica, magica, astrologica e cabalistica; di alcuni autori in partic. subì il fascino: Eraclito, Parmenide, Lucrezio, Plotino, Lullo, Cusano, Ficino, Pico e Copernico. Da queste letture, dopo l’iniziale adesione a metafisica e cosmologia aristoteliche, B. fu spinto all’inquieta ricerca di nuovi orientamenti. Nel 1576, sospettato di eresia, riparò a Roma, di qui, deposto l’abito ecclesiastico, errò di città in città; fu a Ginevra (1579), dove per alcuni mesi abbracciò il calvinismo, a Tolosa e a Parigi, dove, grazie alle sue eccezionali conoscenze mnemotecniche e lulliane, si mise in luce alla corte di Enrico III che gli conferì un lettorato di filosofia alla Sorbona. A Parigi, nel 1582 pubblicò, oltre alla commedia il Candelaio, tre scritti (De umbris idearum, Cantus circaeus e De compendiosa architectura et complemento artis Lullii) nei quali espone le due tanto vantate arti combinatoria e mnemotecnica. La prima, o arte lulliana, intende risolvere un problema logico-metafisico: costruire il sistema delle relazioni fra le idee, nella convinzione, di matrice platonica, che ciò significhi costruire il sistema del reale; a tal fine essa procede per mezzo di tavole e figure: determinando gli elementi primi del pensiero (soggetti e predicati) che rappresenta con lettere (alfabeto della grande arte) in una specie di tavola pitagorica, e poi inscrive in triangoli e circoli, fatti rotare per trarne le varie combinazioni (sillabario e dizionario dell’arte). Il meccanismo dell’arte combinatoria viene applicato da B. anche all’arte della memoria (e più tardi anche all’ars venatoria o inventiva). Nella mnemotecnica si tratta di risolvere il problema della memoria fondandosi sulle leggi dell’associazione; ma B., nel ricorrere per le idee all’unione con immagini sensibili, si basa su un principio filosofico: che le nostre idee, ombre delle idee eterne, sono, come queste, legate tra loro in una lunga catena e si illuminano a vicenda, perché unica è la luce che in tutte risplende. Ospite dell’ambasciatore francese, B. passò quindi in Inghilterra (1583-1585); qui, in un ambiente aperto ai nuovi stimoli culturali, visse anni di fervida attività creativa nei quali iniziò a pubblicare le prime opere strettamente filosofiche: a Londra apparvero, con il finto luogo di Parigi e di Venezia, La cena de le Ceneri, De la causa, principio et uno, De l’infinito universo et mondi, Spaccio de la bestia trionfante (1584); Cabala del cavallo pegaseo. Con l’aggiunta dell’asino cillenico, e De gl’heroici furori (1585). La cena e De l’infinito presentano, contro la cosmologia geocentrica, la visione di un Universo infinito dedotta dalla cosmologia copernicana e dal principio dell’infinità divina; in seguito, nel De la causa, dall’unità del primo principio divino e dell’anima universale, che tutto muove e governa, B. giunge all’unità divina dell’infinita natura; nello Spaccio, infine, applicando all’uomo, specchio dell’Universo, l’immanenza del divino, definisce un percorso di «purgazione» morale, che, esaltando lavoro, giustizia e amore come i principi etici fondamentali dell’umanità, conduce lo spirito all’unità più profonda con l’universalità divina. A questa meta, che si realizza solo nella contemplazione della verità, si arriva (come viene illustrato nella Cabala e nell’Asino) liberando la via dall’ostacolo della «santa asinità» (cioè la pedanteria), nemica dell’investigazione del vero; gli Eroici furori, infine, fanno percorrere la scala ascendente della conoscenza e dell’amore fino alla visione dell’infinita natura, nella cui unità la mente ritrova Dio e in lui s’immedesima. Durante il soggiorno inglese, per alcuni mesi (1583) B. fu a Oxford, ma dopo poche lezioni nelle quali espose il nucleo centrale della sua cosmologia e ontologia (che avrebbe poi presentato nei dialoghi italiani), fu accusato di plagio e sospeso dall’insegnamento. Tornato a Parigi nel 1585, trovò un clima culturale minato da profonde tensioni religiose e dopo poco decise di ripartire. Nell’agosto del 1586 passò in Germania e, dopo continui spostamenti da Magonza a Wittenberg, da Praga a Helmsted e a Zurigo, tra il 1590 e 1591 pubblicò tre poemi latini (De triplici minimo et mensura, De monade, numero et figura, De immenso et innumerabilibus) a Francoforte. In questa città (1591) gli arrivò l’invito di un patrizio veneziano, G. Mocenigo, che intendeva farsi insegnare da lui la mnemotecnica, e forse la magia; si recò pertanto a Venezia, dove però poco dopo fu denunziato come eretico dal suo ospite, probabilmente insoddisfatto di non essere riuscito a carpirgli insegnamenti magici e reso diffidente dagli atteggiamenti ereticali del filosofo. Nel 1592 venne arrestato dall’Inquisizione e processato. Si dichiarò disposto a fare ammenda, ma, trasferito all’Inquisizione di Roma (1593), e sottoposto a un nuovo processo che durò sette anni, rifiutò di ritrattarsi, e fu come eretico condannato al rogo, che affrontò con coraggio a Roma in Campo de’ Fiori.
Il pensiero di B., in continuo fermento, ricco di presentimenti e di novità, è pervaso da una forte tensione e animato da un’eloquenza piena di entusiasmo e spesso lirica. Lo sviluppo di tale pensiero, originale e affascinante, va colto nel contesto dei due grandi eventi che stavano portando alla crisi della cultura europea nel passaggio tra Cinquecento e Seicento: la rivoluzione copernicana e la Riforma. B. accettò infatti entusiasticamente la teoria eliocentrica di Copernico e seguì con interesse le scoperte di Tycho Brahe sulle comete, e, d’altro canto, si interessò costantemente, fin dai tempi napoletani, al pensiero riformato. Dopo l’iniziale ribellione alla cultura aristotelico-scolastica, accusata di pedanteria, B. si era in un primo tempo avvicinato al materialismo atomistico di Democrito e degli epicurei, ma, forte dei suoi studi sul neoplatonismo e insoddisfatto di una visione troppo schematica della realtà naturale, finì per approdare a un naturalismo potentemente rafforzato dalla convinzione che ogni momento di tale realtà è ordinato e sorretto da una forza vivente. B., infatti, prescinde da una speculazione di tipo teologico e incentra la sua indagine sul mondo della natura, nel quale soltanto si può trovare la presenza del divino, che appunto con tale realtà si identifica. Nel dialogo La cena de le Ceneri, in cui si racconta di una disputa il cui protagonista è il Nolano (cioè scopertamente lo stesso B.), questi espone una nuova cosmologia che porta alle estreme conseguenze le scoperte scientifiche di Copernico, innestandole su una concezione dell’Universo di matrice ficiniana e cusaniana: il cielo è pervaso di materia e di vita, è uno spazio sconfinato che ospita la moltitudine degli astri. Il cosmo è infatti «infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore», cioè il mondo è infinito per effetto dell’infinita potenza di Dio, e negare l’infinità del primo significa negare l’infinità del secondo. La caduta della concezione geocentrica aristotelica sotto i colpi di Copernico e il conseguente rivolgimento dell’assetto cosmologico a favore della centralità del Sole portano B. a una comprensione fondamentale: se la Terra non è un corpo immobile al centro dell’Universo, ma si muove attorno al Sole determinando un’orbita al pari di altri, allora è un corpo celeste come tanti, e neppure può reggersi la concezione del cielo come luogo finito; l’Universo è dunque uno spazio infinito con un numero infinito di mondi e di astri. Viene a cadere la separazione tra mondo celeste e mondo sublunare, e quindi tra fisica celeste e fisica terrestre: gli stessi principi devono regolare l’Universo infinito, privo di centro e di circonferenza, e il divenire cosmico. Il movimento della vita, continuo e inesauribile, rimanda all’infinità degli spazi: «Ogni cosa partecipa de vita… e quando veggiamo alcuna cosa che se dice morire, non doviamo tanto credere quella morire, quanto che la si muta, e cessa quella accidentale composizione e concordia, rimanendo le cose che quella [la morte] incorreno sempre immortali».
L’Universo, infinito e animato, discende da un principio unico, eterno e immutabile. Così, riprendendo la dottrina neoplatonica, B. accentua già nel De umbris l’affermazione dell’unità del principio che tutto eternamente anima, nella molteplicità e mutevolezza delle cose singole; e viene delineando quella filosofia monistica, grazie alla quale (dice nella dedica del Candelaio) «l’animo mi s’aggrandisse e me si magnifica l’intelletto». La dottrina dell’infinità dell’Universo, che B. presenta nella Cena, nel De l’infinito e nel De immenso è da lui esaltata al massimo: nella sua ardimentosa visione si dissolvono le sfere cristalline, il centro e la periferia assoluti, i luoghi naturali dei vari elementi, l’opposizione fra cielo e Terra, il motore estrinseco. Come il nostro pensiero procede di spazio in spazio senza fine, così nella realtà si distende uno spazio infinito, in cui centro, circonferenza e ogni altra determinazione sono relativi; e un’infinita materia riempie tutto, mossa dalla stessa infinita causa intrinseca (anima universale), che forma e imprime un moto rotatorio a innumerevoli mondi. Questo cosmo, in cui tutto è vita e le parti si corrispondono l’una all’altra, è retto da un principio vitale, l’intelletto universale (prima e principale facoltà dell’anima del mondo), definito «motore de l’Universo», «artefice interno», «fabro del mondo», che agisce come forma seminale interna. In tale concezione del mondo retto da un’unica forza, che si moltiplica e si rifrange stabilendo connessioni e rimandi da una cosa all’altra, e quindi corrispondenze e consonanze segrete, trova fondamento la magia: il mago è colui che conosce i modi di operare della natura, e pertanto sa dominarne le forze.
Il rapporto tra Dio e il mondo non è quindi il rapporto tra un essere trascendente e un mondo finito, ma è un rapporto che esprime la tensione tra l’infinito assoluto, in cui si identificano atto e potenza e in cui gli opposti coincidono, e l’infinito che si espande e si manifesta nel tempo e nello spazio. B. arriva così a una chiara intuizione della infinità della natura e dei mondi di sapore panteistico: l’uno-Dio, infinito in un solo atto, si riverbera e moltiplica in infinite esistenze attraverso un processo di discesa necessario e immanente alla stessa natura divina. Sicché ovunque Dio è visibile e sensibile; onde religione è il riconoscere Dio ovunque, risalire dalle forme mutevoli alla divinità. Questa religione sottostà – e insieme sovrasta – le religioni storiche, che sono modi diversi di riconoscere Dio, ma anche creazioni ‘politiche’ atte a educare le masse incolte. Il compito della religione per B. è soprattutto morale; di qui la sua preferenza per il cattolicesimo, che riconosce il valore delle opere e il libero arbitrio. La rivelazione divina nelle Scritture non vuol essere insegnamento teorico «come se fusse filosofia», ma fondamento e indirizzo alla norma morale per tutti quelli (e sono i più) che hanno bisogno di un comando e di una sanzione per seguire e operare il bene. Ciò implica che la religione deve essere intesa come principio d’unione e d’amore, e che i saggi devono pragmaticamente aderire alla Chiesa del paese in cui vivono, consapevoli del danno di scismi e di discordie, senza peraltro che la loro libertà debba essere limitata dal giudizio dei teologi. È indispensabile dunque il libero esercizio e la libera espressione del pensiero; ed ecco il nemico più fiero: l’intolleranza e lo spirito di setta, di cui massima rappresentante è per B. la Riforma (Spaccio).
Al senso dell’unità del tutto si riallaccia anche la logica, fortemente legata alla tradizione lulliana. L’Universo va colto nella sua radicale unità, per questo occorre risalire dalle ombre alla luce, cioè dalle ombre delle idee alle idee. Le ombre sono espresse dai segni, i quali si rapportano tra loro secondo l’arte combinatoria che permette di costruire catene e legami tra i segni che rinviano alla struttura del cosmo e la rendono conoscibile. L’arte combinatoria, insieme all’arte della memoria, è contrapposta all’astrattezza della logica scolastica in quanto permette di conoscere e trova l’unità risalendo dalla molteplicità all’uno, ripercorrendo quindi a ritroso i gradi attraverso i quali dall’uno è disceso il molteplice.
Alla metafisica bruniana si salda la sua morale che rompe il determinismo insito nella circolarità di uno e molteplice: il ritorno all’uno è iniziativa e conquista, rottura delle leggi del fato, «impeto razionale», «eroico furore», in cui l’atto conoscitivo è anche atto di libertà. L’etica inizia con la liberazione dai vizi e dai pregiudizi, secondo il programma di riforma esposto nello Spaccio, e celebra poi il trionfo dell’uomo in una prospettiva del tutto mondana, contro ogni etica ascetica e contro la dottrina della predestinazione dei riformati. Il percorso morale dell’uomo culmina nell’eroico furore, quando, libero dalle passioni, egli si converte tutto in Dio: «Doviene un Dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che delle cose divine». L’uomo raggiunge così la sua più vera libertà rientrando nell’armonia del tutto.
Anche nel campo letterario B. è tra coloro che preannunciano, nell’ultimo Cinquecento e nel primo Seicento, la letteratura moderna. Risolutamente, in nome della libertà del poeta e dell’uomo, B. si pone contro le regole letterarie dell’epoca ricavate dalla Poetica di Aristotele, e contro le imitazioni di modelli illustri, in partic. di Petrarca: violenta è la sua satira contro il pedante, cioè contro l’erudizione fine a sé stessa e la letteratura che si appaga di una funzione ornamentale. In un linguaggio rozzo, dialettale, sovente contorto e torrenziale, B. esprime tuttavia, spesso con rara potenza nella satira o nella esaltazione intellettuale, la sua ansia di dignità e di verità.
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