CARAFA, Giovanni Antonio
Nato da Tommaso nei primi anni del XV secolo, si dedicò dapprima alla carriera ecclesiastica, ottenendo nell'anno 1417 la cappellania del castello di Tramonti (Salerno) e successivamente quella di S. Maria nel duomo di Trani. Il C. abbracciò evidentemente la causa aragonese, almeno quando il conflitto fra Renato d'Angiò ed Alfonso d'Aragona si stava evolvendo in favore di quest'ultimo, poiché il 1º apr. 1439 l'Aragonese inviò al papa la richiesta del vescovato di Salerno per il Carafa. In seguito al mancato ottenimento della carica o per un particolare richiamo alla vita secolare, il C. depose subito dopo l'abito talare, rimise tutti i benefizi e si volse agli studi giuridici. Aveva studiato a Napoli e si era sicuramente addottorato prima del 1442. Quando Alfonso d'Aragona conquistò Napoli, il C. ottenne immediatamente la castellania di Castel Capuano, divenendo poi presidente della Sommaria e regio consigliere. Nel 1449 il sovrano giudicò necessario riformare l'ordinamento del Sacro Collegio, che era composto da un presidente, da sette ufficiali collaterali e da altri sette scelti fra i gentiluomini ed i giurisperiti del Regno. Con la riforma i membri di esso furono ridotti in un primo momento a sei, tutti giuristi, e nel dicembre a sette, con l'inclusione del Carafa. Egli divenne in seguito professore nell'università di Napoli ed appare per la prima volta in una lista di insegnanti del 1453 come lettore di diritto civile. Morto Alfonso I (27 giugno 1458), il figlio Ferdinando confermò il C. regio consigliere; ma egli, pur rimanendo dottore del Sacro Collegio, di cui divenne presidente nel 1463, si dimise da questa carica due anni dopo.
Durante la campagna che il re combatté contro Giovanni d'Angiò, giunto nel Regno nel 1459 per intraprenderne la conquista, il C. rimase a Napoli, assistendo con la sua esperienza umana e giuridica Alfonso duca di Calabria. Nello stesso periodo, il 25 ott. 1460, in casa sua, egli, insieme con Francesco Antonio Guindazzo, conferì la laurea all'illustre giurista Andrea Mariconda.
Allontanata la minaccia angioina, Ferdinando si dedicò alla riorganizzazione dell'università di Napoli e il C. ne fu creato vicecancelliere; inoltre nel 1463 il re ordinò che nessuna altra lezione potesse esser tenuta di mattina oltre quella del Carafa. Membro del Collegio dei dottori di diritto, passò negli anni successivi all'insegnamento del diritto canonico. Esercitò evidentemente anche l'avvocatura, poiché difese la contessa Giulia Caracciolo, che, in nome dei figli, Giovanni Cavaniglia, conte di Troia, e Diego, si oppose nel 14-66 alle pretese dei frati di S Francesco a Folloni, di Montella (Avellino), arrivando il 9 ott. 1467 ad una transazione. Il C. insegnò fino al 1480 e nel 1485 divenne consigliere particolare di re Ferdinando.
Nel 1486, conclusasi la rivolta dei baroni, il re lo incaricò insieme con altri consiglieri di istruire il processo contro Francesco Coppola e Antonello Petrucci e i figli di quest'ultimo, Francesco e Giovanni Antonio. Per meglio dire, come appare chiaramente dalla lettera d'incarico inviata loro il 20 agosto dal re, i giudici dovevano dare forma giuridica alla condanna già decisa. Come si sa il processo si concluse il 13 novembre con la condanna, richiesta dai giudici all'unanimità, alla pena capitale degli imputati, dopo la privazione dei beni e delle dignità. Il C. votò per primo, chiedendo, pur appellandosi alla clemenza del sovrano, la massima pena.
Morì il 25 dicembre dello stesso anno. Aveva sposato Caterina d'Acaia, da cui aveva avuto otto figli, fra i quali Domenico, Giovanni Vincenzo, che divenne cavaliere di Malta, Sancia, che sposò Sanframondo dei conti di Cerreto, e Orsina, che sposò il famoso giurista Andrea di Afflitto.
Oltre ai trattati De ambitu e De iubilaeo, a varie repetitiones e ad un commento al codice giustinianeo andati perduti, il C. scrisse il De simonia, stampato a Napoli, lui vivente, nel 1478 o poco dopo (Inv. gen. degli incunaboli, 2509), dal tipografo tedesco Iodoco Hohenstein, che pare avesse seguito le sue lezioni. Nella sua opera il C. riconosce la superiore autorità del papa, ma sostiene che la sua facoltà di vendere le prebende è limitata dal diritto divino e che pertanto egli commette, trasformandosi da amministratore in padrone della Chiesa, un grave peccato. Il trattato del C. non è quindi innovatore, ma si inserisce perfettamente nel quadro dell'attività dei giuristi napoletani del tempo, tutti tesi a convalidare il potere del re ed a limitare invece quelli che potevano contrapporsi al suo.
Fonti e Bibl.: C. Porzio, La congiura de' baroni..., a cura di S. D'Aloe, Napoli 1859, pp. I s., CIII, CVIII-CX, CXX, CXXXV; C. Foucard, Fonti di storia napol. nell'Arch. di Stato di Modena. Descrizione della città..., in Arch. stor. per le prov. napol., II (1877), p. 757; G. Caetani, Regesta chartarum, IV, San Casciano Val di Pesa 1929, pp. 219, 222; V, ibid. 1930, p. 38; J. F. von Schulte, Die Gesch. der Quellen und Literatur des Canonischen Rechts, II, Stuttgart 1877, p. 380; F. Scandone, I Cavaniglia conti di Troia, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., IX (1923), p. 144; R. Filangieri di Candida, L'età aragonese, in Storia della Univers. di Napoli, Napoli 1924, pp. 156, 160, 169, 174, 177 s., 181, 195, 199; P. Gentile, Lo Stato napoletano…, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., XXIII (1937), p. 2; C. De Frede, Studenti ed uomini di leggi a Napoli nel Rinascimento, Napoli 1957, pp. 18 s., 21, 27-29, 44, 46, 63, 67, 85 s., 96 s., 113; F. Elia de Tejadas, Napoles hispanico, I, Madrid 1958, pp. 346, 353-56; P. Litta, Le fam. celebri italiane,sub voce Carafa, tav. XV; Repert. fontium hist. Medii Aevi, III, p. 129.