Boccaccio, Giovanni
Il famoso autore del Decameron (1313-1375) segna, con la sua attività di dantista, un momento fondamentale e per vari aspetti unico nella storia della fortuna di Dante. Il B. è, con i figli del poeta, il più notevole conoscitore per tutto il sec. XIV delle opere dantesche: i cui echi sono fittamente presenti in tutti i suoi scritti, dal primo tentativo giovanile, la Caccia di Diana, in terzine, al Filostrato, al Filocolo, al Teseida, all'Amorosa Visione, fino allo stesso Decameron, dove molte novelle si illuminano di allusioni a episodi, personaggi, descrizioni della Commedia; per non dire delle opere erudite latine, in cui il ricordo dantesco è spesso presente, e del Buccolicum carmen, alla cui origine, al di là della pressante mediazione petrarchesca, stanno pur sempre le Egloghe di Dante. Piuttosto che di ammirazione converrà dunque parlare di folgorazione, durata tutta la vita. B. fu per eccellenza " il fedele di D. ": il maestro (egli proclamava) " dal qual io / tengo ogni ben, se nullo in me sen posa " (Amor. Vis. VI 2-3); e presso gli amici e i letterati egli si fece banditore della grandezza dell'Alighieri: anche presso il Petrarca (al proposito assai riservato), al quale inviò in dono una copia della Commedia accompagnandola con il carme Ytaliae iam certus honos in cui sollecitava il poeta glorioso e laureato a leggere con simpatia e apprezzamento i versi di chi, benché grandissimo, in vita anziché onori aveva conosciuto solo l'amarezza dell'esilio. Pur aderendo fervidamente alle nuove impostazioni culturali dell'amico e maestro Petrarca, il B. continuò sempre con uguale slancio ad amare e ammirare D.; e in un codice di suo pugno, accanto a opere dantesche sono trascritti i Rerum vulgarium fragmenta, in un accostamento che si può definire emblematico. Questa sua fedeltà a entrambi quei grandissimi, che pur rappresentavano due vie, tanto diverse se non antitetiche, non solo costituisce un titolo d'onore all'intelligenza e alla sensibilità del nostro massimo prosatore, ma rappresenta un momento centrale della nostra storia letteraria, il seme stesso del futuro " culto delle tre corone " in cui il B. sarà onorato accanto ai due poeti tanto da lui venerati.
Come copista ed ‛ editore ' della Commedia - che corredò di un " argomento " in terza rima per ciascuna cantica e di una breve rubrica riassuntiva in prosa per ogni canto -, della Vita Nuova, di parte delle Rime, e soprattutto delle Egloghe e di alcune Epistole, il B. occupa nella tradizione manoscritta delle opere dantesche un posto notevole, e in qualche caso decisivo. Tre epistole dantesche - la III (a Cino da Pistoia), la XI (ai cardinali italiani) e la XII (all'amico fiorentino) - ci sono state salvate unicamente nello Zibaldone Laurenziano Plut. XXIX 8, un manoscritto di servizio autografo del B.; e in quel medesimo Zibaldone è trascritta altresì l'intera corrispondenza eglogistica di D. con Giovanni del Virgilio (nonché l'egloga di questi al Mussato): le Egloghe però sono attestate anche in altri pochi codici (non tutti riconducibili all'archetipo boccacciano). La singolarità di tale tradizione, oltremodo esigua, ha indotto anche di recente taluno a negare, in verità con più fantasia che senno, l'autenticità delle Egloghe e ad attribuirle invece a falsificazione del B. (la medesima epistola ai cardinali non è rimasta immune da tale dubbio): ancorché la paternità dantesca di quegli scritti sia lampante, ed elementi oggettivi (errori di trascrizione, diversità di forme grafiche, ecc.) assicurino che il copista non può essere egli l'autore di quei versi. La copia boccacciana delle Egloghe è poi particolarmente importante per essere corredata da numerose chiose, lessicali (alcune si direbbero appunti di scuola), interpretative (non sempre esatte; alcune paiono non essere del B., che si sarebbe pertanto limitato a trascriverle), informative : queste forniscono preziosissime indicazioni sull'identità delle persone cui si allude dietro i nomi pastorali e gettano qualche luce sugli ultimi anni di vita del poeta. Commedia, Vita Nuova e quindici canzoni (L, LXVII, LXXIX, LXXXI, LXXXII, LXXXIII, XC, XCI, C, CI, CII, CIII, CIV, CVI, CXVI, secondo l'ordinamento del Barbi) sono invece esemplate in vari codici boccacciani, avendole il B. trascritte di propria mano più volte. Mentre non mancano indizi che fanno pensare ad altre copie di quelle stesse opere di mano del B. andate perdute (il Barbi ha stabilito l'esistenza almeno di una silloge simile a quelle pervenute, cui era premessa la seconda redazione della biografia dantesca scritta dal B.), i manoscritti noti formano già un gruppo alquanto nutrito:
1) Vaticano lat. 3199, contenente la Commedia preceduta dai carme Ytaliae iam certus honos (la redazione). È l'unico dei codici qui elencati a non essere autografo del B.; ma dal B. fu inviato in dono al Petrarca tra l'estate del 1351 e il maggio del 1353. Cfr. G. Vandelli, Il Boccaccio editore di Dante, in " Atti Accad. Crusca " 1921-22, 62; G. Petrocchi, L'antica tradizione manoscritta della ‛ Commedia ', in " Studi d. " XXXIV (1957) 33-34; Id., Introduzione all'ediz. della Commedia, 89-91.
2) Toledano 104 6, contenente la biografia dantesca scritta dal B. (Ia redazione), la Vita Nuova, la Commedia con gli Argomenti in terza rima del B., quindici canzoni dantesche. Cfr. Vandelli, art. cit., 63-78; Barbi, Introduzione all'ediz. della Vita Nuova, LXIV-LXV. Secondo il Billanovich, Prime ricerche dantesche, Roma 1947, 56, la trascrizione è probabilmente del 1357-59 (il Petrocchi, Introduzione 89, pensa invece a una decina d'anni dopo); il Ricci, Studi sulle opere latine e volgari del Boccaccio, Milano-Napoli 1968, sulla base dell'analisi della scrittura la anticipa al 1352-56).
3) Riccardiano 1035, contenente la Commedia (parziale, per la caduta di alcune carte) con gli Argomenti in terza rima del B., le medesime quindici canzoni dantesche nello stesso ordine che nel Toledano. Cfr. S. Morpurgo, I manoscritti della R. Biblioteca Riccardiana di Firenze, Roma 1900, 28-29. Fu composto vari anni dopo il Toledano e poco prima dei Chigiani: Vandelli, art. cit., 79-80; il Ricci, op. cit., indica gli anni 1360-63.
4) Chigiano L V 176, contenente la biografia dantesca del B. (IIIa redazione), la Vita Nuova, la canzone Donna me prega del Cavalcanti con la glossa garbiana, il carme del B. Ytaliae iam certus honos (IIa redazione), le solite quindici canzoni nel medesimo ordine, il Fragmentorum liber del Petrarca (secondo l'ordinamento del 1359). È un codice composito, formato di tre parti diverse e giustapposte, copiate in epoche diverse e poi rilegate insieme; la sezione dantesca è la più antica: cfr. P.G. Ricci, Svolgimento della grafia del B., in V. Branca-P.G. Ricci, Un autografo del Decameron (codice Hamilton 90), Padova 1962, 60. Secondo il Barbi, seguito dagli altri studiosi, il codice doveva costituire un tutt'uno con l'altro Chigiano; è databile tra il 1360 e il 1370: Barbi, Introduzione, cit, XXII-XXV; D. De Robertis, in " Studi d. " XLII (1965) 448-450; secondo il Ricci, Studi, cit., tra il 1363 e il 1368 circa.
5) Chigiano L VI 213, contenente la Commedia con gli Argomenti in terza rima e con le rubriche in prosa del B.: cfr. G. Vandelli, Le rubriche dantesche del B. pubblicate di su l'autografo Chigiano, Firenze 1908; Id., art. cit., 80-82. Per il Petrocchi, sarebbe stato trascritto dal B. poco avanti la sua nomina a lettore di D. (agosto 1373): L'antica tradizione, cit., 13 n. 3; Introduzione, 18; il Ricci, Studi, cit., gli assegna la medesima datazione del precedente.
Queste ripetute trascrizioni, che si affollano dunque negli ultimi vent'anni di vita del B., hanno creato un corpus dantesco che ha goduto di notevole fortuna ritrovandosi, interamente o parzialmente, ripetuto in manoscritti posteriori.
La silloge delle quindici canzoni divenne per opera del B. canonica, fissando un nuovo ordinamento che prevalse nella trasmissione manoscritta, e spicca nell'imponente ma selvosa e frammentaria diffusione delle Rime dantesche. D. De Robertis, che sta attendendo all'Edizione Nazionale di queste, mi anticipa cortesemente che il Chigiano L V 176 con tutta probabilità discende, rappresentandone uno sviluppo, dal Riccardiano, e forma perciò gruppo con questo contro il Toledano; mentre ciascuno dei codici è origine di diverse discendenze (per più particolari precisazioni si rinvia all'apparato di quella edizione). Per la Vita Nuova un intero ramo della tradizione manoscritta è sicuramente riconducibile alle copie di mano del B.; l'elemento più appariscente e singolare vi è dato dall'enucleazione e conseguente spostamento a margine - attuato non senza qualche alterazione anche testuale: cfr. Barbi, Introduzione, cit., XIV-XVI - di quelle ‛ divisioni ' con le quali D. inizia la spiegazione dei propri versi; del quale curioso intervento il B. stesso offre questa spiegazione:
" Maraviglierannosi molti, per quello ch'io advisi, perché io le divisioni de' sonetti non ho nel testo poste, come l'autore del presente libretto le puose; ma a ciò rispondo due essere state le cagioni. La prima, per ciò che le divisioni de' sonetti manifestamente sono dichiarazione di quegli : per che più tosto chiosa appaiono dovere essere che testo... La seconda ragione è che, secondo che io ho già più volte udito ragionare a persone degne di fede, avendo Dante nella sua giovanezza composto questo libello, e poi essendo col tempo nella scienza e nelle operazioni cresciuto, si vergognava d'avere fatto questo, parendogli opera troppo puerile; e tra l'altre cose di che si dolea d'averlo fatto, si ramaricava d'avere inchiuse le divisioni nel testo, forse per quella medesima ragione che muove me; là ond'io non potendolo negli altri emendare, in questo che scritto ho, n'ho voluto sodisfare l'appetito de l'autore ".
Nell'eseguire le trascrizioni della Commedia il B. ebbe probabilmente dinanzi un esemplare affine o gemello (forse uscito dalla medesima bottega fiorentina) del Vaticano lat. 3199; di un altro codice (o forse di due), analogamente non pervenutoci, diverso da quelli citati ma legato a 'loro da indubbie affinità, si servì poi per il commento dantesco (nel quale va segnalata altresì la ricca registrazione di varianti). Più che da copista meccanico il B. si è comportato nelle trascrizioni da ‛ editore ', introducendo talvolta correzioni congetturali e soprattutto, dinanzi all'esistenza di più varianti, cercando di recuperare la lezione corretta; onde egli spesso contamina con lezioni attestate in altri rami della tradizione. L'indagine del curatore del poema (" secondo l'antica vulgata ") per l'Edizione Nazionale, Petrocchi, ha sottolineato questo carattere compromissorio e composito delle copie boccacciane, chiarendo anche come le varianti accolte dal B. risultino nella quasi totalità già attestate (in particolare, nella famiglia del Trivulziano 1080 e dell'Urbinate lat. 366); tanto che il Petrocchi ha ritenuto di poter affermare che l'editio boccacciana taglia nettamente in due la tradizione della Commedia: se da una parte le copie del B. possono considerarsi conclusive di tutto un momento della tradizione manoscritta del poema, dall'altra esse iniziano uno stadio ulteriore, caratterizzato da una più marcata contaminazione del testo. Come editore il B. non fu certo all'altezza dell'amico e maestro Petrarca: più volonteroso che acuto, non di rado pasticcione e superficiale, spesso si trovò a rifiutare la lezione buona, o quella - quanto meno - più difendibile, per una facilmente riconoscibile come deteriore, operando dunque nelle scelte in modo non perspicuo, se non addirittura ingenuo: sicché le sue ‛ edizioni ', attestanti il grado di inestricabile contaminazione cui era ormai giunto il testo dantesco, interessano non tanto per i risultati oggettivi, quanto per l'influenza non trascurabile che hanno avuto nella storia della tradizione della Commedia.
Naturalmente il B. non conobbe solo quelle opere di cui ci è rimasta la sua trascrizione, poiché ebbe certamente tra mano il Convivio, il De vulgari Eloquentia, la Monarchia (la descrizione dettagliata di queste opere, quale si ritrova nella biografia dantesca scritta dal B., ci assicura infatti della conoscenza diretta; e cfr. Teseida XII 84, 6-8 con VE II II 10), mentre gli evidenti echi che punteggiano i suoi versi rivelano la sicura frequentazione di varie rime dantesche oltre alle canzoni. E anche verisimile che il B. abbia posseduto (o trascritto) copia di altre epistole, oltre alle tre dello Zibaldone: certamente almeno quella a Moroello Malaspina (IV), di cui alcune frasi sono puntualmente riprese nella Mavortis milex, e probabilmente quella ad Arrigo (VII), cui pare riferirsi nella biografia. Anzi lo Zenatti (Dante e Firenze, pp. 458-462) ha avanzato l'ipotesi che l'altra preziosa raccolta di epistole dantesche, quella di Francesco Piendibeni nel Vaticano Pal. 1729, dove si ritrovano tutte le epistole a noi note meno proprio le tre trascritte dal B. nello Zibaldone Laurenziano (nonché l'epistola a Cangrande, che ha avuto una diffusione del tutto particolare), sia derivata da un esemplare boccacciano oggi perduto. Si tratta però di mera ipotesi non documentata e per vari motivi dubbia (il testo dell'epistola a Moroello ripreso dal B. presenta alcune lezioni deteriori contro le esatte del Vaticano Pal. 1729, e viceversa; e F. Mazzoni, che sta curando l'Edizione Nazionale delle Opere latine minori, promette di documentare l'ascendenza casentinese della raccolta del Piendibeni). Infine il B. usufruì nel commento dantesco della seconda parte dell'epistola a Cangrande (XIII), della quale però ignorò anch'egli la paternità. Non accenna invece mai al De Situ et forma aquae et terrae e tace assolutamente del Fiore e del Detto.
Già a Napoli, ma poi particolarmente a Firenze e in Romagna, il B. ebbe modo di accostare persone che avevano conosciuto (o dichiaravano di aver conosciuto) D.: concittadini, come Giovanni Villani; amici, come Cino da Pistoia; discepoli, come Piero di Giardino; parenti, come Andrea di Leone Poggi. Da questi e da quelli egli raccolse dicerie, voci, notizie, che poi confluirono tutte nella biografia che egli stese qualche tempo dopo il giugno del 1351 (la seconda redazione, più stringata, è del 1360 circa; successivamente fu ancora leggermente ritoccata). Il De Origine vita studiis et moribus viri clarissimi Dantis Aligerii fiorentini poetae illustris et de operibus compositis ab eodem è la prima biografia di D. - eccezion fatta per il capitoletto della Cronica del Villani (IX 135) e per le scarse notizie registrate dai primissimi commentatori della Commedia -, e certamente, con quella quattrocentesca del Bruni, la più importante; e ha goduto di una diffusione imponente, introducendo spesso la Commedia sia nei manoscritti sia nelle stampe. Ancor oggi viene ripetutamente ripubblicata. Fu il frutto di una ricerca entusiasta e non episodica, che spinge talvolta il B., " curiosus inquisitor ", persino nei luoghi stessi cui accennava D. nel suo poema; ma dominata dalla medesima ingenuità critica di cui s'è detto a proposito delle ‛ edizioni ': poiché il B. raccolse insieme il certo e l'incerto, il documento e la diceria, il vero e il fantasioso. Una delle notizie più curiose e sconcertanti (il ritrovamento in Firenze dei primi sette canti dell'Inferno poco dopo l'esilio del poeta) registrate e avallate nel De Origine vita, ecc., verrà poi riferita dal B. con serie riserve nel più tardo commento alla Commedia (dove egli appare animato da maggiori scrupoli critici): lì nomina le due persone che gli hanno narrato quel fatto, un amico e un nipote di D., le quali pertanto meriterebbero fiducia, e tuttavia non tace di nutrire forti perplessità di cui espone le ragioni; e ciò, se dimostra da un lato la frettolosità acritica con cui nel De Origine vita, ecc. è stata subito accolta ogni notizia, dall'altro depone a favore della fondamentale onestà di ricercatore del B., che alcuni studiosi in vari tempi hanno accusato di aver inventato (e addirittura falsificato) molti dati. La superficialità critica che presiedette alla raccolta delle notizie è attestata da particolari poco verisimili (ad esempio, il tanto discusso viaggio di D. a Parigi: notizia che peraltro il B. riprende dalla Cronica del Villani), ed è limpidamente denunciata da indubitabili errori cronologici (ad esempio, il De vulgari, che fu scritto tra il 1303 e il 1304, secondo il B. sarebbe stato composto " già vicino alla sua morte "); ma molte altre notizie, e non di scarso momento, si sono invece rivelate nella sostanza esatte: e basterà ricordare per tutte l'identificazione di Beatrice in Bice Portinari, indicatagli - lo dirà nel commento - da " fededegna persona " (probabilmente monna Lippa de' Mardoli, madre della sua matrigna e cugina in secondo grado di Beatrice), identificazione che è confermata da Pietro Alighieri.
Il De Origine vita, ecc. è - secondo la definizione del B. stesso - un " trattatello in laude di D. " e dunque il biografo inscrive le notizie in un contesto retorico, adornandole, infiorandole, cingendole talvolta dell'atmosfera del meraviglioso, nel tentativo di nobilitare D. attraverso genealogie immaginarie e altrettanto immaginari eventi miracolosi (il sogno della madre partoriente, ecc.), come suggerivano i modelli illustri delle biografie virgiliane di Servio e di Donato. Il biografismo rinasce con il B., e rinasce appunto come genere letterario sottoposto a precise istanze retoriche, e non senza qualche influsso, per quanto fioco, della fiorente tradizione agiografica. Si inseriscono poi, nel De Origine vita, ecc., motivi cari alla nuova cultura umanistica, cui il B. in quegli anni andava accostandosi sempre più fervidamente: di qui l'ampia digressione in difesa della poesia, il retorico biasimo degl'impegni familiari che distoglierebbero il letterato dagli studi, la recriminazione contro l'impegno politico del letterato e in particolare di D.: non tanto in nome del guelfismo, quanto perché le vicissitudini dell'esilio avrebbero tolto al poeta la pace e la tranquillità tanto necessarie a chi fa opera di poesia. Prendendo spunto dall'intelaiatura retorica di questa operetta qualche studioso ha ritenuto di dover rifiutare questa o quella notizia avallata dal B. non perché frutto di erronea informazione, bensì come vera e propria invenzione del B. a fini retorici. Questa tesi è stata particolarmente sviluppata con molto acume e dottrina da G. Billanovich, il quale al proposito parla di " leggenda dantesca del B. ": in particolare alcuni dati sarebbero stati inventati dal B. non solo per motivi agiografici e retorici ma anche per giustificare il poeta dall'accusa ricorrente di avere scritto la Commedia in volgare e non nella lingua letteraria per eccellenza, il latino. Alla base di questa interpretazione, sostenuta tanto autorevolmente, sta la convinzione che una delle fonti del De Origine vita, ecc., e cioè la cosiddetta Epistola di Ilaro (v. ILARO), che si ritrova esclusivamente nello Zibaldone Laurenziano del B., in realtà sia stata composta dallo stesso certaldese. La tesi del Billanovich è oggi accettata dai più; benché occorra allora ammettere che il B. sarebbe sconfinato dall'adornamento retorico e letterario alla deliberata falsificazione in piena ed evidente malafede (quando, oltretutto, l'epoca delle falsificazioni era ancora di là da venire): tanto più che le notizie indicate come frutto di invenzione (l'inizio in latino della Commedia, la dedica della prima cantica a Uguccione della Faggiuola e il proposito di dedicare le altre due a Moroello Malaspina e a Federico III re di Sicilia) vengono ripetute dal B. anche nel commento, dove, come si è detto, egli invece taglia via decisamente i fronzoli retorici e tende a filtrare criticamente le notizie già raccolte nel De Origine vita, ecc. All'estensore di questa voce pare fermamente che la falsificazione mal si adatti alla mentalilà del B. erudito, a quelle sue ricerche minuziose, persino a quella faciloneria con la quale egli accolse ogni notizia anche se scarsamente verosimile o contraddittoria.
Già nel 1350, divenuto esponente indiscusso e autorevole della cultura fiorentina e stimato profondo conoscitore di D., al B. era stato affidato dalla Compagnia di Or San Michele l'incarico di consegnare in Ravenna a suor Beatrice, figlia di D., dieci fiorini d'oro a titolo di omaggio e di risarcimento simbolico della confisca dei beni decretata ormai quasi mezzo secolo prima dal comune fiorentino ai danni del poeta esule (gesto riparatore sollecitato probabilmente dallo stesso B., consigliere autorevole di quella Compagnia). Perciò, quando nel giugno 1373 una petizione di alcuni cittadini ai priori delle arti e al gonfaloniere di giustizia richiese la pubblica lettura del " libro che volgarmente si chiama el Dante ", da tenersi per un solo anno tutti i giorni tranne i festivi, il prescelto non poté essere che il più appassionato lettore e biografo dell'Alighieri. Lo stipendio fu pagato a partire dal 18 ottobre, e la lettura iniziò domenica 23, nella chiesa di Santo Stefano in Badia. Il pubblico era in gran parte popolare, ma accorsero ad ascoltare il B. anche uomini colti, teologi e letterati: tra questi Benvenuto da Imola, che di quelle lezioni (ma non dell'opera scritta) e delle conversazioni amichevoli intercorse per l'occasione si avvalse poi per il suo fortunato commento dantesco. Dopo una sessantina di lezioni (presumibilmente nel gennaio 1374) la lettura fu tuttavia interrotta per una noiosa malattia del docente, dalla quale egli non si risollevò più. Del resto da marzo a settembre infuriò in Firenze la peste, e la continuazione delle lezioni sarebbe stata comunque problematica : e forse questo è il motivo per cui la seconda metà dello stipendio fu ugualmente versata al B. nel settembre 1374. Il 21 dicembre 1375 il B. si spegneva a Certaldo senza aver più ripreso quelle letture, e senza neppure aver portato innanzi l'opera scritta che egli era venuto stendendo attorno agli appunti per le lezioni : le Esposizioni sopra la Comedìa si fermano appunto bruscamente ai primi versi del canto XVII dell'Inferno, e conservano un carattere di opera ancora in fieri, di stesura affrettata e provvisoria, di raccolta di materiali con squilibri notevoli tra parte e parte e tra i primi canti, più ricchi ed elaborati, e gli ultimi, con appunti che proponevano mutamenti o che indicavano l'intenzione dello scrittore di trattare più ampiamente quell'argomento; sicché alla morte del B. ai quaderni contenenti il commento non fu riconosciuta qualifica di libro, e sorse perciò lite giudiziaria per il loro possesso (i libri toccando in eredità a fra Martino da Signa, per il convento di S. Spirito). Ciò ne ritardò di qualche anno la diffusione; ma se Benvenuto non poté giovarsene, le Esposizioni furono tenute in grande stima dai commentatori trecenteschi successivi (Buti, Anonimo, Filippo Villani, ma poi anche il Landino), per cedere quindi il passo al dotto e fortunato commento di Benvenuto, che si estendeva a tutta la Commedia, e cadere infine quasi in oblio (la stampa princeps è del 1724).
Accanto alla malattia altri gravi motivi agirono nel B. a determinare la definitiva rinuncia a portare innanzi almeno l'opera scritta. La sorgente cultura umanistica rilanciava allora gl'ideali della cultura e della poesia come beni spirituali riservati all'aristocrazia intellettuale, da preservare dal volgo ignorante e indegno: erano idee che lo stesso B. (anche se in lui si trattò di una convinzione più dichiarata che sentita) aveva fatte proprie in quegli ultimi anni. Proprio in nome di quei principi un amico (che il tono reverente dei sonetti responsivi del B. fa ritenere essere persona autorevole, forse alto prelato) gli rimproverò aspramente quella lettura destinata a un pubblico popolare, e il B., fiaccato dalla malattia e moralmente assai depresso, riconobbe di aver davvero commesso un " misfatto ", cui era stato indotto da " vana speranza " di giovare alla cultura, da " vera povertate " e dall' " abbagliato senno delli amici ";
e ammise che la malattia ne era la giusta punizione voluta dal cielo. E una resa senza condizioni; forse l'unico, sommesso tentativo di resistenza è là dove il B. (che sempre esalta D. come anima beata certamente assunta in Paradiso), dinanzi alla probabile insinuazione dell'ignoto corrispondente che il poeta fosse dannato, risponde, non convinto: " dove che 'l si sia ".
Occorre al proposito ricordare come la Commedia nel sec. XIV, accanto alla clamorosa fortuna popolare che ne fece il libro più letto in Italia dopo la Bibbia, abbia conosciuto una fiera opposizione: da parte degli ipercritici di professione, delle famiglie che se ne sentivano direttamente colpite, dei guelfi oltranzisti e soprattutto dei teologi. Nel 1335 il Capitolo fiorentino dei domenicani aveva proibito ai frati di tenere " poeticos libros sive libellos per illum qui Dante nominatur in vulgari compositos ", mentre circa in quello stesso periodo fra Guido Vernani bollava come " vas diabuli " l'autore della Commedia, passando poi a contestare vibratamente le affermazioni della Monarchia. Ma la fortuna della Commedia, nonostante ciò, fu travolgente; l'opposizione si fece quindi più sorda ma non meno decisa. Ai teologi, che criticavano le molte affermazioni di D. che erano o parevano in contrasto col pensiero teologico corrente ma che soprattutto miravano a negare al ‛ poema sacro ' ogni qualsivoglia validità di testo profetico, si allinearono la nuova mentalità e la nuova cultura umanistiche che spazzarono via alcuni pilastri fondamentali della concezione dantesca (e in primo luogo l'interpretazione dell'Eneide come testo, oltre che poetico, storico ed escatologico): la Commedia ne uscì ridimensionata, nel quadro di una lettura che ne sanciva - secondo una linea interpretativa che è sostanzialmente giunta fino a noi - il carattere pressoché esclusivamente letterario, retorico e poetico. Di questo adeguamento del ‛ poema sacro ' ai nuovi intendimenti culturali e alla diversa religiosità (volta ora più a un misticismo moraleggiante che a quel fervore combattivo e riformistico che aveva animato i movimenti spirituali dei secc. XII-XIII) le Esposizioni sono il testimone principale. Il B. nega alla Commedia ogni ispirazione soprannaturale (che invece era ancora rivendicata da Guido da Pisa), e sancisce definitivamente l'esclusiva interpretazione retorico-letteraria del poema, secondo la tendenza già affermatasi in modo sempre più pressante nei commentatori precedenti. Di fronte alla decisa presa di posizione dei teologi e nel rapido mutare di clima culturale era quello uno sbocco obbligato. Rimanevano le singole affermazioni, sparse per tutto il poema, contro le quali si erano accaniti gli avversari del pensiero dantesco: il B. tenta di ribattere a quelle critiche affermando l'ortodossia di questa o quella dichiarazione di D. (ma, non essendosi posto il problema generale in tutte le sue implicanze, finisce non di rado col cadere in contraddizione) o ricorrendo a giustificazioni futili, di cui egli è il primo a non essere persuaso, ma passando anche sotto silenzio punti particolarmente scabrosi o scindendo la propria responsabilità quando l'affermazione dantesca apparisse tale da non consentire dubbi. Il rapido tramonto del mondo della scolastica è qui avvertibile in tutta la sua ampiezza. Il B. proclama appassionatamente la grandezza del ‛ poeta ' D., ma lo abbandona sul terreno del pensiero, che egli tenta di integrare nella nuova cultura, minimizzandone e quindi svalutandone i succhi più corrosivi.
È peraltro notevole la distinzione nel commento boccacciano tra esposizione letterale ed esposizione allegorica (secondo un principio già adottato nella Genealogia): che permette anzitutto al B. di seguire dappresso, senza spezzare troppo il discorso, il testo, sottolineandone e spiegandone fin le minime sfumature, con un'attenzione alla lettera che costituisce uno dei pregi indiscutibili di questo commento; e non poche sono le spiegazioni testuali acute, che fanno delle Esposizioni il frutto più prezioso (ancorché parziale) dell'esegesi trecentesca della Commedia: anche se talvolta il B., inseguendo la propria inclinazione di novelliere interessato alle situazioni melodrammatiche, prende gravi abbagli fraintendendo (come nel caso di Francesca) intere situazioni poetiche. Fin da giovane il B. nutrì particolare predilezione per alcuni aspetti della Commedia, i più esteriori (ma non perciò meno importanti), a scapito degli altri; lo interessarono, più che la problematica mistica e teologica e le ansie per la situazione politico-religiosa (che pur tanta parte sono della Commedia), i drammi che sollecitavano la sua fantasia di narratore, le strane metamorfosi, le allusioni erudite (specie quelle riguardanti il mondo antico), infine " l'artificioso testo, la moltitudine delle istorie, la sublimità de' sensi nascosi sotto il poetico velo ". Ma in realtà il senso allegorico è dal B. ridotto pressoché esclusivamente alle significanze morali, che egli espone diffusamente in lunghe recriminazioni dei vari vizi (del resto richieste esplicitamente dalla stessa petizione, che volle la lettura " tam in fuga vitiorum quam in acquisitione virtutum "): dove, accanto a lunghe casistiche di peccati riprese da testi canonici (non si dimentichi la qualità di chierico del B.), sono pagine di notevole bellezza, soprattutto nell'amara e ironica descrizione della gioventù fiorentina, godereccia ed epicurea. Il tono moralistico imperante in quelle casistiche spinse uno studioso, il Guerri (che non sapeva capacitarsi come l'autore del Decameron potesse avere scritto tali riprensioni " chiesastiche "), a immaginare interpolazioni di un frate, che avrebbero irrimediabilmente compromesso l'autenticità di gran parte del testo pervenutoci; quello stesso tono ‛ chiesastico ' (che peraltro è generale in tutto il commento) è stato poi attribuito da F. Mazzoni ad alcune riprese di chiose che il B. avrebbe operate da un commento anteriore al suo, quello di fra Guido da Pisa. L'indagine filologica ha fatto definitivamente giustizia dell'assurda tesi del Guerri; né è verisimile che uno scrittore autorevole quale il B. possa essere a tal punto influenzato da un commentatore a lui tanto inferiore culturalmente: soprattutto considerando che la presenza di Guido nelle Esposizioni è quantitativamente inferiore a quella di altri commentatori, e che i riscontri addotti indicano per lo più non un rapporto diretto di dipendenza, bensì l'uso indipendente in Guido e nel B. di analoghi testi canonici, e infine che il B., che non nomina mai Guido, ne ricorda qualche ipotesi, solo per licenziarla bruscamente come inaccettabile, trattandolo dunque con molta sufficienza: e si capisce, dacché le prospettive culturali dei due sono quanto mai diverse. Il tono moralistico prevalente nelle Esposizioni non deriva da altri che dal B. stesso: se già nel De Casibus, nel De Mulieribus, nel Corbaccio egli aveva lungamente biasimato i vizi e dissertato sui loro deplorevoli effetti fisici e morali, il commento riflette l'ulteriore involuzione di quegli ultimi anni, dovuta alla stanchezza fisica e morale, alla vecchiaia precoce, solitaria e rustica, dominata dall'idea della morte, al ripiegarsi sugl'ideali religiosi: come attestano le rime contemporanee. Quella stanchezza e quel fervore religioso spingono il B. - che in altri anni aveva orgogliosamente " cognominato Prencipe Galeotto " il suo capolavoro (tanto poco aveva capito la pensosa e amara polemica che è in quel verso dantesco) - a rileggere la Commedia con occhi nuovi, intesi a cogliere più particolarmente i valori anche morali del poema; sicché le Esposizioni non sono solo l'estremo tributo del B. a D., ma rappresentano il momento di maggiore vicinanza spirituale tra i due poeti. Ma intanto nuovi motivi di distacco erano sopravvenuti: se l'enorme erudizione del B. (quale risulta, oltre che dalla Genealogia, anche da questa sua opera estrema, di fondamentale importanza per la storia dell'Umanesimo), pone indubbiamente questo commentatore in una posizione notevolmente più favorevole degli altri esegeti trecenteschi nel determinare le allusioni letterarie e nel chiosare i miti, tuttavia proprio in essa è ravvisabile anche il limite fondamentale delle Esposizioni, ché la cultura perseguita dal B. non è più la cultura di D., gli interessi dell'uno non sono più gli interessi dell'altro: mentre D. costruisce su intuizioni che spesso muovono da un punto di partenza errato, il B. ricerca la verità storica (o quella che gli pare tale) attraverso la collazione delle " auctoritates ". Le Esposizioni segnano dunque una svolta precisa e importante nella storia dell'esegesi dantesca: non solo perché per la ricchezza di notizie biografiche, aneddotiche, erudite esse rappresentarono un termine di paragone cui i commentatori immediatamente posteriori non poterono sfuggire consacrandone perciò i moduli interpretativi, ma soprattutto perché fissarono definitivamente un modo di intendere la Commedia in cui ha prevalso la mentalità umanistica.
Bibl. - Sono in corso di pubblicazione per i ‛ Classici Mondadori ' Tutte le opere di G.B., collana diretta da V. Branca; di interesse dantesco è finora apparso il vol. VI: Esposizioni sopra la Comedia di D., a c. di G. Padoan, Milano 1965. Frattanto gli altri scritti danteschi sono consultabili in: Il Comento alla D.C. e gli altri scritti intorno a D., a c. di D. Guerri, Bari 1918; per la prima redazione del De Origine vita, ecc., l'ediz. Opere in versi. Corbaccio. Trattatello in laude di Dante. Prose latine. Epistole, a c. di P.G. Ricci, Milano-Napoli 1965; e per la seconda: Vita di D., a c. di E. Rostagno, Bologna 1899.
Per i dati biografici del B. e la sua attività erudita: V. Branca, Profilo biografico, nel vol. I di Tutte le opere, cit.; G. Billanovich, Petrarca letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947; P.G. Ricci, Studi sulle opere latine e volgari del B., Milano-Napoli 1968; per gli echi danteschi nel B., oltre alle note nei vari volumi di Tutte le opere, cit.: E.G. Parodi, in " Bull." XXVI (1919) 156; G.R. Silber, The influence of D. and Petrarch on certain of B.'s lyrics, Menasha Wisconsin 1940; E. Buich, B. und D., in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXIII (1941) 36-59; W.P. Friederich, D.'s fame abroad, Roma 1950. Per il B. copista: G. Vandelli, Il B. editore di D., in " Atti Accad. Crusca " 1921-22, 47-95; M. Barbi, Introduzione all'ediz. critica della Vita Nuova, Firenze 1932; G. Billanovich - F. Čáda, Testi bucolici nella biblioteca del B., in " Italia Medioev. e Uman. " IV (1961) 201-221; G. Petrocchi, Introduzione a La Commedia secondo l'antica vulgata, Milano 1966; e per la presunta falsificazione delle Egloghe: A. Rossi, Il carme di Giovanni del Virgilio a D., in " Studi d. " XL (1963) 133-278; Id., ,B. autore della corrispondenza D. - Giovanni del Virgilio, in " Miscell. Stor. Valdelsa " LXIX (1963) 130-172 (ma cfr. la recensione di G. Padoan, in " Studi sul Boccaccio " II [1964] 475-507). Per il B. biografo: O. Zenatti, D. e Firenze, Firenze [1903] ; M. Barbi, Qual'è la seconda redazione della " Vita di D. " del B.?, in " Miscell. Stor. Valdelsa " XXI (1913) 101-141 (rist. in Problemi I 395-428; F. Maggini, Il B. dantista, in " Miscell. Stor. Valdelsa " XXIX (1921) 116-122, poi in Due letture dantesche e altri scritti poco noti, Firenze 1965; G. Ferretti, I due tempi della composizione della D.C., Bari 1935 (anche in Studi danteschi, Firenze 1950); G. Billanovich, Prime ricerche dantesche, Roma 1947, poi La leggenda dantesca del B., in " Studi d. " XXVIII (1949) 45-144; G.I. Lopriore, Le due redazioni del " Trattatello in laude di D. " del B., in " Studi Mediolatini e Volgari " III (1955) 35-60; J.H. Whitfield, D. in B., in The Barlow lectures on D. 1959, Cambridge 1960; A. Rossi, D. nella prospettiva del B., in " Studi d. " XXXVII (1960) 63-139; Id., D., B. e la laurea poetica, in " Paragone " n. 150, 1962, 3-41 (ma cfr. la recensione di G. Padoan, in Studi sul B., I [1963] 517-544). Per il B. commentatore: oltre agli studi complessivi sui commenti trecenteschi (e in particolare: E. Cavallari, La fortuna di D. nel Trecento, Firenze 1921; F. Mazzoni, La critica dantesca del sec. XIV, in " Cultura e Scuola " 13-14 [1965] 285-297) : O. Bacci, Il B. lettore di D., Firenze 1913; P. Toynbee, Index of authors quoted by B. in his Comento ', in " Miscell. Stor. Valdelsa " XXI (1913) 142-174; Id., B.'s commentary on the ‛ D. C. ', in " Modern Language Review " II (1907) 97-120, poi, con aggiunte, in D. Studies, Oxford 1921; D. Guerri, Il Commento del B. a Dante. Limiti della sua autenticità e questioni critiche che n'emergono, Bari 1926 (ma cfr. G. Vandelli, Sull'autenticità del commento di G.B., in " Studi d. " XI [1927] 5-120); L. Fontana, Il culto del B. per D., in " La Rassegna " LILVI(1943-48) 53-120; C. Grabher, Il culto del B. per D. e alcuni aspetti delle sue opere dantesche, in " Studi d. " XXX (1951) 129-156; F. Mazzoni, Guido da Pisa interprete di D. e la sua fortuna presso il B., ibid. XXXV (1958) 29-128; G. Padoan, Per una nuova edizione del Comento' di G.B., ibid. XXXV (1958) 129-249; ID., L'ultima opera di G.B.: le ‛ Esposizioni sopra il Dante ', Padova 1959; C. Grayson, D. and the Renaissance, in Italian Studies presented to E.R. Vincent, Cambridge 1962; G. Padoan, Introduzione all'ediz. cit. delle Esposizioni.