Boccaccio, Giovanni
La vicenda biografica di Giovanni Boccaccio, nato a Certaldo (o a Firenze) nel 1313 da famiglia benestante del contado fiorentino, e morto nello stesso borgo della Valdelsa nel 1375, è di primaria importanza per una piena comprensione dei connotati linguistici della sua opera (Branca 1977; Battaglia Ricci 1995; Surdich 2001).
Dalla lunga dimora a Napoli, ove poté avere fecondi contatti con la corte angioina (1327-1340), e dai successivi soggiorni a Ravenna e a Forlì (1345-1347) deriva la predilezione del volgare nella produzione giovanile di Boccaccio e il suo contesto eminentemente cortese. È del tutto probabile che da tali spostamenti sia venuto anche un contributo decisivo per la consapevolezza linguistica e le capacità di mimesi dialettale esibite nella maggior parte delle sue opere. D’altra parte, verso la frequentazione delle lingue classiche Boccaccio è precocemente spinto dall’assidua conversazione di alcuni grandi maestri del suo tempo: i dotti incontrati presso gli Angiò (quali Cino da Pistoia o l’astronomo Andalò del Negro: Quaglio 1967), i maestri di greco Barlaam calabro e Leonzio Pilato, ma soprattutto ➔ Francesco Petrarca.
La ricostruzione del percorso linguistico e culturale di Boccaccio è sorretta dall’ampia disponibilità di autografi, contenenti sia opere sue proprie sia trascrizioni di altri testi (Auzzas 1973; Cursi 2007): il più noto è il Decameron autografo contenuto nell’Hamilton 90 della Staatsbibliothek di Berlino (Singleton 1974) e rispecchiato in tutte le più recenti edizioni, con il testo dei fascicoli, in esso caduti, supplito grazie al codice Mannelli (Laurenziano XLII 1). Il regesto dei codici trascritti o annotati da Boccaccio è in costante crescita (fino alla recentissima acquisizione del Marziale ambrosiano: cfr. Petoletti 2005; Petaletti 2006) e copre un arco cronologico assai ampio; ai fini dell’indagine linguistica, tuttavia, il campo può restringersi ai manufatti autografi contenenti opere volgari originali, che si elencano con le sigle utilizzate in seguito:
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sigla luogo di conservazione e segnatura contenuti datazione
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LA Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Teseida c. 1348-1350
Acquisti e Doni 325 (con annotazioni in prosa)
TC Toledo, Biblioteca Capitular, ms. 104, 6 Trattatello in laude di Dante c. 1351-1355
(I e più ampia redazione);
argomenti in terza rima
ai canti della Commedia
VC Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Argomenti in terza rima alle c. 1359-1366
L V 176 + L VI 213 cantiche della Commedia;
Trattatello in laude di Dante
(II redazione, compendiata)
FR Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1035 Argomenti in terza rima alle c. 1360
cantiche della Commedia
BH Berlin,Staatsbibliothek, Preussischer Kulturbesitz, Decameron c. 1370-1372
Hamilton 90
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Il panorama sulle scritture volgari autografe di Boccaccio è completato dalla lettera inviata il 20 maggio 1366 a Leonardo del Chiaro e conservata presso l’Archivio di Stato di Perugia (Abbondanza 1962). Anche un autore che coltivava forme raffinate di epistolografia, associate a un elevato tasso di letterarietà, si concede in tal sede scrizioni altrimenti rare come il raddoppiamento fonosintattico variamente rappresentato (oltre a cciò; t’ò ad scrivere; il tratto è presente anche in BH, ma investe perlopiù la liquida; Vitale 2002: 41-42).
Da un passo del Filocolo, Bruni (1990) ha ripreso la fortunata etichetta di letteratura mezzana, che ben si adatta tanto all’orizzonte culturale quanto al circuito di fruizione dell’opera boccacciana: nella produzione volgare di Boccaccio sembra legittimo parlare di due stagioni che precedono e seguono la svolta del Decameron. In quella giovanile e della prima maturità, assai prolifica, si osserva un marcato cultismo tanto nella lingua (e nelle abitudini grafico-fonetiche) quanto nel repertorio letterario di riferimento, elaborato in funzione di un pubblico di gusto cortese. Non sorprende che in tale contesto prevalgano le opere in versi: dalla terza rima impiegata nell’opera di esordio, la Caccia di Diana, composta a Napoli, e nell’Amorosa visione (1340-1341), a vari poemi in ottave, forma codificata se non proprio introdotta da Boccaccio (Gorni 1978; Balduino 1984; Bartoli 1999-2000): il Teseida delle nozze d’Emilia (1339-1340); il Filostrato, di più incerta datazione (c. 1335 o 1340); il Ninfale fiesolano, della metà degli anni Quaranta. Sul versante prosastico, lo sperimentalismo boccacciano produce esiti assai diversi: il Filocolo, romanzo di materia canterina (1336) e la raffinata Elegia di madonna Fiammetta, amplificazione intimistica del modulo ovidiano delle Heroides (c. 1343-1344). Al prosimetro, rappresentato dalla Comedia delle Ninfe fiorentine o Ninfale d’Ameto, (1339-1340), Boccaccio arriva probabilmente dalla frequentazione di Boezio più che dal modello dantesco della Vita Nova (Carrai 2007).
La testimonianza più ampia e attendibile di questa prima fase è il Teseida, pervenutoci autografo in LA, pur di quasi un decennio successivo alla composizione del poema, munito di varie annotazioni marginali in prosa che offrono un prezioso termine di paragone pressoché contemporaneo alla prima stesura dell’opera maggiore (sull’impostazione paragrafematica, gli aspetti di mise en page e l’interazione testo-immagini che caratterizzano il codice, cfr. Malagnini 2006 e 2007).
Nella seconda fase, aperta convenzionalmente con il 1349 che segna l’inizio della composizione del Decameron, la produzione volgare è limitata in quantità e varietà, a vantaggio della letteratura di carattere elitario e di ispirazione erudita. Fra i primi frutti di questa svolta va annoverato l’impegno storiografico e critico sulla vita e l’opera di Dante: in TC Boccaccio trascrive la Vita Nova, le quindici canzoni e la Commedia provvista di argomenti in terza rima alle singole cantiche; lo stesso codice consegna la prima e più ampia redazione della biografia del poeta, il Trattatello in laude di Dante. L’operetta misogina Corbaccio (o Laberinto d’amore) ha datazione discussa, ma comunque compresa tra 1352 e 1355 (Rico 2002); di essa non sono pervenute redazioni autografe, ma la testimonianza del codice Mannelli permette di restituirle una rigorosa struttura trattatistica scandita da rubriche latine (Carrai 2006).
La transizione tra i due momenti è ben rappresentata anche dall’ambito epistolare, dove si passa dalla giocosa finzione della giovanile Epistola napoletana, o Machinta, a Francesco de’ Bardi (con prologo in lingua e successiva, accurata mimesi del dialetto partenopeo: Sabatini 1983) al genere classico della consolatoria, sia pure esperito in volgare, nell’epistola del 1361-1362 a Pino de’ Rossi (cfr. Chiecchi 2005; Branca 1977: 119-121). Sul versante latino, un precoce impegno nell’epistolografia è testimoniato dallo Zibaldone laurenziano (Laurenziano XXIX 8), dove si leggono autografe le Epistole I-IV (Auzzas 1973).
La fase più matura appare caratterizzata, negli esiti volgari, da un minore ossequio a autori e generi preesistenti: a una più marcata esigenza di realismo nella rappresentazione corrisponde una maggiore licenza linguistica tanto in direzione vernacolare quanto in termini di mimesi dialettale. In relazione al Decameron, un parallelo sviluppo sarebbe documentato dall’articolata evoluzione stilistica che separa due diverse e successive redazioni (secondo Branca 1997; Branca 1998; Branca 2002), con la prima di esse rappresentata dal codice P (Parigino Ital. 482). Almeno per quanto riguarda il complesso dei fenomeni fono-morfologici, tuttavia, conviene tener presenti le riserve espresse da Stussi (2003: 336), che parla di «disomogeneità dei termini messi a confronto». Sebbene sia ormai del tutto accantonata l’ipotesi dell’autografia di P (Rossi 1997; Cursi 2000), esso manifesta caratteri grafici, interpuntivi e paragrafematici assai vicini a quelli d’autore.
La maggior parte della produzione letteraria di Boccaccio si colloca in un periodo complesso e problematico per gli sviluppi del fiorentino. Come è ormai accertato (Castellani 1967; Manni 1979; Palermo 1990-1992), molti dei tratti fonomorfologici che ne caratterizzano la varietà quattrocentesca sono in realtà da retrodatare fino ai decenni centrali del Trecento, sia pure con penetrazione diversificata in modo assai complesso, a partire dalle varie tipologie testuali e dalla marcatura sociolinguistica dei singoli fenomeni.
La lingua boccacciana, oltreché caratterizzata da un marcato sperimentalismo e dal multiforme rapporto con i diversi modelli letterari, si dispiega dunque in un’epoca per la quale sarebbe difficile delineare un uso medio anche nel più ristretto ambito cittadino. Alcune deroghe alla norma del più antico fiorentino sono state interpretate come influsso della varietà certaldese (Castellani 2000: 288): il monottongo nelle forme toniche di negare; i frequentissimi senza e denari, in luogo delle forme cittadine sanza e danari; i futuri serà, seranno, ecc., in luogo delle forme in sar- generalizzate a Firenze già alla fine del Duecento (Manni 2003: 276). Per valutare simili aspetti, si dispone di un eccellente termine di paragone nell’uso autografo di un concittadino, pressoché coetaneo e anch’egli inurbato e dedito alla mercatura, Paolo da Certaldo, autore del Libro di buoni costumi. Ebbene, in Paolo si hanno esclusivamente le forme sanza e danari e la serie sarà-saranno, in linea con l’uso di città (Zaccarello 2008). L’uso autografo di Paolo sembra insomma confermare che già all’epoca di Boccaccio la varietà certaldese si deve considerare sostanzialmente allineata al fiorentino (Stussi 1995: 194).
In gran parte dell’opera di Boccaccio l’opzione linguistica risente del gusto della variatio all’interno del singolo passo, e di esigenze di natura estetica, legate a fattori ritmico-fonici: a simili motivazioni si deve la grande incidenza dell’apocope nelle sequenze infinito + clitico + modale: lasciar lo volesse (I, 3 14), trovar ne potesse (I, 4 9), parlar gli volesse (II, 5 11), ecc. (Stussi 1995: 206).
Ciò spiega anche l’alternanza di forme alternative: per es., tra le desinenze concorrenti dell’imperfetto diceva-aveva-vedeva e vincea-prendea (I, 1 11-12; Manni 2003: 277); anche Stussi nota che in alcuni passi convivono a breve distanza le desinenze alternative del perfetto di sesta persona dissero-dissono, fecero-feciono (III, 10 34; Stussi 1995: 202).
L’impressione generale è che le forme argentee più caratterizzate restino al di fuori del tessuto del Decameron anche all’altezza tarda di BH: si hanno sempre le forme tradizionali del fiorentino antico, domane e stamane; i numerali dicessette, dicennove e quelli composti con -milia non -mila; il plurale fratelli non palatalizza; un caso di condizionale di avere con tema ar- è persuasivamente ricondotto a errata interpretazione degli editori (s’ arebbe = sarebbe; Manni 2003: 279-280), ma il futuro di tipo arò, arei è attestato negli autografi boccacciani, sia pure in modo sporadico (Vitale 2002: 161-162).
Le limitate aperture che Boccaccio mostra verso i tipi argentei si concentrano nella morfologia verbale, come il congiuntivo di dare e stare, che ha ancora e tonica come nel più antico fiorentino (dea, stea, deano, steano, ma nella redazione di BH alcuni esempi della variante moderna fanno la loro comparsa: stieno, diangli; Manni 2003: 273) e alcune forme di sesta persona, ove più marcata è la polimorfia: all’imperfetto indicativo, in cui BH fa registrare contenieno, conoscieno, avieno e il frequente venieno (Manni 2003: 274), e nel tipo di perfetto capitorono (Stussi 1995: 202). Quanto alle forme di perfetto, è da sottolineare il netto regresso delle forme arcaiche del tipo perdeo, uscìo, ancora saldamente attestate nel Teseida autografo (Serianni 1993: 474).
Il contesto già delineato rende impossibile descrivere la lingua di Boccaccio in termini statici. Restando al Decameron, la lingua della redazione BH appare più allineata all’uso trecentesco rispetto agli autografi boccacciani anteriori e alla testimonianza di P: in quest’ultimo, si veda, per es., la presenza di suto participio passato di essere contro stato di BH o del numerale duo contro due (Vitale 2002: 166-167 e 173-174). Peraltro, anche in una lingua sorvegliata come quella del novelliere, si trovano a convivere fenomeni conservativi del vocalismo, quali la conservazione del dittongo dopo cons. + r («presente nei modi tipici del fiorentino due-trecentesco»: Stussi 1995: 198) e moderate aperture a innovazioni o volgarismi, quali la serie pacefica, paceficamente, paceficò (Vitale 2005: 55) e sirocchia in luogo dell’originario ser- (Stussi 1995: 196). Non mancano tuttavia esempi di segno opposto, in cui alcune forme del più antico fiorentino compaiono in testimonianze anteriori ma non in BH: è il caso del pronome interrogativo enclitico fostù (in BH solo fosti: Vitale 2002: 120-121).
Nella maggior parte dei casi, le deviazioni dalla norma del fiorentino classico, così come le concessioni a forme connotate in senso popolare, sembrano rivestire una funzione espressiva e marcata. Ciò implica di estendere alla valutazione linguistica la demarcazione narrativa tra mondo narrato e mondo commentato (Malagnini 2002), e distinguere, all’interno delle novelle, tra discorso del narratore e discorso diretto o riportato dei personaggi, ognuno con peculiari connotati sociali, regionali o comportamentali. In quest’ultimo si concentra l’oltranza espressiva e la licenza linguistica a vari livelli: per es., un caso isolato di sincope nel futuro dratti «daratti» occorre in una battuta dialogica di Bruno a Calandrino (IX, 5, 45), ma si tratta di fenomeno noto anche a Paolo da Certaldo, che usa istrà «starà», strai, ecc. (Zaccarello 2008: 90). Laddove vi sono personaggi non toscani, il discorso diretto è deputato alla connotazione del parlante (Stussi 1993: 130-133): la palermitana madonna Jancofiore si rivolge a Salabaetto con una frase ricca di idiotismi siciliani («m’hai miso lo foco all’arma, toscano acanino»: VIII, 10, 15); la veneziana madonna Lisetta si esprime in modo altrettanto connotato con una sua comare («per le plaghe di Dio, egli il fa meglio che mio marido, […] s’è egli innamorato di me e viensene a star meco bene spesso; mo vedi vu?»: IV, 2, 43). Ciò vale per le stesse varietà toscane, come il senese di Tingoccio (VII, 10, 20 e 22) e di Fortarrigo (IX, 4, 15 e 17). Anche al di fuori degli inserti dialettali o variamente connotati, le battute dialogiche del Decameron sono assai notevoli per i fenomeni di mimesi del parlato che vi si osservano (D’Achille 1990; Testa 1991), presenti in molteplici sfumature; le tipologie più ampiamente rappresentate sono le topicalizzazioni («la quale, sallo Iddio, se io far lo potessi, volentieri te la donerei»: I, 9, 6), che giungono a interessare intere frasi: «quanto questo voglia esser segreto, voi il vi potete vedere» (VIII, 9, 30) (Stussi 1995: 211-214).
La scrittura di Boccaccio è stata riconosciuta, valorizzata nelle sue implicazioni culturali e ben delineata nelle sue varie fasi di sviluppo solo in tempi recenti, a partire dallo studio di Ricci (in Branca & Ricci 1962: 51-67).
Corradino (1996) ha dimostrato come la grafia si faccia fedele interprete dell’evoluzione culturale e stilistica boccacciana: da un lato le caratteristiche scrizioni culte, giustificate o meno dall’etimologia, rappresentano un elemento di notevole continuità nell’uso autografo dell’autore, soggetto a un sensibile incremento tra LA e BH (dunque honore, thesoro, tyrapno ma anche hedificare, epithaphio, hystoria); sul versante opposto, alcuni usi grafici, legati alla coeva scripta volgare, sono ampiamente attestati nel Teseida (i tipi chavallo, vagha, singnore, mogle), ma appaiono in regressione nel Decameron a vantaggio delle corrispondenti scrizioni moderne, con l’eccezione delle grafie per alcune sibilanti, dove si osserva una scrupolosa volontà diacritica (nasciere, pescie, ecc. e, per il grado tenue, sempre la grafia bascio, basciare: Manni 2003: 270-271).
Negli autografi boccacciani, alla sottile messa a punto del sistema ortografico si accompagna una non comune sensibilità all’articolazione paragrafematica e interpuntiva (Rafti 1996-2001).
L’aspetto di maggiore spicco nella prosa decameroniana, già rilevato dalla critica cinquecentesca, ma solo recentemente descritto in modo analitico (specie a partire dagli studi di Brambilla Ageno 1964; 1964a), è la sintassi, in cui
«frequenti e ben note manifestazioni dell’ordine artificiale (dai costrutti latineggianti con verbo in posizione finale al sapiente ricorso alle clausole ritmiche) coesistono con fenomeni sintattici di segno opposto, governati cioè da regole tutt’altro che rigide, sensibili alle ragioni dell’espressività e anteriori, talvolta si direbbe, al filtro che si interpone di solito nel passaggio dal parlato allo scritto» (Stussi 1995: 211).
Per la prima categoria, si possono citare esempi in cui l’isolamento della reggente in posizione finale è posto in risalto da frasi parentetiche che precedono: «tutti i mercatanti che in quelle con mercatantie capitano, facendole scaricare, tutte in un fondaco, il quale in molti luoghi è chiamato dogana, tenuta per lo comune o per lo signor della terra, le portano» (VI, 6; Manni 2003: 405). Quanto alla varietà del cursus, impiegata dal Boccaccio già all’altezza del Filocolo, si tratta di un aspetto già messo in rilievo da Nencioni (1953: 40 segg.), che ha dimostrato come la polimorfia delle desinenze in alcuni tempi verbali (specie il perfetto di sesta persona, con i tipi concorrenti mandarono, mandorono, mandâr, mandaro) lasci spazio, in autori sensibili come il Boccaccio, a opzioni governate perlopiù da esigenze ritmiche ed eufoniche. Per molti dei restanti fenomeni, le scelte dell’autore sembrano parimenti governate da esigenze stilistiche, che determinano per es. la compresenza di ambedue i tipi nell’ordine dei clitici (l’antico, diretto + indiretto, lo mi e il nuovo, indiretto + diretto, me lo; Stussi 1995: 208-211; Vitale 2002: 145-146, che segnala vari casi di passaggio dal tipo antico a quello moderno). Si osserva un’adesione estesa, ma non sistematica, alla ➔ legge Tobler-Mussafia nell’enclisi dei pronomi, sempre rispettata in apertura di periodo («Riprenderannomi, morderannomi, lacererannomi costoro»: IV, Intr. 32), oscillante dopo congiunzione («son certo che udita l’avete e sapetela»: IV, 6, 38; «non volle più la gentil donna gravare di tal servigio ma le disse»: III, 9, 50), minoritaria dopo frase dipendente («E quantunque a te queste ciance omai non ti stean bene, ti dico io di lei cotanto»: III, 3, 19).
Il patrimonio lessicale boccacciano è fortemente incline all’ampliamento e all’innovazione: nelle opere giovanili, spiccano i latinismi, che in molti casi compaiono in prima attestazione e che solo in minima parte ebbero seguito nei successivi sviluppi dell’italiano (commilitone, crepitare e derivati, latitante: Manni 2003: 247). A un ambiente cortese riportano anche i molti gallicismi (arriere «indietro», intenza «contesa», plusori «molti», vengiare «vendicare», i già acclimatati sostantivi della serie coraggio «cuore», dannaggio, visaggio).
L’inventiva lessicale del Decameron possiede un’assai più vasta tastiera espressiva e stilistica: vi trovano ampio spazio termini di gusto popolaresco, come baderla «perditempo», già nel Filostrato, i verbi ciurmarsi «ubriacarsi» e schiccherare «imbrattare», o le interiezioni gnaffè o alle guagnele (Manni 2003: 291 e 282), ma il gusto boccacciano sconfina spesso nella deformazione o nel neologismo: si pensi alla celebre battuta del prete da Varlungo («[il tabarro] è di duagio infino in treagio, e hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio»: VIII, 2, 35, a partire dal nome del tessuto originario di Douai in Francia) e allo scambio tra Bruno e maestro Simone a proposito del nome inventato gumedra (VIII, 9, 35; Maraschio 1992: 138). Il lessico decameroniano offre materia per sostenere a carico di BH un impiego di elementi particolarmente connotati, assenti dalla tradizione anteriore, e la conseguente ricerca di una maggiore caratterizzazione sociale e regionale dei personaggi (Vitale 2005: 55). A conferma di una generale evoluzione boccacciana verso un lessico più marcato in senso espressivo e popolareggiante possono deporre varie forme del Corbaccio (berlingare «ciarlare», gocciolone «sciocco», zambraca «serva»; Manni 2003: 328).
Anche l’onomastica rappresenta un settore di assoluto rilievo nella lingua boccacciana, per l’inesauribile carica innovativa e la ricchezza di implicazioni semantiche e narrative (Sasso 1980; Porcelli 1997) e la centralità dell’interpretatio nominis, che vi produce un’ampia gamma di esiti seri o comici.
Le soluzioni onomastiche più varie e innovative sono naturalmente nel Decameron, dove più stretta è la relazione semantica e tematica fra nome del personaggio e contesto della narrazione (Ambrosini 2000) e appare con maggiore evidenza la funzione comica ed espressiva del nome (Scalabrini 2009). Nella varia fenomenologia, l’aspetto più evidente è quello dei nomi parlanti o allusivi (Herczeg 1963; Zaccarello 2003).
Le espressioni idiomatiche e la fraseologia proverbiale costituiscono un aspetto di massimo rilievo nella prosa boccacciana per la caratterizzazione sociale dei personaggi, come dimostrano i molti esempi riconducibili alla sfera mercantile (Manni 2003: 294); in un pur limitato numero di esempi, sembra che anche questo aspetto venga rafforzato nel passaggio alla redazione BH, per es. nella battuta di Calandrino «Io le voglio mille moggia di quel buon bene da impregnare» (IX, 5, 27: Branca 2002: 202).
Inoltre, tali espressioni sono atte a creare un differenziale di comprensibilità tra il livello della fictio e quello della diegesi, a tutto vantaggio dell’ammiccamento al lettore: il bolognese maestro Simone non coglie l’offesa implicita nell’essere definito da Buffalmacco battezzato in domenica («sciocco», in quanto nel giorno festivo non era facile procacciarsi del sale: Maraschio 1992: 138-139). Di norma, il detto proverbiale appartiene invece al polo della narrazione (il famoso «Bocca basciata non perde ventura, anzi rinuova come fa la luna» riferito alla figlia del Soldano: II, 7, 122) e si colloca al crocevia di importanti aree del linguaggio boccacciano; in quanto espressione concisa e arguta, esso s’intreccia con la tradizione del «motto leggiadro» o «piacevole», tema della sesta giornata (Palumbo 2008); in quanto espressione di un bagaglio popolare di sapienza collettiva e buonsenso quotidiano, esso è atto a smascherare la falsità e inconsistenza del sapere acquisito.
Nel Cinquecento, il Decameron viene promosso a paradigma assoluto per la prosa d’arte dalle Prose della volgar lingua di ➔ Pietro Bembo (1525), che aveva potuto consultare BH nella biblioteca di Giuliano de’ Medici; con la lingua variegata di quel codice, tuttavia, il modello boccacciano imposto dalle Prose non intrattiene un rapporto di stretta fedeltà, ma ne piega spesso l’evidenza alle esigenze della dimostrazione, che persegue un ideale di classicistica omogeneità e prelude alle energiche piallature operate sugli inserti espressivistici da editori come Niccolò Dolfin (1516) o Lodovico Dolce (1546-1550: cfr. Stussi 1993: 132-135).
Al pari delle altre due corone toscane, del resto, Boccaccio viene innanzitutto utilizzato come serbatoio lessicale, a partire dalle Tre fontane di Niccolò Liburnio (1526; Stussi 1993: 24). Per uno studio autenticamente filologico sul Decameron occorre attendere l’opera dei Deputati, capeggiati da Vincenzio Borghini, che alla natura variegata e complessa della lingua boccacciana dedicò le Annotazioni e discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron di messer Giovanni Boccacci del 1573 (Chiecchi 2001). La nuova edizione del 1582, la famosa «rassettatura» di Leonardo Salviati, produsse due importanti volumi di Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone (1584-86), che ribadivano l’importanza anzitutto lessicale e fraseologica di quel modello (Gargiulo 2009: 9). Se l’opera di Salviati inaugurava la lunga stagione ‘cruscante’ del Decameron, appare significativo che la sintassi del novelliere abbia potuto dare fondamento anche a una lettura diametralmente opposta, che alla staticità della norma opponeva l’uso e le sue trasformazioni, nell’Anticrusca di Paolo Beni (1612; Tesi 2005).
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