Boccaccio, Giovanni
Scrittore, nato a Certaldo o Firenze nel 1313 e morto a Certaldo nel 1375. Le opere volgari di B., soprattutto quelle più strettamente legate a Firenze, costituiscono un dato essenziale della cultura di M.: come componente determinante di un orizzonte municipale, esse agiscono sul suo stesso rapportarsi alla scrittura, sulla sua percezione dei modi e delle forme di comportamento, della stessa evidenza del reale. Questo rilievo di B. spinge la gestione machiavelliana della parola verso la disposizione che si suole indicare come ‘realistica’, in un circuito che risale indietro fino a Dante e al culto dantesco dello stesso Boccaccio. A tale generale disposizione, si riconnette il gusto più specifico per la materia e il linguaggio comici, per l’ambito della beffa e dell’eros: la tradizione volgare fiorentina era ben esercitata a fare i conti con il Decameron, riconosciuto come uno dei suoi più autorevoli punti di riferimento.
La sola menzione ‘ufficiale’ di B. si ha nelle Istorie fiorentine II xlii 5: «quella memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio con tanta eloquenza celebrata». Menzione ‛privata’ invece, iscritta pienamente in un orizzonte comico, è quella che chiude la lettera a Francesco Vettori del 25 febbraio 1514, in cui Niccolò invita il destinatario a non lasciarsi sfuggire una certa occasione amorosa: «Priegovi seguitiate la vostra stella, e non ne lasciate andare un iota per cosa del mondo, perché io credo, credetti e crederrò sempre che sia vero quello che dice il Boccaccio: che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi» (citazione da Decameron III v 30: «è egli meglio fare e pentere che starsi e pentersi», battuta che conclude il monologo con cui la donna dei Vergellesi si convince ad accettare l’amore del Zima).
Limitate alla discussione sulle forme linguistiche sono poi le citazioni nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (a parte i dubbi sulla sua attribuzione): B. è chiamato in causa ai §§ 8 e 20-22, 27 e 77, entro contesti che danno rilievo alla preminenza linguistica delle ‘tre corone’; e in particolare al § 21 si nota che «il Boccaccio afferma nel Centonovelle di scrivere in volgar fiorentino»; e questo suo totale essere fiorentino viene ribadito nei §§ 22 («in nostro favore») e 27 (il «parlare» di Dante «è al tutto fiorentino, et più assai che quello che il Boccaccio confessa per sé stesso esser fiorentino»).
Quanto agli echi lessicali, alla coincidenza di singole espressioni (ma l’ossessione dell’intertestualità rischia spesso di attribuire un valore sproporzionato a certi riscontri puntuali che invece scaturiscono semplicemente dall’inerzia del linguaggio), si dispone solo di occasionali rilievi: come è il caso dell’espressione pro tribunali, impiegata in Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio II proemio e III iii, che può essere fatta risalire a Decameron V introduzione; o di «soghignando» in Asino ii, vv. 72 e 79, riconducibile a Decameron I v 2, II iii 3, VI viii 2.
Ma, al di là di questi e altri riscontri, in molti casi opinabili, la presenza di B. appare già più determinante nel ritmo parzialmente dimesso, come in una sorta di dialogare municipale, che M. imprime alla terza rima nei Decennali e soprattutto nei Capitoli: e, pur in una continuità con la tradizione d’uso della terza rima nella letteratura fiorentina del Trecento e del Quattrocento, il riferimento essenziale è qui certamente la boccacciana Amorosa visione. I modi di argomentazione morale di questo poema trovano originali svolgimenti nella tematica dei Capitoli. Ma il rinvio più rilevante all’Amorosa visione è dato dal capitolo “Di Fortuna”, in cui si possono riconoscere vari echi dei canti XXXI-XXXVII del poema di B., dedicati appunto alla fortuna e alla sua azione nella storia, in un’implacabile vicissitudine di ascesa, decadenza, crollo di città e imperi, di eroi, condottieri, signori. Dato il carattere tradizionale della tematica, diffusa nella letteratura di tutti i tempi, il richiamo a B. impone comunque di risalire a quello che per lo stesso B. era il riferimento più determinante, cioè la digressione sulla fortuna nel VII dell’Inferno. Ben evidente, del resto, è il fatto che, mentre il B. dell’Amorosa visione conduceva l’immagine della volubilità della fortuna verso un esito moraleggiante, verso una messa in guardia dall’attaccamento ai beni mondani, M. già nel capitolo (legato del resto alla più tesa riflessione dei Ghiribizzi) viene a interrogare la possibilità e la difficoltà di mantenere un rapporto felice con quella potenza incontrollabile, saltando «di rota in rota». In effetti la suggestione dell’Amorosa visione sembra operare più nettamente nella seconda parte del capitolo, dedicata all’azione della fortuna nel succedersi delle civiltà e degli imperi: si tratta di immagini dipinte, «trionfi» istoriati nel palazzo della dea; pitture sono anche quelle descritte da B., che si dilunga molto di più nel presentare figure mitologiche e storiche (molte di esse, pur se in termini diversi, tornano nel capitolo). Per questo tema della translatio imperii, che ha un rilievo essenziale per M., come mostra il proemio di Discorsi II, sono stati suggeriti altri rinvii a testi di B.; esso appare in piena evidenza nelle Esposizioni sopra la Comedia, la cui circolazione allora solo manoscritta suggerisce però legittimi dubbi sulla sua effettiva conoscenza da parte di M., che deve aver invece certamente conosciuto il Trattatello in laude di Dante, in cui lo stesso tema viene a un certo punto sfiorato.
Ancora per il capitolo “Dell’Ingratitudine” si può rinviare alla Consolatoria a Pino de’ Rossi, dove il tema ha un essenziale rilievo: molti spunti del capitolo sembrano seguire da vicino l’orizzonte di questa epistola, con l’affermazione secondo cui «questo male» agisce più fortemente «nel cor del popul quando elli è signore», punto di vista da cui M. finisce per allontanarsi nei Discorsi I xxix (Quale sia più ingrato, o uno popolo o uno principe).
È vero peraltro che le categorie morali variamente discusse da M., che costituiscono il fondamento della sua antropologia, della sua analisi del rilievo dei comportamenti umani nell’orizzonte politico e civile, riconducono a una tradizione fiorentina di cui B. (e la proiezione di Dante in senso ‛municipale’ e mondano operata da B.) costituisce lo snodo centrale: oltre al rilievo di termini come fortuna, ambizione, desiderio, gloria, ingratitudine, biasimo ecc., sono in questo senso determinanti le forme della percezione della realtà e dei rapporti interumani, la stessa spregiudicatezza con cui M. tende a configurare la ‘natura’ e i movimenti degli uomini, il loro disporsi nel mondo, la loro gestualità, il loro ethos così vincolato alle determinazioni naturali, alle circostanze, agli appetiti. Questa linea morale e percettiva scaturisce d’altra parte da un’originale integrazione tra cultura municipale, radicata nel più specifico orizzonte fiorentino, non indifferente alle tracce di un senso comune ‘popolare’, e cultura classica, culto dell’antico: una integrazione che proprio in B. (lettore di Livio, fra le altre cose) trova uno dei suoi essenziali punti di riferimento.
Il rilievo del Certaldese per la percezione della realtà e del comportamento è naturalmente più esplicito nelle lettere familiari e nei testi che deliberatamente si iscrivono in un orizzonte letterario: nei testi poetici, soprattutto i Capitoli e l’Asino, e nel teatro, ma anche nei modi di racconto e di rappresentazione della Vita di Castruccio Castracani e delle Istorie fiorentine.
Nei termini più espliciti si impone ovviamente la dimensione ‘comica’, con la sua spinta a suggerire comportamenti ‘a rovescio’, ad aggredire i modelli predefiniti e autosufficienti, a disporsi su linee di contraddizione, a inventare situazioni paradossali, a mettere in scena l’io dell’autore, sostenuto dal gusto della beffa e della maldicenza. Qui si può dire che B. agisca su tre livelli: per il più generale ethos comico, cioè per il valore che M. attribuisce a quel modo di rapportarsi all’esistenza, quando si trova escluso dalla serietà della politica (fino a recitazioni come quella delle lettere da Carpi); per il diretto esercizio del linguaggio; per l’identificazione di figure, situazioni, gesti, comportamenti.
A proposito delle lettere familiari è stato anche proposto, per la presentazione che M. fa del proprio soggiorno all’Albergaccio nella lettera del 10 dicembre, il rinvio alla Consolatoria a Pino de’ Rossi, con la descrizione che vi fa l’autore della propria vita campestre a Certaldo: M. opererebbe una rivisitazione dell’«idillica vita campestre del Boccaccio con lo stato d’animo cupo e amareggiato dell’esule Pino de’ Rossi» (Bausi 1998, p. 96). Ma, al di là di richiami così circostanziati, nelle lettere private si impone tutto il vario disporsi del soggetto entro comportamenti ‘comici’, nell’ambito del «piacevole» e delle «cose vane», a cui viene ascritta anche la condiscendenza verso l’orizzonte erotico: Stella La Rosa (2008) indica qualche traccia boccacciana (anche dalle Rime) nel vario uso che M. fa del linguaggio amoroso. E altri dati si ricavano da scatti di linguaggio aggressivo e deformante, come nella lettera a Luigi Guicciardini dell’8 dicembre 1509 sull’avventura con la prostituta veronese, in cui è stata individuata un’eco di passi della Comedia delle ninfe fiorentine XXXII (Bausi 1998).
Se non mancano certo tracce del registro narrativo di B. nella Favola di Belfagor, è vero peraltro che la messa in scena diabolica e la gestione comica del meraviglioso conducono il racconto in direzione molto diversa dalle novelle decameroniane: mentre si può postulare un rapporto tra il discorso di Plutone all’inizio della Favola e quello di Satana nel Filocolo I ix (Martelli 1990). Ma certo molto più direttamente la presenza di B. opera nell’ambito della commedia: M. individua subito, in anni che sono ancora quelli dell’‘invenzione’ della nuova commedia volgare, la determinante spinta teatrale del linguaggio del Decameron, che era stata esibita nella vicina Calandra del ‘mediceo’ Bernardo Dovizi da Bibbiena. La scrittura della Mandragola prende avvio proprio nel solco boccacciano della Calandra, investendolo di umori e di scatti aggressivi, proiettandolo verso quel «dir male» che Niccolò rivendica nel prologo, esaltandolo e misurandolo in una costruzione di geometrico rigore. Traccia di Calandrino e Calandro, della loro disposizione a porsi come vittime comiche, in una ottusità sostenuta da un sordido egoismo, si può ritrovare nella figura di Nicia e in certo suo sottoporsi a gratuite aggressioni comiche: quella della noce di aloe, che Ligurio fa mettere in bocca a Nicia al posto della «palla di cera» necessaria per contraffare la voce nell’aggressione notturna al «garzonaccio» (IV ix), costituisce una diretta ripresa della gag delle «galle del cane confettate in aloè» nella novella del porco imbolato (Decameron VIII vi).
L’orizzonte espressivo delle commedie di M., che tende a far vibrare la parola in situazione, a evidenziare la sua tensione al movimento e al contatto, a manifestare direttamente nella voce la presenza dell’attore/personaggio, trova in B. e nel suo linguaggio il suo sostegno determinante, anche se con un di più di disposizione aggressiva, con scatti di implicita ostilità tra le voci che sono di volta in volta in gioco:
ogni personaggio manifesta nella propria voce un’identità naturalisticamente determinata dal proprio umore, dal nesso di desideri e ambizioni che lo costituiscono e che non implicano nessuna vera solidarietà nei rapporti reciproci (nemmeno quando si è alleati nel progetto e nella beffa). Qui agisce in profondità sul linguaggio teatrale di M. il B. più deformante, capace di mettere in luce la tensione che guida i personaggi a realizzare i propri desideri: e non si tratta tanto di riscontri diretti, quanto della più ampia prospettiva espressiva, delle posture e dei colori che le situazioni e gli scambi dialogici vengono ad assumere, dando evidenza tra l’altro alla più tagliente allusività del linguaggio erotico (qualche volta con riscontri puntuali, come per il «peccato che se ne va con l’acqua benedetta» di Mandragola III xi e Decameron III iv 15).
Alla Mandragola il Decameron offre anche schemi narrativi e situazioni per la costruzione della fabula, come del resto avverrà variamente per il successivo sviluppo della commedia cinquecentesca. Due sono i riferimenti più evidenti ed espliciti. Sull’antefatto, con il motivo dell’innamoramento per fama, diretta è l’eco della novella VII vii: Lodovico, fiorentino in Parigi, in una disputa tra cavalieri sente parlare della bellezza di madonna Beatrice e per lei si reca a Bologna; analogamente Callimaco, fiorentino che viveva in Parigi, ha sentito parlare, in una disputa tra fiorentini, della bellezza di madonna Lucrezia e per lei è tornato a Firenze: per tutti e due la realtà si rivela superiore alla fama, ma per entrambi appare impossibile entrare in contatto con la donna. Se però Lodovico raggiunge il suo obiettivo con la sola iniziativa personale, trovando a un certo punto la diretta collaborazione della donna, Callimaco raggiunge Lucrezia solo attraverso la beffa della pozione di mandragola, inserendosi nel letto di Lucrezia all’insaputa di lei e rivelandosi solo dopo l’amplesso: qui agisce uno schema che risale addirittura al teatro antico, ma che aveva trovato un esito originalissimo in Decameron III vi, con l’inganno di Ricciardo Minutolo a Catella, condotta a un rapporto erotico al buio, nella convinzione di trovarsi con il marito, per smascherare il suo tradimento con un’amante. La traccia della novella si rivela in termini espliciti nel racconto che Callimaco fa a Ligurio (V iv) del proprio rivelarsi finale e delle parole con cui l’ingannata Lucrezia ha alla fine accettato il suo inganno e il suo amore: M. risolve in vertiginosa concentrazione la situazione finale della novella, facendo corrispondere alla resa di Catella di fronte all’ineluttabilità della situazione creatasi il modo più determinato e cosciente con cui Lucrezia assume su di sé la beffa subita (non vi manca il richiamo al più malizioso motivo della superiorità dei baci dell’amante, che da Decameron III vi 50, «E conoscendo allora la donna quanto più saporiti fossero i basci dell’amante che quelli del marito», conduce alla più netta opposizione tra la «giacitura» di Nicia e quella di Callimaco, tra «uno amante giovane» e «uno marito vecchio», Mandragola V iv). Oltre queste due così esplicite riprese, altri molteplici echi decameroniani agiscono sulla Mandragola (e, pur se in misura minore, sulla Clizia): nell’onestà invincibile di Lucrezia si può scorgere l’eco della figura di madonna Zinevra (Decameron II ix), della cui fedeltà l’ingannatore Ambrogiuolo sente parlare da mercanti italiani a Parigi; nella figura del marito vecchio, impotente o falsamente millantante la propria capacità (da Nicia al Nicomaco della Clizia), si sovrappongono vari mariti della novelle erotiche di B., tra cui in modi diversi sono state suggerite soprattutto la III iv (frate Puccio e la beffa di don Felice: Bausi 1998) e la VII ix (la novella del pero, con il vecchio Nicostrato, Lidia e Pirro: Fachard 2006).
Bibliografia: M. Martelli, Introduzione a N. Machiavelli, Novella di Belfagor. L’Asino, a cura di M. Tarantino, Roma 1990; F. Bausi, Machiavelli e la tradizione culturale toscana, in Cultura e scrittura in Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ottobre 1997, Roma 1998, pp. 81-115; G. Bardin, Machiavelli reads Boccaccio; Mandragola between Decameron and Corbaccio, «Italian quarterly», 2001, 149-50, pp. 5-26; D. Fachard, Dagli «occhi dello intelletto» di Nicostrato allo strabiliare di Nicia: note sulla fortuna della novella VII 9 del Decameron, in De Florence à Venise. Hommage à Christian Bec, a cura di F. Livi, C. Ossola, Paris 2006, pp. 75-87; S. La Rosa, Una «metamorfosi ridicola». Studi e ricerche sulle lettere comiche di Niccolò Machiavelli, Manziana 2008.