Giovanni Gentile
Giovanni Gentile, filosofo fra i massimi del Novecento europeo, unì all’elaborazione costante del suo pensiero una vocazione di riformatore politico-religioso, e ripensò la tradizione italiana alla luce di queste attitudini. Potente la sua influenza su tutto il pensiero italiano, meno su quello europeo, di certo anche per la sua partecipazione attiva al regime fascista che mantenne fino alla fine.
Giovanni Gentile morì il 15 aprile 1944 ucciso vicino Firenze in un agguato sulla cui responsabilità la discussione è ancora aperta. Incominciare un breve racconto della sua vita dalla fine che incontrò ha la sua motivazione nella singolarità, per un filosofo, di quella morte, e nella possibilità di vedere il corso del suo stesso pensiero in qualche rapporto con quella fine: quel modo di morire di un filosofo non può giungere come un casuale evento conclusivo. In un filosofo pensiero e vita possono intrecciarsi e aprire domande inquietanti.
Nato a Castelvetrano il 29 maggio 1875, ammesso, nel 1893, alla Scuola Normale di Pisa, iniziò subito, già nel 1898, la sua trafila di professore nel liceo Mario Pagano di Campobasso. Giovanissimo amico di Benedetto Croce, passò a insegnare filosofia a Napoli al liceo Vittorio Emanuele, dal 1902, impegnato nella collaborazione alla «Critica» che in quell’anno iniziò la sua lunga storia. Poi, un susseguirsi di eventi tutti accademici: nel 1906 fu nominato professore di storia della filosofia nell’Università di Palermo nella cui Biblioteca filosofica sono nate le conferenze e i seminari che hanno dato vita all’attualismo; nel 1907 fondò, con Giuseppe Lombardo-Radice, la rivista «Nuovi doveri» dalla quale iniziò la sua battaglia per il rinnovamento della scuola italiana, che culminò con la riforma Gentile realizzata negli anni in cui fu ministro della Pubblica istruzione nel primo governo Mussolini.
Il 1913 fu un anno cruciale. Fu allora che si manifestò la rottura filosofica con Croce (pur capaci, i due pensatori, di intensa collaborazione, soprattutto nel lavoro editoriale, fino al 1922) che l’avvento del fascismo acuì a irrisolvibile contrasto politico. Nel 1914 Gentile tornò a Pisa, alla Scuola Normale, succedendo nella cattedra di filosofia a Donato Jaia, il suo primo maestro. Si avvicinava la guerra, e Gentile si batté per l’intervento, con una motivazione che riguardò una lettura del processo storico italiano in cui Risorgimento e guerra si legavano indissolubilmente fra loro. La guerra doveva compiere il Risorgimento, portare al suo esito la formazione della coscienza nazionale: un tema, quest’ultimo, che segnò quella sua attitudine di filosofo riformatore, partecipe della vita civile e politica dell’Italia. Nel 1918 iniziò il suo insegnamento all’Università di Roma. Nel 1920 fondò il «Giornale critico della filosofia italiana», per molto tempo organo della nuova filosofia.
Giungiamo così alla vicenda che decise della sua vita, la rivoluzione di Benito Mussolini e l’adesione al fascismo, vissuta con intensità fino alla fine, nonostante duri contrasti che contrapposero il filosofo ai fascisti soprattutto a partire dal 1929, data di un Concordato che Gentile non fu disposto ad accettare: i cattolici non lo dimenticarono, e nel 1934 catalogarono la sua opera nell’Indice dei libri proibiti. Fu legato da un rapporto di lealtà profonda con Mussolini più che con il regime come tale. Ministro della Pubblica istruzione dal 1° novembre 1922 fino al 1924, promosse la più grande riforma della scuola dall’Unità. Nel 1925, nel momento del delitto di Giacomo Matteotti, si schierò con Mussolini scrivendo un Manifesto degli intellettuali fascisti: il fascismo gli si presentò come esito liberale-autoritario nello svolgimento della coscienza nazionale, questione che stava all’apice del modo gentiliano di studiare lo sviluppo della filosofia italiana e della sua stessa filosofia, in un problematico rapporto fra le sue scelte politiche e il suo pensiero. Nel 1924 ebbe la direzione dell’Enciclopedia Italiana, un lavoro svolto con grande obiettività, in una congiuntura non facile.
Poi la guerra, il fascismo sconfitto, Mussolini in fuga. Gentile aderì alla Repubblica sociale accettando di diventare presidente dell’Accademia d’Italia; il suo Discorso agli italiani pronunciato il 24 giugno 1943 era già apparso come il suo testamento politico. La sua vita, un inestricabile intreccio tra pensiero e scelte politiche; un destino che progressivamente si disegnò nella radicalità di quelle scelte, lasciando riflettere su ciò che lega a esse il percorso di un pensiero che intendeva giungere proprio alla radice delle cose, nell’intensa eticità della realizzazione, unica ‘verifica’ dell’attualismo. Partecipò in prima persona a una storia tragica, di cui in ultimo non poté non comprendere l’esito. Nelle pagine conclusive della Logica è scritto:
Lo scetticismo è invincibile finché si distingua la logica dalla morale e l’atto del pensare da quello del volere, quasi si potesse in qualche modo pensare senza assumere una responsabilità in quello stesso mondo della libertà che è il mondo della coscienza morale (G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., 19423, pp. 338-39).
Qui ci limitiamo a costatare la tensione propria di un pensiero inteso come fare, un’idea che sta nel Gentile giovanissimo e che lo accompagnò in ogni momento della vita: il vero nucleo dell’attualismo. In questo senso, l’atto conclusivo di questa vita sta come esito possibile di una filosofia in cui la vita stessa, nella sua radicalità, fu coinvolta. Appunto, usque ad finem.
Quando Gentile iniziò il suo percorso filosofico, in Europa si avvertiva una crisi di tutte le vecchie certezze, e soprattutto di quel positivismo che aveva prevalso nella seconda metà del secolo, nell’illusione di poter rinchiudere nella ‘ragione scientifica’ l’intero circuito della razionalità: si considerava la scienza positiva come l’unica forma di conoscenza, si disegnava una vera e propria filosofia positivista della storia. Ma la crisi non atteneva soltanto ai percorsi del pensiero, bensì a mutamenti tumultuosi visibili sia nel crollo di vecchi e grandi sistemi politici e imperi, sia in un elemento cui va dato massimo peso anche per le vie intraprese dalla nuova filosofia: la caduta verticale dei sistemi liberali che erano fioriti intorno a un rapporto fra mercato autoregolato e abbozzi di costituzioni liberali; tutto travolto da processi profondi che incrinarono le vecchie legittimazioni aristocratiche e dinastiche, e videro l’ingresso sulla scena politica di masse anomiche, guidate da vitali desideri di giustizia. La democrazia entrò violentemente sulla scena europea, nella forma di una vitalità che chiedeva un nuovo ordine delle cose. Si avviava quella che il classico libro di Karl Polanyi (The great transformation, 1944) ha chiamato «la grande trasformazione».
Richiamare questo sfondo è necessario per comprendere la crisi filosofica. In un complicato intreccio di cause e di effetti, il pensiero percepì che un intero ordine era rimesso in discussione, nuovi autori andavano immessi nel circuito in una chiave originale, e i problemi rinominati alla luce intensa di una sensibilità che si apriva. Ernst Mach, Richard Avenarius, Jules-Henri Poincaré ruppero il vecchio determinismo positivistico, stimolando un ripensamento dei fondamenti della scienza. Immanuel Kant, Arthur Schopenhauer, Friedrich Nietzsche, Sören A. Kierkegaard rientrarono in campo, soprattutto quel Kant che, separando ragione e volontà, ridava corpo alla possibilità di una ragione non costitutiva della scienza, ma aperta al flusso della vita. La storia stessa, rilanciata fuori dagli schemi di filosofia della storia, provava a riprendere contatto con la vita, fra Jacob Burckhardt e Wilhelm Dilthey. Perfino la revisione del marxismo, che si avviò in quegli anni, avvenne con la parola d’ordine del ‘ritorno a Kant’. Georg Wilhelm Friedrich Hegel stava per riaffacciarsi attraverso Dilthey, lontano dagli schemi e dal dibattito consueto, che appariva esaurito. I nomi, tanti: Henri-Louis Bergson, Maurice Blondel, Étienne-Émile-Marie Boutroux, William James, Dilthey, Wilhelm Windelband, Heinrich Rickert, Georg Simmel, per ricordarne qualcuno.
I primi scambi di lettere fra Gentile e Croce mostrano che l’irrompere della crisi era percepito da ambedue i filosofi e che, per loro comune giudizio, la rinascita della filosofia poteva sgorgare anzitutto da una risposta a quella crisi che toccava tutto lo scenario della metafisica e della vita moderne. Fra 1897 e 1899, i primi scritti di Gentile, con due studi vicini nel tempo: Rosmini e Gioberti, la sua tesi di laurea, e La filosofia di Marx. Attenzione prioritaria per la tradizione italiana, e sintomatico incontro con Karl Marx, con Hegel subito sullo sfondo. La singolarità di Gentile filosofo fu proprio l’inseparabilità fra la spinta a una riforma politico-religiosa della coscienza italiana attraverso la ripresa della sua tradizione di pensiero, e una filosofia ‘rivoluzionaria’, in un complicato e forse irrisolto rapporto fra ‘tradizione’ e ‘rivoluzione’. Insomma, la relazione fra la prorompente novità vitalistica dell’atto e il suo incardinarsi nell’ordine di una tradizione recuperata.
Nel Rosmini e Gioberti l’attenzione di Gentile si concentrò su due punti: il rigetto della tradizione dell’Illuminismo francese e di quelle che egli giudicava le sue inevitabili conseguenze: materialismo, sensismo, laicità negativa, ateismo; e l’utilizzo dei due filosofi come spinta italiana ‘oltre Kant’, in una rinascita che, a suo giudizio, faceva seguito a una lunga decadenza e a un lungo vuoto. Con quel volume si sistemavano i conti con una tradizione, ma fu il saggio del 1899 su Bertrando Spaventa, altra eccezione al corso dei pensieri italiani, a segnare l’atto di nascita dell’attualismo. Ne La filosofia di Marx, la scoperta sorprendente fu Marx filosofo della prassi, di una prassi che andava depurata dal materialismo. L’elemento innovativo, rispetto all’intero dibattito europeo, stava nella rappresentazione del pensatore di Treviri come continuatore, sia pure ‘deviato’, del pensiero hegeliano: dunque, non Kant-Marx, bensì Hegel-Marx, il che contribuiva a mutare tutto lo scenario ermeneutico.
Ma hegeliano deviato fino a un certo punto, Marx, se si rilegge con attenzione il testo gentiliano: rispetto alle diverse forme del revisionismo crociano e del recupero ‘ortodosso’ di Antonio Labriola, Gentile vide in Marx, certo, l’epigono di un materialismo inaccettabile, ma a un tempo chi, puntando su una prassi destinata a rovesciare l’esistente, liberava lo stesso Hegel dai tratti più scolastici e coatti del suo sistema. Se si confronta La filosofia di Marx e La riforma della dialettica hegeliana, che è del 1912, e si aggiunge l’avvenuta piena riconquista del pensiero di Spaventa, si possono sentire diverse assonanze, come se, scrivendo sulla riforma dell’hegelismo, Gentile tornasse ad avvertire il richiamo di quell’hegelismo più libero che aveva trovato in Marx filosofo della prassi: quel Marx che sintomaticamente torna a conclusione del suo saggio su Spaventa (G. Gentile, Bertrando Spaventa, in B. Spaventa, Opere, a cura di G. Gentile, 1° vol., 1972, p. 112).
Nella Riforma, Hegel veniva ricondotto all’essenziale, dopo molto travaglio critico sulle sue categorie: il problema stava nel liberare la dialettica hegeliana dalla gabbia d’acciaio del suo sistema, accentuandone a un tempo la dimensione logico-speculativa. La logica di Hegel è produttiva di verità, e questa verità è perenne divenire, irrisolta inquietudine, e tutto il sistema hegeliano si dissolveva, per ritrovarsi, al netto di quelli che erano giudicati i suoi scolasticismi, nell’attualità del pensiero che è realizzazione di sé.
Hegel […] ha l’intuizione vaga del divenire, non ne ha il concetto. E non si mette in condizioni di possederlo, perché analizza questo concetto invece di realizzarlo, come avrebbe dovuto, per pensarlo dialetticamente conforme al principio dell’identità fra essere e pensiero (La riforma della dialettica hegeliana, 19543, p. 22).
Ora, nella lettura gentiliana di Marx, quell’hegeliano, in parte ‘deviato’, aveva tuttavia intuito l’unità di pensiero e prassi, che sembrava andare proprio nella direzione poi affermata da Gentile: l’immagine di un pensiero che non va analizzato, ma realizzato, che è la distanza principale che Gentile intese prendere da Hegel. Non si va lontani dal vero se si osserva che Marx e Spaventa, una volta esplicitamente accomunati, hanno guidato, in momenti vicini fra loro, la critica di Gentile alla dialettica hegeliana. Colloco dunque questa interpretazione in una posizione intermedia rispetto a due letture che vanno considerate importanti punti di riferimento: quella di Augusto Del Noce, che vide nello scritto su Marx l’abbozzo dell’intero attualismo, e quella, successiva, di Gennaro Sasso, che tende a una netta svalutazione di quel testo.
Per studiare Gentile la periodizzazione è essenziale quanto spesso trascurata. Il Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-23) costituì lo spartiacque fra due visioni dell’atto, la prima concentrata essenzialmente nella Teoria generale dello spirito come atto puro (1916). Lì, nella Logica, il pensiero gentiliano prese la sua forma definitiva che in parte si rivoltò contro quella precedente. Questa osservazione è necessaria all’inizio di un percorso che spesso è stato giudicato secondo la logica di una continuità priva di fratture, il che risponde all’idea che l’atto, una volta affermato nella sua assoluta verità, quasi non consenta spostamenti di visuale, ma solo limitati movimenti al suo interno. È la tesi sostenuta esplicitamente da Eugenio Garin, nella sua Introduzione a una fitta antologia di opere gentiliane (Garin 1991), ma è una tesi che va rivista perché proprio in quella discontinuità si trova ciò che permette all’attualismo di uscire dall’atmosfera del suo tempo e di collocarsi nel tragitto di un pensiero für ewig.
Alcune date, anzitutto. Esse sono destinate a rivelare un elemento niente affatto secondario: il parallelismo e l’intreccio fra il Gentile che elabora la propria filosofia, lo storico della filosofia italiana, il riformatore religioso e politico, e il legame fra queste tre dimensioni. Si può dire che tutto si sviluppò all’unisono. Dopo i primi scritti ricordati, fra il 1903 e il 1914 si susseguirono i capisaldi del nascente attualismo che trovò una sistemazione complessiva, nel 1916, nella Teoria generale dello spirito come atto puro. Tutto sembrò convergere in quel primo libro sistematico, ma è forse così solo in parte. In quegli stessi anni emersero gli altri due filoni, la rivisitazione della filosofia italiana, dall’edizione di Giordano Bruno del 1908 ai saggi sul Rinascimento italiano, a Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, che è del 1903, alla riflessione sulla religione, fra critica del modernismo e Discorsi di religione, fra 1903 e 1909.
Convergeva, in questa triplice dimensione, un’ispirazione saldamente unitaria: il legame profondo tra filosofia e religione, messe in relazione da una originaria tensione etico-logica che poneva la verità nella realizzazione dell’«Atto» di un pensiero che è vita, in un rapporto essenziale con l’umanesimo cristiano, vivo nella presenza incarnata del Dio-uomo. Nel rapporto con la tradizione filosofica italiana, Gentile cercò di ritagliarne l’autonomia, il filone sotterraneo di una vocazione che doveva spingere verso la formazione rinnovata di una coscienza nazionale: le insufficienze e le originalità erano ambedue messe in luce. Il Risorgimento era visto come risveglio di questa coscienza, ma anche come sintesi storica di una categoria filosofica, che è quella che legava Risorgimento a Restaurazione e, ancora una volta, rivoluzione e tradizione. In quegli stessi anni, fu vivissimo il rapporto con Croce, ma fin dall’inizio carico di tensioni non sempre nascoste, per cui quel distacco che si manifestò esplicito nel 1913 era in realtà preparato da mille differenze e sensibilità diverse, a partire dal dibattito su Marx. Niente di più falsante, nel ricostruire il rinnovamento della filosofia italiana fra Otto e Novecento, che tenere a ogni costo insieme Croce e Gentile sotto l’etichetta ormai consunta della ‘rinascita dell’idealismo’. In fondo, la distanza fra i due filosofi nell’interpretazione di Marx conteneva già in embrione molti dei contrasti successivi. E il legame di Gentile con Spaventa indicò subito un’altra via che Croce fin dall’inizio guardò con esplicita e aspra diffidenza.
Fra 1903 e 1916 nacque il primo attualismo, fra la prolusione di Napoli e la Teoria generale dello spirito come atto puro. Si trattò, per Gentile, di prendere posizione su due temi fondamentali: il rapporto tra la filosofia e le scienze e quello tra la filosofia e la storia. Le scienze naturali si presentavano come gli unici saperi necessari per scandagliare la realtà, ‘naturalmente’ data come presupposto del pensiero. La coscienza, il pensare si esaurivano nella dipendenza da questo oggetto, rinchiusi in una razionalità meramente analitica. Era, per Gentile, la morte della filosofia, e il suo slancio fu anzitutto nel tentativo di riconquistare il pensiero alla propria legge intrinseca, rimettere lo spirito al centro della realtà, ricollocandosi lungo la linea Descartes-Kant. Il senso della rinascita idealistica fu in una «rivincita dello spirito», una dichiarazione di insoddisfazione
delle forme in cui pareva che il naturalismo della seconda metà del secolo testé finito l’avesse per sempre composta [la coscienza], e accennare in vari momenti alla rivincita dello spirito (La rinascita dell’idealismo, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Garin, 1991, p. 248).
Non si trattò di un brusco rigetto della scienza, ma della rottura dei confini di una razionalità ristretta.
L’attacco era duro, diretto, e cercava di scandagliare le conseguenze dell’atteggiamento scientista, che pretendeva applicarsi a tutta la realtà, quella naturale, e quella sociale. La realtà criticata era brulla, ma possedeva anche una sua forza, perché intendeva coprire tutto il campo della conoscenza, con un suo realismo e una sua capacità di convincimento: che cosa di più reale della natura? Non appariva del tutto astratta, dal suo punto di vista, la vecchia metafisica? Non c’era una giustificazione profonda nel suo ripulire il campo dei saperi dall’intromissione di un atteggiamento che comprimeva la scienza, subordinandola a una stanca fondazione speculativa?
Nella prolusione di Napoli (1903), il tema è particolarmente presente, e lascia intravedere un percorso complesso e contrastato. La critica del positivismo si accompagnò a una forte rivendicazione della sensibilità; il rigetto di una conoscenza tutta ricalcata sui metodi della scienza naturale si unì allo sforzo di evitare che questa posizione fosse colta e interpretata come rigetto della scienza come tale e un semplice ritorno in campo della vecchia metafisica. In quel testo, Gentile da un lato utilizzò Kant, il Kant che dice che il concetto senza l’intuizione è cieco e vede la filosofia come condizione trascendentale per la fondazione della scienza, dall’altro dedicò una pagina che mai andrebbe dimenticata al rapporto che il pensiero mantiene con la sensibilità e il mondo della natura. L’idealismo bisogna «intenderlo». Esso non è affatto la celebrazione di una idea pencolante sul vuoto, ma prova a percorrere un tragitto difficile: critica l’intuito come presupposto di tutto, ma ritrova la sensibilità e la natura come «radici dello spirito» (La rinascita dell’idealismo, cit., p. 260), capaci di riempire il pensiero di passione e di partecipazione alla vita. Non più la natura come oggetto, ma la natura come vita.
Negare le idee non è possibile, come s’è veduto. Ma neppure è possibile negare la natura, perché in essa sono le radici della vita, e negar lei è sbarbicar questi dal suolo dove trae i suoi succhi vitali. […] sicché negar la natura equivale a rinunciare al senso; e poiché dal senso si sviluppa l’idea, tagliare anche l’idea dalle radici (p. 260).
«Ancora una volta l’unità dei contrari. Solo a questo patto l’idealismo s’intende» (p. 261). La scena doveva essere liberata dal positivismo che rappresentava l’attacco più radicale alla filosofia, se tutta la conoscenza era occupata dai metodi delle scienze naturali. Il punto è che, dopo la critica positivista, non si poteva più semplicemente tornare alla vecchia metafisica e Gentile ne era perfettamente consapevole. Non bastavano più neanche Kant e Hegel che furono allora i grandi interlocutori di Gentile, sempre diviso tra la fondazione trascendentale della soggettività kantiana e l’impulso verso il divenire che gli proveniva dalla Logica di Hegel (Wissenschaft der Logik, 1812-1816), come mostra l’interesse costante, travagliato per le prime categorie di quella Logica. Sempre diviso, si può aggiungere, fra la tensione etica della logica che sarà un risultato conclusivo dell’attualismo, e la spinta che gli proveniva dall’istituzionalizzazione dell’etica come si dava nello hegeliano spirito oggettivo.
Quale la ragione di questa insufficienza? Al di là dello stesso positivismo, le scienze, i saperi speciali andavano coprendo tutto il campo della conoscenza non solo naturale (La rinascita dell’idealismo, cit., p. 252). Tutti quelli che vollero ripartire criticamente da questo stato di cose e rivendicare il senso possibile di una nuova filosofia, da questo dato dovettero muovere, da Max Weber a Dilthey agli stessi neokantiani. La riscoperta delle scienze dello spirito radicalizzò il distacco dal positivismo, lasciando emergere una nuova idea di scienza. Bisognava dunque trovare un tragitto diverso per incontrare la realtà, che si prendesse carico della tematica delle scienze senza farsi assorbire dalla pretesa del meccanicismo positivista. Esso si poteva ritrovare, per Gentile, radicalizzando l’attualità del pensiero e trasformando il «pensiero del pensiero» in un principio non mentalistico, non astrattamente soggettivo, ma comprensivo di un divenire storico-vitale in cui fosse compreso anche il flusso dei saperi.
Ecco Gentile ancora acerbo, ma già deciso nel suo percorso:
Il concetto dello sviluppo importa il movimento delle idee, la negazione della loro separazione e immutabilità e fissità come di stelle incastonate nel firmamento del pensiero logico […] si rompe quella diga artificiale, che separa il continente dell’uomo e dello spirito dal fluttuante e iridiscente campo della natura; e questo si riversa su quello e quello rimane al fondo di questo (La rinascita dell’idealismo, cit., p. 263).
Dove si può annotare un altro elemento che ha ambiguamente accompagnato la sua filosofia: già qui il linguaggio di Gentile è immaginifico, con una vena di pienezza retorica che non sembra voler accogliere in sé quel momento di vuoto e di incertezza cui ogni grande crisi di trasformazione si accompagna. Ma si può vedere il problema anche da un altro punto di vista: come se la pienezza del linguaggio gentiliano volesse rappresentare un altro elemento di invenzione di una realtà piena, tanto più desiderata ‘piena’ quanto più il filosofo era consapevole di questo suo pencolare su un vuoto, un abisso che si apriva sotto le fondamenta di una critica alla realtà positiva su cui l’uomo comune sembrava camminare a suo agio, incontrandovi il proprio senso comune. D’improvviso, questo territorio si apriva su un fondamento diverso, meno ‘positivo’, più fluido. Insomma, se questa ipotesi fosse fondata, si può immaginare che la pienezza del linguaggio, lungi dal nascondere la profondità della crisi e le inquietudini in cui il mondo si avvolgeva, costituiva una risposta attivistica, quasi mobilitante nello stile, una sorta di linguaggio che possedeva una spinta realizzativa fondata però su una logica rigorosa, un insieme che è un tratto permanente nello stile gentiliano.
Le date si rincorrono: 1907, la prolusione tenuta da Gentile il 10 gennaio all’Università di Palermo. Il titolo è appunto Il concetto della storia della filosofia. Ricollocato in un altro quadro il rapporto tra filosofia e scienza, ora il tema diventò il nesso tra filosofia e storia. E le novità che si annunciavano furono determinanti per le prime formulazioni dell’attualismo. Qui si assiste a uno spostamento del luogo stesso dove la filosofia si forma; si accentua un almeno provvisorio distacco dalle matrici dell’epistemologia kantiana, e tutta la riflessione entra in un territorio aperto, al confine fra essere e non-essere, dove quasi la vita viene colta nel suo atto sorgivo e dove la filosofia di Gentile appare in sintonia con i turbamenti del tempo. Al tema della storia introduce il tema della vita, e il comparire in essa del dolore, del senso della finitezza.
La dissipazione dello spirito nei fenomeni può durare finché la vita scorra facile senza ostacoli, o solo incontrandone lievi, attraverso le vicende delle cose che sono: finché non spunti il dolore. Ma prima o poi quest’ora spunta per tutti, e il dolore è un arresto di vita: un’oppressione che il non-essere, spuntando a un tratto dall’essere, esercita sull’anima umana, e richiede, quasi impone un’altra vita: una vita che non sia più essere soltanto, ma essere insieme e non-essere (Il concetto della storia della filosofia, in Id., Opere filosofiche, cit., p. 272).
Qui non si tratta di ripiegamento nel dolore personale, ma del dolore di un’epoca:
I grandi sommovimenti morali della seconda metà del secolo testé finito hanno svegliato in tutti il sentimento profondo della filosofia come scienza della vita, scienza rischiaratrice e orientatrice dello spirito del mondo, scienza essenzialmente morale perché intimamente metafisica (p. 278)
che va conducendo verso il ritorno di quella filosofia «implicita in ogni spirito umano» che illumina la coscienza dell’essere «come librata tra il non-essere da cui sorge e il non-essere in cui tramonta» (p. 272), «vita di luce in mezzo a un caos di tenebre» (p. 273).
Liberata la struttura del mondo dalla sua riduzione nella metafisica del positivismo, nella subordinazione della coscienza e della conoscenza al «dato» della realtà, si può dire che l’esistenza, il senso della sua finitezza riemergano con una immediatezza dolorosa e, insieme, con un primo riflesso di consapevolezza di quel non-essere da cui tutto è circondato. La domanda è intorno all’essere, ma si può semplicemente inchiodarlo nella fissità presupposta di un dato? Questo essere che ritorna non ha più nulla dell’essere della vecchia metafisica, ma va ripensato anche rispetto alle grandi conquiste che si muovevano fra Kant e Hegel: il primo era ricaduto nell’intellettualismo, il secondo in una idea presupposta all’atto vitale del pensiero. ll platonismo continuava a dominare la storia della metafisica, anche di quella che aveva inteso liberarsene. Ma il pensiero è l’origine, non ha presupposti.
Da qui si apre il territorio della storia e il nesso fra storia e filosofia, travagliato tema dell’idealismo italiano, tema d’urto e di relazione fra Croce e Gentile. Proprio la prolusione palermitana aprì la questione che si sviluppò nel saggio coevo Il circolo della filosofia e della storia della filosofia. Quell’essere che è anche non-essere è preso, coinvolto, nella logica del divenire. È un essere che è non-essendo, divenendo. È un essere intrinsecamente storico. È la storicità che lo connota, e la storicità è legata alla sua volontà di realizzazione,
il ritmo dello spirito, alla cui formazione assistiamo interiormente, spettacolo insieme e spettatori, il ritmo del conoscere e dell’operare di tutto ciò che è, di tutto l’essere (Il concetto della storia della filosofia, cit., p. 277).
«Così è accaduto che, cercando il concetto della filosofia, abbiamo insieme trovato quello della filosofia e quello della storia» (p. 283). «Storia e filosofia sono due concetti sostanzialmente equivalenti e reciprocamente convertibili» (p. 290).
Ma che significa aver riscoperto il territorio della storia? Qui si verifica una tensione concettuale che forse non si risolve mai, anche se si trasforma nella Logica e in Genesi e struttura della società: la storicità sembra, insieme, garantire la verità per accumulazione e la totale e rivoluzionaria discontinuità dell’atto, la storicità intrinseca al suo non-essere/essere, il continuo ricrearsi della storia nell’atto che la pensa, che riduce il passato a errore e la verità a eterno presente. A un tempo, la tradizione appare come terreno di una necessità che si forma e permane: tema importante per la rappresentazione del Gentile riformatore politico-religioso e in lotta per la formazione di una coscienza nazionale.
Il filone che va seguito è quello della discontinuità creativa dell’atto, giacché lì c’è la scintilla segreta di tutta la filosofia di Gentile, dove la storia è continua creazione e ricreazione nella coscienza alta dello storico e in quella dell’uomo comune, che continuamente crea e ricrea la propria vita: storia e vita stanno in una relazione che da un lato non ne abolisce la tensione, dall’altro le lega nella comune creatività. Conquistata la storicità come creazione continua, è conquistato l’atto, si è trascinato l’essere fuori dal terreno della vecchia metafisica, ed esso diventa l’eterna presenza a se stessa della storicità della vita. «Di reale noi non conosciamo che l’atto dello spirito: e come questo atto è essenzialmente produttivo e creativo» (Il concetto della storia della filosofia, cit., p. 291). Qui l’unità intrinseca di storia e filosofia si fa patente, sicché «la filosofia è storia e la storia è filosofia» (p. 295), le due endiadi risolutive della verità dell’atto, con la conseguenza ulteriore che
la storia vera è la storia della filosofia e questa è la vera filosofia. Onde veramente il circolo non si chiude nella storia, in quanto storia, ma nella filosofia,
come Gentile scrive nel saggio Il circolo della filosofia e della storia della filosofia (in Id., Opere filosofiche, cit., p. 309).
Ma il circolo si può chiudere nella filosofia perché la filosofia coincide con l’autocreazione dell’atto, quella che Gentile definisce, nella comunicazione alla Biblioteca filosofica di Palermo del 1911 intitolata L’atto del pensare come atto puro, «autoctisi»: un processo che contrae tutto il tempo nel presente, e dunque non parla della storia «frantumata nello spazio e nel tempo» (in Id., Opere filosofiche, cit., p. 321), ma di quella storicità interna all’eternità di un essere che è non-essere, eterno divenire, e non lascia nessun residuo oltre di sé, e può risorgere continuamente da se stesso perché in se stesso è compresa tutta l’energia storico-vitale del mondo. Così è scardinato il mondo «positivo» che si era acquietato «elevando surrettiziamente la scienza a fondazione critica della scienza» (Garin 1983, p. 344). Il confine della razionalità viene rimesso problematicamente in discussione. Il mondo diventa l’atto del mondo, eternamente presente a se stesso, e in questa presenza, e solo entro di essa, recupera il passato rendendolo presente al pensiero. Quel pensiero che è «assolutamente attuale e nostro» (L’atto del pensare come atto puro, cit., p. 312 [corsivo mio]). «Nostro», dice Gentile, individuandolo come costitutivo di società.
Questo è l’interrogativo cruciale che accompagnò l’attualismo anche nelle sue diverse versioni, fra Teoria generale e Logica. Perché il lemma pensiero non può essere assunto acriticamente, e quello che lo connota è l’atto, parola assai più enigmatica, che sposta l’accento sulla dimensione complessiva della creazione, sulla sua originarietà, su quella sintesi di sentire, vivere e pensare che costituisce la sua complessità, e che nella Filosofia dell’arte, del 1930, toccherà l’apice nella tensione massima fra sentimento e pensiero, onde «se al pensiero venisse una volta a mancare il sentimento che esso oggettiva, il pensiero verrebbe a lavorare nel vuoto, e cioè cadere nel nulla» (La filosofia dell’arte, 19753, p. 154).
Non c’è interpretazione più riduttiva di Gentile e del lemma pensiero di quella raccolta nel termine soggettivismo o neofichtismo. Già quel ‘nostro’ – richiamato poco fa – è sintomatico, e indica quasi una spersonalizzazione dell’atto del pensiero che giunge da echi non più vicinissimi nel tempo, da quel concetto di prassi che Gentile aveva visto come il contributo radicale di Marx alla filosofia. Ritorna quel che Gentile aveva detto qualche anno prima, su quel fondo naturale da cui sgorga il pensiero; si mette sotto una luce intensa quell’immagine del pensiero come identico alla volontà e al sentire; e si conferma la lucida analisi di Croce che, rivolgendosi al suo amico filosofo, diceva: «il vostro Atto puro che voi chiamate Pensiero, si potrebbe del pari chiamarlo Vita, sentimento, Volontà» (Garin 1991, p. 73), dove Croce coglieva in Gentile quell’allargamento dei confini della razionalità che i suoi ‘distinti’ tendevano a conservare rigorosamente.
Insomma, il pensiero da un lato è solo pensiero, tutto concentrandosi in esso, ma quel tutto che in lui si concentra travolge il suo senso classico e meramente coscienziale per dargliene un altro attivo e realizzativo che coinvolge l’unità della persona fin quasi a desoggettivarla. Un problema che Gentile mai riuscì a risolvere completamente: che cosa quel pensiero veramente contenesse dentro di sé, quanto larghi e comprensivi fossero i suoi confini, quale il rapporto fra sé e la propria realizzazione, i veri problemi dell’attualismo, al di là delle «farneticazioni», come annotò criticamente Garin (Garin 19752, 2° vol., p. 377), sul preteso solipsismo che impegnò per tanto tempo il dibattito italiano.
Per rispondere a qualcuna di queste domande bisogna passare ai discorsi sulla religione e sul rapporto fra questa e la filosofia, che intervennero in quegli stessi anni. Il parallelismo anche cronologico fra i due tipi di approccio al tema della filosofia (filosofia-storia/filosofia-religione) apre alla relazione tra il Gentile filosofo e il Gentile riformatore politico-religioso. Il fatto che questi testi sulla religione fossero scritti negli stessi anni in cui Gentile fondò il suo «atto puro» è già un segno di quella connessione, di quelle due attitudini del pensiero gentiliano che sono inscindibilmente legate fra loro. Osserva Garin quanto sia
significativa la presenza fra il 1903 e il 1909 di figure come Laberthonnière e Blondel, come James, come Boutroux, quasi a sottolineare per un verso l’attenzione alla dimensione religiosa, e per un altro la tensione ‘pratica’ all’azione (Garin 1991, p. 51).
Si tratta in realtà di un altro versante dello stesso atto, che accoglie tutto ciò che il lemma pensiero sembra escludere e lo immette in un tragitto in cui deve incontrare «una logica della vita morale» (Garin 1991, p. 51). Tutto questo muta l’idea stessa della filosofia e il rapporto del filosofo con la realtà. Ne La filosofia dell’azione del Laberthonnière, Gentile scrive:
Filosofare non è intendere i libri, ma cercare di vivere pienamente, sapere davvero che cosa è vita […]. E questo non è pura speculazione ma anche azione […]. La filosofia non è come la matematica, la quale, intesa, avvince l’assenso: la filosofia non si intende davvero se non si ama (in Id., Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, 19623, p. 18).
Si conferma quanto sia ricca quell’espressione «L’atto del pensare come atto puro» (quanti equivoci ha creato quel «puro»!), e quanto lontano dalla fisionomia di un pensiero chiuso nel solipsismo di un soggetto bloccato nel proprio circuito, e quanto consapevole della crisi della vecchia filosofia, non solo per la necessità di grandi innovazioni teoretiche, ma anche per come la nuova filosofia spostava il rapporto con la vita, entrava nel pieno del suo conflitto, appoggiandosi su quell’idea di amore della vita che sembra avere quasi un’ascendenza spinoziana. Ma non solo. Qui entra in pieno il Gentile civilmente impegnato: la sua critica al modernismo appare una critica filosoficamente senza appello, ma l’errore che essa volle mettere in luce fu nella scissione che il modernismo operava fra il principio dell’immanenza di Dio nell’uomo e l’organizzazione politico-gerarchica che rendeva il cattolicesimo una religione «superiore» e vincente rispetto al principio protestante, una religione che resta una grande potenza storica proprio per la sua capacità di far vivere i contrari nella loro relazione (G. Gentile, Il modernismo e l’Enciclica ‘Pascendi’, in Id., La religione. Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia. Discorsi di religione, 1965, p. 47). Una potenza contraddittoria rispetto alla filosofia dell’immanenza, ma capace di costruire storia politico-civile, sintomatico e costante atteggiamento gentiliano che riconobbe nel protestantesimo il sale della terra della modernità, ma destinato a essere integralmente assorbito nella filosofia dell’immanenza.
Il percorso teorico di Gentile riprese con La riforma della dialettica hegeliana e Bertrando Spaventa del 1912, Il metodo dell’immanenza dello stesso anno, L’esperienza pura e la realtà storica, prolusione al corso di filosofia teoretica tenuta all’Università di Pisa il 14 novembre 1914. Testi che preludono alla sua prima opera sistematica che è La teoria generale dello spirito come atto puro, del 1916. Nella Riforma, Hegel è criticato con l’aiuto di Kant e di Spaventa: Kant, per la sua più netta affermazione dell’originarietà – poi tradita – dell’atto del pensare, Spaventa per quel suo tentativo di «mentalizzare la logica», di renderla interna all’atto del pensare che, essendo solo divenire, è prassi ed esperienza, storicità. Bisognava uscire dalla datità. Hegel aiuta e non aiuta. Gentile, in fondo, è Kant+Hegel+Spaventa (+Marx) e l’attualismo è la transustanziazione di queste ‘fonti’ nell’atto: provare l’identità significa originarietà esistenziale del divenire, annientamento del dato; il mondo non c’è, si crea, logica ed etica coincidono. L’essere è solo non-essendo, secondo la formula spaventiana. L’essere è pensare come volere, il che sposta Gentile verso Hegel, oltre la scissione kantiana, verso il metodo dell’immanenza come dirà lui stesso in un saggio coevo.
Così è posta la questione fondamentale dell’attualismo, intorno alla quale Gentile non cessò di interrogarsi, dalla Teoria alla Logica alla Filosofia dell’arte, fino a Genesi e struttura della società: che cosa è effettivamente l’atto del pensare? Non basta soltanto stagliare l’attualismo contro il platonismo visto come modello concentrato di tutta la metafisica occidentale – metafisica che considera la realtà presupposta al pensare – per cogliere l’originarietà di quest’ultimo e intenderne il senso. Certo, questo è il nucleo fondante, la totale distruzione del presupposto, mai così integrale nella filosofia, quello che dette a Gentile il sentimento di porsi quasi a conclusione di un processo, traendo fino in fondo la conseguenza dell’originarietà dell’atto di pensiero, ma ciò non basta: su che si appoggia un pensiero che ha distrutto il presupposto? Non è forse messa così in discussione la sua finitezza? Pensiero è «provare l’identità», continua creazione del mondo; esso non è mero atto riflessivo che pencola verso qualcosa di già formato all’esterno, bensì anzitutto «sentire sé che sente qualche cosa», «progressiva autodeterminazione», e ha l’ufficio «di svegliare gli uomini e dar loro la coscienza di questo mondo come opera dello spirito che si agita in loro e la coscienza del loro stesso essere nella sua energia creatrice», come dice Gentile nella prolusione al corso di filosofia pisano del 1914 (L’esperienza pura e la realtà storica, in Id., Opere filosofiche, cit., pp. 426-27). Svegliare gli uomini: tutto concentrato nell’energia creatrice del mondo, nel risveglio delle opere, nella risposta alla crisi, vista non più nello scandagliamento della logica dei saperi, quanto nella riscoperta del rapporto fra il pensiero e la propria origine, quel collegamento che si era perduto e che, perdendosi, faceva crescere a dismisura il mondo oggettivo, e costringeva l’uomo in uno spazio sempre più ristretto e astrattamente necessitato. L’atto di liberazione compiuto fu assai rilevante. In discussione non era una riforma della cultura, quanto il cogliere l’uomo nella concretezza e asprezza del suo destino, della sua esistenza. Ma la liberazione di questa infinita energia – che è assai riduttivo chiamare ‘attivismo’ – verso dove conduceva? Come misurava la realtà che produceva? Gentile seguì due vie non coincidenti, nella Teoria e nella Logica, vie che sono difficili a cogliersi perché sembra, nell’attualismo, «di vedersi sempre dinanzi lo stesso problema variato solo di tono e di colore» (Scaravelli 1999, p. 34). Ma non è affatto così, come lo stesso Luigi Scaravelli mostrò.
Nella Teoria, Gentile non raccolse tutti i filoni che aveva preparato nei saggi precedenti, ma ne seguì essenzialmente uno, lo estremizzò e lo isolò. Lì, il pensiero si staglia infinito, sembra non incontrare resistenze, o tutte quelle che incontra le abbatte e le risolve nella propria infinitezza. Il pensiero è tutto, nell’attualità dell’Io. Ha rotto ogni barriera, ha ingoiato tutta la realtà, è il risultato di una scoperta dirompente che si deve ancora assestare. Certo, intendere è anche amare e volere (Teoria generale dello spirito come atto puro, 19385, p. 13), e dunque il pensiero è sempre potenza unificante di un’energia vitale più ampia, che ne fa una visibile potenza esistente, ma il punto chiave di quel testo è il modo in cui l’astratto, il pensato, l’oggetto, vengono risucchiati nell’atto, nella sua sostanziale inoggettivabilità. La sua realizzazione non incontra ostacoli.
Sono le due visioni della «logica dell’astratto» che distanziano le due opere maggiori di Gentile con conseguenze straordinariamente ampie sul divenire dell’attualismo. L’infinità del pensiero si riflette nell’infinità della coscienza. Il fuori della coscienza è sempre dentro. «Designa cioè un rapporto tra due termini, che, esterni l’uno all’altro, sono tuttavia interni entrambi alla coscienza» (Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 32). Tutte le cose sono raccolte nell’unità della coscienza, «le cose sono molte in quanto sono insieme, raccolte nell’unità della sintesi» (p. 35), e questa sintesi è creazione, non teoria. Certo, la contemplazione è anche azione, il pensiero è anche realizzazione, e questo è un punto di non ritorno dell’attualismo, il suo dirompente atto di nascita, ciò che dà unità al tutto. Ma i nodi veri sono due: che cosa è ‘pensiero’ e che cosa è ‘pensato’, quale la correlazione fra concreto e astratto. Nella Teoria l’infinitezza del pensiero è invadente, «l’altro da noi non è tanto altro che non sia noi stessi» (p. 43), l’altro, il pensato, compare quasi come un ostacolo privo di consistenza, necessario solo per affermare da subito l’epifania della coscienza.
Quella realtà abolita come presupposto del pensiero, che è il costante motivo di attacco di Gentile al platonismo, si presenta come un opposto immediato di cui il filosofo non vede l’ora di liberarsi. E l’infinità del pensiero sgorga proprio da questo atteggiamento, e sembra annientare la stessa storicità del passato in una estremizzazione del pensiero come historia rerum gestarum (p. 50) che diventa storia di sé come pensiero capace di annientare la materialità delle res gestae. Si estremizza la formula, d’origine spaventiana, secondo la quale il pensiero è non-essendo (p. 56) dove la concretezza del divenire sembra ingoiare la materialità del mondo. L’oggetto irrelativo a un soggetto è un non-senso (p. 88), ma altro è lo sciogliersi del primo all’accensione del secondo che sembra sgorgare dal nulla, altro il suo esistere quasi coevo al primo, in una visione in cui l’astratto è concreto, si potrebbe dire, non meno del concreto.
Nella Teoria Gentile torna quasi cartesiano, del René Descartes che dal cogito svaluta i cogitata (p. 97), li fluidifica integralmente nell’atto del pensare. Tutto è conciliato in questa visione immanente all’atto «in cui l’Io si pone in modo sempre più ricco e più complesso» (p. 104), ma l’assorbimento dell’Io nell’infinità del pensiero sembra aprire lo sguardo su un mondo dove non c’è posto per altro che per questa infinità, e qui c’è un vero punto critico: il paradosso dell’infinità del pensiero si rovescia sul suo semplice e immediato identificarsi con il mondo. Che cosa può ostacolare un infinito che ‘è’ solo divenendo? Ma che cosa significa che un infinito diviene? Non trova sempre e solo se stesso? Gentile prova a parare l’obiezione: «Penso io veramente me stesso, se non penso altro che me stesso?» (p. 107). Ma la risposta riconduce al punto di partenza: l’altro da me stesso, la molteplicità, è talmente influenzato dal ‘me stesso’ da esserne una proiezione. Tutto immanente al processo dello spirito.
Ma noi abbiamo ripetutamente avvertito che la stessa realtà estrasoggettiva è una realtà posta dal soggetto come tale, quindi, soggettivamente parlando, soggettiva anch’essa.
La sua «estrasoggettività» si misura tutta e solo «al grado o modo di soggettività» (p. 118), sta interamente nel «divenire» di quell’infinito. L’infinito vive questo eterno presente (p. 125). La libertà sembra stagliarsi incondizionata. Certo, già qui Gentile dice che «l’oggetto è la vita del soggetto» (p. 191), ma quell’oggetto che è la vita del soggetto non è che sua proiezione. «Il processo è del soggetto perché un oggetto in sé non può essere altrimenti che statico» (p. 198). La conoscenza è creazione. «Il soggetto, che concepisce sé concependo tutto, è la realtà stessa» (p. 231). E il concetto diventa persona (p. 239), termine che si gonfia di una realtà che esso non sembra poter contenere.
Altra la temperatura della Logica. Qui l’astratto e la logica che gli corrisponde prendono tutt’altro corpo. È il paradosso del pensiero infinito che trova resistenze e ostacoli; il concetto del pensiero diventa meno euforico, meno trionfante, ed è destinato a misurarsi in ben altro modo con la finitezza. Gentile sembra non rinnegare niente, dando sempre l’impressione di un pensiero che procede crescendo su se stesso, ma i capitoli dedicati al rapporto fra «logo astratto» e «logo concreto» aprono uno scenario per certi aspetti imprevisto; il pensato, il concetto battono alla porta per riconquistare i loro diritti, stringono l’infinito nella morsa del finito per dargli forma, vita.
Basta entrare dentro all’atto stesso di chi pensa. Lì è il pensare; ma lì è pure ciò che si pensa, il pensiero pensato; e se questo non ci fosse non ci sarebbe pensare; e però neanche il pensante. Il quale c’è perché appunto pensiamo: e c’è dunque il pensato, e non se ne può fare a meno. Non c’è dialettica che possa cancellarlo (Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., 2° vol., p. 9).
Questo pensare genera dal suo seno il pensato, e vive in questa sua generazione, fuori della quale cesserebbe perciò di essere quell’attività che esso è. E basta questa eterna immanente generazione del pensato dal pensare per costringerci a convenire che una logica del pensiero non può fare a meno di una logica del pensato (p. 10),
che dà forma e organizzazione al mondo, il quale guardato tutto dal lato del pensante si disperde in un cattivo infinito. «Bisogna dunque che parli l’oggetto» (p. 20). L’Io è l’esperienza. «Solo mediandosi l’Io si oggettiva» (p. 20). Ed è l’oggetto che salva l’Io, il quale, senza di esso, «sprofonderebbe nell’abisso senza fondo del nulla» (p. 26). La creatura, certo, non crea, ma la creatura ha la medesima funzione dello scolaro rispetto al maestro, reagisce sul suo «creatore», lo determina, gli dà vita, fiducia nella «obbiettiva saldezza del suo stesso pensiero». Lo limita, quasi comprendendo il paradosso e l’errore del pensiero «solo» infinito. Errore, se l’infinito pretende una impossibile solitudine, non, naturalmente, se esso sta in quel rompere i confini del mondo dato, in quel continuo ricostituirsi del suo atto creatore.
Qui il lemma pensiero si trasvaluta quasi, ponendosi come organo sintetico della vita. Gli umori che lo formano fuoriescono sia dalla dimensione meramente riflessiva sia da ogni iperdeterminazione soggettiva, gli restituiscono intera la sua dimensione vitale, fanno traboccare la logica nell’etica e nella politica. E il percorso di Gentile torna verso quel punto sintetico da cui è nato, che vedeva nella filosofia l’atto continuamente creativo del mondo, logica come etica, secondo la conclusione esplicita del filosofo, etica come politica, politica come immanenza della comunità nell’individuo.
A conclusione della Logica, troviamo il capitolo intitolato Etica, finale non sorprendente. «La logica si converte nell’Etica»; «Io non sono immediatamente Io, e quell’Io che sono immediatamente, convien che cessi di essere affinché io sia Io. Così la verità è mia nel dialettismo» (p. 331).
Lo scetticismo morale è invincibile finché si distingua la logica dalla morale e l’atto del pensare da quello del volere, quasi si potesse in qualche modo pensare senza assumere una responsabilità in quello stesso mondo della libertà, che è il mondo della coscienza morale (p. 339).
Siamo artefici e responsabili della creazione del mondo. È l’umanità il soggetto non retorico di questa creazione-appropriazione, di un mondo «che non c’è già, ma ci deve essere, lì, innanzi a lei; e ci sarà, se essa vorrà, e sarà quale essa la farà». Tutta la filosofia di Gentile si raccoglie in questo punto, in questo «redimere il mondo» (p. 358) che ha un afflato profondamente kantiano, di un Kant passato attraverso l’etica politica di Hegel, e attraverso il passaggio della ragione epistemica nel dialettismo dello spirito.
In questo senso la Logica si lega agli esordi di Gentile, a quella Filosofia di Marx che pur gli tornava in mente come qualcosa in cui si agitavano temi e sensibilità che sarebbero stati del suo pensiero maturo. Il soggetto è sempre più prassi vitale; e, nella prassi vitale, logica ed etica si unificano; e tutto spinge verso quella statualità che già nella Filosofia del diritto veniva disegnata in interiore hominis e nella Logica veniva richiamata in un singolare passaggio: «Ma l’uomo che si elevi a Dio e faccia sua la volontà di lui e faccia Stato con lui» (p. 345). Ma in Genesi e struttura della società, libro postumo e drammatico testamento, prese la sua forma conclusiva. Etica, logica e politica si legano insieme in un punto comune che è la comunità degli uomini. «Lì, nell’atto del pensiero, dunque l’eticità: tutto il mondo morale» (Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1946, p. 9). Ma questa unità non è possibile se si sopprime «l’unità sostanziale della convivenza umana» rendendola accidentale, atomistica. «La comunità è presente come legge interna all’individuo» (p. 17); «si tratta del Noi e della comunità che ha vita nell’atto stesso dell’individuo» (p. 44), la comunità non è cornice esterna, ma orizzonte interno alla prassi umana vitale. Ciò garantisce che la vita continua «oltre la morte empirica» (p. 150), quella vita che solo è «divenendo», «negando il proprio essere primitivo» (p. 157). «Negare se stessi. Morire. Immortalarsi, non restare attaccati a se stessi come l’ostrica allo scoglio» (p. 157). Sembra un Gentile in ascolto di Bruno.
Non voglio immaginare, con vena retorica, un Gentile presago, ma certo, anche per la disfatta che lo circondava, il filosofo sapeva forse di esser giunto al suo ultimo libro. Sembra quasi che egli guardi alla propria vita, dall’alto di un travaglio che cerca di trasformare il dolore in sguardo – insieme inquieto e pacato – sul dolore del mondo, di un mondo «che non esiste» (pp. 159-60) se non nell’atto che lo crea, annientato nella sua meccanicità, nella sequela causale dei fatti, ma salvato, «redento» «dove esso può attingere realtà, nell’interno dell’animo nostro, dove la sua realtà è il suo relizzarsi»; tutto questo come per liberarsi di un fardello troppo pesante a sopportarsi e come anelito di liberazione dalla costrizione dei fatti, ma anche in piena coerenza con una filosofia che aveva inteso rispondere alla crisi d’epoca riconquistando alla prassi umana un possibile destino.
Attraverso che cosa procede questa liberazione? In Genesi, la politica torna al centro. «In tutte le età, in tutte le condizioni di vita spirituale che si possano distinguere, la politica è una immanente attività dello spirito umano» (p. 136). La politica è «la trascendentale socialità che l’individuo ha seco stesso» (p. 136), è lo Stato in interiore hominis, intrinsecamente instabile come la prassi in cui si oggettiva: contro il senso che la parola sembra trasmettere (stato, staticità), che quasi lo declina al passato, mentre il passato è «la voragine in cui la vita vissuta è precipitata e sparita» (p. 141), e la verità eterna è continua creazione ex novo, vita che muore sempre a se stessa e si rinnova. Lo Stato è questo, qualcosa che da esterno si tramuta in interno, dove si toccano in una relazione drammatica il suo carattere totale e la sua volontà di libertà. Un nesso che ha stretto in una morsa il pensiero del Novecento.
Un travagliato capitolo fra storia del pensiero e storia politica. Ingenua la tesi della reciproca estraneità, magari motivata con la radicale lontananza tra filosofia e politica, in paradossale opposizione all’intera storia della metafisica europea. Ma problematicamente aperta la relazione, che si lascia guidare anzitutto da un tratto biografico intensamente proprio della personalità del filosofo: l’aspetto di riformatore politico-religioso che ha accompagnato il suo stile di pensiero, e lo ha condotto a determinate scelte tematiche, storiografiche e politiche, tagliate sulla storia italiana: il pensiero del Rinascimento italiano come tratto decisivo di una storia civile e in parte di una decadenza. Giordano Bruno eroe filosofico, la filosofia italiana fra 18° e 19° sec. in chiave antisensista, Giuseppe Mazzini riformatore religioso, Antonio Rosmini-Serbati e Vincenzo Gioberti campioni dell’antilluminismo, Spaventa e lo Stato etico, il Risorgimento e la Restaurazione, l’interventismo del 1914, anch’esso destinato concettualmente a superare la contingenza degli eventi in una visione attivistica e salvifica della guerra. Tutti tasselli della formazione della coscienza nazionale, ‘l’altra Italia’ e tuttavia Italia.
Un blocco di cose diverse che dà alla figura di Gentile un tratto che sembra anche delineare un compito: collocarsi in una rappresentazione della tradizione italiana, e vederla in una qualche relazione con il suo progetto filosofico. Che dunque si disegna come un sistema di pensiero collegato a quelle vicende e che, nel suo corso, incontrò il fascismo e contribuì a disegnarne i tratti ideali. Dunque, anzitutto una possibile connessione storica fra tutte queste cose diverse la cui coerenza interna è data dallo scenario della storia italiana e dalla volontà di Gentile di collocarsi fra i suoi contrasti e problemi.
Gentile, insomma, ebbe una concezione religiosa della politica e della filosofia, che non si lascia niente alle spalle, si espone intera, dinanzi a un mondo che non c’è se non nel suo realizzarsi, il che sviluppa in modo inusitato la potenza dell’azione. Di contro, l’atomismo, il materialismo nelle sue varie scansioni, il secolarismo illuminista contro il quale il saggio sul modernismo incalza; di contro il liberalismo politico, la sua visione della libertà di ciascuno come confine alla libertà dell’altro. La coscienza nazionale si doveva formare come prodotto di una riforma religiosa, alla cui definizione collaborano Mazzini, il Risorgimento antilluminista nel suo rapporto con la Restaurazione, «restaurazione del divino, dunque restaurazione creatrice, implicante l’unità del filosofo e del politico» (Del Noce 1990, p. 130), «rivalutazione del termine ‘democrazia’ che qui si separa da parlamentarismo e assume il significato di regime di massa» (Del Noce 1990, p. 308).
La sua adesione al fascismo come movimento totalizzante, attivismo senza confini costituzionali, fu la conclusione abbastanza naturale di questo insieme di cose e del complesso stato d’animo di Gentile. Ma questa argomentazione non affronta ancora il tema cruciale che sta nella tensione antisecolarizzante e totale della sua filosofia, con un precipitato politico che accosta il suo atteggiamento verso il movimento fascista a quello di Martin Heidegger nel Discorso tenuto all’università di Friburgo nel 1933 verso il nascente nazionalsocialismo. Due filosofie che risposero alla crisi del tempo mettendosi in attesa, in ascolto di qualcosa che stava per giungere. In ascolto dell’Essere, Heidegger, o in ascolto della potenza dell’Autocoscienza, Gentile, preparando, per dir così, una disposizione a guardare a movimenti totali destinati a conquistare l’uomo nella sua integralità: ecco lo Stato in interiore hominis o la dura mobilitazione della gioventù universitaria tedesca in vista di una nazione fatta di terra e di sangue.
Per Gentile (come per Heidegger), questo non significa che l’apparato concettuale che definisce la sua filosofia non possa esser studiato nel suo dispiegarsi tutto interno alla storia della filosofia. Per i veri filosofi è sempre così. La loro dimensione classica, la possibilità di esser letti dal nostro tempo, li libera dalla contingenza politica, ma il giudizio su di loro deve saper guardare a ciò che li ha legati al loro tempo e alla possibilità di ritrovare questo legame entro le stesse categorie o lo stesso demone che ha dominato la loro vita. In Gentile, questo demone è la continua creazione del mondo che non lascia alle spalle nessuna riserva, nella tensione integrale e totalitaria di questa creazione, e questa visione sta tutta dentro lo sforzo da lui pensato e vissuto. Le pagine sulla morte che chiudono Genesi e struttura ne sono forse il segno più tragico, di una scelta che lui però avvertì profondamente sua, fino a sacrificare a essa la vita.
Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, 2 voll., Milano 1930.
Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze 19385.
Sistema di logica come teoria del conoscere, 2 voll., Firenze 19423.
Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, Firenze 1946.
La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 19543.
Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del Risorgimento, Firenze 19583.
La religione. Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia. Discorsi di religione, Firenze 1965.
La filosofia di Marx. Studi critici, a cura di V.A. Bellezza, Firenze 19745.
La filosofia dell’arte, Firenze 19753.
Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano 1991.
U. Spirito, Gentile e Marx, in Id., La filosofia del comunismo, Firenze 1948.
A. Guzzo, Cinquant’anni di esperienza idealistica in Italia. Cinque lezioni, Padova 14-18 maggio 1962, Padova 1964.
M. Di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Firenze 1975.
E. Garin, Cronache di filosofia italiana. 1940-1943, in appendice Quindici anni dopo 1945-1960, 2 voll., Bari 19752.
A. Negri, Giovanni Gentile, 2 voll., Firenze 1975.
E. Garin, Postilla non conclusiva, in Id., Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari 1983.
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