Giovanni Gentile
Protagonista con Benedetto Croce del rinnovamento culturale dell’inizio del 20° sec., Giovanni Gentile conquistò nel primo dopoguerra una fisionomia propria, nella quale una filosofia ‘nuova’, l’attualismo, si conciliava con una visione politica conservatrice, animata dal richiamo alla Destra storica, ora irrobustito dall’interventismo. Ministro della Pubblica istruzione nel primo governo Mussolini, Gentile divenne il filosofo del regime, membro del Gran consiglio del fascismo, presidente dell’Istituto fascista di cultura, autore del Manifesto degli intellettuali fascisti, inventore del giuramento di fedeltà al regime dei professori universitari. Negli anni Trenta nuove prospettive filosofiche, nuove generazioni, la trasformazione stessa del regime, ridimensionarono quell’identificazione. Gli rimase la grande impresa dell’Enciclopedia Italiana, e insieme una vasta rete d’impegni editoriali e organizzativi, fino alla creazione della Domus Galilaeana, alla vigilia della Seconda guerra mondiale. La tragica fine nell’Italia dilaniata del 1944 spezzò con la sua vita l’idea di una continuità tra Risorgimento e fascismo.
Giovanni Gentile nasce a Castelvetrano (Trapani) il 29 maggio 1875, ottavo figlio di una famiglia di minuta borghesia. A Pisa nel 1893, borsista della Scuola Normale, fa i suoi incontri decisivi, Alessandro D’Ancona, Amedeo Crivellucci, Donato Jaja: letteratura, storia, filosofia. Attraverso Jaja, fedele allievo di Bertrando Spaventa, il giovane siciliano scopre la propria vocazione. Laureatosi (1897), si sposta a Firenze, ancora borsista, all’Istituto di studi superiori, dove si perfeziona (1898) con una tesi discussa con Felice Tocco. Ottiene, con difficoltà, l’incarico d’insegnamento nel liceo di Campobasso, mentre si va consolidando il sodalizio con Croce, conosciuto nel 1896, grazie al quale rilancia le opere di Spaventa. Ottiene il trasferimento a Napoli (1900). L’uscita delle sue opere (Rosmini e Gioberti, 1898; La filosofia di Marx, 1899; L’insegnamento della filosofia nei licei, 1900; Dal Genovesi al Galluppi, 1903), la collaborazione con la «Critica» di Croce fondata nel 1903, ne fanno un protagonista della rinascita idealistica. Nel 1901 aveva sposato Erminia Nudi, maestra come la madre, «colta e pur ottima massaia», conosciuta a Campobasso, dalla quale ebbe sei figli. Nel 1906 è finalmente professore di storia della filosofia a Palermo, dove matura la sua filosofia (attualismo) e si concretizzano le sue idee per una riforma generale della scuola. Prende parte alla discussione sul modernismo (Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, 1909) e a quella sul neotomismo (Il problema della scolastica e il pensiero italiano, 1913). Per sostituire lo scomparso Jaja è chiamato nel 1914 a Pisa.
Mentre si acuiscono i contrasti con Croce, anche per il diverso atteggiamento sul ruolo del Paese di fronte al conflitto europeo, pubblica gli Studi vichiani (1915) e la Teoria generale dello spirito come atto puro (1916). Nel giorno di Caporetto (24 ottobre 1917) è chiamato alla cattedra di storia della filosofia dell’Università di Roma: l’eco della sua prolusione subito stampata da Laterza (Carattere storico della filosofia italiana, 1918), la collaborazione avviata con «Il resto del Carlino», gli offrono quel piedistallo nazionale da tempo inseguito. Guerra e fede (1919) e Dopo la vittoria (1920) raccolgono gli scritti su guerra e dopoguerra, la fondazione del «Giornale critico della filosofia italiana» sancisce la separazione filosofica da Croce.
Comincia qui il suo impegno diretto in politica. Nel 1920 entra nel Consiglio comunale di Roma con un ‘blocco nazionale’ di liberali e nazionalisti, nel 1921 è assessore supplente alle Belle Arti, infine ministro della Pubblica istruzione nel primo governo Mussolini. Subito dopo, la nomina a senatore. Profittando dei pieni poteri del governo, Gentile vara la riforma della scuola, la più fascista delle riforme, secondo la definizione mussoliniana che è, in realtà, una millanteria, in quanto in quella riforma confluivano discussioni e proposte di larga parte della cultura italiana, da Croce a Gaetano Salvemini.
Dedica quindi a Mussolini I profeti del Risorgimento (1923), aderisce al Partito fascista, sistema tra ministero e università i suoi allievi prediletti. Nella crisi determinata dal delitto Matteotti lascia il ministero, ma non il fascismo, nel quale anzi assume importanti incarichi fino a stendere (21 aprile 1925) il Manifesto degli intellettuali del fascismo. Pochi giorni dopo giunge la risposta di Croce con l’Antimanifesto: il dado è tratto, o con lui e il fascismo, o con Croce e l’antifascismo. Raccoglie in vari volumi i suoi interventi e articoli a favore del fascismo, mentre avvia quella che sarà, con la riforma scolastica, l’impresa sua maggiore e più amata, l’Enciclopedia Italiana (1925). La conciliazione dello Stato con la Chiesa (11 febbraio 1929) ne limita l’impegno politico (nel 1934 tutta la sua opera è messa all’Indice), ma non quello di organizzatore della cultura: oltre all’Enciclopedia, la Scuola Normale di Pisa (prima commissario e poi fino al 1944 quasi ininterrottamente direttore), innumerevoli istituti culturali, l’acquisizione della casa editrice Sansoni di Firenze, dopo la rottura con Laterza. Sul piano filosofico gli anni Trenta segnano il suo declino, connotato non solo dalla diaspora dei suoi allievi e dal sorgere di nuove prospettive, ma pure dal riemergere della figura di Croce, tra antifascismo e ripensamento della propria filosofia. Al Perché non possiamo non dirci cristiani di Croce della fine del 1942, risponde con la conferenza fiorentina La mia religione del febbraio 1943, quasi a suggello di un confronto mai interrotto.
Lo scoppio della guerra vede Gentile appartato dalla vita politica attiva, colpito per di più dalla scomparsa dell’amato figlio Giovannino (30 marzo 1941), valente fisico. Inaspettatamente riemerge in pubblico il 24 giugno 1943, mentre la situazione militare precipita, con il Discorso agli italiani in Campidoglio, con il quale invita il Paese a stringersi attorno al regime come era avvenuto dopo Caporetto. Dopo il 25 luglio, ritiratosi nei dintorni di Firenze, sembra riporre le proprie speranze e quelle del Paese nella monarchia, mentre attende alla stesura di Genesi e struttura della società, che vedrà la luce postumo nel 1946. L’incontro con Benito Mussolini installato dai nazisti a Salò, nel novembre 1943, provoca la sua adesione, fatale, al regime repubblichino. Nominato presidente di una dispersa Accademia d’Italia, cade sotto il fuoco di un commando partigiano comunista il 15 aprile 1944 a Firenze.
L’incontro con la filosofia e la personalità di Jaja segnò il destino di Gentile. Nell’ex sacerdote pugliese, ultimo seguace di Bertrando Spaventa, il giovane siciliano, sbalzato dalla profonda provincia in uno dei centri educativi più vitali d’Italia, trovò non solo la figura capace di sostituire quella paterna, di cui le traversie del padre naturale l’avevano privato, ma anche un pensiero severo, una disciplina volta a rinnovare la vita della nazione riconnettendosi all’epopea risorgimentale. Sulla crisi della vita politica e culturale contemporanea Gentile non aveva, al pari dei suoi coetanei della Scuola Normale, incertezze: l’avvento della Sinistra, il trasformismo, le umiliazioni coloniali, un positivismo estenuato che pure proclamava il superamento della filosofia con le scienze, i disordini sociali (tra cui i Fasci siciliani), il peso crescente di un movimento come quello socialista che metteva in discussione le basi stesse che avevano reso possibile il Risorgimento, lo inducevano a credere, sulle orme del maestro, che solo una riforma della filosofia, intesa come missione civile, potesse rigenerare il Paese. Un suo compagno di studi lo ricorderà «quasi solo», uno che «non piegava le convinzioni all’andazzo e alla moda dell’epoca».
A differenza di Croce, che sarebbe pervenuto alla filosofia risalendo dallo studio dei fatti letterari e storici, Gentile partì dalla filosofia, convinto che solo da una rinascita del pensiero speculativo si potesse far luce sulle altre discipline. Una filosofia non accademica, non scolastica, ma piuttosto attiva, operosa, capace di mutare il mondo, una filosofia come vita. Il suo sforzo fu anzi quello di mostrare come solo la filosofia potesse rendere vero il processo storico, ne attuasse, per così dire, il significato del passato e del presente. Per Gentile, che metteva a frutto l’insegnamento pisano di D’Ancona e di Crivellucci, quella filosofia si nutre di storia, si misura nella sua capacità di illuminare i fatti, i quali peraltro sono già – o devono essere – formale elaborazione del pensiero. Ricostruire, anzi, rivendicare la presenza filosofica europea dell’Italia del primo Ottocento (Antonio Rosmini e poi Vincenzo Gioberti), ricollegarla alla spaventiana circolazione del pensiero, pareva a Gentile il primo compito per riscattare dall’oblio una speculazione che egli riteneva a fondamento del Risorgimento. Se Rosmini è il Kant italiano, Gioberti ne è la conclusione necessaria (al di là degli apparenti contrasti): a loro si deve il merito di aver riscattato il concetto di nazionalità, di aver mirato alla rigenerazione politica. L’incontro tra il movimento romantico, prevalentemente letterario, laico, con l’idealismo cristiano di Rosmini e Gioberti, nei quali il sentimento religioso assume solo come forma il cattolicesimo, dà contenuto al movimento che preparerà il Risorgimento.
All’influenza così dominante di Jaja si aggiunse in quegli anni di fine secolo il rapporto con Croce. Dopo la figura paterna è ora quella del fratello maggiore che riempie la vita del giovane Gentile. Croce gli apre fronti inesplorati: l’arte, il rapporto tra forma e contenuto, accanto a Spaventa, Francesco De Sanctis. Tra il 1897 e il 1899 Gentile si interpone tra Croce e Antonio Labriola nella discussione sul marxismo. Dedicando a Croce La filosofia di Marx, paragonava il proprio idealismo al realismo dell’amico, entrambi caratterizzati dal «bisogno de’ principi che vivono ne’ fatti», da «fatti che s’adunino e compongano in ideale organismo». A differenza di Croce, e di Labriola, Gentile non era mosso nei suoi studi su Karl Marx dalla situazione politica e sociale del Paese. Anzi, già nelle prime pagine, non solo ne negava l’emergenza, ma rivendicava alla «calma critica della scienza» non lasciarsi stordire dalle grida della moltitudine. E da filosofo egli intese trattare del marxismo, tagliandone ogni rapporto con il movimento politico che aveva ispirato. Se per Croce il marxismo si riduceva a un canone, a un metodo di interpretazione della storia, da cui pur non potendo dedurre nessuna legge, né una filosofia della storia che ne garantisse l’attuazione, ne veniva salvaguardato l’uso che il movimento socialista poteva farne nell’interpretare e cambiare il presente, per Gentile è invece proprio dalla filosofia di Marx che germinano tutte le sue idee storico-politiche. Dimostrandone l’insussistenza filosofica, Gentile non solo toglieva ai movimenti che ne erano ispirati qualsiasi pretesa di ‘scientificità’, ma li riduceva alla stregua delle tante utopie che avevano attraversato la storia. In realtà ben più del Rosmini e Gioberti lo studio su Marx offrì a Gentile, parallelamente a quello su Spaventa, l’occasione di un approfondimento teorico del proprio filosofare, di precisare, confrontandone gli esiti, il ruolo di Georg Wilhelm Friedrich Hegel.
Dal Rosmini e Gioberti aveva imparato che il criterio con cui misurare e scegliere il passato al lume della storia contemporanea consisteva nel trarre i «succhi più vitali» per evidenziarne il rigoroso concatenarsi dei concetti. Lo storico, l’interprete cioè della vera filosofia, determina ciò che doveva fare un filosofo, diverso da ciò che ha fatto e da ciò cui mirava. Per poterne scorgere il valore speculativo occorre scomporre, per rifarlo, il puro fatto storico. Così filosofia, storia della filosofia, storia divengono aspetti della medesima speculazione. Una filosofia non basata sulla storia rimane estranea alla vita dello spirito, condannata alle idee astratte. Ricostruire il reale processo storico, indicare il nesso necessario onde sono annodati nella storia gli uomini e gli eventi è il solo modo di ricomporre l’assoluto nella sua purezza, che si ottiene scomponendo il sistema filosofico considerato, eliminandone tutto ciò che è risposta a domande storicamente determinate, di cui proprio la storia attesta la contingenza. Si tratta di stabilire in altri termini un rapporto tra la logica del tempo del filosofo preso in esame e quello del tempo dello storico che ne ricostruisce le vicende. Il compito della filosofia è quello di produrre un ripensamento storico della situazione, della sua genesi ritrovata attraverso le vicende che ne hanno espresso la consapevolezza concettuale.
Con acquisizioni teoriche, affinate e precisate in un serrato dialogo con Croce, Gentile si accinse a riscrivere la storia intellettuale d’Italia, dal Risorgimento al Rinascimento, all’uscita dal Medioevo. Sulla scia di Bertrando Spaventa, il Rinascimento gli appariva simmetrico all’età risorgimentale: allora la rivincita della filosofia (neoplatonismo) aveva consentito di superare l’aridità della scolastica, il suo carattere non nazionale, così quella del neoidealismo, opponendosi al positivismo e allo spiritualismo, aveva permeato il Risorgimento. Egli intende riprendere, rinvigorire quella tradizione (La rinascita dell’idealismo, 1903), combattendo tutto quello che si era fatto in Italia tradendo l’insegnamento di Spaventa e della Destra. Su questa scia nel volume Dal Genovesi al Galluppi intendeva riempire quel vuoto che si era aperto tra Giambattista Vico e l’età della restaurazione, il cui massimo esponente gli appariva Alessandro Manzoni, mentre legati alla cultura illuministica, e pertanto estranei a quella tradizione, gli parevano Giacomo Leopardi, Giuseppe Ferrari, Carlo Cattaneo.
Gioberti con il suo Primato è l’eroe di questa rinascita, filosofo e politico insieme, mentre di contro, accogliendo il giudizio di De Sanctis, Giuseppe Mazzini è severamente giudicato, inetto a promuovere un’azione efficace per lo scarso contenuto ideale del suo pensiero. È una storia di eroi solitari, dopo Vico, Vincenzo Cuoco, pensatore degno di Niccolò Machiavelli, maestro di realismo politico che oppone alle ideologie rivoluzionarie del Settecento una coscienza nazionale, l’idea di un’educazione che discenda direttamente dallo Stato, la superiorità – egli moderato – della filosofia sulla religione. Ed è ancora Cuoco, infine, che preannuncia sulle rovine della Rivoluzione francese i caratteri dello Stato moderno, eticamente inteso.
Vico, Cuoco, Gioberti, intellettuali che appartengono a fasi storiche di stasi, di reazione a processi rivoluzionari o di restaurazione, eppure capaci d’intendere un progresso che conservi il passato, scavando nel quale Gentile scopriva, nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento, i primi germi della nazionalità della filosofia, il percorso della ragione nel suo affrancarsi dalla fede, l’affermazione dei diritti dello Stato nei confronti della Chiesa. Nel Convivio di Dante si può leggere per la prima volta un’opera letteraria nazionale, dove fede e ragione risultano armonicamente confluenti. Per questo Dante è superiore a Tommaso. Sarà tuttavia Petrarca a metter fine alla scolastica, inaugurando l’Umanesimo. Complesso, difficile, resterà per Gentile il giudizio sul Rinascimento, sospeso tra vecchio e nuovo, tra ideali astratti e accenti realistici, su cui pesava il severo giudizio di De Sanctis. Ne tratteggerà ritratti significativi, Giordano Bruno, Bernardino Telesio, Tommaso Campanella. Darà, sempre di Bruno, un’edizione esemplare, ma non un quadro complessivo. Peserà su di lui l’ipoteca storiografica ottocentesca che aveva visto nei pensatori del Rinascimento soprattutto i sostenitori del diritto del Paese alla libertà e all’affrancamento dal dominio della Chiesa. Tra il 1912 e il 1915 è comunque ancora Vico il pensatore che collega il neoplatonismo rinato in Italia con l’Umanesimo al neoidealismo, preparando la riflessione di Immanuel Kant e di Hegel.
Sarà la Prima guerra mondiale a imporre a Gentile di riconsiderare la storia fin lì tracciata, in quanto la guerra gli apparve come un’occasione di riscatto del Paese, in grado di recuperare l’imperfetta costruzione dell’Unità, restituendole quel carattere di movimento popolare che le era mancato. Significativamente sarà la figura di Mazzini a subire un radicale ripensamento. Ora (1915) diviene l’apostolo pieno di afflato religioso, del quale bisogna scrivere la storia di un’anima più che quella di un pensiero. Nel 1919, a guerra conclusa, Mazzini sarebbe divenuto il protagonista di quella nuova «educazione politica» necessaria al Paese uscito dalla guerra. Se Gioberti è la storia, Mazzini è l’utopia. Come già gli era accaduto venti anni prima, quando aveva intrecciato la propria speculazione filosofica con la ricostruzione storica della rinascita filosofica del primo Ottocento, così ora Gentile, nel primo dopoguerra, identifica la costruzione di una tradizione ideale con la sua concezione filosofica e politica. Il Dio di Mazzini diviene il pensiero stesso, la nostra natura più intima, da cui discende l’esigenza di una forte pedagogia nazionale. Da giobertiano, il Risorgimento di Gentile diventava mazziniano, con una tensione attivistica e ‘rivoluzionaria’, fino allora ignota, che gli consentirà di recuperare, attenuandolo, il giudizio così negativo sull’Illuminismo e sulla Rivoluzione francese, mettendone in rilievo il rimescolamento di idee, la creazione di nuove energie. E quindi ancora Cuoco, e dopo Vittorio Alfieri (1920-21), mentre la centralità assegnata a Mazzini, l’eroe del Risorgimento democratico e popolare, gli attirava simpatie e consensi fuori da quello schieramento politico di destra conservatrice in cui aveva militato e continuava a militare. E nel quale, a dire il vero, già prima di farne l’antesignano del fascismo, Gentile non esitò a fare di Mazzini lo scudo contro il liberalismo democratico e l’«astrattismo» (E. Codignola, cit. in Turi 2006, p. 272) di Thomas Woodrow Wilson.
Il nuovo Risorgimento disegnato da Gentile è ora investito da una profonda aura religiosa, da Mazzini a Gino Capponi, mentre sul piano storico se ne spostano i termini al 3 novembre 1918, il giorno della vittoria. Si potevano intravedere così due Italie, una che aveva portato alla caduta della Destra, contrassegnata dall’egemonia del positivismo, l’Italia di Giovanni Giolitti e del neutralismo, l’altra vittoriosa, che rinnovava la fede religiosa che aveva portato ieri all’Unità e ora alla sua compiutezza.
Il passo successivo è il fascismo, il nesso tra questo e il Risorgimento. Accettando la tessera del Partito fascista, Gentile rispondeva con una lettera aperta a Mussolini, indicandolo come l’erede del liberalismo della Destra, un liberalismo «della libertà nella legge», che guidò l’Italia del Risorgimento. È il fascismo, o meglio, ciò che per Gentile è il fascismo, che detta i contenuti per un nuovo Mazzini, «maestro dell’odierno fascismo», nel quale si identificano pensiero e azione, al quale si deve il richiamo alla serietà della vita, il superamento dello sterile individualismo, vero argine contro il socialismo. Nel 1923 la dedica a Mussolini de I profeti del Risorgimento sanciva la fusione tra Risorgimento e fascismo. Il nuovo movimento politico si presenta come una compatta visione della vita, uguale a quella che animò gli adepti della Giovine Italia. Contro chi all’interno del movimento fascista ne sottolineava il carattere rivoluzionario, lo strappo rispetto alla tradizione storico-politica, Gentile ne rivendicava il legame, attraverso Mazzini, con il vero significato del Risorgimento, dando al fascismo quel carattere spirituale che portava a identificare l’individuo con lo Stato, ben diverso dal nazionalismo, che ponendo naturalisticamente lo Stato prima dell’individuo, rivelava il proprio carattere autoritario. Gentile intendeva così recidere i legami del fascismo con il precedente nazionalismo, estraneo all’epoca risorgimentale, per collegarlo invece al genuino carattere del sentimento mazziniano. Per i nazionalisti, infatti, il concetto di nazione è un dato, e il compito della politica è quello di guidare il popolo a conoscere e seguire ciò che ne consegue. Da qui il suo carattere aristocratico, conservatore, non ‘democratico’, al contrario del nuovo regime, il fascismo, che per il suo spiritualismo – che Gentile fa risalire a Mazzini – fa del cittadino il fondatore stesso della nazione, nel momento in cui si identifica con essa, assicurandone la partecipazione totale attraverso lo Stato.
Durante la guerra d’Etiopia (1936) l’italiano di Mazzini, l’italiano che voleva e aveva fatto l’indipendenza e l’Unità d’Italia, diviene l’italiano di Mussolini, il quale, non pago dei risultati raggiunti, vuole ora una «patria grande, viva, cosciente del suo diritto nel mondo». Un’espansione, un superamento dettato dalle nuove condizioni pur sempre nel segno della continuità. Sul finire del 1943 Gentile pensò di preparare una seconda edizione del Rosmini e Gioberti, che uscirà solo postuma. Nella prefazione, datata 4 novembre 1943, ne indicava l’attualità nelle speranze che avevano animato gli italiani di cento anni prima, «quando l’Italia doveva farsi una fede per risorgere». Ora che si trattava di ricominciare da capo, bisognava di nuovo rivolgersi a quel Risorgimento. Nei primi giorni del marzo 1944 era riuscito a dare alle stampe la terza edizione de I profeti del Risorgimento. Anche qui il richiamo al suo Risorgimento era sottolineato: Mazzini e Gioberti hanno ancora qualcosa da dire, da «inculcare agli italiani di oggi». Significativamente, tra gli scritti inclusi in questa nuova edizione, ne compariva uno dedicato a Giuseppe Garibaldi, con il quale ieri come allora si poteva riunire il «cuore di tutti gl’italiani». Tardivo invito nel nome del Risorgimento a un’Italia che il fascismo aveva condotto al disastro.
Era stato ancora una volta Jaja a spingere il giovane Gentile a occuparsi della scuola, della pedagogia, in vista di un possibile sbocco nell’insegnamento universitario. Così, nella fase di formazione della propria speculazione filosofica fu facile per Gentile inserirvi il ruolo dell’insegnamento, partendo dalla difesa della filosofia come disciplina che presiede alla formazione dello spirito e all’ordinamento delle altre (L’insegnamento della filosofia nei licei). La pedagogia diviene un momento di quel progetto di riforma dello spirito nazionale vagheggiato da Gentile, anzi il più importante, perché è il modello su cui formare una nuova classe di cittadini gerarchicamente ordinati. La difesa della scuola classica si rivela il naturale contrapposto delle tendenze utilitaristiche e tecnicistiche propugnate dall’ideologia positivistica prevalente nella società italiana. La sua pedagogia si colora sempre più di tratti della sua filosofia, una scuola dove maestro e allievo si identificano, autorità e libertà si conciliano in sintonia con il carattere filosofico dello Stato nel quale si incarna lo spirito della nazione.
La battaglia contemporaneamente intrapresa con Croce per il rinnovamento della cultura diede agli interventi di Gentile sulla scuola forza e autorevolezza, mentre il sodalizio con Giuseppe Lombardo Radice gli permise di accreditarsi presso le organizzazioni della scuola, allacciando importanti alleanze, come quella con il socialista Salvemini. Da laico non esitò a rivendicare alla scuola il compito di fornire una visione seria e severa della vita, una fede, anche se fosse stata la religione, considerata un primo momento di quella realtà che è pensiero, cioè filosofia. Nel 1908 riuniva i suoi interventi in Scuola e filosofia. Nel 1913, con il Sommario di pedagogia come scienza filosofica, Gentile si propose un progetto di riforma di tutta quanta l’educazione, avente come filo conduttore l’unità dello spirito. Educazione, non istruzione, perché si tratta di un processo continuo in una scuola che si identifica ormai con la vita, in cui se la filosofia rimane l’espressione suprema, la religione resta un momento insopprimibile.
Nel primo dopoguerra (Problema scolastico del dopoguerra, 1919; La riforma dell’educazione. Discorsi ai maestri di Trieste, 1920) la scuola gli appare come la questione centrale: la conclusione del Risorgimento, le deficienze dimostrate dalla guerra, le divisioni postbelliche impongono di provvedere a un rinnovato progetto educativo, nel quale finiscono per coincidere scuola e nazione, Stato e individuo che in esso si realizza. Finalmente ministro (1922), di quello che nel 1929 assumerà il nome di ministero dell’Educazione nazionale, diede vita a una riforma organica della scuola, dalle elementari all’università, la quale doveva, nei suoi piani, portare a una restaurazione dello spirito di quella riforma Casati che aveva salutato la raggiunta unità del Paese.
A parte alcuni provvedimenti volti a ottenere l’appoggio del Partito popolare, dei cattolici al governo Mussolini, come l’invito a ricollocare il crocifisso accanto al ritratto del re, la riforma varata dal nuovo ministro era fondata sul totale controllo dello Stato che, attraverso una serie di esami (scuola media, scuole superiori, abilitazione alla professione), affermava la propria autorità e il proprio controllo. Centralismo e autoritarismo erano i binari su cui Gentile avviò la riforma di una scuola che doveva rappresentare lo «specchio verace della rinnovata coscienza nazionale», prefigurandovi un nuovo modello di società. Lo Stato si attribuiva la nomina dei presidi delle facoltà universitarie e dei rettori, così come del Consiglio superiore, teneva sotto controllo l’intero sistema scolastico, garantendo anche per le scuole private (destinate nelle intenzioni della riforma a moltiplicarsi) il raggiungimento degli obiettivi prefissi. Al centro si collocava la scuola media, vero e proprio cardine della riforma, cui era affidata precocemente la scelta del percorso formativo, perché era solo da quella che si accedeva al liceo, antiporta dell’università. Ribadendo nella riforma il primato della scuola classica, formativa e non professionale, solo il liceo classico apriva le porte all’intera università. L’insegnamento della religione cattolica diveniva obbligatorio nelle scuole elementari, un primo gradino di accesso alla morale e alla vita dello spirito, che solo chi proseguiva gli studi classici – una minoranza – aveva la possibilità di trasformare in filosofia.
«Gran monumento nazionale»: questo il proposito di Gentile nel varare l’Enciclopedia Italiana nel 1925. Dopo la scuola (Gentile aveva lasciato il ministero un anno prima) si trattava di costruire per quella stessa élite, che la riforma dell’educazione intendeva formare e salvaguardare, un’organica visione del sapere, anch’essa ispirata al nuovo ordine del Paese. Non un’enciclopedia popolare, come era la francese Larousse, né un’accozzaglia di voci, come gli era parso il progetto iniziale dell’editore Formiggini, ma un libro, nel quale da ogni voce emergesse non solo quella dell’autore, ma anche quella della sua famiglia, del suo popolo, del suo tempo. Insomma, quella medesima tradizione nazionale, quale era emersa dalla guerra vittoriosa che il fascismo rappresentava. Era il fascismo della cultura che si confondeva con la nazione, ma che non si identificava con il Partito fascista. Questo consentì a Gentile di ricorrere (soprattutto nella prima fase e in misura relativamente ristretta) a chi fascista non era, persuaso che l’«Italia nuova» fosse in grado di metabolizzare ben altro che il passato o il presente di qualche collaboratore. Anzi, questo non faceva che rafforzare il disegno, più che di una pacificazione, di un’assimilazione, in un visione totalitaria di politica, educazione e cultura, quale egli ebbe del regime, e che teorizzò nella voce Fascismo, scritta da lui, ma firmata da Mussolini.
Compiuta – un vero miracolo – in otto anni, dal 1925 al 1937, mutata la forma da impresa privata a istituto protetto dallo Stato, l’Enciclopedia non superò immune il variare delle situazioni politiche. Quella stessa liberalità degli inizi non fu tra il 1929 e il 1933 più praticabile, e non solo nella scelta dei collaboratori, ma dell’intera gamma delle voci, soggette a revisioni, spesso puntigliose e sempre vigili, politiche e religiose. Il Concordato nel 1929 aveva aperto nella struttura stessa dell’opera un varco alle forze cattoliche, dal gesuita padre Tacchi Venturi, al francescano Agostino Gemelli, ledendo in qualche modo l’integrale coerenza della originaria ispirazione seguita da Gentile nell’impostazione dell’opera. Paradossalmente, questo assicurò all’Enciclopedia la sopravvivenza al regime, così come sopravvisse la riforma della scuola, che conobbe le stesse vicende.
Per le opere di Giovanni Gentile si veda la Bibliografia degli scritti, a cura di V.A. Bellezza, Firenze 1950.
Le Opere complete di Gentile sono edite dalla casa editrice Le Lettere.
Si vedano, inoltre, le seguenti raccolte di scritti con ampio commento:
Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, Firenze 1969.
Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano 1991.
Il pensiero di Giovanni Gentile, a cura di S. Betti, F. Rovigatti, con la collab. di G.E. Viola, 2 voll., Roma 1977.
G. Calandra, Gentile e il fascismo, Roma-Bari 1987.
Croce e Gentile un secolo dopo. Saggi, testi inediti e un’appendice bibliografica 1980-1993, «Giornale critico della filosofia italiana», 1994, 2-3, nr. monografico.
G. Sasso, Filosofia e idealismo, 2° vol., Giovanni Gentile, Napoli 1995.
G. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna 1998.
Giovanni Gentile storico, «Giornale critico della filosofia italiana», 1999, 2-3.
G. Sasso, Gentile Giovanni, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 53° vol., Roma 2000, ad vocem.
G. Turi, Il mecenate, il filosofo e il gesuita: l’Enciclopedia italiana specchio della nazione, Bologna 2002.
G. Turi, Giovanni Gentile: una biografia, Torino 2006.
A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti: gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna 2009.
D. Spanio, Gentile, Roma 2011.