Pascoli, Giovanni
Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna nel 1855 e morì a Bologna nel 1912. Alla ricca produzione poetica in italiano, spesso scandita in più edizioni delle stesse raccolte (Myricae 1891, 1892, 1894, 1900; Primi poemetti 1897, 1900, 1904; Canti di Castelvecchio 1903, 1905; Poemi conviviali 1904, 1905; Odi e inni 1906, 1907; Nuovi poemetti 1909; Canzoni di re Enzio 1909; Poemi italici 1911; Poemi del Risorgimento postumo 1913) s’affiancano numerosi Carmina latini, volumi di critica dantesca, prose e antologie italiane e latine.
A fronte di questa vasta e multiforme opera la grandezza e l’importanza – letteraria e linguistica – di Pascoli sono però consegnate soprattutto a Myricae, ai Poemetti, primi e nuovi, e ai Canti di Castelvecchio. E questo nell’impossibilità di individuare o ricostruire fasi o momenti di una storia poetica lineare: Pascoli lavorava simultaneamente a testi di registro diverso destinati a più raccolte, da un lato procedendo in maniera incrociata, dall’altro arricchendo le edizioni dei volumi poetici di sempre nuove composizioni. Ne risulta un intreccio di disposizioni sentimentali e di scrittura che, distinte e coesistenti, non nascondono tuttavia né le costanti dell’ispirazione né la profonda novità costituita, all’interno della storia della lingua letteraria, dall’esperienza pascoliana. «Poeta immeritato dalla nostra letteratura» (Baldacci 1974: XLVIII), anticlassico e antipetrarchista, Pascoli porta a compimento nella scrittura lirica la rivoluzione letteraria inaugurata nel romanzo da ➔ Alessandro Manzoni: un progetto di «democrazia poetica» (Contini 1958: 234) che, abbattute le paratie e le rigide selezioni classicistiche, estende il diritto di cittadinanza letteraria a tutti gli elementi della realtà: tanto l’illustre, il peregrino, lo specialistico quanto l’umile, il quotidiano, il consueto entrano a far parte della poesia.
Da quanto detto sopra, trae origine un’operazione linguistica di cui la critica ha via via distinto diverse componenti. C’è, in primo luogo, una componente per così dire inerziale (la meno rilevante) data dalla sopravvivenza, soprattutto in Myricae, di un «polo “vetero-grammaticale”» (Girardi 1989: 46): ➔ allotropi, sinonimi poetici, ➔ arcaismi, dantismi, ➔ latinismi, ei pronome personale, aulicismi fonetici come l’apocope e morfologici come la terminazione in -a della prima persona dell’imperfetto indicativo.
Queste vestigia del codice poetico tradizionale consentono di intravvedere il punto di partenza della sperimentazione pascoliana, la straordinaria escursione che separa l’antico dal nuovo. Di quest’ultimo si può cogliere l’incidenza, da un lato, nel processo variantistico di Myricae (in cui appo, solingo, pelago, ruina cedono a presso, solitario, mare, rovina) e, dall’altro lato, nell’adozione di termini che, secondo la famosa formula continiana, possono definirsi di linguaggio pre-grammaticale e di linguaggio post-grammaticale. Il primo è testimoniato dalla resa della sonorità dei rumori (il don don delle campane, per es.) e da quello onomatopeico dei versi degli uccelli, con una serie vastissima di casi la cui adesione muove dal convincimento, proprio dell’ornitologia d’impronta darwinistica, che il canto degli uccelli costituisca «il gradino immediatamente inferiore alla parola umana» (Marcolini 1999: 464), prospettando così una situazione di limite e di slittamento tra umano e animale, semantico e non semantico, centrale nella poesia pascoliana e nella sua riduzione di ogni prospettiva antropocentrica. Il linguaggio post-grammaticale s’affida a termini tecnici e specialistici: dalla botanica alla zoonimia, dalle tecniche agricole a quelle artigianali, sino ad affrontare argomenti e a utilizzare parole sommamente ‘impoetiche’ secondo la tradizione: basti pensare, per i primi, alla descrizione delle procedure del bucato e della tessitura nei Primi poemetti o a un termine ornitologico come cannareccione in Myricae.
Rimproverando ➔ Giacomo Leopardi e il codice poetico italiano per «l’errore dell’indeterminatezza» Pascoli tende dunque alla precisione e all’«esattezza nominativa» (Coletti 1993: 395). Allo stesso obiettivo risponde l’uso del dialetto, deposito lessicale di una realtà – umana e lavorativa – in via di sparizione e segno del recupero di «una lingua che più non si sa» (dalla poesia “Addio”, nei Canti di Castelvecchio). Qui la pratica poetica risponde a ragioni ideologiche che Pascoli declina soprattutto nell’Introduzione all’antologia Fior da fiore, in cui difende il dialetto contro l’omologazione linguistica proposta dalla scuola italiana e dalle modificazioni sociali ed economiche in corso. Il punto più alto di questo ascolto della parlata popolare è costituito, oltre che dalla frequente riproposizione di canti e di proverbi, da “Italy”, nei Primi poemetti. Il testo annovera infatti, accanto a termini e modalità di pronuncia del dialetto barghigiano (come nieva per «nevica»), esempi dell’idioma ➔ italoamericano degli emigranti (per es., bisini per business e scrima per ice-cream) inseriti in una complessa partitura di effetti linguistici (come gli equivoci tra il dialetto e la «lingua d’oltremare») e compositivi, con una raffinatissima alternanza di modi discorsivi, dal diegetico al discorso diretto al discorso indiretto libero: un capolavoro plurilinguistico tanto più significativo quanto più tende a evitare nel trattamento dei suoi personaggi ogni accento caricaturale (frequente invece in passato nella presentazione letteraria delle figure subalterne).
Ma la lingua della poesia pascoliana non si risolve interamente in queste componenti, che, singolarmente considerate, potrebbero far pensare a una sorta di mimetismo radicale. Precisione, determinatezza, puntualità delle immagini e dei termini entrano in rapporto con altre dimensioni verbali e compositive che ne sfumano l’incidenza e i contorni. Di questo processo si possono individuare almeno tre linee o percorsi. Intanto, nei singoli testi, la precisione del primo piano si connette sempre a «un fondo di indeterminatezza che la giustifica dialetticamente» (Contini 1958: 240): una folla di oggetti verbali dalla netta concretezza denotativa è dissolta in uno sfondo effuso e in una pervasiva connotazione. In “Nebbia” (nei Canti di Castelvecchio) s’accampano, precisi e numerabili, oggetti e figure (la siepe dell’orto, la mura, i due peschi, i due meli, il cipresso), ma essi si presentano solo in rapporto a un orizzonte indeterminato, di cui non si possono definire i limiti o la campitura (le cose lontane). In secondo luogo, il dato concreto o ‘naturalistico’ viene per così dire traslato in un’altra dimensione: è «piuttosto che in-determinato, sovra-determinato da un significato simbolico o allegorico» (Mengaldo 1981: 118).
E ciò avviene soprattutto per la forte densità intertestuale della scrittura pascoliana, per la sua «scia di presupposizioni, aloni ed echi, addentellati col prima e col poi» (ibid.: p. 117): una particolare narratività che spinge il lettore ad attribuire a dati e figure un valore irriducibile alla loro singolarità. L’elemento puntuale, il frammento discontinuo si trasferisce e risolve, nel corso della lettura e della sua pratica intertestuale, su un piano di superiore, non discreta, continuità. Così, che il nido della poesia omonima sia figura della vicenda biografica del poeta si può dedurre, se non dalla poesia stessa, ripensando al nido di “X Agosto”. Infine, la dissolvenza dell’impianto mimetico è raggiunta attraverso la messa in rilievo dei valori di senso veicolati da elementi non semantici (allitterazione, assonanza, iterazione, relazioni fonologiche): disseminando i costituenti fonici delle parole (in particolare di alcuni termini come tremulo, fragile, fremito, gracile) Pascoli distende «una patina sonora uniforme» (Beccaria 1989: 165) sull’intera testura dei suoi componimenti che si risolve in un’evasione o fuga da quel reale così ostentato nella sua ricerca lessicale. Secondo i principi del simbolismo, i rapporti tra i significanti, le associazioni foniche, le orchestrazioni armoniche diventano «un punto di partenza per l’esplorazione dell’informe e dell’inconoscibile» (ibid.: p. 78).
Questo bilanciamento tra mezzi del determinato e figurazioni dell’indeterminato, tra concretezza dei realia e loro dissolvenza, tra discontinuo del particolare esposto e continuum dello stile (sia esso attinente al piano del ‘racconto’ o a quello della sostanza sonora) costituisce la vera cifra rappresentativa della ricerca pascoliana e della sua estraneità al codice letterario-linguistico della tradizione. Altrettanto rilevanti, nuovi e sperimentali sono gli aspetti della sintassi e della testualità, dei modi discorsivi e della loro impaginazione. Quasi volesse così attingere alle forme primarie, mitiche e antropologiche del dire poetico, Pascoli privilegia le modalità esclamativa e interrogativa del discorso, le forme ‘primitive’ dello stupore e della domanda di fronte all’esistenza e ai suoi misteri. In questo ambito, che vale spesso da cornice enunciativa del testo, spiccano poi i movimenti ancipiti dell’iterazione (con la ripetizione della parola-tema e l’➔anadiplosi come nessi della testualità) e della frantumazione. Quest’ultima collabora alla debilitazione degli organismi periodali attraverso la paratassi asindetica («È mezzanotte. Nevica. Alla pieve / suonano a doppio; suonano l’entrata», “Ceppo” in Myricae), «il frequente inizio assoluto con un verbo-frase» (Stussi 1969: 271) («Vanno. Via via l’immensa ombra li beve», “Il focolare” in Primi poemetti), la separazione dell’aggettivo predicativo dal nome («tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza», “L’aquilone” in Primi poemetti; ➔ iperbato) e il ritardo della presentazione del soggetto.
Nello stesso quadro rientra anche un uso originale della punteggiatura (con la frequentissima adozione dei ➔ due punti con funzione segmentante più che esplicativa e con il massiccio ricorso a tutti i segni interpuntivi a frantumare il verso: («son due … gli occhi, grave, apre: vede», “Agonia di madre” in Myricae) e un significativo ricorso a costrutti della lingua parlata. Tra essi spiccano la dislocazione (come «e le rividi le mie bianche suore», “Digitale purpurea” in Primi poemetti) e varie forme della tematizzazione compresa la presentazione abrupta del soggetto della poesia: «Una fanciulla … La tua mano vola» (“Un rumore …” in Myricae); «L’asino … Parmi adesso: era una sera» (“L’asino” in Primi poemetti).
Tutti questi fenomeni fanno vedere come Pascoli punti, contro ogni scultorea determinazione eloquente, a un’inquieta e vibratile movimentazione del discorso, tanto lontana dalla tradizione quanto vicina a esiti moderni della dizione poetica. Egualmente importante, al riguardo, la creazione – sul piano stilistico-compositivo – di effetti dialogici. Essi riguardano, in primo luogo, singoli brani e sequenze, con avversative, movenze di correctio, voci interne al testo («E no, ch’è l’alba», “La calandra” in Primi poemetti; «Non altro? No», “L’asino” in Primi poemetti; «Ed allora, quasi un comando, / no, quasi un compianto, t’uscì», “La voce” in Canti di Castelvecchio; «piangendo, sì, forse, ma piano», “La piccozza” in Odi e Inni); in secondo luogo essi caratterizzano la parlata dei personaggi nell’epopea rusticale di Rigo e Rosa dei Poemetti con inserzione di tratti anche antigrammaticali (come «a me mi sembra un mare», “La capinera” in Nuovi poemetti) e con sensibile riduzione del tasso letterario della scrittura, proporzionale alla semplificazione della parola; infine, sorreggono per intero testi costruiti tutti sullo scambio di battute in discorso diretto, come avviene in “I due orfani” nei Primi poemetti. In effetti, aspetto non secondario della poesia pascoliana è proprio la predisposizione, attiva in essa, «della scrittura a farsi dramma» (Ferri 1988: 51): è così pervasiva nella sua opera «la sperimentazione delle tecniche teatrali in poesia» (Marcolini 2002: 169) da dover legittimamente parlare, a proposito di quest’ultima, di una vera «costante stilistica». Dalla prima raccolta ai Poemetti e ai Canti di Castelvecchio essa però sempre più s’approfondisce e radicalizza facendo cogliere un percorso evolutivo indirizzato verso una narrazione in versi che, retta da un «profluvio di discorsi riportati» (Soldani 2005: 240), arriva a «esempi insuperati di oggettivazione»: «l’io si camuffa in un altro da sé» sino a prendere forma in «personaggi dotati di una loro autonomia spiccata» (ibid.: p. 254).
Il fatto che il soggetto si dislochi ai margini del testo e conceda il diritto di parola alla voce delle cose, sceneggiandola in dialoghi e monologhi, è tra gli aspetti più fecondi e moderni della sperimentazione pascoliana. La quale se ha fatto sentire subito il suo influsso nella poesia successiva (per es., Gozzano o i crepuscolari) si è poi radicata nel pieno e secondo Novecento, trasmettendo sia una generale predisposizione pluristilistica e plurilinguistica, sia alcuni istituti grammaticali: dalle formulazioni ellittiche con indugio sul non detto alla indecidibilità grammaticale della parola (sogno in “Patria”, contenuta in Myricae, è verbo o nome?), dagli attacchi ricorrenti con «E» (Mengaldo 2010) al diffusissimo modulo della parentetica, destinata a diventare una delle cifre sintattiche più frequentate – quasi un’insegna stilistica – della poesia contemporanea.
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