Giovanni XIII
Figlio di un certo Giovanni Episcopo, apparteneva certamente allo strato più alto della nobiltà romana, ma non - come sostenevano alcuni studiosi - alla famiglia dei Crescenzi, nella quale entrò invece, per matrimonio, il nipote Benedetto. L'appellativo di "Episcopo" del padre non indica un titolo, ma è un semplice soprannome. Alla morte di papa Leone VIII, Ottone I inviò a Roma i vescovi Otgaro di Spira e Liutprando da Cremona quali suoi rappresentanti all'elezione del papa. Dopo lunghe trattative (la vacanza durò oltre sei mesi), i Romani elessero G. il 1° ottobre 965.
Questi aveva ricevuto la sua educazione religiosa in Laterano, era molto colto e a Roma aveva via via ricoperto tutti i gradi della dignità sacerdotale, da ostiario a diacono, prima di divenire vescovo di Narni. In questa carica è attestato per la prima volta nel 961. Nello stesso anno, Giovanni XII gli affidò l'incarico di bibliotecario romano, che egli mantenne anche dopo l'elezione di Leone VIII. Nella primavera del 963 fece parte della legazione pontificia inviata a Ottone I, con l'incarico, secondo Liutprando da Cremona (Liber de rebus gestis Ottonis 7, p. 164), di ingannare l'imperatore sulle intenzioni politiche di Giovanni XII. Nel sinodo imperiale che si svolse a Roma a partire dal novembre del 963, il vescovo G. comparve come testimone d'accusa contro il papa. Tre mesi dopo partecipò al sinodo di Giovanni XII, nel frattempo tornato a Roma, senza che venisse punito per il suo atteggiamento ostile: ciò dimostra che egli apparteneva a quel potente ceto aristocratico dal quale proveniva il papa stesso e che ne aveva reso possibile il ritorno - suo fratello Benedetto aveva pur sempre sposato Stefania di Palestrina, nipote del senatore e console romano Teofilatto, bisnonno del papa Giovanni XII (tavola genealogica in H. Zimmermann, Parteiungen, p. 87). Egli dunque era una figura non secondaria della nobiltà e del clero di Roma e non fu eletto papa esclusivamente per volontà dell'imperatore, anche se i legati imperiali non mancarono di far sentire la loro influenza sulle votazioni. L'esperienza di Leone VIII aveva forse insegnato alla corte che Roma doveva essere governata con la collaborazione del suo ceto dirigente piuttosto che contro di esso. Così G. ebbe il consenso imperiale, pur avendo svolto un ruolo profondamente ambiguo nella contrapposizione tra Giovanni XII e l'imperatore; in ogni caso, egli non può essere considerato un candidato incondizionatamente fedele o addirittura subordinato a Ottone.
Ben presto G. venne a trovarsi in contrasto con la fazione rivale della nobiltà romana e con i rappresentanti del popolo romano a causa del suo nepotismo e della sua arroganza (Reginonis abbatis Prumiensis, ad a. 965, p. 176). Il 16 dicembre del 965, ad appena tre mesi dalla sua elezione, sotto la guida di Pietro - il prefetto della città nominato dallo stesso imperatore -, di Stefano vestiario, del conte Roffredo della Campagna, dei consoli e dei decarconi (i capi del popolo, che era escluso dall'organizzazione militare), G. fu assalito e malmenato, poi rinchiuso in Castel S. Angelo ed esiliato nella Campagna, dove fu affidato alla sorveglianza del conte Roffredo. Gli si rinfacciava soltanto l'arroganza nei confronti della Curia e di aver favorito i propri familiari; da nessun documento emerge l'accusa che il suo passaggio dalla sede vescovile di Narni a quella di Roma contravvenisse al vecchio diritto ecclesiastico - accusa che neppure un secolo prima aveva avuto gran peso nella disputa intorno a papa Formoso. Sorprendentemente, negli undici mesi dell'esilio, a Roma non venne fatto alcun tentativo di eleggere un altro pontefice, sebbene questa infrazione dei canoni offrisse un motivo accettabile per determinare la deposizione del papa in carica.
Dopo l'assassinio del conte Roffredo ad opera di Giovanni Crescenzi, all'inizio dell'estate G. riuscì a rifugiarsi presso il principe Pandolfo di Capua, su richiesta del quale innalzò Capua a metropoli ecclesiastica e nominò arcivescovo Giovanni, fratello del suo protettore. Insieme con il principe, radunò un esercito per sedare la ribellione di Roma e inviò una richiesta di aiuto all'imperatore Ottone. Con le sue truppe, guidate da Giovanni Crescenzi, passò per la Sabina, dove i Crescenzi avevano ampi possedimenti ed erano in grado di contrapporsi a Roma. Il 14 novembre del 966, quando ormai l'imperatore si avvicinava, i Romani, morto il vestiario Stefano e fuggito il prefetto Pietro, riaccolsero solennemente Giovanni XIII. Il pontefice celebrò una messa in S. Pietro, indi riprese possesso del Laterano e benedisse il popolo festante, che aveva implorato il suo perdono e per il quale si imbandirono banchetti (Benedetto, Chronicon, p. 185). Al più tardi nel novembre del 966, G. dovette convocare a Roma, insieme all'imperatore Ottone, un grande concilio: in uno scritto, infatti, il vescovo Raterio di Verona comunicava ai prelati della sua diocesi che intendeva andare a Roma per prendervi parte, auspicando di ricevere lì istruzioni circa il divieto del matrimonio per i sacerdoti e i rapporti con gli scomunicati, nonché sul diritto di applicazione delle pene canoniche (Die Briefe, nr. 26, pp. 138 ss.). Prima di Natale Ottone I giunse a Roma e all'inizio di gennaio punì i capi della ribellione contro Giovanni XIII. I consoli furono mandati in esilio al di là delle Alpi, dodici decarconi finirono sulla forca e il prefetto, catturato dagli Imperiali, venne lasciato al papa perché potesse attuare la sua vendetta. Per prima cosa, G. lo depose e gli fece tagliare la barba quale segno visibile della destituzione; poi lo fece appendere per i capelli alla statua equestre di Costantino presso il Laterano e infine, prima di gettarlo nuovamente in prigione, lo fece girare per la città a dorso d'asino, nudo e con la faccia rivolta verso la coda, tra lo scherno generale. A marzo, l'imperatore lo esiliò in Germania. Non furono risparmiati neppure i morti: Ottone fece riesumare e sotterrare fuori città i corpi del conte Roffredo e del vestiario Stefano (Le Liber pontificalis, p. 252).
All'inizio dell'anno si svolse anche il sinodo a beneficio della chiesa del principe degli apostoli e di altri luoghi sacri, come si evince da un documento di Ottone I emesso a Roma l'11 gennaio 967 per l'abbazia di Subiaco (Diploma di Ottone I, nr. 336, in Die Urkunden Konrad I., Heinrich I. und Otto I., in M.G.H., Diplomata, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I, 2, a cura di Th. von Sickel, 1884, pp. 450-54). Oltre al superiore di questa abbazia, all'imperatore e al papa, vi presero parte anche l'arcivescovo di Ravenna, numerosi vescovi romani, italiani e ultramontani, nonché il principe Pandolfo di Capua e molti altri dignitari ecclesiastici e laici. Evidentemente in questo sinodo romano non si trovò il tempo per affrontare tutte le richieste presentate, in parte non previste. Il sinodo fu quindi aggiornato e riprese a Ravenna alla metà di aprile, presieduto dal papa e dall'imperatore, nella chiesa del convento di S. Severo in Classe. Questo affollato sinodo si protrasse almeno fino al 25 aprile e furono affrontate, da una parte questioni di diritto ecclesiastico, quali quelle proposte da Raterio di Verona, dall'altra progetti di ampia portata politica e di organizzazione della Chiesa, che furono regolati da diversi documenti pontifici e imperiali. Il 25 aprile, per esempio, il concilio si pronunciò sull'arcivescovo Aroldo di Salisburgo, scomunicato e accecato, che nonostante l'interdizione pontificia celebrava messa e indossava il pallio: tutti quelli che si erano schierati con lui vennero scomunicati (Papsturkunden, nr. 351). La decisione più importante fu senza dubbio quella presa il 20 aprile, per esaudire un antico desiderio di Ottone: l'approvazione papale dell'erezione di Magdeburgo ad arcivescovato per l'evangelizzazione degli Slavi, a condizione che fosse accettata anche dal vescovo di Halberstadt e dall'arcivescovo di Magonza (ibid., nr. 177). In questo documento G. definisce Ottone - che con il suo Privilegium aveva confermato il Constitutum Constantini e la donazione dell'Esarcato fatta da Carlo III - il terzo imperatore, dopo Costantino e Carlo Magno, che ha esaltato la Chiesa di Roma e lo inserisce così nella serie dei "padri dello stato pontificio". In realtà già Giovanni XII aveva approvato l'erezione ad arcivescovato del convento di Magdeburgo, fondato dall'imperatore: tale decisione non era stata, però, attuata per l'opposizione dei due vescovi summenzionati. La fondazione poté essere avviata soltanto dopo la morte di entrambi, avvenuta tra il febbraio e il marzo del 968. Alla metà dell'ottobre del 968, Adalberto, già vescovo missionario russo, inviato a Roma da Ottone I, portò le lettere di consenso dell'arcivescovo di Magonza Hatto II, del vescovo Hildeward di Halberstadt e degli altri presuli della provincia ecclesiastica magontina; il 18 ottobre, G. conferiva perciò ad Adalberto la dignità arcivescovile e, alla chiesa di questi, numerosi privilegi.
In cambio della disponibilità del papa, nel sinodo di Ravenna Ottone restituì alla Chiesa di Roma quei territori dell'Esarcato che - malgrado il già citato privilegio della Chiesa di Roma del 13 febbraio 962, il Privilegium Ottonianum, con il quale l'imperatore, nel solco della tradizione carolingia, aveva confermato al pontefice ampie parti d'Italia, compresi la città e l'Esarcato di Ravenna - non erano mai entrati in suo possesso. Si trattava principalmente della Contea di Ferrara, del territorio urbano di Ravenna e della Contea di Comacchio, che, ancora durante il sinodo ravennate, G. cedette a vita all'imperatrice Adelaide. In tal modo Ottone accoglieva le richieste del papa, mantenendo però per sé, attraverso la moglie, l'amministrazione di quei territori. In questo periodo giunsero a Ravenna i legati del "basileus" bizantino, che consegnarono doni a Ottone e sollecitarono da parte sua pace e amicizia. Il vero scopo dell'ambasceria era quello di distogliere Ottone I dalle sue pretese su Capua e Benevento e di stringere un'alleanza contro i Saraceni. In questa situazione, a Ottone si presentava l'opportunità di ottenere il riconoscimento della propria carica imperiale da parte dell'imperatore romano d'Oriente. L'alleanza avrebbe dovuto essere rafforzata dal matrimonio tra il figlio di Ottone, che portava il suo stesso nome, e Anna Porfirogenita, una delle figlie del defunto imperatore Romano II. Mentre ancora si trovavano a Ravenna, G. e Ottone sollecitarono per lettera il giovane Ottone II a recarsi in occasione del Natale a Roma, dove sarebbe stato incoronato imperatore.
In tal modo G. aveva, nell'ambito del sinodo, esaudito i desideri del suo "supremo protettore" e ottenuto da lui notevoli concessioni, gettando una solida base per un'azione comune. Poco più tardi, in maggio, il papa si legava alla famiglia dell'altro importante soccorritore dei tempi dell'esilio: il nipote Benedetto sposava infatti Teodoranda, figlia di Crescenzio "a Caballo marmoreo", e G. gli concedeva tra le altre cose la Contea della Sabina (Exceptio relationum, p. 62). Imparentava così la propria famiglia con i potenti Crescenzi, che al suo ritorno a Roma lo avevano sostenuto tanto efficacemente e che favorì anche in seguito, consolidando la base del proprio dominio sulla città.
Il 24 dicembre del 967 G. accolse sulla scalinata di S. Pietro Ottone I e suo figlio e il giorno seguente, per desiderio dell'imperatore, celebrò la solenne incoronazione. A Capodanno si aprì in S. Pietro, presieduto dal papa e alla presenza dei due imperatori, un sinodo al quale parteciparono molti vescovi italiani e tedeschi e che servì principalmente a risolvere in favore di Grado l'antica controversia tra quest'ultima e Aquileia per il patriarcato del Veneto. Vennero affrontate anche questioni tedesche: così, su richiesta dei due imperatori, G. concesse al convento delle Canonichesse di Gandersheim (il più antico convento della famiglia imperiale) la protezione pontificia, la proprietà e il diritto di eleggere liberamente la badessa. Gli imperatori intervennero anche in favore di altre chiese e conventi tedeschi, ottenendo per essi privilegi pontifici. G. rimosse invece il vescovo Raterio di Verona, il favorito della famiglia imperiale dalla decisa volontà di riforma, e gli fece sapere che da allora in poi ogni vescovo che si fosse intromesso nelle questioni di proprietà del suo clero sarebbe stato bandito per sempre (Die Briefe, nr. 30, p. 176). Con questa decisione G. sosteneva in generale l'autonomia finanziaria dei Capitoli delle cattedrali nei confronti dei vescovi. I rapporti con i due imperatori non furono turbati da questa decisione sfavorevole al loro protetto, il quale era in costante conflitto con il suo clero, e nell'estate del 968 G. mandò all'imperatore Niceforo II Foca un'ambasceria, che doveva indurre l'"imperator Graecorum" a stringere relazioni di amicizia e parentela con l'"imperator Romanorum" (Liutprandi Relatio 47, p. 200). Il pontefice intendeva in tal modo appoggiare i tentativi di Ottone I - che aveva inviato a Bisanzio Liutprando da Cremona per facilitare le nozze del figlio - perché il "basileus" aveva cercato di riconquistare i territori rivendicati e nutriva ormai propositi di guerra. Il titolo di "imperator Graecorum" suscitò l'ira del "basileus", che lo immaginò scelto dal papa su istigazione di Ottone I per limitare i suoi diritti alla parte orientale dell'Impero. In settembre venne consegnato a Liutprando da Cremona uno scritto indirizzato a G., recante solo il sigillo d'argento del "kuropalates" Leone, fratello dell'imperatore, con il quale il papa veniva minacciato di sicura rovina se non avesse mutato la sua posizione verso l'Impero romano. Ottone fu invece ritenuto degno di una crisobolla del "basileus" (ibid. 56, p. 206), il quale chiedeva in cambio della mano di Anna Porfirogenita la sottomissione alla propria autorità dell'Esarcato e di Roma.
I problemi dell'Italia meridionale furono il principale argomento di un altro sinodo, che G. tenne in S. Pietro nel maggio del 969, alla presenza dell'imperatore e di numerosi dignitari ecclesiastici e laici. Quasi in risposta alle rivendicazioni territoriali nell'Italia meridionale del "basileus", su richiesta dell'imperatore e del principe di Capua Pandolfo Capodiferro - che alla morte del fratello aveva assunto anche il dominio di Benevento e che doveva sopportare il peso principale della guerra contro i Bizantini -, G. promosse Benevento ad arcivescovato e consacrò arcivescovo il presule Landolfo, con il diritto di insediare vescovi soggetti alla sua autorità di metropolita in dieci località, nominate una per una. Con nuove fondazioni e con il recupero di vescovati abbandonati, il pontefice intendeva chiaramente aumentare l'influenza della Chiesa latina nel meridione e contenere la forte influenza greca. Niceforo Foca, infatti, preparandosi ad attaccare l'Italia, aveva ordinato ai patriarchi di Costantinopoli di conferire diritti metropolitani al vescovo di Otranto e di proibire il rito latino in tutta la Puglia e la Calabria. Anche per l'imperatore Ottone gli avvenimenti nel meridione erano del massimo interesse: aveva fatto esporre al "basileus" la propria posizione in proposito da Liutprando da Cremona. I contrasti tra Oriente e Occidente furono superati soltanto quando Niceforo Foca venne assassinato per ordine del suo parente e successore Giovanni I Zimisce, che mandò la nipote Teofane in sposa a Ottone II. Il 14 aprile del 972, a Roma, G. la incoronò imperatrice e celebrò il matrimonio.
In questa situazione, il principale argomento del sinodo era stata la promozione di Benevento; vi si discussero, però, anche altri problemi. La diocesi di Alba, spopolata in seguito alle incursioni saracene, avrebbe dovuto, alla morte del vescovo Fulcardo, essere subordinata come parrocchia a quella di Asti. Il vescovo Rozone di Asti era tra gli uomini di fiducia dell'imperatore, ed è senz'altro possibile che dietro all'unificazione vi fosse una motivazione politica, un innalzamento di potere e di influenza di questo personaggio voluto da Ottone. Ciò che desta meraviglia è che, subito dopo la morte del vescovo Rozone, la diocesi di Alba riacquistasse la sua autonomia. Il provvedimento potrebbe essere interpretato come un segno dell'intesa tra papa e imperatore nelle questioni politiche - intesa che si riscontra anche nelle decisioni riguardanti le regioni a nord delle Alpi. Così, l'8 novembre del 969, su intervento di Ottone I, in virtù di un privilegio di papa Zaccaria, G. esentò il monastero di Fulda e riconobbe la sua maggiore importanza rispetto alle altre abbazie della Gallia e della Germania. Non si riscontra l'influenza dell'imperatore, invece, sulla decisione presa dal papa il 22 gennaio del 969 quando, per volontà e consenso del clero romano, confermò all'arcivescovo Dietrich di Treviri e ai suoi successori l'antico diritto spettante al metropolita, in quanto vicario apostolico in Gallia e in Germania, di detenere - in particolare nei sinodi - il primato e la preminenza rispetto tanto ai legati pontifici, quanto all'imperatore e al re. Gli concesse anche il pallio e il diritto di ordinare sacerdoti per la sua provincia ecclesiastica.
Relazioni particolarmente strette e che andavano ben oltre l'ambito politico legavano G. al vescovo Dietrich I di Metz; relazioni che presumibilmente ebbero inizio in occasione di una guarigione miracolosa avvenuta alla fine di maggio del 969. G. aveva guarito un conte del seguito imperiale con l'imposizione della catena di s. Pietro, di cui Dietrich si impossessò e che non voleva più restituire. Su intercessione dell'imperatore, G. gli donò una parte della catena miracolosa. Alla fine di settembre del 970, Dietrich pose sotto la protezione del papa il convento di S. Vincenzo, da lui fondato presso Metz, e richiese un privilegio di immunità, che G. concesse. Alla fine di dicembre dello stesso anno, il papa gli donò alcune reliquie e approvò l'acquisto di altre. Al tempo stesso, Dietrich si fece confermare da pontefice e imperatore la concessione di entrate arcivescovili al convento di S. Vincenzo. Infine, all'inizio di maggio del 972, G. gli donò alcuni frammenti della graticola del martirio di s. Lorenzo quale riconoscimento degli sforzi da lui compiuti per favorire il matrimonio tra Ottone II e Teofane.
I contatti tra il papa e l'imperatore non si limitavano al piano politico. Così, nei giorni a cavallo tra il 970 e il 971, G. fece sapere a Ottone I che Gerberto di Aurillac si trovava a Roma e richiamò l'attenzione dell'imperatore sulla profonda cultura e sull'abilità nell'insegnamento della matematica del monaco francese. Su richiesta di Ottone, il papa trattenne a Roma Gerberto e in seguito lo presentò all'imperatore. Il dotto francese aveva viaggiato al seguito del margravio Borello I di Barcellona e del vescovo Attone di Vich. Borello richiese e ottenne da G. che Vich venisse innalzata a metropoli al posto di Tarragona, conquistata dai Saraceni, e che Attone fosse consacrato metropolita. Questo esempio basta a dimostrare che il rapporto con l'imperatore era al centro dell'operato del papa, ma non andava a detrimento del carattere internazionale del papato: dai più vari Regni europei, fossero l'Inghilterra, la Francia o la Polonia, giungevano continuamente postulanti che richiedevano consigli e giudizi su questioni ecclesiastiche, o anche privilegi. Così, dopo la metà di luglio del 967, venne a Roma la principessa boema Mlada, che, a nome proprio e del duca di Boemia Boleslao II, chiese l'autorizzazione a istituire una diocesi con sede nella chiesa di S. Vito a Praga e un monastero femminile presso la chiesa di S. Giorgio, sempre nella stessa città. A Roma, Mlada prese il velo e G. la consacrò badessa del convento di S. Giorgio sullo Hradschin con il nome di Maria. Al duca di Boemia Boleslao II egli consegnò un atto che autorizzava entrambe le fondazioni (Cosma di Praga, Chronica Boemorum, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum. Nova Series, II, a cura di B. Bretholz-W. Weinberger, 1923, pp. 42-4). Tuttavia l'istituzione della diocesi si protrasse fino al 972 o al 973 - inoltre è controversa l'autenticità dell'atto di fondazione emanato da G. prima del 15 luglio 972.
Dai documenti conservati si ricava l'impressione che sotto il pontificato di G. la Chiesa romana sia tornata ad acquistare importanza in Occidente. Questa impressione potrebbe dipendere dalle fonti tramandate, ma potrebbe anche nascere dal fatto che G., al suo ritorno dalla prigionia, era riuscito con l'aiuto dell'imperatore a liberarsi dalle pastoie del governo della città di Roma. G. morì il 6 settembre del 972 nella Città Eterna e venne sepolto, secondo il suo desiderio, in S. Paolo fuori le Mura. Infatti, nel suo epitaffio (cfr. A. Silvagni) - conservato nel lapidario della basilica di S. Paolo - si dice che tale fu la volontà che egli stesso espresse prima di morire (v. 3: "istic praemonuit moriens sua membra locari").
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(traduzione di Maria Cristina Coldagelli)