Giuliano Vassalli
La vita quasi centenaria di Giuliano Vassalli rispecchia bene il significato assunto dalla sua personalità nella penalistica italiana della seconda metà del 20° secolo. Il suo pensiero e la sua opera hanno infatti rappresentato una sorta di ponte di collegamento tra l’eredità della grande penalistica ottocentesca, con il suo impegno civile per la costruzione del nuovo Stato e del nuovo sistema penale dell’Italia unita, e il risveglio della scienza penale alle soglie dell’ultimo quarto del secolo scorso, tutta proiettata verso il costituzionalismo penale e verso gli orizzonti dei diritti dell’uomo e dell’internazionalizzazione del diritto penale. La sterminata opera di Vassalli ha costituito dagli anni Quaranta in poi un modello di equilibrio tra ossequio convinto alla legalità penale e anelito inesausto ai contenuti di giustizia della legge, anticipando spesso più complesse concezioni della penalità proprie della modernità.
Figlio dell’eminente civilista Filippo, Giuliano Vassalli nacque a Perugia il 25 aprile 1915. Certamente influente sulla formazione della sua personalità fu l’ambiente familiare e culturale, nel quale egli assimilò, insieme all’amore per il diritto, quel severo senso di partecipazione alla vita civile e istituzionale del Paese che contrassegnò tutta la sua vita. Si laureò nel 1936 a Roma con Arturo Rocco, e fu poi allievo di Giacomo Delitala, assimilando da questi maestri la piena e perfetta conoscenza dello strumentario tecnico e della dogmatica di matrice tedesca.
Iniziò la sua carriera accademica nel 1938, insegnando nelle Università di Urbino, Pavia, Padova, Genova, Napoli, per poi giungere nel 1960 a quella di Roma, ove restò fino al collocamento fuori ruolo (1985). «Giurista dalle molte esperienze», come ebbe a definirsi lui stesso, Vassalli affiancò sempre all'impegno scientifico non solo l’esercizio dell’avvocatura (in molti dei più noti processi del dopoguerra), ma anche e soprattutto un’intensissima attività politica e istituzionale, sempre all’insegna di quell’ideale di giustizia sociale e di umanesimo giuridico che, derivando dall’ideologia socialista, ispirava il suo pensiero scientifico.
Membro della giunta militare romana del Comitato di liberazione nazionale, nel 1944 Vassalli organizzò – insieme, tra gli altri, a Massimo Severo Giannini – la rocambolesca evasione di Giuseppe Saragat e Sandro Pertini e di altri cinque partigiani socialisti dal carcere di Regina Coeli. Catturato dai tedeschi, venne torturato nel centro di detenzione di via Tasso.
Dopo la guerra, le tappe più significative del suo costante impegno istituzionale furono quelle di parlamentare, quale deputato del PSI-PSDI (Partito socialista italiano-Partito socialista democratico italiano, 1968-72) e quindi senatore del PSI (1983-87). Fu ministro della Giustizia in diversi governi dal 1987 al 1991.
Convinto fino alla fine della necessità di dotare l’Italia di un nuovo codice penale, non riuscì tuttavia nell’intento, pur essendo stato artefice di numerosi progetti e della storica riforma 'novellistica' (d.l. 11 apr. 1974 nr. 99, convertito in l. 7 giugno 1974 nr. 220). Il suo nome è legato invece al nuovo codice di procedura penale (1988), che, come ministro della Giustizia, si decise a varare nonostante l’aspra conflittualità esistente nel mondo giudiziario e forense sull’opportunità di una svolta culturalmente così radicale e così impegnativa, in special modo sotto il profilo delle strutture necessarie.
Fu giudice e presidente della Corte costituzionale, rispettivamente negli anni 1991-99 e 1999-2000. Quale presidente, ebbe modo di manifestare un’alta concezione della Corte come suprema istanza di garanzia costituzionale, dotata di assoluta indipendenza dalle forze politiche per la tutela dell’intera collettività e dei suoi valori fondamentali.
Accademico dei Lincei, fu membro di numerose società culturali italiane e internazionali rappresentando l’Italia per molti anni in sedi scientifiche e istituzionali nel mondo.
Morì a Roma il 21 ottobre 2009, circondato da una generale e deferente ammirazione.
Non è facile sintetizzare un pensiero che si è sviluppato, sempre rinnovellandosi, per un così lungo arco di tempo e su così ampi e numerosi campi d’indagine e di riflessione (non solo la procedura penale, ma anche il diritto e la storia costituzionali).
In estrema sintesi, si può dire che il pensiero giuridico di Vassalli è caratterizzato dalla convinta consapevolezza della complessità e della storicità del diritto penale. Sotto il primo profilo, quello della complessità, Vassalli è sicuramente ancorato a una concezione normativa del diritto penale, che nella legalità trova addirittura una sua propria ratio essendi. Ma è assolutamente distante da una visione ‘chiusa’, del tutto legalistica o concettualistica: egli è tra i primi, dopo la guerra, a professare un’idea di scienza penale ‘integrata’, in quanto necessariamente aperta ai contributi provenienti soprattutto dalla criminologia e dalla politica criminale.
Sotto il secondo profilo, si può senz’altro dire che la concezione vassalliana del diritto è davvero intrisa di storicità. Vassalli, distante dalla rigidità di premesse metafisiche e ispirato a una sostanziale laicità dello Stato, sa bene come proprio il diritto penale sia esposto alle pericolose degenerazioni dell’abuso e dell’arbitrio punitivo e come, di conseguenza, il primo compito del giurista sia quello di impedire che il diritto dei reati e delle pene perda il suo volto umano. Ma niente è aprioristicamente scontato, tutto si muove nella storia: e la civiltà del diritto penale si conquista e si mantiene giorno per giorno.
Naturalmente, questa concezione complessa e dinamica del diritto penale è ben lontana dall’indurre Vassalli a una sorta di relativismo giuridico. Al contrario, gran parte della sua riflessione e delle sue opere è dedicata a delineare i ‘principi’ fondamentali quali coordinate irrinunciabili del suo edificio penalistico. Notissimi sono, infatti, i suoi numerosi lavori dedicati al principio di legalità, e giustamente ammirata una relazione svolta all’Accademia dei Lincei appunto su I principi generali del diritto nell’esperienza penalistica («Rivista italiana di diritto e procedura penale», 1991, pp. 699 e segg.).
Ma profonde sono la problematicità del pensiero di Vassalli e la sua distanza da un atteggiamento staticamente dogmatico, anche dopo la consacrazione di molti principi nella Costituzione. In effetti, se egli ebbe a parlare di una «verità» del diritto proprio salutando l’entrata in funzione della Corte costituzionale (La libertà personale nel sistema delle libertà costituzionali, in Scritti giuridici in memoria di Piero Calamandrei, 1958, 5° vol., p. 352, poi in Scritti giuridici, 1997, 3° vol., p. 177), ciò nondimeno non cedette mai al rischio di una sorta di misticismo della costituzionalizzazione dei principi: proprio nel lavoro prima ricordato, è fermo il suo richiamo a osservare cautela nel riconoscere dignità di principi a quelli che possono essere solamente delle convinzioni o degli orientamenti ideologici, rispettabilissimi ma non sedimentati – o non ancora sedimentati – nella composta razionalità della normatività penalistica. E anche il tanto esaltato principio di offensività è da Vassalli circondato di cautela. Ma questa dinamica problematicità e questo difficile equilibrio cedono il passo a ferme prese di posizione quando è in gioco l’umanesimo del diritto penale e dunque la dignità della persona. Allora affiora un fondo quasi giusnaturalistico, capace di evocare la giustizia del diritto sovralegale, ispirato a un
metro universale o che legittimamente aspira a presentarsi come tale […]. È il metro dei diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo, il metro stesso dell’umanità, la cui violazione non tollera né giustificazioni né scuse (Formula di Radbruch e diritto penale, 2001, p. 287).
Le caratteristiche fondamentali del pensiero di Vassalli emergono nel modo più evidente e compiuto nella sua concezione della pena: libera da apriorismi di ogni tipo, eclettica, storicistica. In una polemica alta e segnata da nobili accenti con Giuseppe Bettiol, Vassalli attribuisce alla pena una pluralità di funzioni utilitaristiche di tutela della società e dei suoi componenti. Tuttavia, se finalisticamente la pena è dominata dall’idea fondante dell’utilità sociale, è innegabile che nella sua dimensione strumentale – della pena quale ‘mezzo’ – è presente una dimensione morale dovuta alla natura retributiva e all’idea di giustizia cui quest’ultima rimanda.
In questo senso Vassalli non è lontano dal sincretismo della polifunzionalità della pena professato da Francesco Antolisei. Con la differenza, però, che Vassalli sottolinea un ulteriore aspetto funzionale, di grande modernità e anticipatore in nuce di svolgimenti successivi ricchi anche di implicazioni pratiche: con il suo contenuto di intensa squalificazione sociale, presente già nel processo, la pena contribuisce alla riaffermazione del diritto violato dall’illecito. E che non si tratti di un retaggio astrattamente idealistico lo stanno a dimostrare le implicazioni e le conseguenze pratiche che Vassalli trae da questa componente funzionale della pena, ben radicata nel diffuso sentire sociale.
La concezione di Vassalli sembra quasi avere una portata, per così dire, ricognitiva di come sono venute stratificandosi nel tempo e nei nostri ordinamenti le idee sulla pena: se ne rende conto egli stesso. Ma Vassalli non teme che il suo pensiero possa essere tacciato di un atteggiamento acriticamente passivo e recettivo nei confronti della penalità quale è venuta storicamente conformandosi, perché il vero compito del giurista non è quello di forzare ideologicamente la realtà bensì di estrarne la razionalità storica per sapere poi orientare l’evoluzione teorica e pratica del diritto.
Vi è ancora un altro aspetto che ben rivela l’antidogmatismo e lo storicismo del pensiero vassalliano. Secondo lui, non è possibile instaurare una sorta di corrispondenza biunivoca tra le diverse impostazioni ideologiche della pena e il carattere liberale o autoritario del regime politico che di volta in volta le fa proprie. In sostanza, vi sono ordinamenti – e studiosi – che hanno fatto un uso liberale del postulato retributivo, così come vi sono ordinamenti che l’hanno piegato in senso autoritario. E la stessa cosa si può dire per le concezioni specialpreventive e rieducative della pena.
E arriviamo appunto alla rieducazione, tanto solennemente affermata dall’art. 27 della Costituzione in quel suo 3° comma dal tono quasi rivoluzionario. Ebbene, l’esperienza di avvocato e di uomo vissuto sempre nella concretezza delle istituzioni impedisce a Vassalli di fare della rieducazione una sorta di idolo o di dogma: egli fu davvero antiveggente nel rendersi conto dei rischi di vera e propria deriva che minavano il sistema sanzionatorio italiano.
Ma il suo umanesimo personalistico e sociale fece sì che non si piegasse mai all’idea di archiviare la finalità rieducativa come un sogno – o un ‘mito’ – di una stagione forse felice ma utopistica. Vassalli difese la rieducazione all’interno della concezione polifunzionale della pena, ritenendo che, se da un lato essa deve trovare il suo contraltare nelle altre funzioni della pena, dall’altro lato va con forza rifiutato che si possa pervenire alla totale esclusione delle chances rieducative per taluni soggetti ritenuti a priori incorreggibili e dunque da eliminare dalla società. Presunzioni assolute di pericolosità, con conseguente automatica negazione da ogni possibilità riabilitativa, sono insomma da ritenere incostituzionali.
Il tema, forse sarebbe meglio dire il culto, per i diritti umani fondamentali, fu forse il filo conduttore prevalente dell’impegno scientifico, politico e istituzionale di Vassalli. Fu anche la spinta dei suoi contributi nella procedura penale e nel diritto costituzionale, forse originata – nella sua spiccata sensibilità – dall’intensità con cui egli visse le più drammatiche esperienze belliche del 20° secolo.
A esso s’ispira tutto quel filone di lavori dedicati ai principi penalistici di garanzia che giunge fino ai tempi in cui la follia terroristica impone un grande equilibrio: e Vassalli, ormai vecchio, darà l’ennesima prova della sua saggezza giuridica ma anche della sua fermezza, distinguendo tra il diritto penale dell’emergenza, nonostante tutto giustificato dalla difesa dei diritti e della democrazia, e il cosiddetto diritto penale del nemico, i cui contenuti estremi ne impongono «il ripudio da parte degli Stati civili» (I diritti fondamentali della persona alla prova dell'emergenza, a cura di S. Moccia, 2009, p. 35).
I diritti fondamentali sono la matrice anche dell’altro filone di lavori che fecero di Vassalli un vero precursore degli sviluppi successivi della scienza e dell’esperienza penale mondiale nella costruzione del diritto penale internazionale. Le più gravi aggressioni ai diritti umani, tali da pregiudicare il valore fondamentale della stessa dignità dell’uomo, provengono dagli Stati, o da organizzazioni che comunque da questi sono appoggiate. Solo un sistema di giustizia penale internazionale può dunque aspirare alla prevenzione del 'crimine dei crimini', quello contro l’umanità. Nonostante tutte le imperfezioni e le insufficienze del diritto penale internazionale, Vassalli scorge i segni di una sua lenta ma continua evoluzione, che gli fa rivolgere dall’alto della sua esperienza e tarda età il monito a non cedere le armi della giustizia di fronte alle pretese della Realpolitik.
Su questo terreno della giustizia internazionale e dei crimini contro l’umanità, Vassalli svilupperà le sue più profonde riflessioni nel famoso volume Formula di Radbruch e diritto penale (2001). Qui egli troverà un sofferto equilibrio tra legalità e giustizia, tra diritto e morale, ammettendo la possibilità di disapplicare la legge ingiusta che superi la 'soglia dell’umana tollerabilità', anche se ciò dovesse produrre retroattivamente conseguenze sfavorevoli al reo. Ma ancora una volta non cede a tentazioni estremistiche, quando precisa che questo strappo potrà farlo non già il giudice, con il suo intuizionismo, ma solo il legislatore, in quanto più adatto a svolgere il lavoro di 'superamento del passato'.
La mancata esecuzione di provvedimento del giudice: contributi all'interpretazione dell'art. 388 del Codice penale, Torino 1938.
«Nullum crimen sine lege», «Giurisprudenza italiana», 1939, dispense 4-8, pp. 36 e segg., poi Torino 1939.
La potestà punitiva, Torino 1942.
Limiti al divieto di analogia in materia penale, Milano 1942.
La collaborazione col tedesco invasore nella giurisprudenza della Sezione speciale della Corte di Cassazione, «La giustizia penale», 1945-46, pp. 1 e segg., poi Roma 1947.
La confisca dei beni: storia recente e profili dommatici, Padova 1951.
La riforma penale del 1974, Milano 1975.
Dizionario di diritto e procedura penale, a cura di G. Vassalli, Milano 1986.
La giustizia internazionale penale. Studi, Milano 1995.
Scritti giuridici, 4 voll., Milano 1997.
Formula di Radbruch e diritto penale. Note sulla punizione dei 'delitti di Stato' nella Germania postnazista e nella Germania postcomunista, Milano 2001.
Ultimi scritti, Milano 2007.
Postfazione a Il crimine dei crimini. Stermini di massa nel Novecento, a cura di F. Berti, F. Cortese, Milano 2008, pp. 307-14.
Frammenti di storia, a cura di M. Lo Presti, con prefazione di G. Napolitano, Bari 2009.
H.-H. Jescheck, Giuliano Vassalli visto dalla Germania, «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 2002, 1, pp. 277-81.
L. Stortoni, In onore di Giuliano Vassalli, «Rivista italiana di diritto e procedura penale», 2002, 1, pp. 271-76.
M. Gallo, Vassalli e i suoi amici, «Critica del diritto», 2009, 1-4, pp. 7-22.
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