FERRARI, Giuseppe
Filosofo e uomo politico, nato a Milano il 7 marzo 1811, morto a Roma nella notte dal 1° al 2 luglio 1876. Prima avvocato, passò poi completamente agli studî filosofici, considerando come proprio maestro il Romagnosi. Per alcuni anni studiò Vico, delle cui opere fu anche editore; e l'influsso del Vico rimase costante, sia pure attraverso deformazioni illuministiche, nell'opera storica di lui. Spirito irrequieto, proteso verso l'azione e le lotte e i contrasti ideali, il F. trovò in Francia, ove si recò esule volontario nel 1838, un ambiente consono al suo spirito.
Nell'Essai sur le principe et les limites de la philosophie de l'histoire (Parigi 1843) il F. accetta la dottrina rosminiana della conoscenza: ma poi si arresta alla soggettività del conoscere, pur respingendo l'accusa di scetticismo. Sennonché il fenomenismo e la descrizione psicologica, cui egli restringe il campo della filosofia, costringono la ragione a riconoscere il mistero universale. Ciò appare chiaramente nella Filosofia della Rivoluzione (Capolago 1851), in cui il F. tenta una critica, più sofistica che speculativa, della logica hegeliana. Per il F. la rivelazione dei fatti impone come principio fondamentale: ciò che appare è; appaiono e dunque sono la vita e la morale. Di qui il passaggio a una concezione attivistica, rivoluzionaria: il diritto di libertà e d'uguaglianza sociale esiste come manifestazione di un bisogno di conquista. Così egli crede nella necessaria rivoluzione del Risorgimento, perché tutta la storia d'Italia è intesa come un seguito di rivoluzioni: che è la tesi della sua Histoire des révolutions d'Italie (voll. 4, Parigi 1856-58). Il F. ha, così, il senso del dinamismo della storia, e gli ripugna il moralismo storico che s'erige a giudice del passato; ma fraintende il concetto vichiano di storia ideale: negli ultimi scritti (Teoria dei periodi politici, Milano 1874; L'aritmetica della storia, ivi 1875) predomina una specie di concezione matematica della storia, che aggrava la sua tendenza allo schematismo e alla meccanizzazione dei periodi e dei fatti storici.
Il pensiero e l'atteggiamento politico del F. trovano nell'origine intellettualistica del suo rivoluzionarismo la loro spiegazione. Sorgenti della fede rivoluzionaria, la scienza e il principio di libertà e d'eguaglianza sociale: di qui l'inscindibilità della rivoluzione politica da quella sociale, e il federalismo repubblicano e democratico come unica forma di soluzione del problema italiano del Risorgimento. Il federalismo, per il F., si doveva manifestare nell'assetto da dare all'Italia libera; ma per giungere a questo vi doveva essere una unione rivoluzionaria. Il F. è però contrario al principio dell'Italia farà da sé, perché ritiene necessario l'intervento francese in Italia: le delusioni del'48 esasperarono le sue idee federaliste, repubblicane e radicali. Dal 1852 al'59 si raccoglie negli studî: rivoluzionarismo e federalismo diventano canoni d'interpretazione storica. Nel problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, come non partecipò dell'entusiasmo per Pio IX, così non approvò né la formula del Cavour, né il pensiero del Mazzini, e auspicava un'emancipazione del moderno stato italiano da ogni legame religioso.
Non fu un agitatore né un uomo di governo; ebbe però un grande interesse per la vita politica, così che rientrato in Italia nel'59 ed eletto deputato per il collegio di Luino, partecipò per molti anni ai dibattiti parlamentari. Sedeva sui banchi della sinistra; ma in realtà fu un isolato nella tenace difesa del federalismo. Cavour, Minghetti, Crispi, riconoscendone il valore, e l'onesta sincerità, lo stimarono e lo confutavano rispettosamente; ma in fondo vedevano in lui il superstite d'una corrente politica sconfitta. Fu però sempre favorevole a Roma capitale e, nonostante il suo federalismo, votò per la Convenzione di settembre; nel maggio del '73 propose che la soppressione delle corporazioni religiose non si restringesse entro "gli avari confini" della legge. Prese parte soprattutto alle discussioni economiche, sociali e amministrative, rappresentando l'eco di reali esigenze che influirono più tardi sullo sviluppo della vita politica italiana e prepararono l'avvento della Sinistra. I meriti scientifici del F. ottennero ampî riconoscimenti ufficiali: ebbe una cattedra universitaria a Milano, e tenne corsi liberi a Torino e a Pisa. Oltre gli scritti sul Giannone, sul Proudhon, e su La Chine et l'Europe (Parigi 1867), pubblicò il Corso sugli scrittori politici italiani (Milano 1862; rielaborazione della Histoire de la raison d'état, Parigi 1860), che è una delle sue opere più utili e pregevoli. Fu nominato senatore nel maggio del'76. Non lasciò discepoli.
Opere: Vedi l'elenco delle opere, delle poche ristampe, e dei discorsi parlamentari, in: Le più belle pagine di G. F., a cura di P. Schinetti, Milano 1927. L'epistolario non è stato pubblicato per intero; ma elementi importanti del carteggio sono contenuti nei due studî di A. Monti, Un dramma fra gli esuli, Milano 1921, e: G. F. e la politica interna della Destra, Milano 1925.
Bibl.: A. Mazzoleni, G. F., Milano 1877; C. Cantoni, G. F., Milano 1878; K. Werner, Die italienische Philosophie des neunzehnten Jahrhunderts, Vienna 1885; III B, pp. 3-123; P. F. Nicoli, La mente di G. F., Pavia 1902, I (opera rimasta interrotta); A. Ferrari, G. F., Genova 1914; G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, I (I Platonici), Messina 1917, pp. 1-43; A. Ferrari, L'opera storica di G. F., in N. Riv. Storica, 1918, IV; B. Croce, Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, Bari 1921; F. Momigliano, Il primo periodo della politica militare di G. F., in Riv. d'Italia, 1921; A. Monti, L'idea federalistica del Risorgimento italiano, Bari 1922; G. Volpe, Ritorno di F.?, in Guerra, dopoguerra e fascismo, Venezia 1928; A. Levi, Il pensiero politico di G. F., in N. Riv. Stor., 1931, III segg.