Globalizzazione
Si parla sempre più spesso di 'globalizzazione dell'economia mondiale' come risultato dei processi d'integrazione internazionale iniziati nel secolo 19°, temporaneamente interrotti dalle due guerre mondiali e dalla crisi del 1929, ma ripresi con rinnovato vigore nella seconda metà del secolo 20°. Su cosa si intenda precisamente per globalizzazione esiste tuttavia una certa confusione terminologica. Il termine è infatti utilizzato per descrivere fenomeni diversi, anche se spesso non incompatibili fra loro in quanto costituiscono diversi aspetti dello stesso processo di internazionalizzazione.
È usato (in modo un po' limitativo) come sinonimo di liberalizzazione, ovvero come 'maggiore apertura dell'economia mondiale' per descrivere la misura in cui sono stati rimossi da molti paesi gli ostacoli al commercio e alla mobilità dei fattori produttivi. Tuttavia, l'apertura dei singoli paesi non è sufficiente per parlare di g.: esistono, infatti, ostacoli naturali alla specializzazione internazionale e allo scambio, come per es. la posizione geografica o lo stato dei trasporti e delle comunicazioni, che possono indurre differenze nei gusti e nella domanda di alcuni paesi, e anche differenze politiche, sociali, culturali e religiose; basta pensare, per es., al consumo di carne di maiale nei paesi islamici.
L'apertura di nuovi mercati, assieme al grado con il quale i paesi partecipano alla divisione internazionale del lavoro, rispondendo a mutamenti dei vantaggi assoluti e comparati del commercio, definisce il livello d'integrazione internazionale. In presenza di un forte aumento dell'integrazione internazionale, tale da indurre l'equalizzazione dei prezzi dei fattori, l'armonizzazione delle politiche economiche, la diffusione globale di fenomeni iniziati a livello locale (in un'economia mondiale vieppiù dominata da imprese multinazionali e da istituzioni finanziarie, che operano indipendentemente dai confini nazionali e da considerazioni economiche interne), si può parlare di g. dell'economia mondiale.
Esiste accordo sul fatto che si sia determinato un forte aumento dell'integrazione internazionale nel corso del sec. 20°, e in particolare un'accelerazione dei processi d'integrazione a partire dal 1960; ciononostante, la legge del prezzo unico (secondo la quale il prezzo dello stesso bene in paesi diversi espresso in valuta comune è lo stesso al netto dei costi di trasporto) continua a essere sistematicamente violata: non esiste un unico tasso d'interesse mondiale, non si è sviluppata una completa armonizzazione delle politiche economiche di paesi diversi né una diffusione 'globale' di fenomeni iniziati a livello locale. Pertanto, malgrado una forte tendenza all'integrazione dell'economia mondiale, non esiste ancora, alla fine del sec. 20°, un mercato unico né per i beni né per i capitali; restano in piedi i confini nazionali; i paesi tendono a privilegiare politiche economiche orientate verso l'interno e sussistono divergenze significative nel tasso di crescita del PIL di gruppi di paesi diversi.
La tendenza all'internazionalizzazione dell'economia mondiale non è un fenomeno nuovo. Nel periodo fra la metà del sec. 19° e la Prima guerra mondiale il commercio mondiale era cresciuto a tassi molto elevati (circa del 3,5% all'anno in media), i capitali europei erano massicciamente affluiti in America e in Australia, molti lavoratori erano emigrati dall'Europa verso gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia, il Brasile e l'Argentina, e l'economia mondiale aveva raggiunto un elevato livello d'integrazione internazionale. La tendenza dei paesi ad aprirsi verso l'esterno e ad aumentare i legami commerciali e finanziari era, tuttavia, limitata a un numero ristretto di paesi industrializzati e, soprattutto, fu bruscamente interrotta. Le due guerre mondiali e la crisi del 1929 hanno, infatti, indotto una chiusura nei confronti dell'estero da parte della maggioranza dei paesi: i flussi commerciali vennero fortemente limitati dall'adozione di misure protezionistiche (tariffe e barriere non tariffarie), i flussi di capitali privati si interruppero, le immigrazioni furono scoraggiate per difendere l'occupazione interna (Kenwood, Lougheed, 1983, 1992³).
Le caratteristiche del processo d'integrazione degli ultimi cinquant'anni sono, almeno parzialmente, diverse da quelle passate. Molti più paesi sono stati infatti coinvolti; è aumentato notevolmente il commercio intra-industriale, ma anche quello fra paesi in fasi di sviluppo diverse; le esportazioni come percentuale del PIL sono cresciute non solo nei paesi industrializzati ma anche in molti paesi in via di sviluppo (PVS); gli investimenti diretti, che facilitano la divisione internazionale del lavoro, si sono orientati verso paesi (e settori) diversi rispetto al sec. 19° e sono aumentati in misura considerevole. Più in generale, la finanza internazionale, soprattutto negli ultimi vent'anni, ha avuto un'espansione tale che il turnover giornaliero sui mercati valutari in generale supera lo stock di riserve valutarie. Oltre a ciò, la diffusione delle tecnologie è diventata sempre più veloce, il progresso tecnico, con i suoi effetti sul costo di trasporto e comunicazione, ha ridimensionato le barriere naturali agli scambi, le restrizioni normative alla libera circolazione di merci e di capitali sono state gradualmente ridotte, le politiche commerciali di molti PVS hanno mutato indirizzo e si sono aperte notevolmente, i paesi appartenenti all'area ex socialista si sono resi accessibili agli scambi internazionali e, sia pure a ritmo piuttosto lento, ai flussi di investimenti diretti all'estero e al sistema finanziario mondiale.
Pur in mancanza di una g. completa dell'economia mondiale, dati questi sviluppi del commercio e dei mercati finanziari, si è recentemente aperto un ampio dibattito sui vantaggi e i costi della g. stessa. I fautori della g. mettono in evidenza che l'integrazione permette una maggiore crescita, e che l'apertura di nuovi mercati corrisponde a un aumento del benessere sociale. Grazie a più intensi scambi commerciali e a più facili trasferimenti di risorse finanziarie e umane, l'economia mondiale può infatti conseguire miglioramenti sia sul terreno dell'efficienza che su quello della crescita. In un mondo 'perfetto' i capitali dovrebbero altresì muoversi verso i paesi a più bassa intensità di capitale, consentendo un aumento della convergenza dei principali indicatori economici e, in particolare, del tasso di crescita del PIL.
Tuttavia, secondo le recenti teorie del commercio internazionale (Krugman 1995), che abbandonano alcune delle ipotesi più restrittive del modello Heckscher-Ohlin, quali quella di concorrenza perfetta e rendimenti di scala costanti, i legami tra commercio internazionale e distribuzione del reddito sono in realtà complessi. Il divario tecnologico fra paesi, le forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta e la presenza di rendimenti di scala crescenti fanno venire meno la relazione tra prezzi relativi dei beni e prezzi relativi delle risorse postulata dai modelli tradizionali, cosicché non si assiste necessariamente a un aumento della convergenza fra paesi quando si incrementano i flussi del commercio internazionale.
Paesi diversi possono, infatti, specializzarsi in beni diversi e mantenere tassi di crescita diversi, nonostante forti legami commerciali. Per quel che riguarda i movimenti di capitale, inoltre, possono esistere vincoli al libero accesso ai mercati dei capitali, dovuti per es. a problemi di potenziale insolvenza da parte di alcuni paesi. Così non sempre i paesi con un basso livello di risparmio interno riescono a crescere a ritmi più elevati di quanto loro consentito, e possono essere soggetti a vincoli finanziari alla crescita. Il risultato è che spesso non si hanno i previsti movimenti di capitale verso paesi a bassa intensità di capitale e alto rendimento. In presenza di imperfezioni e condizioni diverse da quelle tipiche della pura concorrenza i principali vantaggi della g., indicati nell'aumento di efficienza, nella maggiore crescita e nella convergenza, possono, pertanto, venir meno.
Oltre a ciò, gli eventuali benefici della g. non si dividono in modo uniforme fra paesi, né all'interno di singoli paesi. Per alcuni paesi e gruppi di paesi (per es. i PVS), come per alcuni settori produttivi e segmenti della società, possono esservi conseguenze anche molto sfavorevoli a seguito del processo di globalizzazione. Questa ha per es. facilitato lo spostamento all'estero di attività di molte imprese dei paesi più sviluppati, con la sostituzione di lavoratori esteri (meno costosi) a lavoratori interni. Ciò ha indotto conseguenze negative sull'occupazione (in particolare di lavoratori non specializzati) dei paesi sviluppati, e sta facendo emergere una "profonda frattura fra i gruppi che hanno la capacità e la mobilità per prosperare in mercati globali e coloro che non hanno queste capacità e giudicano l'espansione dei mercati non regolati come ostile alla stabilità sociale" (Rodrik 1997, p. 2).
La g. rende, inoltre, sempre più difficile per i governi fornire assistenza sociale appropriata, perché ha indotto una diminuzione della sovranità nazionale nella gestione della politica economica. Da un lato ha reso sempre più incerta la distinzione fra politiche interne e politiche estere, e, dall'altro, ha determinato una situazione nella quale risulta sempre più difficile applicare le politiche sociali di tipo tradizionale, che richiedono più libertà nella predisposizione delle politiche fiscali e nelle risposte a problemi ciclici di quanta non sia possibile in un'economia mondiale con un elevato livello d'integrazione e tassi di cambio fissi fra molti paesi.
Se si tiene conto di queste argomentazioni, la tendenza alla g. dell'economia mondiale che si è sviluppata negli ultimi cinquant'anni potrebbe interrompersi e risolversi in una frammentazione dell'economia mondiale dovuta a spinte corporative, come si è già verificato all'inizio del sec. 20°, oppure in una divisione dell'economia mondiale in blocchi regionali molto integrati all'interno ma non fra loro (Trade blocks? 1994).
Dopo questa breve introduzione, prima di formulare alcune considerazioni generali, è opportuno esaminare separatamente le tendenze a) dei flussi commerciali; b) dei capitali; c) dei lavoratori; d) delle politiche economiche nel corso del sec. 20°, e il loro contributo alla g. dell'economia mondiale.
I flussi commerciali. - Esistono diversi modi per calcolare il livello d'integrazione commerciale (Kenwood, Lougheed 1983, 1992³), ma l'indicatore probabilmente più usato è il rapporto tra le esportazioni e il PIL. Questo rapporto, che aveva raggiunto un minimo storico dopo la Seconda guerra mondiale (7% ca.), è cresciuto stabilmente negli ultimi cinquant'anni: ciò è accaduto sia nei paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo, soltanto con qualche eccezione per quanto riguarda alcuni paesi asiatici e latino-americani (tab. 3).
Nonostante l'aumento medio della quota di esportazioni sul PIL, che indica quindi una crescente integrazione dell'economia mondiale, il commercio internazionale continua a concentrarsi principalmente sui prodotti dell'industria manifatturiera (mentre l'indice del commercio mondiale, considerando il 1983 come anno base, è 212,5 nel 1993, quello delle esportazioni di manufatti arriva nello stesso anno a 246,7) e pertanto non coinvolge in modo omogeneo tutti i paesi. Come all'inizio del 20° sec., il commercio è infatti ancor oggi ampiamente dominato dai paesi sviluppati (che sono i principali produttori di manufatti) e tende a essere commercio fra paesi che hanno livelli simili di sviluppo e non fra paesi in fasi di sviluppo diverse. Si tratta infatti, in ampia misura, di commercio intraindustriale e all'interno del gruppo dei paesi a più elevato sviluppo.
Per es., nel 1990, i paesi industrializzati dell'OCSE producevano il 72% ca. del PIL mondiale e la loro quota di esportazioni era del 74,6% sul totale mondiale; il 57% delle esportazioni mondiali era relativo al commercio fra paesi sviluppati. In particolare, la quota di esportazioni di America Settentrionale, Europa e Giappone sul totale delle esportazioni mondiali è passata dal 61% nel 1948 a più del 67% nel 1960, al 70% circa nel 1987 (dopo una lieve diminuzione nel 1979, anno della seconda crisi petrolifera). Nel contempo, la quota di esportazioni dei PVS è rimasta sostanzialmente costante intorno al 20% (se si esclude un temporaneo aumento del commercio all'interno dei paesi dell'America Latina negli ultimi dieci anni. Per alcuni dati sulle esportazioni, v. tabb. 1, 2, 3, 5 e 6).
Negli anni Ottanta, tuttavia, i PVS hanno iniziato - o ripreso, come nel caso dell'America Latina - a partecipare più attivamente al commercio mondiale, e l'integrazione ha coinvolto un maggior numero di paesi. Ciò è dovuto, in ampia misura, a un notevole cambiamento nelle politiche economiche. È iniziata, infatti, una sostanziale ondata di liberalizzazione degli scambi, che non si è arrestata neanche nei momenti di recessione dei primi anni Novanta, e, parallelamente, si è determinato uno sviluppo nelle regolamentazioni degli investimenti diretti. In entrambe queste aree e, in alcuni casi, anche in relazione ai movimenti di capitale, i PVS si sono decisamente mossi in direzione di una più elevata integrazione nell'economia mondiale.
Come conseguenza di queste scelte, nel periodo 1985-94, il rapporto tra il tasso di crescita dell'interscambio e quello del PIL dei PVS è stato mediamente uguale a circa l'1,5% (contro l'1% del decennio 1975-84 e il 2% dei paesi industrializzati). Nonostante la liberalizzazione, tuttavia, restano elevate le barriere tariffarie. Nel 1987 le tariffe medie nei PVS erano più del 30% (contro meno del 25% nei paesi industrializzati). In particolare, la protezione delle tariffe nel Sud dell'Asia era più del doppio della media storica dei paesi industrializzati. Oltre a ciò, i PVS utilizzano anche barriere non tariffarie, che nel 1987 erano circa il 28% delle importazioni.
La maggiore integrazione commerciale che si rileva nella seconda metà del Novecento, che ha riportato l'economia mondiale ai livelli raggiunti intorno all'inizio del 20° sec., è dovuta a motivazioni 'tecniche', quali i cambiamenti tecnologici e i costi decrescenti nelle telecomunicazioni e nei trasporti, ma anche - e in misura crescente - a precise scelte di politica economica e commerciale, come la rimozione di un grosso numero di misure protezionistiche introdotte dopo la Seconda guerra mondiale per 'proteggere' i mercati nazionali. Da questo punto di vista, il mutato atteggiamento dei PVS negli ultimi anni ha indotto un ampliamento del numero dei paesi coinvolti direttamente nel processo di internazionalizzazione e ha dato una forte spinta al processo di globalizzazione.
I flussi di capitali
L'integrazione delle economie nazionali attraverso i movimenti di capitali non è molto diversa da quella che avviene con il commercio di beni e servizi, né per quel che riguarda le cause (sfruttamento di opportunità di profitto offerte dall'arbitraggio), né per le conseguenze. Come nel caso del commercio, i movimenti di capitali permettono ai paesi di trarre beneficio dalle loro diversità, attraverso trasferimenti di risorse in luoghi dove sono più produttive e possono avere effetti positivi con un aumento dell'efficienza dei mercati finanziari. I movimenti di capitali e la crescita dell'attività bancaria internazionale sono strettamente collegati alla crescita del commercio che devono finanziare, anche se, a partire dal 1970, l'aumento dell'attività bancaria internazionale è stato più elevato di quello degli scambi (Bank for International Settlements 1992).
Un modo di valutare il livello di apertura dei mercati finanziari è il calcolo del volume complessivo delle transazioni finanziarie con l'estero, ma esistono altri metodi (come del resto per l'integrazione commerciale); per es., M. Feldstein e C. Horioka (1980) hanno proposto di verificare se la mobilità internazionale dei capitali abbia permesso di 'allentare' la relazione contabile tra risparmio e investimenti, nel senso di consentire un maggior disavanzo corrente con l'estero grazie alla possibilità di finanziarlo tramite afflussi di capitale dall'estero.
Negli ultimi cento anni l'integrazione finanziaria ha avuto un andamento ciclico, in cui alcuni periodi caratterizzati da forti limitazioni normative alla mobilità dei capitali sono stati seguiti da altri di ampia liberalizzazione. La libertà dei movimenti di capitale degli ultimi vent'anni è per es. paragonabile a quella del periodo del Gold Standard, tra il 1890 e il 1913. Nel periodo precedente la Prima guerra mondiale i mercati dei capitali avevano infatti raggiunto un altissimo grado d'integrazione finanziaria, tanto che in relazione al commercio mondiale o al PIL mondiale i flussi di capitale erano addirittura più elevati nel 1913 che negli anni Settanta (Bayoumi 1990). Dopo il ritorno all'autarchia che ha caratterizzato il periodo fra le due guerre mondiali, i movimenti di capitale hanno subito importanti cambiamenti nell'origine e nella composizione. Mentre nell'immediato dopoguerra capitali privati si muovevano dagli USA (dopo l'Inghilterra del sec. 19° gli Stati Uniti erano diventati, a partire dalla Seconda guerra mondiale, il più grande fornitore di fondi) e venivano investiti in attività produttive, per lo più nell'industria manifatturiera e del petrolio, negli anni Settanta i flussi pubblici hanno quasi completamente sostituito quelli privati. Oltre a ciò, il Giappone ha iniziato a esportare capitali, assumendo un ruolo sempre più importante fino a diventare, negli anni Ottanta, il principale esportatore di capitali speculativi a breve termine nonché un importante fornitore di fondi per investimenti diretti. Al contempo gli USA hanno cominciato ad attrarre fondi. Da un ammontare molto limitato nei primi anni Sessanta, alla fine degli anni Ottanta ben il 40% degli investimenti diretti stranieri affluiva negli USA, insieme alla maggior parte dei flussi speculativi di portafoglio. Negli ultimi vent'anni, infine, si è assistito a un aumento notevolissimo di flussi speculativi privati a breve termine.
I movimenti di capitali verso i PVS rappresentano un esempio di questa tendenza. L'America Latina è il continente che ha attirato buona parte dei capitali privati passando da circa 9 miliardi medi annui nel 1980-89 a più di 53 miliardi nel 1990-98 (quasi il 40% del flusso totale). Notevole è stato anche il flusso di capitali verso l'Asia, che è passata da un flusso medio annuo di circa 12 miliardi nel 1980-89 a quasi 38 miliardi nel 1990-98; ciò, nonostante la crisi finanziaria del 1997-98, quando vi è stato un deflusso netto di capitali per più di 50 miliardi (v. tab. 4 per alcuni dati sugli afflussi di capitali nei Paesi in via di sviluppo). Per molti di questi paesi tale aumento negli afflussi netti di capitale superava il 2,5% e in alcuni addirittura il 5% del PIL. Naturalmente l'enormità di queste cifre può indurre serie conseguenze nelle scelte di politica economica (per es., la fuga di capitali dal Messico alla fine del 1994 ha indotto una notevole svalutazione del peso messicano e una crisi che ha avuto ripercussioni anche su altre valute e paesi; la crisi dei mercati del Sud-Est asiatico dell'autunno 1997-inverno 1998 rischia di mettere in ginocchio le economie dei paesi coinvolti e di avere ripercussioni anche sui mercati dei paesi sviluppati).
Alla fine del sec. 20°, il mercato più 'globale' è quello delle valute, che nel 1995 muoveva circa 900 miliardi di dollari USA al giorno. I mercati azionari sono sicuramente più frammentati, ma reagiscono istantaneamente a eventi in diverse parti del mondo e si influenzano a vicenda, come si è visto recentemente in varie situazioni, ultima la citata crisi dei mercati finanziari del Sud-Est asiatico. Le cause del 'contagio' delle crisi valutarie e finanziarie non sono del tutto chiare, anche se il dilagare delle crisi sembra legato all'esistenza di importanti squilibri macroeconomici in alcuni paesi (per es., ampi disavanzi delle partite correnti o protratti apprezzamenti del tasso di cambio reale) e alla difficoltà, in particolare per le economie in via di sviluppo o in transizione, di mantenere tassi di cambio fissi o parzialmente fissi.
La tendenza verso la liberalizzazione nei principali centri finanziari, assieme alla combinazione dei progressi nella tecnologia delle telecomunicazioni e dell'informazione, ha indubbiamente influenzato gli andamenti dei flussi di capitale e indotto una crescente interconnessione tra mercati e prodotti. Ma anche alcuni eventi storici hanno fortemente influenzato la struttura e soprattutto le modifiche che si sono avute sui mercati dei capitali nella seconda metà del secolo. In primo luogo il crollo del sistema dei cambi fissi di Bretton Woods e l'avvento dei cambi flessibili nel 1973.
Infatti, l'aumento della volatilità delle valute e dei tassi d'interesse che sono seguiti all'avvento dei cambi flessibili da un lato ha indotto i mercati a sviluppare nuovi prodotti che permettono agli investitori di diminuire i rischi associati alla volatilità dei cambi, e dall'altro ha profondamente influenzato le scelte di produzione delle multinazionali che hanno aumentato gli investimenti diretti all'estero per sostituire le esportazioni alla produzione in loco, spesso più conveniente e meno rischiosa, modificando così i modi stessi dell'integrazione.
Anche l'integrazione dei mercati dei capitali è stata influenzata dagli shock petroliferi degli anni Settanta (la prima crisi petrolifera del 1973 e la seconda del 1979), che hanno rappresentato di fatto l'inizio della crisi debitoria dei PVS degli anni Ottanta, che ha escluso e/o limitato, anche se per brevi periodi rispetto alla crisi degli anni Trenta, alcuni paesi dal libero accesso ai mercati dei capitali. Infine, lo sviluppo dei centri off shore e del mercato dell'eurodollaro ha dato una forte spinta all'integrazione finanziaria. Storicamente nati a Londra, dove sono sorti i primi mercati dell'eurodollaro (che consentivano di aprire conti in dollari presso banche inglesi), i mercati off shore permettevano agli investitori di detenere dollari, ma al tempo stesso di sottrarli alla giurisdizione statunitense (il che, per motivi politici e possibilità di ritorsioni, come per es. il congelamento di fatto nel 1948 di circa 20 milioni di dollari che appartenevano alla Cecoslovacchia ed erano depositati presso la Federal Reserve Bank di New York, sembrava rappresentare una forte attrattiva).
Una caratteristica importante degli ultimi anni è la liberalizzazione dei movimenti di capitali in Europa e nei PVS: in Europa, la deregolamentazione ha preso piede negli anni Ottanta, sotto la spinta del governo inglese (il Regno Unito aveva già eliminato i controlli quantitativi sul credito nel 1979 e ha poi introdotto una nuova regolamentazione del mercato azionario nel 1986, detta Big bang). La Francia ha eliminato i controlli sui capitali alla fine degli anni Ottanta, e anche la Germania ha gradualmente liberalizzato i mercati finanziari, inizialmente molto 'chiusi' (la Germania era 'rientrata' sui mercati dei capitali solo nel 1965, dopo la defezione degli anni Trenta). A partire dal 1992, con la creazione del mercato unico, tutti i paesi della Comunità economica europea hanno rimosso i vincoli ai movimenti dei capitali, e in Europa si è assistito effettivamente a una g. dei mercati dei capitali, con una conseguente perdita di potere dei governi nazionali sui tassi d'interesse, i corsi dei cambi e l'allocazione dei capitali all'interno di ogni paese. Nel settembre del 1992, per es., le aspettative di svalutazione di alcune valute (lira italiana e sterlina inglese) hanno generato imponenti spinte speculative e l'uscita di Italia e Gran Bretagna dal meccanismo dei cambi del Sistema monetario europeo, nonostante la difesa, da parte delle banche centrali, delle valute dagli attacchi speculativi.
Nei PVS il fenomeno dell'integrazione dei mercati dei capitali è più recente. Solo negli anni Novanta molti paesi hanno cambiato le legislazioni vigenti sugli investimenti diretti, rendendole più 'aperte', e hanno sviluppato mercati azionari, che hanno avuto un notevole allargamento. Naturalmente la crescita dei mercati dell'America Latina e dell'Asia nei primi anni Novanta è dipesa anche dalla recessione prevalente nei paesi industrializzati e dal basso livello dei tassi d'interesse che prevaleva negli Stati Uniti e in Giappone (in America Latina, inoltre, sembra che siano rimpatriati molti capitali 'fuggiti' all'estero ai tempi della crisi degli anni Ottanta; Cline 1995).
I flussi di lavoratori
La g. dell'economia mondiale implica anche migrazioni di lavoratori (v. migrazioni, in questa Appendice) che potenzialmente inducono benefici sia per il paese di partenza che per quello di destinazione. Gli emigranti spesso fanno abbassare il costo del lavoro nel paese di destinazione e inviano le rimesse nel paese di partenza, facendone aumentare il reddito.
In alcuni periodi del sec. 20° le migrazioni sono state un modo di riallocare lavoro in aree in cui era scarso. Alla fine del sec. 19° il flusso degli emigranti, in particolare verso le Americhe, era decisamente elevato; è poi diminuito all'inizio del Novecento, soprattutto dopo l'introduzione di misure protezionistiche indotte dalla grande depressione degli anni Trenta, che miravano a proteggere i lavoratori nazionali. Negli anni Sessanta e Settanta sono tuttavia ripresi i movimenti migratori, soprattutto dal Sud verso l'Europa settentrionale e, infine, nel decennio 1985-95, le migrazioni hanno registrato un ritmo crescente. Il fenomeno delle migrazioni non è quindi nuovo, anche se nel tempo si è avuto un deciso cambiamento nella natura e nella direzione dei flussi: il Sudamerica, per es., era caratterizzato da flussi in entrata molto elevati negli anni Venti, ed è diventato, a partire dagli anni Settanta, continente di invio. In Australia, Canada e Stati Uniti, dopo un boom nell'immediato dopoguerra, gli afflussi di lavoratori sono stati molto lenti a partire dal 1970, anche se si è avuto un forte sviluppo di immigrazioni illegali (difficilmente controllabili), soprattutto negli USA; oltre a ciò è notevolmente aumentata la proporzione di asiatici sul totale degli emigranti. In Europa il periodo di maggiori migrazioni si è avuto negli anni Sessanta, quando l'Europa settentrionale ha accolto frotte di lavoratori provenienti dall'Europa meridionale. Nel 1973-74, dopo la prima crisi petrolifera, sono state imposte severe restrizioni all'entrata di lavoratori stranieri, ma ciononostante le migrazioni verso Nord sono riprese negli ultimi anni (anche se per lo più da paesi diversi). Al contempo alcuni paesi europei di invio, come l'Italia e la Spagna, sono diventati anche paesi di destinazione.
Al contrario del commercio di beni, prevalentemente intraindustriale, e dei movimenti di capitali, dove i flussi bilaterali sono notevoli, non ci sono grossi incentivi alle migrazioni quando due paesi 'simili' aumentano i propri legami. Da un punto di vista teorico queste migrazioni fra paesi 'simili' potrebbero essere giustificate da differenze nelle specializzazioni o da problemi informativi; in realtà i flussi bidirezionali sono irrisori: nonostante l'effettiva abolizione delle barriere, i lavoratori di altri paesi dell'Unione Europea costituiscono solo il 2,5% della forza lavoro in Germania, il 2% in Inghilterra e praticamente zero in Italia.
Le politiche economiche
L'influenza macroeconomica dell'integrazione dei mercati dei capitali dipende dal sistema dei cambi in vigore. Nel caso di tassi di cambio flessibili, infatti, a seconda del grado d'integrazione dei mercati dei capitali, le politiche macroeconomiche inducono diverse modifiche delle parità esistenti, mentre nel caso di tassi di cambio fissi, quanto più elevata è l'integrazione dei mercati dei capitali tanto più l'autonomia della politica monetaria risulta limitata (Padoa Schioppa 1994). In presenza di mercati mondiali dei beni, dei servizi e dei capitali fortemente integrati, la soluzione alla contraddizione del 'quartetto inconciliabile' (libero scambio, piena mobilità dei capitali, cambi fissi, politiche macroeconomiche autonome) può essere ricercata in tassi di cambio fissi solo nella misura in cui le politiche monetarie nazionali siano realmente coordinate e quindi limitate nella propria autonomia. I vantaggi dell'integrazione a livello macroeconomico riguardano soprattutto gli eventuali guadagni di credibilità che si possono avere dal 'legarsi le mani' (come per es., per i paesi europei, con gli Accordi di cambio del Sistema monetario europeo). L'aumentata integrazione, infatti, aumenta la disciplina associata al vincolo estero, anche se non manca il rovescio della medaglia, perché se la credibilità non è pienamente stabilita, i rischi di fallimento sono molto elevati.
Nonostante, come abbiamo detto, l'aumento dell'integrazione internazionale avutosi nel sec. 20° sia, in gran parte, il frutto di decisioni coscienti di politica economica, le politiche economiche non si sono internazionalizzate in misura corrispondente all'elevata integrazione commerciale e dei mercati finanziari, neanche nella seconda metà del 20° secolo. La maggior parte dei paesi ha infatti continuato a decidere e perseguire politiche monetarie e fiscali che davano la priorità a obiettivi interni, anche se questi erano in contrasto con l'internazionalizzazione (per es., la politica monetaria restrittiva seguita dalla Germania dopo l'unificazione tedesca, nonostante le necessità cicliche dei partner europei di uscire da una lunga recessione). Peraltro, anche le politiche tradizionalmente considerate 'interne', come la fissazione di standard di qualità, la sicurezza dei lavoratori, le politiche antitrust, le regolamentazioni ambientali e delle tasse, influenzano la concorrenza internazionale e possono essere utilizzate in modo discriminatorio, andando in direzione opposta rispetto ai processi di internazionalizzazione.
L'evoluzione 'domestica' delle politiche monetarie, fiscali e delle politiche 'interne', e l'adozione di misure di protezionismo selettivo da parte dei paesi industrializzati, che ha caratterizzato gli ultimi due decenni, sono probabilmente, alla fine del sec. 20°, la maggiore minaccia ai processi d'integrazione mondiale. Negli ultimi dieci anni, tuttavia, si sono registrati alcuni progressi, in particolare per quel che riguarda le politiche commerciali. A partire dalla fine degli anni Ottanta, infatti, l'aumento dell'integrazione e la g. dei mercati nell'area della politica commerciale sono divenuti evidenti: dal 1986 molti PVS (24) hanno aderito al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), e altri stanno aderendo al successore, la WTO (World Trade Organization), nato il 1° gennaio 1995, che include anche accordi sul commercio dei servizi e dei diritti di proprietà intellettuale. Oltre a ciò, si sono conclusi i negoziati dell'Uruguay Round (dicembre 1994), che comprendono alcuni accordi importanti di liberalizzazione delle politiche economiche.
Conclusioni
L'evoluzione dei processi d'integrazione internazionale e la conseguente g. dell'economia mondiale sono state la risposta ai cambiamenti che nel corso del sec. 20° hanno caratterizzato la situazione economica e politica a livello mondiale, anche se sono state influenzate dalle innovazioni tecnologiche, dal miglioramento delle comunicazioni e dalla diminuzione dei costi di trasporto. I vantaggi della g., quantificabili in termini di maggiore crescita ed efficienza, non si distribuiscono tuttavia in modo uniforme né fra paesi, né all'interno dei singoli paesi. Ciò può potenzialmente costituire una minaccia e indurre il ritorno a un'economia mondiale più frammentata. In particolare, negli ultimi vent'anni ha preso piede un fenomeno importante le cui conseguenze sulla g. non sono facilmente identificabili: la creazione di strutture formali d'integrazione regionale (v. regionalismo, in questa Appendice). Infatti, la creazione di aree di libero scambio, come il NAFTA (North American Free Trade Agreement) fra Nordamerica e Messico, il Mercato unico europeo, l'AFTA (Asean Free Trade Agreement) fra i paesi del Sud-Est asiatico, per citare le principali (per una discussione dettagliata, Trade blocks? 1994), da un lato liberalizza il commercio fra i paesi membri dell'accordo, ma dall'altro usa misure protezionistiche nei confronti degli outsiders. La questione principale, pertanto, diventa stabilire quale fra questi due aspetti sia dominante. A livello teorico non esiste una risposta certa, e solo il tempo potrà dire se il fiorire degli accordi regionali degli ultimi due decenni abbia facilitato la g. oppure abbia indotto una frammentazione dell'economia mondiale in aree abbastanza omogenee che non sono riuscite a integrarsi fra loro.
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Si veda inoltre: International Monetary Fund (IMF), World economic outlook, Washington (D.C.), numeri vari.