Governo
Il termine 'governo' è attualmente adoperato dalla dottrina giuridico-costituzionalistica e politologica dell'Europa continentale per designare due distinte realtà istituzionali.Esso ricorre, in primo luogo, nell'espressione 'forme di governo': in questo caso il termine sta a indicare l'insieme delle autorità che costituiscono l'apparato dello Stato esercitante funzioni di imperio. Tale apparato può organizzarsi, appunto, in forme distinte, a seconda della natura degli organi che lo compongono e a seconda dei rapporti che si istituiscono tra loro (forme di governo a poteri concentrati - come era nei vecchi Stati assoluti e in quelli comunisti, fascisti e in generale autoritari del XX secolo - o a poteri divisi; forme di governo monarchiche o repubblicane; forme di governo parlamentari o presidenziali; e via dicendo).
Nel linguaggio europeo-continentale, tuttavia, il termine 'governo' è usato molto più spesso in un significato più specifico e più ristretto: il preciso significato, del resto, con cui il termine quasi esclusivamente compare, per esempio, nei testi delle carte costituzionali oggi in vigore in Italia, Francia, Spagna, Germania. In questo secondo senso 'governo' (nelle varie versioni delle lingue neolatine; Regierung in tedesco) designa, nel quadro di un sistema di poteri divisi, quel particolare organo che sta a capo della pubblica amministrazione e si distingue dagli altri poteri dello Stato (legislativo, giudiziario, ecc.) per le peculiari funzioni che esercita come componente della complessiva macchina statale (cioè del 'governo' nel senso largo del termine, in quanto insieme di tutti i poteri).Va segnalato il fatto che, nel linguaggio giuridico e politologico corrente negli Stati Uniti, il termine 'governo' (government) non ricorre invece altro che nel primo dei due significati testé menzionati. A indicare il potere che dirige le attività amministrative dello Stato si usa colà esclusivamente (a parte la qualifica ufficiale di colui che presiede l'organo: presidente o governatore) il termine 'esecutivo' (executive). A questi usi linguistici si accosta anche la terminologia prevalente in Gran Bretagna: ove semmai il corrispondente del governo-organo del linguaggio europeo-continentale può all'incirca rinvenirsi nel termine 'gabinetto' (cabinet).
Nell'Europa continentale, naturalmente, non è ignota l'espressione 'esecutivo', applicata a designare il governo-organo, uno dei poteri dello Stato. Ma l'uso di quel termine è meno frequente che nei paesi di lingua inglese, e certo è oggi molto meno frequente che in passato. Anche sul continente europeo, infatti, durante tutta la prima fase dell'affermarsi del modello classico di Stato liberale, e cioè tra la fine del Settecento e il 1850, il potere che presiede alle attività amministrative veniva regolarmente denominato, dalla dottrina costituzionalistica, 'l'esecutivo', ed 'esecutiva' era la funzione da esso espletata; mentre il termine 'governo' non era mai praticamente utilizzato per designare l'organo del potere esecutivo e veniva invece riservato - come oggi negli Stati Uniti - a significare l'insieme delle autorità statali. Ma dopo quella prima fase gli usi linguistici mutarono decisamente.
Le ragioni del trapasso, avvenuto sul continente europeo, del termine 'governo' a un prevalente senso ristretto e specifico, combaciante col concetto di uno solo dei poteri dello Stato, e della parallela tendenziale refrattarietà del linguaggio dei paesi anglosassoni ad accettare un tale trapasso, sono molteplici e complesse.In estrema sintesi possiamo dire che esse hanno a che fare con la profonda trasformazione subita, nel corso di due secoli, dalle funzioni del potere che sta a capo della pubblica amministrazione; trasformazione che ha reso in certo senso anacronistica la designazione di quel potere come 'esecutivo'. La dottrina giuridica e politologica e il linguaggio ufficiale delle costituzioni del continente europeo hanno avvertito acutamente l'anacronismo di chi continua a indicare con una terminologia inadeguata una realtà tanto nuova e diversa, e hanno perciò scelto per designare quest'ultima un vecchio termine - 'governo' - opportunamente e intelligentemente piegato a significare una realtà più ristretta (utilizzando ormai per lo più, a indicare il complesso delle autorità pubbliche, i termini 'Stato apparato' o 'Stato' senz'altro). In Gran Bretagna e in America, viceversa, nel linguaggio del diritto e della scienza politica la designazione delle autorità come 'Stato' non ha avuto ingresso, e anche il 'potere esecutivo' non ha mutato nome, quantunque il termine 'esecuzione' ormai non porti più con sé, anche in quegli ambienti, le implicazioni concettuali che vi aveva originariamente.
In questo articolo descriveremo in maniera succinta il processo attraverso il quale, nella storia costituzionale dei paesi occidentali, il potere esecutivo nel corso di circa due secoli è divenuto, da un punto di vista sostanziale e al di là delle varie vicende terminologiche, il 'governo', ossia tendenzialmente un autentico 'potere governante' collocato al centro del sistema dei distinti poteri in cui si articola lo Stato apparato.
La denominazione 'esecutivo' riferita al potere che dirige le attività amministrative dello Stato ha la sua origine e la sua spiegazione nel quadro della teoria della divisione dei poteri che ha informato di sé le esperienze costituzionali degli Stati dell'Occidente durante l'età liberale.
Lo Stato moderno ha la sua origine nelle vicende storiche del Rinascimento e della Riforma, in quanto rompe gli assetti pluralistici del sistema politico dell'Europa medievale nella direzione di una radicale semplificazione dei centri esercitanti funzioni autoritarie. La società civile tra il XVI e il XVIII secolo rimane ancora per lo più una società rigidamente suddivisa in ceti e articolata in corporazioni chiuse; ma il potere di imperio si concentra ormai quasi tutto - secondo il modello tipico dello Stato dell'epoca - nelle mani di un sovrano, che lo esercita tramite apparati burocratici, dopo aver rivendicato a sé le frazioni d'esso prima largamente distribuite tra molteplici articolazioni politico-sociali inferiori (o anche superiori, come nel caso dell'Impero). La tassonomia delle funzioni dello Stato in questo periodo varia a seconda delle versioni che ne danno gli scrittori contemporanei di cose politiche, ma in nessuna d'esse figura una 'funzione esecutiva' tra quelle fondamentali dello Stato. Altri sono i diversi compiti perseguiti dalle attività statali, generalmente riconosciuti come tali. In termini riassuntivi può dirsi che al sovrano, nel modello di questo Stato, spetta la funzione di garantire la giustizia sui territori soggetti alla sua giurisdizione (funzione che include, accanto all'attività di risoluzione delle controversie tra i sudditi secondo diritto, anche quella di rinnovare il diritto mediante una nuova normazione - un compito quest'ultimo che il sovrano assolve ormai in piena libertà, poiché solo eccezionalmente ha bisogno del consenso di corpi rappresentativi dei ceti); la funzione del mantenimento dell'ordine pubblico; la funzione dell'imporre e riscuotere tributi e del battere moneta; quella di un variabile, ma a volte intenso, controllo dell'economia; quella della tutela della religione di Stato; quella di fare la guerra, la pace, i trattati, mantenendo forze armate stanziali; e altre ancora. E in tutte queste funzioni il sovrano - che è in genere un monarca ereditario - esercita avvalendosi di uffici organizzati in distinte amministrazioni, che dipendono tutte da lui e che formano, insieme, il suo 'governo'. Il quale, nei suoi vari rami, opera godendo di ampie, discrezionali prerogative e senza precisi vincoli di legge che il sovrano non possa, se lo ritiene necessario per il benessere dello Stato, superare.La comparsa del concetto di 'esecuzione' interviene solo quando l'ideologia liberale gradualmente impone negli ordinamenti occidentali, in luogo della precedente concentrazione del potere, lo schema opposto della 'divisione dei poteri'.
Tale schema non viene elaborato allo scopo di costruire un potere capace di sottrarsi all'accusa di essere in generale arbitrario e tirannico. Esso matura invece come modello organizzativo dello Stato richiesto rigorosamente da un preciso ideale di società civile: una società civile composta di individui titolari di diritti inviolabili di libertà in ogni settore della vita collettiva; una società civile, dunque, capace di autodeterminarsi - così in campo economico come in campo culturale e in ogni altro campo - senza interferenze da parte dello Stato. Da questo punto di vista allo Stato compete essenzialmente il solo compito di assicurare gli strumenti giuridici onde l'autonomia della società possa spiegarsi indisturbata e in tutta pienezza. A questo scopo, appunto, occorre che l'apparato dello Stato si organizzi secondo la logica dei 'poteri divisi'.
La prima embrionale realizzazione di fatto della 'divisione dei poteri' si ebbe in Inghilterra con la 'Rivoluzione gloriosa' del 1688. La prima organica teorizzazione d'essa fu opera, come è noto, di Montesquieu. Ma le concrete attuazioni istituzionali dello schema 'divisorio' si moltiplicarono, in versioni diversificate, al di qua e al di là dell'Atlantico, a mano a mano che l'idea liberale della società civile autonoma si traduceva negli ordinamenti vincendo (a volte dopo violenti conflitti) la resistenza degli istituti del 'regime antico'. Anche la teoria della 'divisione' venne col tempo arricchendosi e perfezionandosi, tanto da costituire, a metà dell'Ottocento, un modello che, nei suoi principî fondamentali, veniva accettato quasi universalmente come schema di organizzazione indispensabile agli apparati autoritativi di ogni Stato libero e progredito.
Tale modello può descriversi, sommariamente, nel modo che segue. Al fine di garantire la sicurezza dell'individuo e delle sue libertà il modello identifica tre fondamentali funzioni dello Stato. La prima è quella di fare norme che definiscano con precisione le libertà e i diritti degli individui, conferendo loro certezza positiva (funzione legislativa). La seconda funzione consiste nel curare, nel rispetto delle norme previamente stabilite e in adempimento dei comandi da esse dati, l'attuazione concreta di taluni interessi comuni all'intera collettività (funzione esecutiva). La terza funzione riguarda la risoluzione - sempre sulla base delle norme prestabilite - delle controversie relative alla loro eventuale avvenuta violazione, con corrispettiva applicazione di sanzioni (funzione giurisdizionale).
Il modello liberale di divisione dei poteri postula che le tre funzioni fondamentali siano attribuite tendenzialmente in esclusiva ciascuna a un organo o a un gruppo di organi distinti (anche se tollera che organi di un gruppo possano in certi casi partecipare o interferire nello svolgimento di una funzione diversa da quella loro propria). Sulla base del modello si formano perciò, nell'ambito degli organi statali, tre distinti poteri: il legislativo, l'esecutivo, il giudiziario, ciascuno deputato essenzialmente allo svolgimento di una delle funzioni fondamentali.
Lo schema liberale esige che almeno un organo del legislativo sia espressione - per via di elezioni - della società civile (ove si assume siano presenti le forze, soprattutto di estrazione borghese, ideologicamente favorevoli agli ideali di libertà individuale: ideali di cui pertanto il legislativo diviene, tra i poteri dello Stato, il primo e basilare presidio). Esige inoltre, con riguardo al giudiziario, che esso sia pienamente indipendente dagli altri due poteri ed esperto nelle tecniche del rigoroso e apolitico ragionare giuridico (al fine di garantire la stretta legalità e l'imparzialità delle sue pronunce, condizione perché gli individui si sentano sicuri nei loro diritti).
La divisione liberale dei poteri, nella formulazione più coerente e matura, vorrebbe che l'esecutivo fosse nella realtà quanto più possibile vicino a quel che il suo nome designa: un 'esecutore' di comandi posti dal legislativo, di norme dettate a specifica tutela dei diritti dell'individuo. Questi diritti sono il perno attorno a cui deve ruotare tutta l'organizzazione dello Stato. Perciò il modello in linea di massima non vede di buon occhio l'esistenza di un esecutivo che, nel perseguimento di interessi collettivi, disponga di ampi poteri discrezionali, capaci di incidere sui diritti soggettivi individuali e di interferire con essi. La realizzazione, attraverso determinate attività amministrative, di interessi pubblici può produrre interferenze di quel genere. Ma si tratta di contenerne al minimo il numero e di circoscriverne al massimo la portata attraverso opportune normative stabilite dal legislatore, affinché la funzione esecutiva non venga meno al precipuo carattere che la sua denominazione esprime.
In verità il modello liberale, dovendo distribuire fra i tre poteri in cui ha articolato le strutture dello Stato tutte le funzioni di questo, assegna all'esecutivo anche la maggior parte dei compiti relativi alla gestione della politica estera (conclusione dei trattati, conduzione della guerra, ecc.). In questo settore, non potendosi predeterminare precise regole di condotta, all'esecutivo non è certo dato di comportarsi come un mero 'esecutore', quale tendono a ridurlo o vorrebbero ridurlo le norme poste dal legislativo nel settore dell'amministrazione interna. Senonché, la riconduzione della politica estera sotto la generale categoria della 'funzione esecutiva' non smentisce l'ispirazione che s'è detto sottostare al modello liberale di divisione dei poteri. È nel settore dell'amministrazione interna che i diritti delle persone possono subire immediate e dirette limitazioni ed è lì che occorre che l'attività amministrativa sia genuina 'esecuzione'. Il nome della funzione può venire esteso senza danno anche ad aspetti delle attività di quel potere che, a rigore, presentano caratteri di amplissima e irriducibile discrezionalità. Ma tali caratteri non riguardano il regime dei diritti dei cittadini, il vero valore di cui si preoccupa la logica del modello.Basta quel che s'è detto per far capire che nelle prospettive di questo schema organizzativo il legislativo occupa idealmente la posizione centrale nella costellazione dei tre poteri. Tocca a esso stabilire le norme che assicurano il rispetto delle giuste aspettative degli individui: norme generali, formanti tra loro un sistema coerente, da mutarsi solo di rado e dopo attenta ponderazione, norme che condizionano strettamente l'azione degli altri due poteri. Questi ultimi tendono a essere in certo qual modo poteri subordinati. Lo è il giudiziario, in quanto chiamato a decidere situazioni contenziose avvalendosi delle norme poste dal legislativo, senza potervi derogare. Ma lo è anche l'esecutivo che, nel servire interessi pubblici, deve attenersi a norme di legge che stringono da presso i suoi poteri e dettano precise procedure da seguire e precisi risultati da raggiungere. L'inosservanza di quelle norme produce l'invalidità dell'atto amministrativo, accertabile dai giudici ordinari o da giudici speciali; mentre anche sul terreno della politica estera non mancano mai del tutto al legislativo i mezzi per far valere indirettamente, in qualche misura, la sua volontà.
Il modello di divisione dei poteri che abbiamo evocato costituisce un 'ideal-tipo' di marca weberiana: cioè uno schema di valori e di principî istituzionali, verso cui più o meno gravitano nell'Ottocento tutti i maggiori ordinamenti politico-giuridici dell'Occidente senza peraltro mai incorporarlo in sé perfettamente. La misura in cui l'incorporazione interviene varia da ordinamento a ordinamento e in alcuni finisce per essere anche abbastanza limitata. Inoltre, la divisione liberale dei poteri si veste nei diversi ordinamenti di forme istituzionali particolari, differenziabili tra loro per tipi (le distinte, note 'forme di governo' caratteristiche dell'epoca liberale). In rapporto a questa complessa fenomenologia varia anche il ruolo che in ciascun ordinamento svolge in concreto l'esecutivo. Il quale in qualche caso si accosta molto o addirittura moltissimo all'ideale di quel potere strettamente subordinato al legislativo che abbiamo tratteggiato; in altri casi, pur rimanendo soggetto alla legge, conserva o acquisisce invece una sua rilevante autonomia.
Soggetto alla legge, ma pure dotato di una forte, indipendente iniziativa e di vasti poteri, non solo nel campo della politica estera ma anche in quello della politica interna, è l'esecutivo delle cosiddette monarchie limitate o 'costituzionali pure', quali esistono, per esempio, nella Gran Bretagna del primo Settecento e nella Francia del periodo della Restaurazione. Qui l'esecutivo è rappresentato da un monarca che, titolare della funzione esecutiva, deve agire con la controfirma di ministri, i quali però egli nomina e revoca a sua incondizionata volontà. Le profonde aderenze di cui la Corona dispone nella società civile, e le sue ampie prerogative che la legge non ha ancora sistematicamente ristrette e disciplinate, le consentono di condurre una politica propria, spesso in controtendenza rispetto a quella del legislativo e capace di tenerle testa. Analoga situazione si riscontra - quando ormai i tempi non sembrerebbero più propizi e altrove l'era delle monarchie organi di politica attiva è già finita - nei grandi ordinamenti d'area germanica nella seconda metà dell'Ottocento e fino alla prima guerra mondiale (gli Imperi d'Austria-Ungheria e di Germania).
Molto più vicini al modello ideale sono in genere gli esecutivi delle forme di 'governo parlamentare', il cui prototipo è offerto dalla storia costituzionale inglese tra il secondo Settecento e il primo Ottocento. Il prototipo ebbe peraltro ben presto svariate imitazioni altrove (più o meno felici). Sono l''esecutivo', in queste 'forme di governo', i ministri: i quali sulla carta continuano a essere nominati da un monarca (o da un presidente della Repubblica) ma, dovendo godere della 'fiducia' del legislativo (il parlamento), sono in sostanza scelti (e all'occorrenza licenziati) da quest'ultimo. Il capo dello Stato è in genere divenuto, in tale quadro, un mero organo di garanzia costituzionale, politicamente 'neutralizzato'.
La realizzazione più compiuta e davvero esemplare della forma di governo parlamentare, e insieme dello schema liberale della divisione dei poteri, si ebbe nella Gran Bretagna della regina Vittoria, a metà del XIX secolo. Ivi l'esecutivo (il 'gabinetto') poté venir a ragione riguardato addirittura come una delle molte 'commissioni' (committees) che il Parlamento organizzava nel suo seno: come la "commissione parlamentare deputata all'esecuzione" (v. Bagehot, 1867). D'altra parte, in conformità al modello, minimi erano allora i poteri discrezionali di interferenza sui diritti soggettivi dei singoli posseduti dall'esecutivo: un grande giurista dell'epoca - Dicey (v., 1885) - giunse persino a sostenere che nell'ordinamento non ve n'era traccia, e che ciò rappresentava la caratteristica della rule of law, gloria della costituzione inglese. Un'altra, sia pur diversa e meno rigorosa versione dell'esecutivo quale longa manus del parlamento e genuino 'esecutore', fu sperimentata nella Terza Repubblica francese.
Minore subordinazione al parlamento può riscontrarsi nell'esecutivo delle forme di governo repubblicano-presidenziali proprie dell'epoca. In proposito occorre peraltro fare una distinzione. Negli ordinamenti di debolissimo impianto liberale (come quelli sudamericani) è la stessa divisione dei poteri che spesso vacilla, e in quei casi il presidenzialismo si converte non di rado in aperta dittatura. Negli Stati Uniti - unico serio esempio del tipo - le cose vanno altrimenti. Negli ultimi decenni dell'Ottocento, eccetto che nei pochi e brevi periodi di guerra o di emergenza, il presidente non è per nulla il protagonista della politica. Chi decide veramente è il Congresso, e il presidente, sulla scia delle decisioni di quello, 'esegue'. Tanto è vero che, verso la fine del secolo, Wilson (il futuro presidente) potrà definire la forma di governo americana, che gli europei già chiamavano presidenziale, "governo del Congresso". Lo studioso della politica, operante sul luogo, aveva una più penetrante percezione della realtà del sistema: il quale rispondeva anch'esso, in sostanza, alle esigenze della tipica divisione liberale dei poteri.
Al fine di ricevere un'applicazione anche solo parziale - quale sovente ebbe negli ordinamenti ottocenteschi - l'ideale liberale della divisione dei poteri abbisognava però dell'esistenza di un presupposto per essa indispensabile: che lo Stato nei suoi rapporti con la società civile non fosse uno Stato 'interventista', che rimanesse uno Stato 'piccolo'. Tale esso rimase in pratica in tutto l'Occidente fin verso l'inizio del Novecento. Poi i suoi rapporti con la società civile mutarono e in questo secolo, più o meno dappertutto, la sua intromissione in varia guisa nella vita della società e nel mercato ha prodotto una sua metamorfosi interna e ha fatto nascere lo Stato 'sociale'.
A torto si è negato a volte che sia possibile identificare un tipo di Stato 'sociale', dotato di un suo distinto sistema di valori e di una sua intrinseca logica. Esso in verità esiste e si colloca a mezzo tra il tipo di Stato liberale e il tipo di Stato socialista: uno Stato disposto a correggere sistematicamente la dinamica spontanea della società e del mercato per fini di sviluppo economico e per fini di equità e di eguaglianza, ma senza giungere alla soppressione, e nemmeno a una compressione avvilitrice, dell'iniziativa privata. Altresì a torto si è voluto a volte classificare il tipo dello Stato contemporaneo come Stato 'pluriclasse', in contrapposizione a quello liberale ottocentesco, 'monoclasse' per natura. Le due qualifiche potrebbero al massimo andar bene per l'Europa, dove il suffragio universale fu introdotto solo a partire da circa cent'anni fa. Ma gli Stati Uniti conobbero il suffragio maschile fin dal periodo jacksoniano (quello femminile risale al 1920) e restarono ciò nondimeno uno Stato liberale fino al 1937. La verità è che alle origini dell'odierno Stato 'interventista', che ha soppiantato quello liberale, stanno piuttosto due altri fattori: l'industrializzazione integrale dei processi di produzione della ricchezza, col congiunto diffondersi di un alto grado di benessere che esige protezione, e la ripresa in forza di sentimenti di solidarietà, dopo un periodo - l'Ottocento - di intenso individualismo.
Che lo Stato 'interventista' e 'sociale' sia un tipo a parte, distinto in particolare dallo Stato liberale, è confermato tra l'altro proprio dall'abbandono, negli ordinamenti del nostro secolo, dell'ideale liberale della divisione dei poteri. Non è che si sia rinunciato senz'altro alla divisione dei poteri come tale (questa rinuncia appartiene solo al modello dello Stato comunista nato dalla Rivoluzione sovietica del 1917, oltre che a quello dei regimi fascisti). Ma l'ideal-tipo della divisione dei poteri su cui tendenzialmente si orientano le costituzioni occidentali dei nostri giorni è una nuova e diversa cosa. È nient'altro che la necessaria risposta, in termini di organizzazione dello Stato apparato, alle esigenze dell'attuale, ampio 'interventismo' statale.
Nello schema liberale ideale la legislazione avrebbe per lo più dovuto nascere in seno al legislativo, per iniziativa dei suoi membri, o avrebbe dovuto almeno trovarvi una meditata elaborazione. La legislazione nuova avrebbe dovuto essere rara e rare le norme stabilite da una fonte diversa dalla legge. Tutto ciò è di fatto incompatibile con i bisogni di uno Stato 'interventista', che deve per necessità attuare i suoi interventi attraverso un flusso ampio e continuo di nuova normazione. La quale, per la sua varietà e mole, non può più passare tutta attraverso atti del legislativo e deve venir largamente decentrata: occorre farne delega all'organo supremo dell'esecutivo ma anche, in larga misura, a organi più o meno distaccati e autonomi della pubblica amministrazione. Inoltre, la normazione più importante, per cui si richiede ancora la forma della legge, non può più venir affidata alla saltuaria iniziativa dei parlamentari, ma deve nascere da un programma organico, che assicuri la coerenza e l'efficacia degli interventi, nonché, auspicabilmente, la loro compatibilità complessiva con gli equilibri del sistema finanziario pubblico e dell'economia. Il compito di formulare e di tradurre in atto un tale organico programma non può in pratica venir assolto da altri che non sia il vertice dell'esecutivo. Al quale occorre sia garantita una prolungata, pluriennale stabilità e la capacità di ottenere dal legislativo, almeno in linea di massima, la traduzione in legge di tutte le misure del suo programma. Solo così diviene possibile per il corpo elettorale (in regime di democrazia ormai piena e sovrana) valutare a intervalli regolari la bontà e l'efficacia dei piani di intervento e confermarli, ovvero deciderne la sostituzione con altri.
Anche la pubblica amministrazione dell'età liberale deve mutar volto nello Stato interventista. Non solo le esigenze degli interventi impongono uno spettacolare dilatarsi delle dimensioni della burocrazia. L'articolazione interna dell'amministrazione deve complicarsi, creando tra l'altro isole o settori slegati da una rigida subordinazione gerarchica all'esecutivo. Né si può più perseguire l'obiettivo liberale di ridurre al minimo i poteri amministrativi discrezionali. Questi vanno anzi allargati, almeno là dove sono in gioco solo rapporti economici, mentre all'amministrazione sarà dato di curare gli interessi che le sono affidati - in misura crescente - anche attraverso strumenti di diritto privato.L'interventismo dello Stato genera esigenze di mutamento anche nel giudiziario. Molte situazioni contenziose (la cui massa è ormai schiacciante) trovano una soluzione quantomeno in prima istanza in organi amministrativi. A fronte di un sistema normativo scaturente da molteplici fonti e in continuo, rapido movimento, il compito del giudiziario non può più ridursi a un'applicazione logico-meccanica delle norme, ma include operazioni di sistemazione e adattamento, frutto, almeno in parte, di autonoma creatività.
Dal quadro offerto balza agli occhi che nella nuova divisione dei poteri è superata e abbandonata la distribuzione tendenzialmente esclusiva fra i tre poteri tradizionali delle funzioni che il modello liberale considerava fondamentali. Balza anche agli occhi che i poteri non possono più propriamente essere solo tre. La pubblica amministrazione acquista una parziale indipendenza da quell'esecutivo sotto il cui assoluto controllo una volta si trovava. Si aggiunga l'introduzione pressoché generalizzata di corti costituzionali che garantiscono l'uniforme rispetto di alcuni valori supremi messi in pericolo dalla mobilità del sistema normativo. Balza infine agli occhi che la funzione e il ruolo essenziali assegnati ai poteri all'interno dello Stato apparato vanno seriamente ridefiniti in termini teorici rispetto alla definizione che ne dava il modello liberale.
Nello Stato interventista compete oggi infatti al legislativo non di esercitare l'attività normativa (che gli è in realtà largamente sfuggita di mano), ma di esercitare il controllo sull'indirizzo politico dell'esecutivo, per convalidarlo solennemente o, in via eccezionale, per contrastarlo. Al giudiziario spetta non tanto la decisione sulle situazioni contenziose (su cui ha perso l'esclusiva), quanto dare almeno in ultima istanza l'imparziale garanzia della corretta applicazione del sistema normativo (al cui sviluppo contribuisce).
Forse la trasformazione di ruolo più imponente è però quella che ha coinvolto l'esecutivo. Nello Stato interventista ben funzionante esso funge veramente da 'potere governante'. Gli spetta di imprimere l'indirizzo fondamentale al sistema politico-giuridico in movimento e di assicurarne la 'governabilità', ossia la coerenza ed efficienza del movimento. Stabile nella posizione istituzionale che gli è assegnata, esso detta il programma e fa approvare la legislazione principale onde si rinnova il sistema. È il più importante autore, mediante regolamenti, della normazione secondaria. Sta tuttora a capo di un'amministrazione che, pur nei suoi molteplici snodi, è legata per tanti aspetti alle sue direttive. È inutile dire che conserva, anzi addirittura rafforza, il tradizionale dominio nel campo della politica estera. Si tratta dunque di un potere che può venir considerato, in certo senso, il centro, il vero 'motore' della macchina statale. Rispetto all'azione che esso vi svolge, le azioni degli altri poteri (il legislativo, la magistratura costituzionale e, a loro modo, il giudiziario e l'amministrazione) assumono ora la funzione di 'freni': freni, si intende, operanti ciascuno in un contesto particolare e con mezzi diversi. È comprensibile dunque che nel linguaggio delle recenti costituzioni europeo-continentali si sia scelto di chiamare 'governo' questo 'motore' della macchina statale, per designare l'organo specifico a cui esse attribuiscono tendenzialmente la suprema potestà di guida. Chiamare a tutt'oggi un tale potere governante (come fanno molti studiosi, specialmente anglosassoni) semplicemente 'l'esecutivo' può essere solo un vezzo letterario, a fronte della nuova realtà. Oppure è il tacito, comprensibile omaggio a una tradizione passata, a suo modo gloriosa.
Le linee che abbiamo tracciate della divisione dei poteri succeduta a quella liberale non sono il prodotto di una mera riflessione su come l'apparato autoritario di uno Stato 'interventista' e 'sociale' dovrebbe organizzarsi in astratto. Esse rispecchiano, invece, tendenze di fondo nell'evoluzione di tutti i maggiori ordinamenti occidentali del nostro secolo (o quantomeno di quelli che appaiono funzionare al meglio). Sono un condensato di fatti storici, appena semplificati ad opera dell'analisi comparativa e razionalizzatrice.
Per ciò che concerne la trasformazione dell'esecutivo in 'potere governante', la comparazione politico-giuridica mette in luce le maniere diverse in cui, in ordinamenti con forme di governo differenti, quella trasformazione, a dispetto degli ostacoli, è riuscita a realizzarsi. Le varie forme di governo conosciute in epoca liberale sono sovente restate le stesse, almeno in superficie. Il 'centralismo' del legislativo che tendenzialmente le caratterizzava ha però dato per lo più luogo a un nuovo centralismo: quello del potere governante, che si è affermato per vie spesso inattese.In Gran Bretagna il puro parlamentarismo vittoriano è stato nel Novecento scalzato, di fatto, dal 'regime del primo ministro': una forma - come è stato icasticamente detto - di 'monarchia repubblicana'. A produrla sono bastati (assieme al suffragio universale) un solido bipartitismo di base e una legge elettorale che lo rende quasi inscalfibile (grazie ai collegi uninominali e al turno unico delle elezioni), cui si aggiunge una inflessibile disciplina di partito. L'elezione della Camera dei Comuni si risolve da tempo nella semplice scelta popolare tra due leaders. Il vincitore guida la nazione per un quinquennio, seguito fedelmente dalla sua maggioranza parlamentare che ne convalida in legge il programma di governo. Si dice, in proposito, che in Gran Bretagna il Parlamento sia ormai ridotto a una 'camera notarile di registrazione'; il voto di 'sfiducia' vi rimane una possibilità, ma solo virtuale e di fatto mai utilizzata. Il gabinetto e la pubblica amministrazione beneficiano inoltre di vasti poteri di 'legislazione delegata' e di attività amministrativa discrezionale.
In Germania il Grundgesetz del 1949 assegna al Cancelliere il potere di dettare l'indirizzo politico e di comporre a suo giudizio il governo. La nomina del Cancelliere non è un così immediato riflesso del voto popolare per l'elezione del legislativo come in Gran Bretagna, perché il sistema dei partiti non è rigidamente binario e la legge elettorale è meno costrittiva. Tuttavia, se il Cancelliere ha dietro di sé una coalizione di partiti che lo sostiene, questa è abbastanza stabile, di solito, per assicurargli il potere per una intera legislatura e per permettergli di governare in relativa autonomia. Il governo è in genere energico, in quanto riesce ad adeguare al suo volere legislazione e amministrazione. La sostituzione del Cancelliere in corso di legislatura è fortemente scoraggiata e resa difficile dall'obbligo del voto di sfiducia 'costruttivo'.
In Francia il passaggio dall'esecutivo al potere governante è stato tormentato e per certi aspetti drammatico. Esso non si era ancora verificato sotto la Quarta Repubblica. La Quinta Repubblica l'ha realizzato, adottando la forma del 'semipresidenzialismo'. Il presidente della Repubblica viene eletto per voto popolare diretto. La sua elezione di solito trascina con sé quella di una maggioranza d'eguale colore politico all'Assemblea Nazionale; ciò consente in genere al presidente di esercitare di fatto - e con grande efficacia - il potere di guida dello Stato sotto tutti i rispetti. Formalmente, tuttavia, il primo ministro, nominato dal presidente, è il titolare per Costituzione di molte parti della funzione governativa e può venir dismesso da un voto di censura dell'Assemblea. Ciò implica che, occasionalmente, se presidente e Assemblea sono di colore politico diverso, il potere governante si scinda, la funzione di indirizzo si divida tra presidente e primo ministro, e la governabilità del sistema ne soffra un poco. Ma il fenomeno accade per la verità di rado. Al potere governante (ossia al presidente e al primo ministro) è conferita poi istituzionalmente una larghissima porzione della potestà normativa, poiché la Costituzione limita la competenza della legge fatta dal Parlamento a un gruppo ristretto di materie e rimette tutte le altre al regolamento governativo. Nel nostro secolo, finalmente, il regime formalmente 'presidenziale' degli Stati Uniti diviene presidenziale anche nei fatti. A partire dagli anni trenta e col New Deal, il presidente diventa l'iniziatore della gran parte della legislazione federale che introduce e realizza, anche in America, lo Stato interventista. Al contempo, vasti poteri normativi gli vengono delegati per legge (in parallelo alla delegazione di analoghi poteri a molteplici 'agenzie indipendenti', una branca semiautonoma della pubblica amministrazione). Nel campo della politica estera finisce l'isolazionismo tradizionale degli Stati Uniti e il presidente diviene l'organo quotidianamente attivo di una superpotenza da cui dipendono i destini del mondo: un arbitro che ne decide le scelte con tale grado di libertà da suggerire a taluni la tesi che si è ormai in presenza di una 'presidenza imperiale'. La qualifica è senza dubbio eccessiva, anche se l'enorme crescita in statura dell'istituto in tempi recenti è fuori questione. Va anzi detto che, nel confronto con gli ordinamenti poco sopra nominati, quello degli Stati Uniti conosce un legislativo che ha perso meno delle sue antiche prerogative liberali: il Congresso, più di quegli altri parlamenti, tende tuttora a correggere o addirittura talvolta a bloccare i programmi politici del suo potere governante. Il presidente, in altre parole, sta al centro del sistema, ma i 'freni' applicabili alla spinta di quel 'motore' sono di notevolissima forza.
Sul finire del XX secolo molti danno ormai per esaurita la funzione dello Stato come entità politico-giuridica capace di affermare una sua coerente, imperativa volontà, a esclusione d'altre, sul territorio soggetto alla sua giurisdizione. V'è del vero in questa valutazione.
La tradizionale sovranità dello Stato subisce oggi una prima limitazione per il fatto che operano dentro il suo ordinamento, e in virtù di una regola che ormai molte costituzioni fanno propria, i principî del diritto internazionale generale ai quali la legge ordinaria non può derogare. Molto più intensa e pervadente è poi la limitazione della sovranità statale quando lo Stato entra a far parte di unioni sovranazionali particolari, il cui sistema normativo esso riconosce dotato di un grado di validità superiore. È il caso dell'Italia rispetto alla Comunità Europea, il cui diritto ha la precedenza, per gli stessi giudici italiani, sul diritto nazionale. Va anche menzionata la ormai diffusissima tendenza degli Stati a 'federarsi' al proprio interno: cioè a riconoscere competenze crescenti, e non di rado esclusive, a entità territoriali regionali; competenze che si traducono in sostanza in permanenti, forti diminuzioni del potere d'imperio dell'ente politico centrale.In questi fenomeni il depotenziamento della sovranità statale è collegato a formali innovazioni, rispetto al passato, degli assetti costituzionali. Ma non meno rilevanti in ordine alla perdita di quota della libera capacità decisionale dello Stato sono altri due fenomeni solo in parte registrati dalle norme del diritto. La grande espansione della pubblica amministrazione ha generato, oltre alle parziali autonomie che l'ordinamento esplicitamente riconosce, centri di potere che è molto difficile ricondurre a strumenti di fedele attuazione di una volontà formatasi al centro. Quella stessa volontà poi, nella sua fase di formazione, spesso non è più il prodotto di deliberazioni prese in considerazione degli interessi generali in gioco. È invece in misura crescente il risultato delle pressioni esercitate da gruppi sociali organizzati per la difesa di interessi settoriali e frazionari: pressioni dal cui casuale comporsi scaturiscono le leggi. Quando ciò accade, hanno deciso i gruppi - non gli organi statali costituzionali - e lo specifico contributo dell'istituzione 'Stato' alla vita della collettività viene in pratica vanificato. Per non dire poi delle forze economiche internazionali, che sfuggono largamente a ogni controllo dello Stato, tendente invano ad imbrigliarle. L'evoluzione degli aspetti politico-giuridici sembra dunque aver dato vita, nel mondo attuale, a un pluralismo istituzionale e sociale simile a quello che vigeva nell'Europa del Medioevo, dove, come si sa, non v'era spazio per lo Stato inteso nel senso moderno del termine. Quantunque il paragone non sia interamente infondato, v'è in esso non poca esagerazione. Pur nel quadro pluralistico che ne comprime più che in passato il ruolo e il potere, lo Stato nazionale ha ancora oggi una funzione da svolgere. Nessun'altra istituzione può, nella sfera rimasta di sua competenza, ora e presumibilmente per il prossimo futuro, sostituirsi a esso. Spetta allo Stato, sul fronte esterno, la conduzione di una politica efficiente di relazioni internazionali e di difesa, per tutto ciò cui non provvedano - e in genere non è poco - superiori organismi internazionali. Spetta allo Stato, sul fronte interno, soprattutto il governo sapiente di un'economia di solito indocile ad adeguarsi ai canoni e ai valori del modello 'sociale'.
Detto questo, resta vero che il depotenziamento della sovranità e gli ostacoli maggiori che si frappongono al corretto formarsi e realizzarsi della volontà dello Stato rendono più difficile, e per certi rispetti problematico, l'assolvimento dei compiti che ancora gli sono affidati.
Ma, allora, proprio da queste considerazioni emergono ragioni aggiuntive idonee a spiegare perché, nel nostro secolo, l'esecutivo si sia trasformato in potere governante. E, per effetto di esse, si scorge altresì meglio una verità pratica di grande importanza: solo assicurando al potere governante, al governo, una capacità piena di decisione e di guida si può sperare che i compiti dello Stato contemporaneo vengano assolti.
Dominare una burocrazia sovraestesa e ridurre l'eccesso delle domande sociali dentro i limiti di compatibilità con gli equilibri dell'economia sono obiettivi che richiedono un forte potere di decisione centrale, poggiante su una sicura base di legittimazione popolare diretta e unitaria. Così come lo richiedono le difficili scelte di una politica estera caratterizzata da problemi di cooperazione e da sfide di concorrenza (tra le quali quelle ardue derivanti dalla cosiddetta 'mondializzazione' dell'economia e dall'incombere di potentati economici privati multinazionali). A tutto ciò non possono bastare le mediazioni e le transazioni che caratterizzavano, e tuttora spesso caratterizzano, la vita interna dei parlamenti. Nel contesto di uno Stato 'piccolo' questi ultimi un tempo trattenevano con le loro complicate procedure le spinte verso 'interventi' statali non strettamente necessari e verso nuove spese. Oggi sono diventati tendenzialmente veicolo di quelle spinte, camere di rappresentanza di interessi frazionari, organi inclini a squilibrare i bilanci (almeno finché una serie di congegni, istituzionali e non, li pieghi a collaborare con la politica di un governo effettivamente capace di decidere gli indirizzi da seguire). Oggi solo la presenza di un effettivo potere governante può garantire che lo Stato non scompaia - secondo le scettiche previsioni di molti - nelle pieghe di un pluralismo delle istituzioni, dei gruppi e delle forze economiche, che minaccia di soffocare del tutto la sua residua sovranità.
Non si tratta di auspicare un potere governante il cui comando non incontri limiti e freni. Questi sono richiesti sia dai principî costitutivi sostanziali dello Stato sociale sia, in particolare, dal modello di divisione dei poteri che è correlativo a quel tipo di Stato. Si tratta però di aver piena consapevolezza dell'esigenza che, in uno Stato occidentale dei nostri giorni, un potere governante deve esserci, e deve essere fornito di tutti gli strumenti necessari a permettergli l'esercizio della sua funzione di guida.
A offuscare questa consapevolezza operano di solito due atteggiamenti dai quali bisogna guardarsi. Il primo è il nostalgico rimpianto per una centralità del parlamento, che segnò un'epoca importante nella storia del costituzionalismo occidentale ma che ora non può più servire. Il secondo nasce dalla convinzione pessimistica che non possa pensarsi un modello di Stato sociale dotato di una sua propria logica e che comunque il proliferare disarticolato di amministrazioni pubbliche e di gruppi sociali ed economici riottosi, a cui da tempo assistiamo, sia un fenomeno non più assoggettabile a un ordine razionale.
Soltanto al fine di sottolineare per contrasto la non illimitatezza dei pur vasti poteri che si debbono attribuire nel modello 'sociale' al potere governante, ricordiamo rapidamente le strutture di due recenti diversi modelli in cui viceversa non esistevano assolutamente freni interni capaci di contenere l'esercizio arbitrario del potere di imperio dello Stato.
Nello Stato nazionalsocialista - che spinse all'estremo taluni caratteri già prefigurati dal fascismo italiano - il capo dello Stato, o Führer, era insieme supremo legislatore, esecutore e giudice del suo popolo. Le articolazioni tradizionali dell'apparato statale restavano meri, docili strumenti nelle sue mani, utili per la più spedita attuazione della sua volontà e all'occorrenza scavalcabili dal comando diretto proveniente da lui. Il modello assegnava al Führer pieno dominio sui destini delle persone, essendo state soppresse tutte le garanzie di libertà per l'individuo in vista dell'affermazione della potenza del popolo (che doveva mantenersi razzialmente puro) nell'agone politico internazionale, ove in eterno si lotta per l'egemonia o, in alternativa, per la sopravvivenza.
A sua volta il modello del socialismo sovietico - nato in Russia, ma poi esportato con varianti presso altri popoli - muoveva dall'esplicito, orgoglioso ripudio dell'idea stessa della divisione dei poteri in quanto idea 'borghese'. Secondo il modello, tutte le articolazioni dello Stato apparato dovrebbero far capo a un Soviet Supremo o Assemblea Nazionale eletta dal popolo, che può in ogni momento revocarne i vari membri. Tale Assemblea, in quanto depositaria della sovranità popolare, potrebbe sempre disporre di quelle articolazioni - legislative subordinate, esecutivo-amministrative e giudiziarie - per piegarle, se occorre, sia nella loro composizione sia nelle loro concrete attività, al servizio degli interessi superiori che essa sola sa interpretare. In tal modo l'Assemblea possiederebbe poteri sovrani in tutte le direzioni e illimitati. In realtà, come è noto, si trattava di una finzione. Dietro l'intera organizzazione statale stava il Partito comunista, padrone totale di tutte le strutture dello Stato e vero e unico decisore, fuori di qualsiasi vincolo di legge, di ogni questione che a suo giudizio avesse rilievo politico. Il governo effettivo - un governo non ostacolato da freni di qualsiasi tipo - si incarnava in lui. Il modello assegnava al Partito - organizzato come un corpo militare, con poteri dittatoriali al vertice - il compito di trasformare la società russa, e via via le altre di tutto il mondo, in società senza appropriazione privata di ricchezza e senza classi, facendo così nascere l'uomo nuovo e facendo attingere all'umanità intera il regno della perfetta e definitiva libertà.
Come è agevole capire, i fini dello Stato nel modello 'sociale' sono differenti: al loro centro sta il benessere dell'individuo concreto, con i suoi diritti fondamentali più o meno regolabili ma mai sopprimibili per intero in vista di disumani sogni di egemonia nazionale o di utopici, fanatici sogni di futura redenzione universale. In conformità a ciò i molti poteri di cui deve disporre in esso il potere governante non possono in alcun modo paragonarsi allo sconfinato arbitrio del governo postulato da quegli altri due modelli di Stato, protagonisti anch'essi, alla loro maniera (una maniera tragica), della storia politica mondiale del XX secolo.
Nella parabola storica del costituzionalismo occidentale, che conduce, come si è visto, dall'esecutivo al potere governante, non si iscrivono finora le vicende dello Stato italiano.
Nell'Italia monarchico-liberale l'esecutivo, in regime di 'governo parlamentare', rientrava più o meno nelle regole (anche se di certo non assurse mai alla perfezione liberale dell'esecutivo della Gran Bretagna vittoriana). Superata l'esperienza fascista, caratterizzata dalla assenza di libertà, la Costituzione democratica del 1948 e gli eventi storico-politici successivi non seppero produrre un potere governante.
La Costituzione contempla l'organo 'governo' (art. 92), che deve godere della fiducia delle Camere (art. 94). Stabilisce poi che in seno al governo il presidente del Consiglio definisce l'indirizzo politico e, nei confronti dei ministri, garantisce l'unità dell'indirizzo politico e amministrativo (art. 95). Senonché le compagini governative, che si sono appoggiate sempre a coalizioni di partiti, hanno avuto in genere una vita breve (in media, nell'arco di oltre quarant'anni, una durata di meno di un anno). Sia per la caducità dei ministeri, sia per i continui, latenti contrasti tra i partiti della coalizione, almeno a partire dagli anni sessanta può dirsi che nessun governo sia riuscito a impostare e a mandare a effetto un programma suo, precisamente individuato. Di fatto, per ciò che concerne la conduzione dell'economia, la carenza di una ferma guida centrale si è tradotta, sul lungo periodo, nell'incapacità dello Stato di selezionare le domande sociali e di contenerne l'eccesso, e nella conseguente necessità di affidarsi a una politica monetaria inflazionistica e a bilanci in crescente disavanzo.
Le cause del mancato sviluppo di un potere governante nell'ordinamento italiano sono complesse. Non si deve certo pensare a un ritardo nell'affermarsi in Italia del modello 'interventista' e 'sociale': ché, anzi, sotto questo rispetto il nostro Stato rappresenta, nel mondo occidentale, una delle versioni del modello più intensamente caratterizzate da una larga componente pubblicistica. Il fattore di maggior peso fu, probabilmente, la presenza nel paese di un forte partito comunista, radicale contestatore del capitalismo democratico. L'esigenza di escluderlo da ogni possibile combinazione di governo, per non mettere in pericolo principî fondamentali della Costituzione, rese impossibile qualsiasi genuina alternanza di forze politiche al potere, e costrinse gli altri partiti a coalizzarsi più o meno permanentemente, pur perseguendo indirizzi politici diversi. Di qui l'instabilità e la debolezza dei governi e il trasferirsi degli effettivi poteri di decisione dalle strutture costituzionali dello Stato alle segreterie dei partiti. Di qui anche, gradualmente, l'estendersi di una indebita influenza dei partiti negli organi della pubblica amministrazione e nei gangli del settore economico controllato dallo Stato. Per non escludere del tutto l'opposizione comunista dalla vita dello Stato, non si addivenne nemmeno a quell'ampio trasferimento di poteri normativi dal Parlamento al governo che è tipico della nuova divisione dei poteri. La mini-legislazione continuò a essere fatta in Parlamento con aggravamento del bilancio dello Stato e con altri effetti negativi.La caduta del mito comunista, con le ripercussioni determinatesi nella politica italiana, ha eliminato il pericolo di cui s'è detto e dunque dovrebbe aver aperto la strada per lo sviluppo, anche in Italia, di un effettivo potere governante, in conformità al modello che ormai prevale in tutti gli altri Stati sociali, evoluti e ben funzionanti. È questo uno degli argomenti che si agitano nel vigoroso dibattito attorno alle riforme costituzionali a cui si assiste in Italia agli inizi degli anni novanta. Le esperienze straniere dimostrano che diversi sono i modi con i quali si può pervenire alla formazione di un potere governante: è dunque naturale che, essendo oggi l'obiettivo praticamente fuori discussione (tutti o quasi tutti concordano ormai su di esso), la disputa rimanga invece fervida quanto alle forme istituzionali che meglio servirebbero per attuarlo. (V. anche Governo, forme di; Regimi politici; Stato).
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