Gran Bretagna e Irlanda Del Nord, Regno Unito di
(App. V, ii, p. 486; v. gran bretagna, XVII, p. 667; App. I, p. 685; II, i, p. 1076; III, i, p. 776; IV, ii, p. 97)
Geografia umana ed economica
di Guido Barbina
Nel corso degli anni Novanta il governo del Regno Unito, con la collaborazione di organismi locali, ha provveduto a una radicale e capillare riorganizzazione amministrativo-territoriale, la cui novità più interessante è data dalle Unitary Authorities, istituite nella Scozia, nel Galles e, con un processo più lento e laborioso, in parecchie aree dell'Inghilterra, nella quale peraltro persistono in numerosi casi le vecchie contee (tab. 2A, 2B, 2C).
Popolazione
Negli anni Ottanta la popolazione del Regno Unito ha ripreso ad aumentare, seppure a ritmi non elevati, dopo una brusca frenata registrata nei due decenni precedenti; tale fenomeno è in buona parte da ascrivere al ringiovanimento demografico dovuto all'immigrazione recente e a quella consolidata da qualche generazione. Questo trend positivo è proseguito negli anni successivi (nel periodo 1990-98 il tasso medio di accrescimento annuo è stato del 4‰), ma sembra essersi attenuato nel corso degli anni successivi. Al censimento del 1991 la popolazione residente nel Regno Unito (comprese le isole di Man e del Canale) era pari a 56.679.000 ab., che si stima siano divenuti 58.877.000 nel 1998. In questo dato è compresa una quota di immigrati e di discendenti di immigrati piuttosto alta, ma di non facile quantificazione: gli abitanti 'non bianchi' del paese ammonterebbero a circa 11 milioni, cui vanno aggiunti gli immigrati di origine europea. Al contrario, gli emigranti rappresentano ormai da tempo una corrente del tutto esigua; più vivaci sono le migrazioni interne.
Per quanto riguarda la distribuzione territoriale degli abitanti, l'andamento recente riproduce, nelle grandi linee, la situazione già consolidata, confermando il primato dell'Inghilterra (che ha visto salire il valore di densità media da 354 ab./km² nel 1981 a 378 nel 1997), seguita dal Galles (da 134 ab./km² a 141), mentre in Scozia e nell'Irlanda del Nord la popolazione è risultata stazionaria. La crescita demografica e dell'immigrazione è stata prevalentemente assorbita dalle aree più urbanizzate, dopo un periodo (anni Ottanta) che aveva visto un forte ridimensionamento del peso demografico delle grandi città. Tuttavia è proseguita anche negli anni più recenti la spinta al decongestionamento delle aree urbanizzate, tanto che la popolazione considerata urbana, che nel 1985 superava il 91% del totale, nel 1997 era scesa all'89%. Il fenomeno risulta meno evidente nelle grandi aree metropolitane, dove a crescere comunque sono le new towns o le expanding towns piuttosto che i centri principali: la contea metropolitana della Grande Londra, che nel 1981 accoglieva 6.696.000 ab., nel 1997 ne aveva 7.122.000; quella della Grande Manchester è, invece, passata da 2.575.500 ab. a 2.572.000; è diminuita (da 2.645.000 a 2.631.000) anche quella dei West Midlands, centrata sulla città di Birmingham; quella del West Yorkshire è salita da 2.038.000 a 2.110.000; in calo è la contea di Merseyside (Liverpool), da 1.513.000 ab. a 1.413.000, in coincidenza con la grave crisi economica che ha investito la città e la regione circostante.
Gli idiomi celtici dell'Irlanda, del Galles e della Scozia sono in forte riduzione; benché in tutto il Galles e in parte della Scozia sia in corso da anni un'azione di recupero delle parlate locali (con introduzione del bilinguismo a livello ufficiale, programmi radiotelevisivi nelle lingue locali, loro insegnamento nelle scuole primarie), solo una piccola parte dei Gallesi e degli Scozzesi conosce ancora queste lingue, e coloro che le usano normalmente sono pochissimi; in Irlanda del Nord il gaelico è ormai scomparso. Nella stessa Irlanda del Nord il contrasto fra protestanti (58%) e cattolici (prevalenti nelle campagne e nei quartieri poveri e periferici di Belfast) continua ad alimentare conflitti d'ordine sociale e politico che a volte assumono forme di estrema violenza (v. oltre: Storia).
Londra, nell'insieme del suo vastissimo distretto urbano (la Grande Londra), ospita 7.122.000 ab. (1997). Abolito il Consiglio per la Grande Londra nel 1986, la città è rimasta la sola capitale occidentale senza un governo eletto dai residenti; ma, secondo un recente progetto di legge, dovrebbe esser retta di nuovo da un'Autorità, formata da un sindaco e da un'assemblea composta da 25 membri. La seconda città del paese, Birmingham, supera appena il milione di abitanti. Oltre i nove decimi della popolazione britannica vivono in aree urbane. Negli anni Cinquanta venne attivato un piano per decongestionare le aree urbane più affollate, in particolare quella di Londra, con la costruzione attorno a esse di centri residenziali (le new towns) per i ceti impiegatizio e operaio. Tale politica ha mostrato i propri limiti, in quanto i nuovi centri residenziali sono diventati centri-dormitorio di scarsa vitalità e hanno creato considerevoli problemi sociali.
Condizioni economiche
L'economia britannica ha dovuto più volte modificare i propri indirizzi e la propria impostazione.
La creazione dell'impero e la rivoluzione industriale avevano provocato l'abbandono quasi totale delle attività agricole e sviluppato invece quelle manifatturiere, favorite dall'abbondanza di carbone. Dopo la Seconda guerra mondiale il Regno Unito avviò il processo di decolonizzazione perdendo progressivamente fonti privilegiate di rifornimento di derrate e materie prime; subì inoltre la concorrenza degli idrocarburi che già negli anni Cinquanta spinse fuori mercato il carbone nazionale. Così il Regno Unito dovette ricostruire in forme moderne l'agricoltura e l'allevamento e modificare radicalmente le industrie per modernizzarle e renderle competitive sul mercato mondiale. Tali mutamenti strutturali apparvero evidenti quando il paese entrò nella CEE (1973).
Il lungo processo di trasformazione ha presentato molti problemi politici e sociali che, insieme alle vicende dell'Irlanda del Nord, hanno travagliato per anni lo Stato. Nella seconda metà degli anni Novanta tale processo era completato e il Regno Unito poteva riacquistare il suo ruolo di potenza economica mondiale. La ripresa, che negli anni Ottanta e Novanta è avvenuta con un ritmo medio annuo di circa il 2% del PIL, è stata preceduta e accompagnata da una decisa politica di privatizzazioni, da una revisione delle politiche sociali e da un contenimento della spesa pubblica. Ne sono derivate un'accentuata flessibilità degli impieghi e forti tensioni sociali. Nel complesso buona parte della popolazione ha subito un sensibile calo del tenore di vita, e attualmente circa il 25% vivrebbe al di sotto della soglia di povertà.
Modesto è il ruolo dell'agricoltura nell'economia nazionale: la quota della forza lavoro occupata in tale settore è appena l'1,9% (ma sale al 6,1% nell'Irlanda del Nord) e i prodotti principali sono grano, orzo, patate e barbabietola; l'allevamento, favorito dall'abbondante foraggio, riguarda bovini, ovini da lana e carne, suini e pollame. La pesca ha antiche tradizioni e i pescherecci britannici sono presenti in tutti i banchi di pesca nord-atlantici.
L'estrazione del carbone è ormai ridotta a poca cosa: nel 1984 erano attive ancora 170 miniere, ma dieci anni dopo ve ne erano solo 17; è aumentata invece l'importanza degli idrocarburi estratti nel Mare del Nord, dove il Regno Unito controlla lo sfruttamento di vaste zone della piattaforma continentale; inoltre il Regno Unito si è assicurato diritti di sfruttamento e compartecipazioni su molte altre aree petrolifere della Terra. Nel 1993 il 64% di tutta l'energia consumata proveniva dagli idrocarburi. Un'altra significativa quota dell'energia prodotta nel paese proviene da 35 reattori nucleari.
L'industria manifatturiera è in forte espansione, e se i comparti tradizionali (tessile, siderurgico, cantieristico) hanno perduto la loro posizione di rilievo, altri sono emersi con grande forza. L'attività di trasformazione è molto diversificata e copre una gamma vastissima di prodotti. I comparti tecnologicamente più evoluti, come le industrie nucleare, elettronica avanzata, aeronautica, di precisione, chimica e farmaceutica, appoggiati da efficienti centri di ricerca, hanno ricevuto alla fine degli anni Novanta un ulteriore impulso e hanno raggiunto posizioni di livello mondiale. L'attività editoriale, che è notevolissima, è favorita dall'universalità della lingua inglese. Gli impianti industriali, nonostante lo sforzo del governo di decentrare l'attività di trasformazione in aree meno congestionate, sono rimasti per lo più legati alle originarie localizzazioni prodotte dalla rivoluzione industriale, in prossimità dei giacimenti carboniferi o nelle vicinanze del porto di Londra; la concentrazione degli stabilimenti continua a provocare notevoli problemi ambientali.
Anche il sistema dei trasporti ha subito grandi cambiamenti: il porto di Londra, che fino alla metà del 20° sec. era il centro nevralgico dei rapporti fra il Regno Unito e il resto del mondo, oggi è in gran parte smantellato, e l'area dei vecchi docks è diventata una zona residenziale e direzionale, mentre le attività portuali sono state portate più a valle, all'inizio dell'estuario del Tamigi (Southend on Sea); i porti tradizionali di esportazione del carbone (come Swansea e Cardiff, nel Galles) sono stati trasformati in moderni e ricercati complessi abitativi; altri porti si sono specializzati per il traffico di merci particolari, adeguandosi alle esigenze del naviglio moderno. La rete interna dei canali (2.353 km) non ha più alcuna funzione commerciale e viene mantenuta in servizio solamente per scopi turistici. Il sistema aeroportuale di Londra (che fa capo agli aeroporti di Heathrow e Gatwick e ad alcuni aeroporti minori) è uno dei più moderni e attivi del mondo e la compagnia aerea nazionale (British Airways) è una delle maggiori d'Europa.
Il turismo (oltre 24 milioni di visitatori al 1995) ha un'importanza costantemente crescente per l'attrazione esercitata dal patrimonio artistico e architettonico, dalle bellezze paesaggistiche di certe regioni e dalle moltissime attività culturali (prima di tutte quella dell'insegnamento della lingua inglese) e di ricerca.
Londra rimane una delle principali piazze del mondo per le attività finanziarie, commerciali e assicurative, con un efficientissimo sistema bancario e una borsa che è la terza del mondo per volume di affari; in essa viene determinato ogni giorno il prezzo di moltissime merci, fra cui l'oro; il mercato delle assicurazioni è il primo del mondo.
La bilancia commerciale è passiva, ma la bilancia dei pagamenti è in attivo e i servizi finanziari rappresentano una parte considerevole dell'economia britannica. Gli altri paesi dell'Unione Europea, nel loro insieme, forniscono il 74% delle merci importate e acquistano il 55% delle merci esportate, mentre il commercio con i paesi del Commonwealth si è fortemente ridotto.
bibliografia
C. Chaline, Le Royaume-Uni: économie et régions, Paris 1991 (trad. it. Milano 1992).
La città che cambia. L'esperienza britannica, a cura di M. Mautone, Napoli 1992.
P.M. Mura, Lo sviluppo regionale in Gran Bretagna. Il caso della Northern Region, Reggio Calabria 1992.
H. Clout, Aspects of rural change in the United Kingdom, in Norois, 1993, pp. 555-72.
A. Day, England, in World bibliographical series, 1993, 160.
C.D. Harbury, R.G. Lipsey, Introduction to the UK economy, Oxford 1993⁴.
P. Buono, L'evoluzione dello sviluppo economico locale quale risposta dell'economia britannica alla deindustrializzazione, in Regionalizzazione e sviluppo nell'Unione Europea, suppl. al Bollettino della Società geografica italiana, 1994, pp. 79-84.
A. Cairncross, The British economy since 1945: economic policy and performance, 1945-1995, London 1995².
P. Lurbe, Le Royaume-Uni aujourd'hui, Paris 1996.
P. Vaiss, Le Royaume-Uni: économie et société, Paris 1996.
R.M. Dunn jr., EMU without Britain: reasons for scepticism, in Economic affairs, 1998, 3, pp. 45-51.
Politica economica e finanziaria
di Giuseppe Smargiassi
Dopo la recessione economica del 1990-92 (che ha comportato una riduzione complessiva del reddito pari al 4%, configurandosi come la più grave per il paese dal dopoguerra), il Regno Unito è entrato in una nuova congiuntura economica contrassegnata da una crescita che, pur alternando fasi di accelerazione e di rallentamento, è proseguita senza interruzioni fino al 1998. La ripresa dell'economia si è manifestata in seguito alla sospensione della partecipazione della sterlina allo SME (settembre 1992), resasi inevitabile a causa dell'incompatibilità della politica monetaria restrittiva, imposta dagli accordi di cambio, con le condizioni economiche interne.
L'uscita dallo SME ha rimesso in moto la domanda attraverso il canale estero e i consumi interni. La svalutazione della sterlina (che ha subito un deprezzamento del 17% rispetto al vecchio tasso di riferimento nella banda di oscillazione), ha infatti accresciuto la competitività dei prodotti britannici, dando un nuovo slancio alle esportazioni soprattutto sui mercati dell'Unione Europea e degli Stati Uniti. La libera fluttuazione del cambio ha poi permesso alle autorità di ridurre gradualmente i tassi di interesse e di imprimere così un nuovo stimolo alla ripresa dei consumi privati. Questi ultimi, in particolare, hanno fatto registrare una crescita notevole che è derivata da una forte diminuzione della propensione al risparmio della popolazione. La riduzione dei tassi di interesse, infatti, ha reso più conveniente il ricorso al credito, al consumo e agli acquisti a rate, portando l'indebitamento del settore delle famiglie su livelli estremamente elevati. Di entità minore è stato invece l'effetto dell'allentamento del credito sugli investimenti privati, che sono rimasti su livelli stazionari.
Nel complesso, le favorevoli condizioni della domanda e una gestione delle politiche economiche sganciata dai vincoli del Trattato sull'Unione economica e monetaria europea (alla quale il Regno Unito non aveva ancora deciso di aderire), hanno favorito una crescita del reddito che nel 1993 ha raggiunto un tasso pari al 2,1%. Nonostante la maggiore autonomia nella gestione delle variabili macroeconomiche interne, il rigido controllo del disavanzo pubblico e la riduzione dell'inflazione sono rimasti gli obiettivi prioritari dell'azione di governo, in linea con l'impostazione che aveva caratterizzato la politica economica dei precedenti governi. Tale scelta, oltre che dalla continuità dei governi conservatori, è derivata anche dalla necessità di correggere i gravi squilibri finanziari che si erano verificati in conseguenza dell'enorme dilatazione delle spese sociali, attivate come correttivi per arginare la forte ascesa del numero dei disoccupati e la sensibile diminuzione delle entrate tributarie, provocate dalla recessione economica.
Per contrastare la crescita esplosiva del deficit pubblico, che nel 1993 aveva raggiunto l'8% del PIL, il governo ha fatto ricorso a una combinazione di tagli alla spesa pubblica e di incrementi del prelievo fiscale. I primi hanno riguardato soprattutto i trasporti, gli stipendi nella pubblica amministrazione e i sussidi alla disoccupazione. La manovra sulle entrate è stata invece effettuata ricorrendo sia all'inasprimento del prelievo su alcuni prodotti di largo consumo (benzina, alcolici, sigarette e trasporti), sia a un alleggerimento delle imposte dirette sui redditi, dal quale hanno tratto beneficio soprattutto le imprese. Per rafforzare la credibilità delle politiche volte al controllo dell'inflazione, il governo ha deciso anche di rendere espliciti gli obiettivi riguardanti la crescita dei prezzi, fissando una forbice per i tassi d'inflazione, compresa tra l'1% e il 4%, come riferimento per l'azione della Banca centrale. Il rallentamento della dinamica delle retribuzioni e l'aumento dei livelli di produttività hanno tuttavia permesso una riduzione del tasso d'inflazione, sceso nel 1993 al 3,5%, contro il 4,7% dell'anno precedente. Questo livello contenuto dell'inflazione ha consentito alle autorità il mantenimento di una politica monetaria cautamente espansiva senza suscitare eccessive tensioni sulla stabilità dei prezzi.
Le misure finanziarie adottate dal governo hanno portato a una riduzione del deficit pubblico, sceso nel 1994 al 6,8% del PIL. Tali misure hanno influito anche sulla composizione della domanda aggregata a favore della componente estera. I consumi privati, infatti, hanno subito un leggero rallentamento, in conseguenza dei tagli alle spese sociali e dell'incremento della tassazione indiretta. Sono invece aumentate sensibilmente le esportazioni, che hanno tratto beneficio dalla svalutazione della sterlina, dalla ripresa degli scambi mondiali e dall'aumento delle esportazioni petrolifere che ha fatto seguito alla scoperta di nuovi giacimenti nel Mare del Nord. La crescita del commercio estero britannico non ha tuttavia apportato significativi miglioramenti alla bilancia commerciale. Questa, infatti, è rimasta strutturalmente in deficit a causa della progressiva erosione di capacità produttiva del settore industriale e della difficoltà incontrata dall'offerta interna nel soddisfare pienamente la crescita della domanda. Il settore industriale britannico, già coinvolto negli anni Ottanta da un processo di deindustrializzazione di ampia portata, ha visto costantemente ridotta la sua incidenza sulla formazione del valore aggiunto complessivo, che nella seconda metà degli anni Novanta è scesa a circa il 20%. L'aumento della domanda ha comunque contribuito ad accelerare la ripresa economica. Alla fine del 1994, il tasso di crescita del PIL ha superato il 4%, alimentando nel contempo nuove tensioni inflazionistiche che hanno spinto le autorità monetarie ad aumentare i tassi a breve termine, per la prima volta dopo cinque anni, e a portarli dal 5,25% del settembre 1994 al 6,75% dell'ottobre 1995.
Incoraggiato dai buoni risultati economici, il governo ha intensificato le manovre di politica fiscale in vista di un più rapido assorbimento del fabbisogno finanziario del settore pubblico. Nel 1995 sono stati introdotti nuovi aumenti delle imposte indirette (che hanno colpito categorie di prodotti fino a quel momento esenti, come alimentari e giornali) e si è provveduto ad accelerare le privatizzazioni in corso (poste, ferrovie, miniere ecc.). La manovra non ha tuttavia prodotto i risultati previsti. L'inasprimento fiscale, infatti, ha interferito con la ripresa economica, esercitando un'azione di freno che ha reso più difficoltoso il processo di riaggiustamento macroeconomico. L'incremento del PIL, alla fine del 1995, ha subito un rallentamento (2,8%), tale da convincere le autorità della necessità di ricorrere a nuovi stimoli per l'economia e di procedere a un allentamento dei tassi di interesse (portati nella prima metà del 1996 al 5,75%). Il ridimensionamento delle prospettive economiche ha inoltre spinto il governo a rivedere i programmi di politica fiscale e a ricercare nuove misure in grado di conciliare gli obiettivi di riduzione del fabbisogno finanziario pubblico con l'adozione di strumenti capaci di sostenere la crescita economica. La strategia scelta è ricaduta nuovamente su di una combinazione di tagli alla spesa e di riduzione delle imposte: sono state infatti introdotte agevolazioni tributarie per le piccole e medie imprese, effettuati tagli all'assistenza sociale e alle uscite correnti e stanziate nuove spese nei settori dell'istruzione e della sanità. Tuttavia, il basso profilo della crescita economica nei principali paesi europei e una caduta degli investimenti nel settore immobiliare hanno rallentato ulteriormente la crescita economica che alla fine del 1996 si è portata al 2,6%. Anche se in misura inferiore alle aspettative, il deficit pubblico è comunque diminuito ancora, raggiungendo il 4,4% del PIL.
Il rallentamento congiunturale non ha comunque ostacolato la costante tendenza al miglioramento della situazione occupazionale, che ha permesso una sensibile diminuzione del numero di disoccupati, scesi da circa 2,4 milioni di unità nel 1995 a 1,8 milioni alla fine del 1998, e un conseguente calo del tasso di disoccupazione giunto nel 1998 al 6,2%. Pur associandosi a una situazione del mercato del lavoro caratterizzata da notevoli problemi, legati soprattutto alla precarietà dei nuovi posti (gran parte dei quali a tempo parziale), alla scarsa qualificazione dell'offerta di lavoro e alla forte incidenza della disoccupazione di lungo periodo sul totale delle persone in cerca di lavoro, il riassorbimento della disoccupazione (che a partire dal 1994 risulta associato anche a una modesta crescita dei tassi di occupazione) resta un importante dato per l'economia britannica, soprattutto se confrontato con le opposte tendenze che si registrano nella maggioranza dei paesi europei.
L'ingresso al governo dei laburisti, nel maggio del 1997, non ha mutato le finalità della politica economica. La riduzione della spesa pubblica e il controllo dell'inflazione sono rimasti gli obiettivi prioritari del nuovo governo, il quale ha introdotto anche alcune importanti riforme in questa direzione. Infatti, pur dichiarando di non volere aderire all'Unione economica e monetaria europea fino al 2002, il governo ha deciso di restituire alla Banca d'Inghilterra il pieno controllo sui tassi di interesse, inserendo in questo modo un allineamento dell'organizzazione operativa dell'Istituto di emissione allo statuto della Banca centrale europea.
A questa continuità degli obiettivi ha però fatto seguito un mutamento di prospettive, soprattutto per ciò che riguarda le finalità sociali delle politiche economiche. Pur accettando pienamente il sistema di mercato, il programma del governo laburista ha insistito per un'estensione dell'intervento statale nel campo del welfare, della formazione, dell'istruzione e delle infrastrutture, giudicando non sufficiente l'azione dell'iniziativa privata in questi settori. Alla politica fiscale, in particolare, è stata assegnata la funzione di indirizzo delle risorse per il finanziamento dei progetti di interesse collettivo, nel rispetto, però, degli equilibri finanziari del settore pubblico. La politica fiscale è stata quindi definita in un diverso sistema di regole (Golden rule), nel quale l'indebitamento del settore pubblico è ammesso solo per le spese in conto capitale, destinate allo sviluppo delle infrastrutture e agli investimenti in capitale umano, mentre le spese correnti sono finanziate solo attraverso il prelievo fiscale. Nel programma laburista, l'obiettivo del risanamento finanziario dello Stato è inteso anche a restituire nuovi spazi di compatibilità del sistema del welfare con l'economia di mercato attraverso una riforma dello stato sociale. Tale riforma prevede il passaggio dalle forme di assistenzialismo basate sull'erogazione di sussidi, sovvenzioni e trasferimenti unilaterali a nuovi e diversi criteri di incentivazione, incentrati su sgravi fiscali e crediti di imposta, in grado di sviluppare l'iniziativa privata e l'occupazione. Inoltre, allo scopo di correggere le distorsioni sul mercato del lavoro create dal sistema dei sussidi alla disoccupazione (i cosiddetti Job seekers' allowance) il governo ha varato un New Deal, destinato ai disoccupati di età compresa tra i diciotto e i ventiquattro anni, con il quale è stato stabilito un percorso di inserimento nel mondo del lavoro che prevede la concessione di aiuti nella fase di ingresso, nella fase di formazione e nella fase di consolidamento e conservazione del lavoro e che obbliga i giovani che continuano a chiedere il sussidio di disoccupazione a partecipare ad attività di carattere sociale.
Alla fine del 1997 l'economia britannica ha fatto registrare una nuova accelerazione: il tasso di crescita annua del PIL si è portato al 3,5%, permettendo un veloce riassorbimento del deficit pubblico, sceso al 2% del PIL. La più rapida crescita economica ha creato tensioni inflazionistiche alle quali la Banca d'Inghilterra ha reagito ritoccando più volte verso l'alto il tasso di interesse, che alla fine del 1997 era giunto a 7,25%, circa 5 punti percentuali al di sopra dei tassi tedeschi e francesi. I massicci afflussi di capitale derivanti da questa manovra hanno provocato un forte apprezzamento della sterlina rivalutatasi del 25% rispetto al marco tedesco. A fronte di un peggioramento della bilancia commerciale, il saldo delle partite correnti ha comunque fatto registrare nuovamente un saldo positivo, grazie all'afflusso di redditi provenienti da servizi e da investimenti esteri. L'andamento favorevole dell'economia ha incoraggiato l'attuazione della riforma del sistema tributario (il governo ha infatti ridotto la corporation tax, gravante sulle grandi imprese, dal 33% al 31%, e portato l'aliquota sui profitti societari dal 23% al 21%) e creato le condizioni per l'avvio del nuovo sistema del welfare. Nel 1998, l'economia britannica ha iniziato a evidenziare alcune difficoltà, legate agli effetti della crisi dei mercati finanziari asiatici sulle esportazioni verso i paesi dell'area, alla sopravvalutazione della sterlina e, soprattutto, all'adozione di misure volte a raffreddare la crescita dei consumi e del reddito. L'inflazione ha continuato a diminuire, arrivando al 2% circa (tab. 3).
bibliografia
The Great debate, a survey on Britain's new politics, in The Economist, september 1996.
P. McCarthy, Il governo Blair: momento storico o grande illusione?, in Il Mulino 1998, 1, pp. 123-35.
OECD, Economic surveys, United Kingdom, anni vari.
OECD, United Kingdom, in Development co-operation review, 1998, 25.
Storia
di Francesca Socrate
Sul finire degli anni Novanta, la Gran Bretagna si trovava di fronte a un difficile passaggio. Il 1997 aveva posto fine a quasi un ventennio di egemonia conservatrice: la fase thatcheriana e poi quella, meno vistosa ma altrettanto incisiva, dei governi Major, avevano avviato e sostenuto una profonda trasformazione sociale del paese, accompagnata da un cambiamento degli stessi modelli etico-culturali. Le scelte neoliberiste degli anni Ottanta avevano prodotto l'ascesa di nuovi ceti medi, arricchitisi a scapito delle tradizionali gerarchie sociali del paese, mentre la conflittualità sociale era stata sospinta dal centro della scena politica - con strati di lavoratori manuali protetti e sindacalizzati - ai margini delle periferie urbane. Così, il lungo sciopero dei minatori del 1984-85, con la sua pesante sconfitta, aveva rappresentato una sorta di 'canto del cigno' della classe operaia e delle Trade Unions, mentre nei ghetti esplodevano tensioni razziali, e i tagli alla spesa pubblica creavano nuove sacche di povertà e di indigenza. Inserito in un contesto culturale più generale, che coinvolgeva a livello internazionale larga parte del mondo occidentale, quel mutamento rifletteva il diffondersi di nuove opzioni ideologiche, con un recupero delle leggi di mercato e di un liberismo reso ancora più duro dall'etica individualistica delle nuove classi medie. La fine dei governi conservatori, con la vittoria di T. Blair, non costituì pertanto un semplice ritorno al laburismo, ma il tentativo di avviare una fase politica nuova, una 'terza via' tra liberalismo e socialdemocrazia.
Già i risultati elettorali dell'aprile 1992 avevano avuto maggiori conseguenze sul partito laburista che non su quello conservatore e sulla sua linea di governo. La sconfitta alle urne aveva spinto il leader laburista N. Kinnock alle dimissioni; al suo posto era subentrato J. Smith che, morto improvvisamente nel maggio 1994, fu sostituito da T. Blair, giovane leader dell'ala moderata del partito e dichiaratamente favorevole a una più decisa modernizzazione e trasformazione del Labour. Per J. Major la situazione doveva rivelarsi subito di difficile gestione. Privo del carisma di M. Thatcher e incapace di sostituire il linguaggio antagonistico e polarizzatore del suo predecessore con iniziative e parole d'ordine nuove e altrettanto efficaci sull'opinione pubblica, Major abbandonò in sostanza le intenzioni moderate degli esordi, per avviarsi su una linea molto vicina, anche se meno clamorosa, a quella thatcheriana.
Di fronte all'aggravarsi della recessione economica nel corso del 1992, la tradizionale diffidenza tory verso il processo di unificazione europea si tradusse di lì a poco, nel settembre dello stesso anno, nell'abbandono del Sistema monetario europeo (SME), al quale la Gran Bretagna aveva aderito nell'ottobre 1990, mentre ulteriori difficoltà emersero in occasione dell'approvazione del Trattato di Maastricht per l'Unione Europea (firmato dai paesi della Comunità il 7 febbraio 1992). L'opposizione al trattato, decisamente espressa da tanti esponenti conservatori (a cominciare dalla stessa Thatcher), e le critiche dei laburisti al rifiuto governativo di aderire in ogni caso al Capitolo sociale del Trattato (che tutelava i diritti dei lavoratori in vista dell'entrata nell'Unione), rese a lungo difficile il ruolo di mediatore che Major aveva scelto una volta succeduto a M. Thatcher, e soltanto dopo che la paura di nuove elezioni ebbe convinto i conservatori antieuropeisti a tornare sui propri passi, nell'agosto 1993, dopo un tormentato iter legislativo, il Trattato di Maastricht venne definitivamente ratificato.
Anche la politica fiscale ed economica mostrò forti elementi di continuità con il decennio precedente. Sul piano tributario, l'incremento delle imposte fra il 1993 e il 1994, reso necessario dal deficit di bilancio, fu ispirato a un criterio regressivo, realizzato attraverso un aumento dei contributi sociali e dell'imposta sul valore aggiunto sui carburanti (marzo 1993): tale scelta provocò ulteriori difficoltà per il partito di governo, tanto che l'accanita resistenza dell'opposizione fu premiata dall'elettorato in diverse occasioni (elezioni suppletive e amministrative) nello stesso 1993. Si rese dunque necessario un rimpasto di governo, con la nomina di K. Clarke a Cancelliere dello Scacchiere in sostituzione di N. Lamont: per arginare il dissenso intorno alla nuova tassa sul carburante, il nuovo responsabile delle finanze propose una serie di provvedimenti volti a favorire i pensionati, i disabili e gli indigenti; tuttavia, l'annuncio di nuove misure per incrementare il gettito fiscale scatenò ancora una volta le proteste dell'opposizione, che accusò il Partito conservatore di non tener fede all'impegno di ridurre il livello di tassazione. Il governo Major riprese la linea thatcheriana anche nel processo di privatizzazione, che coinvolse istruzione e sanità, nonché i settori postale, ferroviario e minerario: quando, nell'ottobre 1993, venne dato l'annuncio della chiusura di trentuno miniere di carbone su cinquanta in tutta la Gran Bretagna (chiusura che avrebbe implicato il licenziamento di circa 30.000 persone), una forte opposizione nel paese e dissidi interni allo stesso Partito conservatore obbligarono il governo a una parziale revoca della decisione. Fortemente contestata fu anche, nel novembre 1993, una proposta di legge che prevedeva l'adozione di misure severissime contro la criminalità (come, per es., la soppressione del diritto dell'accusato al silenzio, misura condannata nel luglio 1995 dalla Commissione per i diritti umani dell'ONU).
Venivano così fortemente disattese le promesse contenute nel White paper on citizenship, reso pubblico nel 1991, che sembrava preannunciare una presa di distanza dal thatcherismo più duro, dichiaratamente disinteressato ai problemi sociali, e che prometteva uno Stato più responsabile verso tutte le fasce della popolazione, a cominciare dalle più povere. Fu solo nei confronti della pubblica amministrazione che i governi guidati da Major dimostrarono un atteggiamento più morbido, restituendo più potere ai governi locali e allo stesso apparato statale.
Una sostanziale continuità con il thatcherismo fu infine dimostrata da Major in politica estera, dove rilevante fu il contributo britannico alla missione ONU in Bosnia (novembre 1992), che consentì al paese di prendere parte alle iniziative diplomatiche volte a trovare una soluzione per l'assetto politico e territoriale dell'ex Iugoslavia.
Ancora tormentate apparivano invece le relazioni con l'Argentina (riprese nel febbraio 1990, dopo essere state interrotte nel 1982 al tempo della guerra per le Isole Falkland), nonostante gli accordi per la cooperazione nella gestione e conservazione dei prodotti della pesca nell'Atlantico meridionale (dicembre 1992 e novembre 1993). Frattanto, a partire dalla fine del 1992, una serie di scandali coinvolse i vertici del potere politico. L'ambiguità della condotta governativa fu oggetto di aspre critiche in due occasioni: lo scandalo per la fornitura di armi all'Iraq in contravvenzione all'embargo del 1985, e la scoperta di un accordo con il governo malese, secondo il quale la Gran Bretagna avrebbe finanziato la costruzione di una centrale idroelettrica in Malaysia in cambio della concessione degli appalti a ditte britanniche. Ulteriori scandali sulla condotta privata e pubblica di esponenti del Partito conservatore vennero alla luce nel corso del 1994: le accuse di cattiva amministrazione, corruzione e frode si moltiplicavano, mettendo il partito di Major in una condizione difficile: le elezioni europee del giugno 1994 si conclusero con il crollo dei tories da 32 a 18 seggi, mentre i laburisti passavano da 45 a 62. L'istituzione, nell'ottobre 1994, di una commissione d'inchiesta incaricata di indagare sulla condotta di tutti i membri della pubblica amministrazione non bastò a ristabilire la fiducia nei confronti del partito di governo, che ora vacillava anche in seguito alle divisioni interne sulla partecipazione della Gran Bretagna all'Unione Europea: ancora una volta fu solo la minaccia di una crisi di governo a consentire a Major di far approvare l'aumento del contributo britannico al bilancio comunitario (novembre 1994). I contrasti interni sulla questione europea rendevano sempre più isolata la posizione della Gran Bretagna in seno all'Unione. Anche nell'ambito delle relazioni internazionali, il rapporto privilegiato con gli USA si deteriorò notevolmente nel febbraio 1994 in seguito alla visita a Washington di G. Adams, leader del Sinn Féin (il principale partito indipendentista cattolico dell'Irlanda del Nord e braccio politico dell'organizzazione clandestina Irish Republican Army). Positivo invece fu, nello stesso periodo, il rafforzamento delle relazioni con il Sudafrica che, dopo la fine del regime di apartheid, fu riammesso all'interno del Commonwealth (giugno 1994).
Le difficoltà per il Partito conservatore proseguirono nel 1995: nei mesi di aprile e maggio le elezioni locali in Scozia, Inghilterra e Galles segnarono un forte calo conservatore. Fu così che nel giugno, in risposta anche alle crescenti polemiche interne al partito, Major si dimise, rimettendo in gioco la sua carica di primo ministro e di leader del partito. Nel confronto, all'interno del partito, con il thatcheriano J. Redwood (luglio 1995), Major conquistò fin dal primo turno il voto di 218 su 329 parlamentari conservatori, contro gli 89 di Redwood. Il ritrovato consenso all'interno del suo partito e la conseguente riorganizzazione dei ruoli in seno al gabinetto non furono però sufficienti al premier per ristabilire l'equilibrio nell'ambito della formazione di governo. In breve tempo, tra le sconfitte in varie elezioni suppletive e le defezioni di alcuni parlamentari, i conservatori giunsero (aprile 1996) a detenere un solo seggio di maggioranza. La situazione si faceva quasi insostenibile, soprattutto in vista dei nuovi dissidi che sorgevano ancora intorno alla questione europea. Nel marzo 1996, il fondato sospetto di un collegamento tra i casi di encefalopatia spongiforme bovina verificatisi in Gran Bretagna e l'insorgere di alcuni casi di una patologia analoga tra gli esseri umani portarono la Commissione Europea a imporre un blocco sull'esportazione di qualunque prodotto di origine bovina di provenienza britannica: i malumori che ne derivarono reiterarono le istanze dei cosiddetti euroscettici, numerosi fra i conservatori, mostrando la sostanziale debolezza del governo.
In questo clima, le elezioni legislative del maggio 1997 si configurarono come una vittoria annunciata per il Labour di T. Blair. Il nuovo leader della sinistra britannica esibiva un programma che comprendeva, fra l'altro, l'appoggio all'Unione economica e monetaria europea (purché sostenuto dalla volontà popolare tramite un referendum) e l'opposizione alle privatizzazioni nel sistema pensionistico e sanitario: un punto che si distingueva all'interno di una politica complessivamente favorevole ad aperture liberiste. Major vi contrapponeva una linea prudente sull'Europa e la prosecuzione della politica finanziaria fino ad allora adottata, che nell'ultimo periodo del suo governo aveva finalmente ottenuto buoni risultati sul piano del risanamento economico del paese, anche se a prezzo di un aumento del divario fra ceti più e meno abbienti. I risultati confermarono i pronostici: i laburisti riportarono una vittoria schiacciante, conquistando ben 419 seggi su 659, contro i 165 dei conservatori; i liberal-democratici, anche loro in aumento, ottennero 46 seggi. Dopo diciotto anni, dunque, il Partito laburista tornava al governo. A determinarne la vittoria avevano contribuito essenzialmente due elementi: da un lato la debolezza di un Partito conservatore schiacciato dai conflitti interni e dagli scandali; dall'altro l'abilità di Blair nel costruire "un'alternativa credibile", lontana da 'pericolose' reminiscenze marxiste e vicina al liberismo di tradizione conservatrice, seppure con un occhio più favorevole allo Stato sociale e all'integrazione europea. In ambito internazionale, l'elezione di Blair si inquadrava inoltre nel processo generale che, dopo l'avvento al governo del socialista L. Jospin in Francia (giugno 1997), aveva portato all'affermazione della sinistra in tredici su quindici dei paesi dell'Unione Europea.
Il nuovo governo si mise presto all'opera: fra i punti del programma laburista vi era l'istituzione di strutture autonome in Scozia e Galles. Estraneo a una scelta federalista che mettesse in discussione la supremazia giuridica dei poteri centrali, ma attento alle istanze autonomistiche delle due regioni, Blair sostenne e realizzò significativi risultati sulla via di un loro decentramento politico-amministrativo.
Istanze autonomistiche erano già emerse in Scozia negli anni Settanta, dove lo Scottish National Party aveva conosciuto nell'arco di pochi anni una crescita sorprendente diventando il secondo partito della regione dopo i laburisti, mentre scarso era il consenso di cui in quegli stessi anni aveva goduto il corrispondente Welsh Nationalist Party. I due referendum tenuti nel 1979 avevano visto pertanto una sconfitta clamorosa della legge sul decentramento in Galles (4 elettori su 1 votarono contro), e in Scozia il modesto risultato del 33% di voti favorevoli (contro un 31% di contrari) che aveva giustificato la revoca della legge da parte del governo Thatcher in quello stesso anno. Nel settembre 1997 si tenne nelle due regioni un nuovo referendum popolare che approvò, con una percentuale di voti favorevoli rispettivamente del 74,29% e del 50,3%, la nascita di organismi legislativi locali (un Parlamento scozzese e una Assemblea gallese). Il diverso atteggiamento espresso da Scozia e Galles attraverso il voto popolare rispecchiava, oltre al differente peso che la tradizione indipendentistica aveva da sempre avuto nelle due regioni (esemplare è il fatto che in Galles la lingua originaria è parlata solo dal 20% della popolazione), anche la maggiore posta in gioco per la Scozia: il suo Parlamento, contrariamente all'Assemblea gallese, avrebbe avuto più ampie competenze, a cominciare da alcuni ambiti della politica fiscale.
Nonostante la scarsa partecipazione ai referendum, il consenso attorno a Blair fu trionfalmente confermato nel corso del congresso laburista di Brighton (settembre-ottobre 1997), nel quale il leader proclamò il suo impegno per l'Europa e per la riforma del welfare.
La necessità di una revisione costituzionale, soprattutto per quel che riguarda il ruolo della monarchia, da tempo tema ricorrente del dibattito politico, fra il 1997 e il 1998 tornò a contrapporre conservatori e laburisti. Questi ultimi reclamavano infatti una riforma che riducesse i poteri della Corona, favoriti anche dalla fragilità dell'immagine pubblica di Carlo, principe di Galles ed erede al trono. Le difficoltà della sua vita privata, rese note dalla stampa scandalistica, nonché, nell'agosto 1997, la tragica morte dell'ex moglie Lady Diana Spencer, sembrarono ulteriormente indebolire la posizione della Corona, rafforzando le proposte di riforme costituzionali avanzate da più parti della sinistra britannica, nonostante la diversa presa di posizione del premier Blair, che fin dall'estate 1997 aveva più volte manifestato il proprio appoggio alla famiglia reale.
Mentre sul piano internazionale il premier conquistava peso politico sulla scena europea, pur senza aderire alla moneta unica, e conquistava al contempo nuova forza e consensi sullo scenario mondiale (grazie soprattutto ai successi ottenuti nell'Irlanda del Nord), in campo economico il governo laburista poté avvalersi di una situazione sostanzialmente positiva, nonostante la seria minaccia costituita dal cambio della sterlina e dalla crisi asiatica: dal 1992 l'economia inglese aveva infatti registrato una crescita ininterrotta, e la disoccupazione era tornata a diminuire, raggiungendo nel 1998 il 6,5%.
Blair sembrava comunque avviare un nuovo corso laburista che, ben lontano dalla tradizione del partito, affiancava a una linea sostanziamente pragmatica e liberale una forte carica nazionalistica e profondi echi religiosi: indicativi in questo senso erano stati i richiami morali ai 'doveri contro i diritti' e, insieme, la rivendicazione di un primato nazionale ("Non potremo mai essere i più grandi. Non potremo mai tornare a essere i più forti. Ma possiamo essere i migliori. Essere un faro, un modello per il mondo") emersi con chiarezza nel discorso tenuto al congresso di Brighton. All'insegna della ricerca di una 'terza via' tra Stato e mercato basata sui valori dell'uguaglianza, delle pari opportunità, della responsabilità e della comunità, l'esperimento del New Labour sembrò costituire, almeno teoricamente, un referente per altre esperienze di governi di centro-sinistra: in questo quadro si inserì l'incontro fra Blair, il presidente del Consiglio italiano, cattolico di sinistra, R. Prodi, e il presidente degli Stati Uniti, il democratico B. Clinton (New York, sett. 1998).
Nell'ottobre, confermando la volontà di adeguarsi alle norme dell'Unione Europea in materia sociale, la Gran Bretagna introdusse la direttiva europea sull'orario di lavoro che prevedeva un massimo di 48 ore settimanali (oltre all'obbligo delle ferie pagate, e di pause di almeno 11 ore tra una giornata lavorativa e l'altra), direttiva cui si erano fino ad allora opposti i precedenti governi conservatori.
Ma dalla fine del 1998 la popolarità di Blair si andò incrinando: dopo le dimissioni di due ministri accusati di corruzione (dicembre 1998), più volte la tradizionale base del partito criticò le scelte del governo. Così, nonostante il consenso di tanta parte dell'opinione pubblica per il forte sostegno offerto dal premier nella guerra contro la Jugoslavia (marzo-maggio 1999), nelle elezioni europee Blair subì una seria sconfitta (giugno 1999).
Questione irlandese
Dopo una ripresa del conflitto tra cattolici e protestanti a partire dall'agosto 1991, un importante passo verso la pace fu compiuto con la cosiddetta Dichiarazione di Downing Street (dicembre 1993), in cui Major invitava le due parti a cessare il fuoco, dichiarandosi disposto a rinunciare alla sovranità britannica sull'Ulster purché la volontà irlandese in tal senso si esprimesse in un referendum. L'affermazione fu fortemente avversata dai protestanti unionisti, che la videro come un tradimento, e lo stesso Sinn Féin protestò vivamente contro il sistema proposto da Major per l'eventuale consultazione elettorale (riservata esclusivamente all'Ulster, a maggioranza protestante), che sembrava inevitabilmente favorire i fedeli al Regno Unito. Il 1994 si aprì così con una nuova esplosione di violenza terrorista. Il 31 agosto 1994 tuttavia giunse, dopo venticinque anni di conflitti e oltre tremila morti, il cessate il fuoco totale e incondizionato dell'IRA, al quale seguì, il 13 ottobre successivo, la sospensione delle ostilità da parte dei lealisti protestanti.
Da parte britannica, il processo di pace fu avviato con nuove, importanti misure, come la rimozione di tutti i posti di blocco sulle strade di frontiera (ottobre 1994) e la forte riduzione, nel corso del 1995, della presenza militare nell'Irlanda del Nord. L'impegno profuso non fu però ritenuto sufficiente dal Sinn Féin, che seguitò a richiedere di essere riconosciuto come parte in causa nei negoziati. Il ritardo nell'avvio delle trattative portò, dopo diciassette mesi di tregua, alla riapertura delle ostilità (febbraio 1996).
Una svolta decisiva si ebbe con la vittoria di Blair del maggio 1997, che favorì la ripresa del colloquio. Non solo il Sinn Féin aveva ottenuto in quelle elezioni un'affermazione storica, conquistando 2 seggi, ma il trionfo laburista aveva rimosso un pesante impedimento al dialogo: la dipendenza di Major dai voti unionisti per avere la maggioranza parlamentare. Blair poté così realizzare un significativo passo verso l'autonomia della regione: dimostrando una notevole capacità politica, dichiarò per la prima volta la disponibilità del suo paese a rinunciare alla pregiudiziale di sempre, il disarmo dell'IRA, per accettare la partecipazione del Sinn Féin ai negoziati. Grazie anche all'appoggio degli Stati Uniti e della Repubblica d'Irlanda, nell'aprile 1998 si raggiunse un accordo fra le parti che venne approvato il mese successivo da oltre il 70% della popolazione dell'Ulster e dal 95% di quella della Repubblica d'Irlanda. Nonostante le prevedibili resistenze delle fazioni estremiste degli schieramenti protestante e cattolico (che sfociarono in momenti di grave tensione e in episodi di drammatica violenza nel luglio-agosto 1998, e a cui il governo Blair rispose con nuove e più severe misure in materia di ordine pubblico, rapidamente approvate dal Parlamento come Terrorism Bill nel settembre 1998), l'accordo sembrò rappresentare una vera e propria svolta nella storia dell'Irlanda del Nord. Appoggiato sempre più decisamente dall'opinione pubblica inglese e internazionale, il patto sanciva in primo luogo il diritto all'autodeterminazione dell'Ulster. Inoltre, Gran Bretagna e Repubblica d'Irlanda si dichiaravano disposte a cambiare le rispettive Costituzioni rinunciando, la prima, alla sovranità sull'Irlanda del Nord, e la seconda, all'unità dell'isola. Venivano infine istituiti un Parlamento nord-irlandese con potere legislativo e il compito di eleggere il primo ministro del governo regionale, un Consiglio Nord-Sud comprendente i titolari del potere esecutivo della repubblica irlandese e dell'Ulster e un Consiglio anglo-irlandese che garantisse la collaborazione tra i due paesi. Nelle elezioni per il Parlamento nord-irlandese, tenutesi nel giugno 1998, lo scontro trentennale fra una maggioranza unionista e protestante, decisa a rimanere unita alla Gran Bretagna, e una minoranza cattolica e repubblicana, sostenitrice di un'unione con la Repubblica d'Irlanda, si intrecciò ad altri motivi, restituendo un quadro complesso della situazione e degli schieramenti politico-religiosi nelle sei contee dell'Ulster. Al termine di un'elezione svoltasi secondo un sistema proporzionale per eleggere i 108 deputati del nuovo Parlamento nord-irlandese, le due forze emergenti furono l'Ulster Unionist Party di D. Trimble (28 seggi) e il Roman Catholic Social Democratic and Labour Party (24 seggi) - entrambi sostenitori dell'accordo -, contro il Democratic Unionist Party del reverendo I. Pasley, avverso a qualunque negoziato, che ottenne 20 seggi. Il Sinn Féin di G. Adams ottenne una grande affermazione (18 seggi), mentre l'unico partito aconfessionale, l'Alliance Party, guidato da Lord J.T. Alderdice, conquistò 6 seggi. Capo del governo fu designato D. Trimble.
Ma le persistenti tensioni fra le due comunità e il rifiuto degli unionisti di accettare l'ingresso del Sinn Féin nell'esecutivo nord-irlandese prima del disarmo dell'IRA, provocarono un grave stallo del processo di pace e il mancato passaggio dei poteri da Londra a Belfast, previsto per il giugno 1999.
bibliografia
J. Sopel, Tony Blair: the moderniser, London 1995.
P. Madelson, The Blair revolution: can new Labour deliver?, London 1996.
E.A. Reitan, Tory radicalism: Margareth Thatcher, John Major, and the transformation of modern Britain, 1979-1997, Lanham (Md.) 1997.
A. Seldon, Major: a political life, London 1997.
Britain for and against Europe: British politics and the question of European integration, ed. D. Baker, D. Seawright, New York 1998.
P. Dorey, The Major premiership: politics and policies under John Major, 1990-97, New York 1998.
S. Driver, L. Martell, New labour: politics after Thatcherism, Malden (Mass.) 1998.
A. Giddens, The third way, the future of social democracy, Oxford 1998 (trad. it. Milano 1999).
Sulla questione irlandese: P. Bull, Land, politics and nationalism: a study of the Irish land question, Dublin 1996; L. Salvadori, C. Villi, La questione irlandese dal passato al presente, Padova 1997.