Hollywood
di Thomas Harrison
Fu questo il nome dato nel 1886 da una certa signora Wilcox, moglie di un investitore immobiliare, a una immensa tenuta alla periferia di Los Angeles. Come ammise lei stessa, il nome (che significa 'bosco di agrifoglio') fu scelto solo perché 'suonava bene', e non per il tipo di vegetazione che cresceva nella proprietà, costituito in prevalenza da limoni e avocado. Sin dalle origini, quindi, il nome Hollywood segnalava uno scarto tra realtà e fantasia, scarto che gli studi cinematografici avrebbero in seguito trasformato in industria mondiale. Alla fine degli anni Venti H. acquistò altresì una serie di connotazioni rimaste poi associate a questo nome: la 'fabbrica dei sogni', la capitale mondiale del divertimento, il luogo con lo stile di vita più sfarzoso del mondo, un modello filmico egemonico ('classico' e universalmente comprensibile, dotato di una struttura narrativa abilmente congegnata, popolato di personaggi ben caratterizzati, con un'appagante catarsi finale), lo star system, lo studio system, un approccio al cinema come industria più che come arte, produzioni appariscenti, budget colossali e, soprattutto, una rete internazionale di commercializzazione e distribuzione senza eguali. Dalla tenuta chiamata Hollywood gli Stati Uniti hanno creato la loro maggiore industria di esportazione, vendendo, essenzialmente, un'immagine. E fin dall'inizio si è trattato di un'immagine di avventura e di benessere materiale, di individualismo e di libertà, di sesso e di ricchezza, di appagamento fantastico attraente per il pubblico nazionale tanto quanto per quello estero. Il modo in cui questa immagine ha conquistato il mondo è una storia ricca di particolari.
Negli anni Novanta dell'Ottocento i coniugi Wilcox vendettero vari lotti della loro proprietà, che nel 1903 era già un villaggio di 500 abitanti annesso poi a Los Angeles nel 1910. In quegli stessi anni giunsero vari gruppi di produttori cinematografici dalla East Coast, attratti dalle condizioni climatiche ideali per le riprese (sole tutto l'anno, paesaggio estremamente vario che abbracciava montagne, oceano e deserto). Tra questi, la prima figura di rilievo fu il principale rivale di Thomas A. Edison, William N. Selig, che approdò a H. nel 1907 e due anni dopo aprì il primo grande studio cinematografico della California. Seguì nel 1910 David W. Griffith, della Biograph, mentre la Nestor Film Company, nucleo originario della futura Paramount, vi aprì il primo studio nel 1911. Ma l'impulso più significativo allo sviluppo di H. come centro della produzione cinematografica fu dato quando il regista Cecil B. DeMille decise di girare in Arizona, con Oscar C. Apfel, il suo western The squaw man (1914); trovando le montagne nevose di Flagstaff assolutamente inadatte alle sue esigenze, DeMille caricò nuovamente la troupe sul treno e si spinse fino all'ultima stazione della ferrovia occidentale, scoprendo quel luogo così duttile. The squaw man ebbe un tale successo che indusse altri a seguire l'esempio di DeMille, così che nel 1920 l'area intorno al ranch dei Wilcox giunse a contare ben cinquanta studi cinematografici.Oltre al clima mite e ai terreni a buon mercato, H. aveva un'altra importante attrattiva per i produttori indipendenti: la lontananza dalla Motion Picture Patents Company (MPPC), il trust di produttori e distributori cinematografici della costa orientale creato nel 1908 allorché le maggiori case di produzione dell'epoca ‒Edison, Biograph, Vitagraph, Pathé Exchange, Méliès, Gaumont, Lubin, Kalem, Essanay e Selig ‒ misero in comune i loro brevetti per impedire la produzione, la distribuzione e la proiezione nelle sale di film realizzati negli Stati Uniti che usassero la loro tecnologia senza una formale licenza. L'intento era quello di eliminare dal mercato i piccoli produttori indipendenti, e a questo fine fu creato anche un elaborato sistema di spionaggio e di intimidazioni. H., in California, era letteralmente il posto più lontano in cui si potesse andare per sfuggire ai tentacoli della MPPC; e inoltre, nella peggiore delle ipotesi, i produttori indipendenti costretti a mettersi al riparo dalle violenze dei suoi mandanti avrebbero potuto trasferire rapidamente il personale e le attrezzature oltre il confine messicano. Per un'ironia della sorte, quindi, il controllo egemonico che gli studi di H. avrebbero esercitato sulla produzione e sulla distribuzione cinematografica statunitense ebbe origine da un impulso opposto: la ribellione a un oligopolio. Quando infatti la MPPC si dimostrò incapace di riportare all'ordine i produttori indipendenti, la situazione si rovesciò: all'inizio degli anni Venti, gli otto maggiori studi di H. si erano a loro volta associati e producevano circa il 90% di tutti i film statunitensi, controllando inoltre la quota più importante delle infrastrutture per la distribuzione e l'eser-cizio. Il nuovo e più efficiente trust costituito nel 1922 dagli studi hollywoodiani venne chiamato Motion Picture Producers and Distributors of America (MPPDA; v. MPAA). Grazie a questi rilevanti eventi il nome Hollywood era ormai diventato sinonimo di cinema statunitense.
La genialità del sistema: l'integrazione verticale. - La sconfitta dell'oligopolio della MPPC fu dovuta principalmente alla sfida di un manipolo di immigrati o di figli di immigrati dall'Europa orientale, che riuscirono a costruire personali e competitivi imperi cinematografici. Uno di questi fu William Fox (v. Fox Film Corporation), nato in Ungheria da una famiglia di ebrei tedeschi. La formula da lui escogitata nel 1915 ‒ l'integrazione verticale, controllata da un'unica società, dei tre settori chiave dell'industria cinematografica, produzione, distribuzione ed esercizio ‒ assicurò un potere insuperabile agli studi di H.: essa rappresentò, come avrebbe scritto in seguito il critico André Bazin, la genialità del sistema hollywoodiano. La Fox Film Corporation fu un modello ben presto imitato dagli altri grandi studi.
Lo star system. - Un ruolo pionieristico fu svolto da un altro produttore indipendente, ancora una volta un immigrato di origini ebreo-tedesche, Carl Laemmle, il quale dapprima fondò la Independent Motion Picture Company (IMP, il nucleo della futura Universal), un'organizzazione in grado di competere direttamente con la MPPC, e in seguito avviò con successo la politica volta ad amplificare e sfruttare il richiamo esercitato dagli attori, dando vita allo star system. Sino ad allora, infatti, i produttori non avevano mai dato risalto ai nomi degli interpreti nei titoli di testa dei film, temendo che ciò li inducesse a reclamare compensi più elevati. Pubblicizzare i nomi degli attori costituiva invece il sistema più efficace per catturare l'interesse del pubblico, sfruttando la fonte ancora vergine delle fantasie generate dai film. L'idea di non limitarsi a porre gli attori sotto contratto (cosa già praticata), ma di esaltarne l'immagine, prese subito piede; di conseguenza il potere dei divi crebbe così rapidamente che nel 1919 tre dei più famosi ‒ Mary Pickford, Charlie Chaplin e Douglas Fairbanks, assieme al regista Griffith ‒ crearono una società di produzione indipendente, la United Artists.
Gli otto studios. - Nel 1915 Laemmle inaugurò il prototipo dei grandi studi hollywoodiani, la Universal City: una vera e propria città ‒ se non un mondo a sé ‒ dotata non solo di set prefabbricati per i generi di film più diversi, ma anche di una propria polizia, di un corpo di vigili del fuoco e di un quartiere residenziale che ben presto si popolò di divi celebri come Rodolfo Valentino. Al pari di Fox, Laemmle controllava lo sbocco commerciale dei film che produceva: una cruciale catena di sale cinematografiche. Nello stesso periodo un altro immigrato, Adolph Zukor, avviò una serie di partnership che portarono alla creazione di un'altra megasocietà, la Paramount. Una quarta, la Metro Goldwyn Mayer, nacque da una serie di acquisizioni effettuate da Marcus Loewe, un immigrato ebreo di origini austriache che gestiva un complesso di sale cinematografiche. MGM, Paramount, Universal Pictures, United Artists e Fox furono ben presto affiancate da RKO, Warner Bros. e Columbia Pictures Corporation, formando le otto case di produzione che nel 1922 si associarono nella MPPDA. Di queste la MGM, la Paramount, la Fox, la RKO e la Warner Bros. costituirono le vere e proprie majors o Big five, mentre si faceva riferimento alle altre tre come alle minors o Little three. Producendo quasi ottocento film l'anno, questo gruppo di società rappresentava la più formidabile industria cinematografica del mondo. Tutte però avevano le loro sedi centrali a New York, dove venivano prese le decisioni cruciali.
Il lungometraggio di genere. - La macchina dei sogni non avrebbe potuto creare la forma di intrattenimento più popolare del 20° sec. senza un'ulteriore innovazione di Laemmle: il lungometraggio. Alcuni significativi esempi del nuovo formato si erano già visti in Italia e in Germania prima che Laemmle affrontasse il rischio con il lungometraggio Traffic in souls (1913) di George Loane Tucker, ma in questo caso l'azzardo pagò oltre ogni aspettativa: prodotto con 5000 dollari, il film realizzò un incasso quasi cento volte superiore (mezzo milione di dollari). Il lungometraggio divenne immediatamente uno standard a Hollywood, e una norma per le case di produzione in tutto mondo. Il nuovo formato richiedeva una struttura narrativa più complessa di quella dei cortometraggi precedenti, e tale complessità esigeva a sua volta un paradigma da seguire per rendersi comprensibile e poter così penetrare il mercato. In seguito ad attenti monitoraggi dei gusti del pubblico nelle sale alcuni film furono presi a modello, dando origine a generi (v. generi cinematografici) destinati a soddisfare all'infinito le medesime preferenze. Successivamente la formula sarebbe stata affinata con la creazione dei sequels, ripetizioni letterali e dunque ancor meno rischiose di film di grande successo. All'epoca del muto, i generi in cui H. si specializzò in modo particolare furono: il western, per il quale il paesaggio californiano si rivelava particolarmente adatto, il nascente melodramma (di cui DeMille fu un maestro), il film spettacolare in costume (accanto a quelli di DeMille e di Griffith, si segnalano The queen of Sheba, 1921, di J. Gordon Edwards; The three musketeers, 1921, I tre moschettieri, di Fred Niblo; The thief of Bagdad, 1924, Il ladro di Bagdad, di Raoul Walsh), il film d'avventura (celebri quelli interpretati da Rodolfo Valentino nel deserto arabo), il gangster film (Underworld, 1927, Le notti di Chicago, e The dragnet, 1928, La retata, entrambi di Josef von Sternberg), e infine la commedia, che raggiunse l'acme con Charlie Chaplin e Buster Keaton.
La pubblicità. - Lo star system statunitense era gestito da professionisti con un'abilità che non trovava riscontro nei produttori di altri Paesi, i quali non disponevano di mercati, di risorse finanziarie e di tecnologie paragonabili. I mass media statunitensi erano in grado di raggiungere una popolazione di 100 milioni di persone, alimentando il fascino dei divi attraverso campagne pubblicitarie, articoli sui giornali, riviste dedicate ai fan e scandali creati ad arte. Negli anni Trenta, come riferì Arthur Wilde, responsabile della pubblicità della Warner Bros., tutti i grandi studi fornivano ai media, ogni giorno, venti o trenta storie inventate. Fu in questo decennio che le case di produzione integrarono i loro apparati pubblicitari con quotidiani ad ampia diffusione specializzati sul mondo dello spettacolo della città: "The Hollywood reporter" e "Variety", ancora ampiamente diffusi agli inizi del 21° sec. con edizioni anche settimanali e internazionali.
Arroccati nel loro immenso mercato interno, gli studi hollywoodiani saccheggiarono aggressivamente i talenti delle industrie cinematografiche europee, in particolare gli attori, per incorporarli nel loro sistema guadagnando così ulteriore attenzione da parte della stampa e un pubblico più vasto, impoverendo nel contempo le risorse dei concorrenti.Nulla, tuttavia, poté uguagliare l'effetto pubblicitario delle cerimonie annuali di consegna degli Oscar, che vennero conferiti per la prima volta nel 1929, evento con il quale il mondo del cinema ha continuato a celebrare sé stesso e divenuto nel corso del tempo una sfarzosa cronaca televisiva seguita da un miliardo di spettatori di un centinaio di Paesi.
La produzione. - Alla base del sofisticato sistema di pubblicità e di commercializzazione dei film hollywoodiani vi era una serie di radicali innovazioni nella gestione degli studi introdotte dalle prime case di produzione. Fasi e operazioni erano governate secondo una divisione e un coordinamento del lavoro altamente razionalizzati, tipici dell'organizzazione di fabbrica. Autosufficienti e situati nelle vicinanze delle località in cui si effettuavano le riprese, gli studi applicavano un principio di 'utilizzo seriale' non soltanto agli attori e ai set riciclabili all'infinito, ma anche a registi, scenografi, direttori artistici, direttori della fotografia, truccatori, decoratori e montatori. Tutti costoro formavano la 'scuderia' dello studio, un gruppo di professionisti altamente specializzati che lavorava sotto contratti esclusivi e a lungo termine, e che passava rapidamente dalla realizzazione di un film a un'altra.La pre-produzione era pianificata con eguale cura. Un gruppo di lettori esaminava romanzi, pulp fictions, riviste e lavori teatrali per trarne soggetti. Dopo aver ricevuto istruzioni da New York in merito al numero e al tipo di film necessari per riempire le sale l'anno successivo, il capo dello studio assegnava i soggetti scelti a un gruppo di scrittori affinché ne sviluppassero le sceneggiature. Da queste venivano poi tratte le cosiddette sceneggiature tecniche, un'altra delle innovazioni di H., che indicavano come girare il film nel modo più efficiente ed economico, vale a dire senza seguire in senso cronologico la narrazione come si usava fare in passato, bensì procedendo da un gruppo di scene girate nello stesso ambiente a un altro. La sceneggiatura tecnica (la cui invenzione è attribuita al produttore e regista Thomas H. Ince) offriva un vantaggio economico in quanto evitava di trasferire continuamente e con notevoli costi l'attrezzatura e il personale da un set all'altro, consentiva di stimare con precisione il costo totale di un film e di calcolare addirittura il metraggio esatto di pellicola richiesto da ogni singola scena. La sceneggiatura ‒ con l'esatta indicazione del genere del film, dei personaggi, e con un quadro sintetico della storia e delle singole scene ‒ veniva poi sottoposta all'approvazione del direttore. Questa pianificazione dei film cominciava in genere un anno prima che iniziassero le riprese. Per quanto riguarda queste ultime, furono ancora gli studi di H. a introdurre l'uso di più cineprese, particolarmente utile per evitare di dover girare più volte complicate scene di massa e di azione. Un altro elemento essenziale di questo sistema di produzione era il continuity clerk (controllo di continuità), volto ad assicurare che ciascuna ripresa registrasse ogni singolo dettaglio richiesto per costruire una storia coerente sul piano cronologico. Il montaggio del materiale in una sequenza era compito di un'altra figura professionale fondamentale, quella del montatore.
Lo scopo di questo sofisticato sistema era, naturalmente, la massimizzazione del prodotto cinematografico, motivata a sua volta dal fatto che i proprietari degli studi possedevano anche intere catene di sale. L'obiettivo era quello di garantire per tutto l'anno, sia alle sale di proprietà degli studi sia alle altre, un flusso settimanale di film i quali, per assicurare una costante affluenza di pubblico, dovevano appartenere a generi ben collaudati ed essere costellati di divi. Gli studi, poi, proteggevano la produzione dei numerosi film che offrivano minori garanzie di successo mediante la prassi della 'vendita in blocco' (block-booking), che consisteva nel costringere gli esercenti ad acquistare annualmente a scatola chiusa un intero pacchetto di film; così, per avere un film con Douglas Fairbanks e Gloria Swanson, gli esercenti dovevano acquistare da cinquanta a cento produzioni della Paramount con attori meno noti. Alle proteste dei proprietari di sale indipendenti per gli squilibri negli incassi causati da questa pratica i grandi studi risposero acquistando ancora altre sale o costruendone di nuove. Negli anni Venti il risultato di questa campagna di acquisizioni fu un circuito di sale completamente nuove, che cambiarono radicalmente la fruizione del cinema da parte degli spettatori.
L'esercizio. - La Paramount di Zukor fu all'avanguardia in questa politica di acquisizioni. L'accordo siglato nel 1919 con i più prestigiosi costruttori di sale degli Stati Uniti ‒ il gruppo Balaban & Katz di Chicago ‒ conferì all'esperienza della visione una dimensione inimmaginabile per i frequentatori delle scalcinate sale popolari delle origini (penny arcades e nickelodeons). Grazie alle sale Balaban, lo spettacolo cinematografico si trasformò da diversivo popolare ad ambito privilegio delle classi medie. L'architettura dei nuovi, sontuosi templi del cinema era uno straordinario pastiche di stili di epoche diverse: gli spettatori in attesa della proiezione venivano introdotti in spaziosi fumoirs, sale di esposizione, punti di intrattenimento per bambini, tutti ambienti dotati di aria condizionata che dava un prezioso sollievo negli afosi giorni estivi (e che inaugurò la prassi da allora rimasta in vigore a H. di far uscire i film più importanti nella stagione estiva). Il circuito di sale cinematografiche della Paramount, imitato da altri studi hollywoodiani, stabilì dunque un nuovo standard nelle più importanti città statunitensi, ma anche a Londra e a Parigi, trasformando la fruizione dei film così come lo studio system aveva trasformato il modo di produrli. I circuiti di sale conferirono ai padroni di H. il controllo quasi monopolistico dell'esercizio. Sebbene negli anni Venti le majors possedessero solo un quarto delle sale cinematografiche americane, si trattava di sale gigantesche e di qualità superiore, situate in quartieri prestigiosi e specializzate in prime visioni di film di grande richiamo. Poiché la prassi della 'vendita in blocco' le monopolizzava per tutto l'anno, era assai difficile che i film di produttori concorrenti avessero la possibilità di essere proiettati, e in ogni caso non in condizioni paragonabili. Il ruolo determinante dell'esercizio nell'egemonia del cinema hollywoodiano può essere colto facendo riferimento al fatto che negli anni Trenta e Quaranta le Big five investivano solo il 5% dei loro capitali nella produzione e ben il 94% nell'esercizio, mentre il restante 1% andava alla distribuzione (Gomery 1986).
La distribuzione internazionale. - Al successo di H. in patria fece riscontro un analogo successo in Europa, al quale contribuì in misura non irrilevante la catastrofe della Prima guerra mondiale. Nel 1920 gli studi hollywoodiani esportarono una grande quantità di film (ben cinque volte superiore rispetto al 1914) e il mercato estero rappresentava il 35% degli incassi globali. L'accesso pressoché esclusivo al lucroso mercato interno consentiva agli studi di affrontare produzioni in cui erano investiti capitali di gran lunga superiori alle risorse di quasi tutti i concorrenti stranieri. La vittoria degli Stati Uniti nel conflitto procurò inoltre all'industria cinematografica un notevole sostegno da parte del governo, grazie anche all'influenza crescente di Will H. Hays, ex uomo politico divenuto direttore della MPPDA. Alla metà degli anni Venti gli studi di H. possedevano affiliate, agenzie e società di distribuzione in quasi tutta l'Europa continentale, incamerando una quota pari al 70-80% degli incassi realizzati in quest'area. Gli sforzi protezionistici dei Paesi europei rimasero in larga misura inefficaci, e per conservare una piccola quota del loro mercato molti studi locali furono costretti a imitare, come meglio potevano, lo stile del cinema hollywoodiano.
Gli anni Trenta. - Malgrado la battuta d'ar-resto segnata a livello mondiale dall'avvento del sonoro e malgrado la crisi finanziaria causata dalla Grande depressione, gli anni Trenta furono il periodo d'oro di Hollywood. Nel 1929, l'anno del crollo della Borsa di New York, l'industria cinematografica di H. realizzò lo stupefacente incasso lordo di 2,3 miliardi di dollari al box office americano. Ciononostante, la Depressione creò grosse difficoltà ai circuiti di sale i quali, fortemente ipotecati, furono costretti a far ricorso a finanziatori di New York che assunsero così un controllo ancora più massiccio sugli studi cinematografici e istituirono metodi di produzione più efficienti ed economicamente vantaggiosi. Un'altra conseguenza della Depressione fu il fallimento di molti piccoli studi indipendenti, che ridusse ulteriormente il numero già esiguo dei concorrenti di Hollywood.
Tra gli anni Trenta e la fine della Seconda guerra mondiale H. conobbe il suo momento di gloria: un catalogo di divi, registi e tecnici di livello internazionale, il sistema di produzione più efficiente del mondo, una posizione di dominio nella distribuzione mondiale. Con l'avvento del sonoro, H. aggiunse il musical ai suoi generi prediletti; i più spettacolari furono quelli realizzati dalla MGM, spesso eguagliati in popolarità dai musical della 20th Century-Fox e dalle coreografie di massa di Busby Berkeley. Negli anni Trenta si affermarono anche i film epici in costume con Errol Flynn, i cartoni animati in Technicolor di Walt Disney, i gangster film con James Cagney, i 'film di donne' con Bette Davis, e le serie di film con Marlene Dietrich, Deanna Durbin e le coppie Fred Astaire-Ginger Rogers e Judy Garland-Mickey Rooney. Gli studios realizzavano tanto b-movies a basso costo quanto grandi produzioni che sciorinavano le proprie scuderie di stelle al completo (come, per es., Grand hotel, 1932, di Edmund Goulding); alla fine degli anni Trenta i due terzi dei film usciti nelle sale di tutto il mondo erano prodotti a H., a cui andava anche il 90% degli incassi realizzati negli Stati Uniti. Il 1939 fu l'anno più fecondo per il cinema americano: uscirono Gone with the wind (Via col vento) e The wiz-ard of Oz (Il mago di Oz) di Victor Fleming, Stagecoach (Ombre rosse) di John Ford, Wuthering heights (La voce nella tempesta) di William Wyler, Mr. Smith goes to Washington (Mister Smith va a Washington) di Frank Capra e Beau geste di William A. Wellman.
Il boom del periodo bellico. - Nell'imminenza della guerra in Europa, H. assunse dapprima una posizione politica prudente; prevalsero ben presto, tuttavia, le pressioni dell'amministrazione Roosevelt che incitava gli studios ad alimentare lo spirito interventista nazionale per solidarietà con l'Inghilterra. I film cominciarono allora a promuovere l'arruolamento nelle forze armate e, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, lo spirito bellico. Grazie a un'economia nazionale estremamente forte e alla disponibilità di poche forme di intrattenimento in grado di competere con il cinema, H. conobbe per tutti gli anni della guerra un boom straordinario, coronato nel 1946 dalla maggiore affluenza di pubblico mai registrata nella storia del cinema. Se la maggior parte dei film di guerra non ha retto la prova del tempo, altri restano vette insuperate, come To be or not to be (1942; Vogliamo vivere) di Lubitsch, Saboteur (1942; Sabotatori) e Lifeboat (1944; Prigionieri dell'oceano) entrambi di Alfred Hitchcock, Across the Pacific (1942; Agguato ai Tropici) di John Huston, Casablanca (1942) e Mission to Moscow (1943; Missione a Mosca) di Michael Curtiz, The Moon is down (1943) di Irving Pichel e Objective, Burma! (1945; Obiettivo Burma!) di Raoul Walsh. In quegli anni videro la luce film antinazisti di eccezionale qualità, come The great dictator (1940; Il grande dittatore) di Charlie Chaplin, Foreign correspondent (1940; Il prigioniero di Amsterdam) di Hitchcock, Four sons (1940) di Archie Mayo e Hangmen also die (1943; Anche i boia muoiono) di Fritz Lang; lusinghieri successi raccolsero grandi film che non tematizzavano esplicitamente la guerra, come Of mice and men (1939; Uomini e topi) di Lewis Milestone, The grapes of wrath (1940; Furore) di J. Ford, Citizen Kane (1941; Quarto potere) diretto da Orson Welles, The Maltese falcon (1941; Il falcone maltese) di Huston, Sullivan's travel (1941; I dimenticati) di Preston Sturges, nonché Heaven can wait (1943; Il cielo può attendere) di Lubitsch. Vennero realizzati anche ottimi western, melodrammi che esaltavano le virtù del sacrificio, commedie con Bob Hope o Bud Abbott e Lou Costello, e film stereotipati che miravano a ricompensare i soldati americani con sfavillanti visioni delle loro attrici favorite ‒ Lana Turner, Rita Hayworth, Veronica Lake, Hedy Lamarr, Dorothy Lamour e Anne Sheridan. Il clima di guerra favorì anche la nascita di uno stile più aggressivo, la cui espressione più compiuta appare in quelle ciniche descrizioni del malessere psicologico nel mondo della malavita urbana che i critici francesi avrebbero battezzato film noir: Double indemnity (1944; La fiamma del peccato) di Billy Wilder, Laura (1944; Vertigine) di Otto Preminger, Detour (1945) di Edgar G. Ulmer, The postman always rings twice (1946; Il postino suona sempre due volte) di Tay Garnett, The big sleep (1946; Il grande sonno) di Howard Hawks, The lady from Shanghai (1948; La signora di Shanghai) di Welles, Sunset Boulevard (1950; Viale del tramonto) di Wilder. Si sviluppò inoltre una nuova forma di coraggioso realismo, ispirato a film stranieri come Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, che con la loro commovente autenticità toccavano profondamente i veterani che cercavano di riadattarsi alla vita civile. Con l'attivo sostegno del Bureau of Motion Pictures, settore dell'Office of War Information, la MPAA (dal 1945 nuova denominazione della MPPDA) consolidò la sua presenza in Europa, e ciò portò all'adozione di politiche protezionistiche dapprima in Gran Bretagna e poi anche in altri Paesi. L'effetto a lungo termine di queste misure fu che la quota più consistente degli utili derivati dagli incassi nelle sale europee fu bloccata: non restava altra scelta per gli studios che reinvestire questi milioni di dollari in produzioni realizzate all'estero, e ciò ridusse la necessità di disporre di imponenti infrastrutture produttive in patria, contribuendo al loro progressivo smantellamento. Nel 1970 quasi la metà dei film di H. furono prodotti nei Paesi europei. Nonostante le misure protezionistiche, il mercato estero continuò così a rappresentare oltre il 50% dei profitti realizzati da H. nel dopoguerra, e ciò riuscì a controbilanciare la crescente crisi del settore in patria, annunciata non solo dal rapido declino dell'affluenza di pubblico nelle sale, ma soprattutto da una sentenza della Corte Suprema che vietò il controllo integrato di produzione, distribuzione ed esercizio praticato dagli studios.
Il contenzioso contro l'integrazione verticale delle grandi società cinematografiche accusate di violare le norme antitrust, pendente nei tribunali americani sin dal 1938, si risolse nel 1948 con un verdetto che riconobbe le majors colpevoli di una serie di violazioni della libertà di commercio: la fissazione del prezzo del biglietto d'ingresso; il sistema del block-booking e della vendita 'alla cieca', ossia senza la possibilità di visionare i film prima dell'acquisto; la determinazione del numero minimo di giorni che dovevano trascorrere tra le prime visioni, concentrate nelle sale controllate dai grandi studi, e le seconde visioni (clearance); e infine la definizione delle zone geografiche in cui applicare la clearance. Soprattutto, i tribunali decretarono che le majors hollywoodiane dovevano alienare o la produzione o l'esercizio. Poste di fronte a questa scelta, esse preferirono sacrificare le sale, perdendo così il privilegio di dettare direttamente le condizioni del mercato; si trattò peraltro di una perdita relativa, visto che continuarono a detenere il controllo della distribuzione. Il divorzio tra produzione ed esercizio, che decretò la fine del sistema di integrazione verticale, sarebbe rimasto in vigore per un trentennio circa, fino a quando l'amministrazione dell'ex attore hollywoodiano Ronald Reagan optò per la deregulation della proprietà delle sale. Nel frattempo, prive della garanzia assoluta che i loro film sarebbero stati acquistati, le majors cominciarono a ridurre drasticamente i costi delle produzioni.
Ad aggravare le pressioni su H. contribuirono inoltre le controversie contrattuali tra gli studios e i loro dipendenti, tutelati da associazioni sindacali di recente costituzione (la Screen Actors Guild, fondata nel 1933, la Screen Directors Guild del 1939 e la Screen Writers Guild del 1941). L'esito principale di questi conflitti, da cui i sindacati uscirono vincitori, fu la nascita di una forza del tutto nuova a H., quella delle agenzie che rappresentano gli artisti. Verso la metà degli anni Cinquanta la più importante di esse, la MCA (Music Corporation of America), rappresentava quasi la metà degli attori di H., e nel 1962 era ricca al punto di acquistare direttamente la Universal. Pian piano il potere di tali agenzie assunse proporzioni colossali: alla fine degli anni Settanta erano loro, assai più che gli studios, a decidere in materia artistica e finanziaria, preconfezionando interi film (completi di cast, regia, sceneggiatura e attività promozionali) da consegnare a grandi società come la Paramount o la Warner Bros., divenute ormai semplici finanziatrici passive.
Ulteriori problemi sorsero a H. in seguito al clima di tensione creato dalla nuova paura della 'minaccia rossa', che imponeva di smascherare le propensioni politiche di liberali e simpatizzanti della sinistra in un mondo dello spettacolo già visto con sospetto. Nel 1947 attori, registi e sceneggiatori furono presi di mira dalla HUAC (House Un-American Activities Committee), decisa a epurare dai comunisti il medium ideologicamente più influente del Paese. Dieci di essi, i cosiddetti Dieci di Hollywood, vennero incarcerati per essersi rifiutati di fornire i nomi dei loro colleghi presunti comunisti davanti alla commissione del senatore J. McCarthy (v. maccartismo). Altri furono più collaborativi e contribuirono così alla rovina della carriera di centinaia di artisti. John Wayne, Walt Disney e altri conservatori di H. si proposero di sostenere dall'interno la causa della 'purga rossa', provocando un'ulteriore ondata di inchieste nel 1951. Lo spirito del maccartismo condizionò per tutti gli anni Cinquanta la produzione cinematografica hollywoodiana, riconducendola per lo più a un conformismo privo di valenze critiche.
Di fatto il maccartismo fu solo l'ultimo di una serie di tentativi volti a disciplinare i contenuti dei film prodotti a Hollywood. I primi provvedimenti in questo senso risalivano al 1920-21 e furono innescati dall'ondata di indignazione pubblica suscitata da ben pubblicizzati scandali di cui erano protagonisti noti esponenti del mondo dello spettacolo. Per evitare accuse di corruzione morale, i grandi produttori di H. incaricarono W.H. Hays, presidente della MPPDA, di elaborare un codice deontologico cui attenersi per prevenire l'istituzione di una censura federale (v. censura: Stati Uniti). Il risultato fu il Production Code, che negli anni Trenta le case produttrici imposero a tutti i film di H. per ottenere l'autorizzazione a uscire nelle sale cinematografiche. Il codice contribuì a plasmare il classico stile hollywoodiano fino a tutti gli anni Cinquanta, e soltanto nel 1968 fu sostituito da un sistema di classificazione dei film basato sul pubblico di riferimento.Nel dopoguerra la sfida più radicale all'industria di H. venne dalla nascita della televisione, che determinò una drastica riduzione dell'affluenza di pubblico nelle sale. Nel 1955 il numero di film usciti negli Stati Uniti si ridusse a duecento, appena un quarto rispetto al 1938. Il declino continuò in maniera costante, cosicché nel 1969 il numero di spettatori cinematografici era un sesto rispetto a quello registrato nel 1946. Nel dopoguerra, infatti, gli Stati Uniti avevano assistito anche a un esodo in massa della popolazione dai centri urbani, dove si trovava la maggior parte delle grandi sale cinematografiche, verso la periferia in espansione. Per attirare nuovamente il pubblico, H. inventò la formula del drive-in e costruì un gran numero di multisale nei nuovi centri commerciali, mentre, per vanificare la concorrenza della televisione, gli studios si convertirono tutti alle pellicole a colori e agli spettacolari schermi panoramici. Il Cinemascope divenne così il nuovo standard industriale, rivelandosi particolarmente adatto ai vasti paesaggi dei western e dei peplum: celebri i kolossal The ten commandments (1956; I dieci comandamenti) di DeMille, Ben Hur (1959) di W. Wyler, Spartacus (1960) di Stanley Kubrick e Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz, interpretati da attori come Yul Brynner, Charlton Heston, Kirk Douglas ed Elizabeth Taylor. H. tentò anche altri esperimenti per richiamare il pubblico ‒ proiezioni tridimensionali, emanazioni olfattive, vibrazioni in sala per simulare le esperienze sullo schermo ‒ che ottennero però molto meno successo.
I provvedimenti più efficaci messi in atto dagli studios per porre rimedio alla perdita delle sale e alla concorrenza della televisione furono rappresentati da una serie di accorte scelte di gestione. La prima, ovviamente, fu quella di licenziare gran parte del personale dipendente: le produzioni vennero acquistate in misura crescente al di fuori degli studi e ciò dette un notevole grado di autonomia a registi come Wilder, Ford, Hawks, Wyler, Mankiewicz, Huston, Capra, Elia Kazan, George Cukor e Fred Zinnemann. Come osserva David Shipman (1980-1984), negli anni Sessanta, di fatto, le grandi majors hollywoodiane di un tempo erano ridotte a poco più di quello che sarebbero poi diventate vent'anni dopo, ossia un complesso di infrastrutture e di uffici ai quali gli artisti ‒ attori, registi e sceneggiatori ‒ si rivolgevano per realizzare i propri progetti, a seconda dei rapporti che intrattenevano con i loro titolari. In sostanza, gli studi esistevano per concludere affari, avendo principalmente una funzione di finanziatori e di distributori. Un'altra mossa importante fu quella di noleggiare i film alle reti televisive, un processo culminato addirittura nell'acquisto degli interi cataloghi di MGM, United Artists, Warner Bros. e RKO da parte del magnate della televisione Ted Turner. Cosa ancora più importante, gli studi di H. passarono essi stessi alla produzione televisiva: la RKO (un tempo famosa per i suoi film con le coppie Fred Astaire-Ginger Rogers e Katharine Hepburn-Cary Grant) abbandonò del tutto la produzione cinematografica, e nel 1966 la Universal divenne la più grande società di produzione televisiva americana.
Prima di arrivare a questa svolta, H. aveva prodotto nel dopoguerra molti dei western più memorabili della storia del cinema (My darling Clementine, 1946, Sfida infernale, di Ford; High noon, 1952, Mezzogiorno di fuoco di Zinnemann; Shane, 1953, Il cavaliere della valle solitaria di George Stevens); i musical di Vincente Minnelli, Arthur Freed e Gene Kelly (An American in Paris, 1951, Un americano a Parigi, di Minnelli; Singin' in the rain, 1952, Cantando sotto la pioggia, di Gene Kelly e Stanley Donen); le commedie di Bing Crosby, Bob Hope, Dean Martin e Jack Lemmon; i film romantici e drammatici con Frank Sinatra, Ava Gardner e Jayne Mansfield. Ma gli anni Cinquanta furono soprattutto l'era di Marilyn Monroe e di Marlon Brando, l'ingenua provocante e l'eccentrico ribelle, il quale (al pari del suo compagno di Actors Studio, James Dean) offrì una nuova immagine di mascolinità in intense rappresentazioni di disagio esistenziale e di alienazione sociale.
Nei primi anni Sessanta il cinema hollywoodiano cominciò a trattare con crescente libertà le tematiche sessuali, influenzato dall'uso di Brigitte Bardot nei film di Roger Vadim non meno che dai nuovi costumi della cultura giovanile dell'epoca. Alle commedie romantiche interpretate da Sophia Loren, Gina Lollobrigida, David Niven e Peter Sellers si affiancarono film a basso costo sui parties in piscina nelle ville californiane con Elvis Presley e Ann Margret, la serie di James Bond, i film balneari che esibivano Ursula Andress e Raquel Welch in bikini. Il culmine di questa tendenza sexy fu raggiunto negli anni Settanta, quando in seguito all'abbandono del Codice Hays il mercato americano venne letteralmente inondato da film erotici e pornografici. Ancora agli inizi del 21° sec., gli studi di H. ‒ o più precisamente quelli di San Fernando Valley, sede degli studi originari ‒ producevano il 90% dei video hard-core del mondo.Alla fine degli anni Sessanta molti dei grandi studi hollywoodiani si trovavano sull'orlo della bancarotta. I musical importati da Broadway (West side story, 1961, di Robert Wise e Jerome Robbins; My fair lady, 1964, di Cukor; The sound of music, 1965, Tutti insieme appassionatamente, di Wise; Funny girl, 1968, di Wyler), le farse con Jerry Lewis e le commedie rosa con Doris Day e Rock Hudson non riuscivano a compensare fiaschi colossali come Mutiny on the Bounty (1962; Gli ammutinati del Bounty) di Lewis Milestone e Cleopatra (costato all'epoca 40 milioni di dollari, uno dei film più costosi nella storia del cinema) e i rendimenti decrescenti in un mercato sempre più controllato da soggetti singoli dotati di forte capacità contrattuale. Gli studios cominciarono così a cedere in parte o, in alcuni casi, in blocco le loro società: la Paramount fu acquistata da Gulf and Western nel 1966, la United Artists da Transamerica Corporation nel 1967, la Warner Bros. dal gruppo finanziario Kinney National Service Inc. nel 1969. La fine degli studios come società autonome fu al tempo stesso la nascita di grandi corporation integrate orizzontalmente in una vasta gamma di interessi commerciali.
Uno degli esiti più significativi di tale processo fu un'esplosione di produzioni indipendenti, soprattutto dopo il successo inatteso di film come Bonnie and Clyde (1967; Gangster story) di Arthur Penn, The graduate (1967; Il laureato) di Mike Nichols e Easy rider (1969; Easy rider ‒ Libertà e paura) di Dennis Hopper. La crescente importanza del cinema europeo contribuì a consolidare l'idea del regista come autore, e ciò facilitò la produzione di nuove e significative opere di Robert Altman, Hal Ashby, John Cassavetes, Francis Ford Coppola, Roger Corman, Brian De Palma, Milos Forman, Sidney Lumet, Sam Peckinpah, Roman Polansky, Sydney Pollack, Martin Scorsese, John Sturges e altri. Infatti all'inizio degli anni Settanta si produsse una nuova frattura tra il cinema hollywoodiano e il cinema statunitense nel suo complesso: da allora le due cinematografie non poterono più essere identificate, anche se poche produzioni indipendenti sarebbero riuscite a realizzare incassi senza il supporto infrastrutturale delle grandi società di Hollywood. Al pari degli indipendenti, anche i film realizzati dagli studios focalizzarono in misura crescente la loro attenzione sul pubblico giovane, disilluso dall'esperienza del Vietnam, e sulle tensioni sociali e razziali che sino allora avevano evitato di trattare; nacquero così In the heat of the night (1967; La calda notte dell'ispettore Tibbs) di Norman Jewison, Midnight cowboy (1969; Un uomo da marciapiede) di John Schlesinger, Mean streets (1973) e Taxi driver (1976), entrambi di Scorsese, nonché film che affrontano direttamente il tema della guerra, come The deer hunter (1978; Il cacciatore) di Michael Cimino, Coming home (1978; Tornando a casa) di Ashby e Apocalypse now (1979) di Coppola. Bonnie and Clyde dette nuovo impulso al genere gangster, che trovò una delle sue migliori espressioni nella saga di The godfather (Il padrino) di Coppola. Rinacquero anche l'horror e il fantasy (Rosemary's baby, 1968, Rosemary's baby ‒ Nastro rosso a New York, di Polansky; The exorcist, 1973, L'esorcista, di William Friedkin), il melodramma (Love story, 1970, di Arthur Hiller; The way we were, 1973, Come eravamo, di Pollack), e fu inaugurato il filone dei film catastrofici (Airport, 1970, di George Seaton; The Poseidon adventure, 1972, L'avventura del Poseidon, di Ronald Neame). 2001: a space odyssey (1968; 2001: Odissea nello spazio) di Kubrick segnò la rinascita del film di fantascienza, che avrebbe portato H. a realizzare sette dei dieci film di maggior successo di tutti i tempi.
Negli anni Settanta tra le star hollywoodiane più popolari vanno menzionati Charles Bronson, Clint Eastwood, Jane Fonda, Jack Lemmon, Shirley MacLaine, Lee Marvin, Steve McQueen, Paul Newman, Robert Redford e George C. Scott. I più innovativi, però, risultarono quegli attori che dieci anni prima avrebbero potuto essere classificati come meri caratteristi: Robert De Niro, Jack Nicholson, Al Pacino, Dustin Hoffman e Gene Hackman, i quali con le loro interpretazioni 'alla Brando' conferirono autenticità a film come Chinatown (1974) di Polanski che segnò un radicale distacco dal moralismo e da quelli che erano stati i moduli narrativi tradizionali delle produzioni del passato.
Una nuova era si è aperta a H. quando film come Jaws (1975; Lo squalo) di Steven Spielberg e Star wars (1977; Guerre stellari) di George Lucas hanno sfondato il tetto dei 100 milioni di dollari di incassi. Questi due film hanno fornito il modello per una nuova formula delle produzioni hollywoodiane, basata su una simbiosi (che Lucas è riuscito a realizzare meglio di ogni altro) tra il cinema e un'ampia gamma di commerci audiovisivi, il cosiddetto blockbuster: un film d'azione, spesso di fantascienza, ricco di effetti speciali di tutti i tipi, di immagini computerizzate e di scene spettacolari, con battaglie cosmiche e manichee tra il bene e il male che si risolvono in un rassicurante trionfo del bene. Il pubblico cui si rivolge il blockbuster è quello in enorme espansione dei giovani, in particolare adolescenti maschi, anche se i thriller mozzafiato con una vernice di verosimiglianza risultano altrettanto graditi ai loro genitori. Le case di produzione hanno constatato che un film in grado di incassare più di 100 milioni di dollari solo nelle sale degli Stati Uniti può finanziare la loro produzione di un anno intero; insieme a potenti agenzie come la CAA (Creative Artists Agency) e la ICM (International Creative Management) hanno cominciato così a gareggiare tra di loro per realizzare progetti in grado di riprodurre il successo di ogni formula collaudata. Con interessi economici così alti in gioco, i finanziatori sono divenuti più conservatori che mai, insistendo nel replicare fedelmente le combinazioni di trama, regista, attori e produttore che hanno provato le loro credenziali di blockbuster. I compensi sono saliti alle stelle e per gli attori più richiesti si è arrivati a 10-20 milioni di dollari per film: il costo medio delle produzioni hollywoodiane è aumentato di più del doppio ogni cinque anni, giungendo nel 2000 all'astronomica cifra di 82 milioni di dollari (55 milioni per la produzione, 27 per l'edizione e la pubblicità).
Dopo Jaws, Spielberg ha firmato numerosi altri successi e ne ha prodotti molti altri. Star wars ha dato origine a vari sequels, e lo stesso vale per altri film d'azione come First blood (1982; Rambo) di Ted Kotcheff. L'imponente uomo bianco al centro dello schermo, assediato da forze che minacciano di annientare la sua civiltà, da lui sconfitte con una ininterrotta violenza stilizzata, è divenuto il simbolo di individui inquieti rispetto alla possibilità che le loro sicurezze politiche e materiali possano resistere alle sempre più crescenti tensioni del mondo. Nello stesso tempo, però, questo gruppo di individui risulta anche interamente disingannato circa le illusioni della rappresentazione cinematografica e dunque si diverte di fronte all'expansio ad absurdum dei de-sideri e delle ansietà di Hollywood. Il cinema di H. ha offerto anche intelligenti rivisitazioni del genere fantasy (per es. Blade runner, 1982, di Ridley Scott), ma i suoi interessi si sono concentrati in misura crescente sui profitti sussidiari delle megaproduzioni, in particolare quelli derivati dal merchandising e dal mercato in forte espansione delle videocassette, che nel 1986 ha superato gli incassi realizzati nelle sale. Di fatto, il cosiddetto mercato secondario sviluppatosi intorno ai film di H. negli ultimi venti anni del Novecento ‒ non solo videocassette, ma anche passaggi televisivi, film per la televisione, mini-serie, giochi al computer e DVD ‒ costituisce più della metà dei profitti delle majors, ed è a sua volta efficacemente integrato da un terzo mercato, rappresentato principalmente dalle colonne sonore, diventate ormai una componente essenziale dei film hollywoodiani, con canzoni di successo interpretate da artisti in cima alle classifiche mondiali. La ricchezza dei mercati sussidiari in tutto il mondo spiega l'assorbimento, sempre più frequente nell'ultimo ventennio del secolo, delle majors hollywoodiane e in genere del cinema da parte di grandi multinazionali: agli inizi del 21° sec. il cinema di H. appare simbioticamente fuso con tutta una serie di rami dell'intrattenimento di massa a livello globale. I suoi proprietari detengono in pratica il monopolio della distribuzione e dell'esercizio internazionale dei film di prima visione; la stretta associazione con i circuiti di sale al di fuori degli Stati Uniti, nelle quasi cento città in cui le majors sono presenti, ha inoltre totalmente annullato la separazione tra produzione ed esercizio cui l'industria cinematografica statunitense era stata obbligata alla fine degli anni Quaranta; di conseguenza, il raggio d'azione mondiale delle produzioni hollywoodiane si è espanso in proporzioni senza precedenti, tanto che nel 2000 le otto majors di H. sono arrivate a dominare oltre il 74% del mercato dell'Unione Europea (due terzi di quello italiano). Questo fenomeno spiega il massiccio prefinanziamento delle grandi produzioni americane da parte di distributori stranieri, una prassi che consente agli studios di coprire tutti i costi prima ancora che sia effettuata una singola ripresa. Anche i film che si rivelano un fallimento al box office americano, come il costosissimo Waterworld (1995) di Kevin Reynolds, compensano facilmente queste perdite grazie ai mercati stranieri e a quelli sussidiari.Il cambiamento più significativo intervenuto nell'oligopolio hollywoodiano dell'ultimo ventennio del Novecento è rappresentato dall'ingresso nella rosa delle otto majors della Walt Disney Company (v. Disney, Walt) e della Dreamworks SKG (Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg e David Geffen). In particolare, la Disney è divenuta forse la più potente casa di produzione cinematografica di Hollywood. Oltre a un numero ristretto di produzioni originali e costose, H. continua come sempre a finanziare, acquistare, distribuire e vendere i film di numerose società indipendenti sia negli Stati Uniti sia nel resto del mondo. Anche i registi americani che preferiscono lavorare al di fuori della sfera di influenza degli studios (come, per es., Spike Lee, Quentin Tarantino, Steven Soderbergh, Oliver Stone, Joel ed Ethan Coen) dipendono in larga misura ancora dalle grandi case di produzione per la distribuzione e il finanziamento dei loro film. Le società capogruppo delle majors hanno acquistato infatti anche le case di produzione e di distribuzione indipendenti di maggior successo negli Stati Uniti, tra cui la Miramax e la New Line Cinema, e hanno creato unità di produzione autonome per conquistare il mercato specializzato dei film indipendenti (per es., la Sony Classics e la Fox's Searchlight).A seguito di questi processi, le caratteristiche di H. sono cambiate radicalmente. Nel periodo aureo dello studio system, si trattava del più potente depositario dei costumi sociali e culturali del mondo occidentale, e influenzava le ambizioni professionali e gli stili di vita, le relazioni tra i sessi, la moda. A partire dagli anni Sessanta, con lo spostamento a sinistra della morale condivisa e l'affermarsi della controcultura rappresentata dalle icone della musica rock, i film prodotti a H. non si sono più proposti di diffondere norme morali e sociali universali, anche se hanno mantenuto comunque voce in capitolo. Il cinema hollywoodiano degli ultimi vent'anni ha privilegiato in misura crescente le tematiche della controcultura: personaggi, storie e stili di vita ai margini dell'esperienza quotidiana della maggioranza degli spettatori; vicende insolite e scioccanti; attività clandestine di comunità urbane e professionali; scenari improbabili nelle terre computerizzate del nuovo e dello spettacolare. I divi di H. e il loro stile di vita sono ancora circonfusi di un glamour che tuttavia non è più enfatizzato nei film come in passato; a ciò provvedono i programmi televisivi dedicati ai film e agli attori di successo. Il cinema hollywoodiano preferisce offrire uno spazio decisamente 'altro', di pura fantasia o proiettato nella dimensione del magico ‒ alla maniera di Spielberg o di Disney ‒ oppure ispirato a esperienze rare nella vita quotidiana, la cui distanza è accolta con crescente favore da un pubblico cinematografico che appare sempre più smaliziato. H., che a partire dalla metà degli anni Settanta si andava ripiegando su un modello di produzione basato sul 'sensazionale' e sulla necessità imprescindibile di cogliere grandi successi, ha raggiunto una forma di paradossale autoreferenzialità: viene persino vista, da registi come David Lynch o Paul Thomas Anderson, come un luogo di deriva e di morte. Un mondo assoluto, quasi astratto e artificiale, segnato da un male emblematico.
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di Enzo Siciliano
H., oltre a essere uno specifico luogo geografico, identifica nell'immaginazione collettiva, per tutti i Paesi del mondo, un mito il cui dato fisico seppure presente è secondario. Quel quadrante della regione di Los Angeles ha perduto i tratti peculiari e anzitutto rappresenta il cinema nell'interezza del suo significato complesso, industria dello spettacolo e arte, appunto la settima arte, dove tutto è facile ma dove tutto è finto, quindi difficilissimo; perciò avventura, bellezza, ma anche talento e maledizione, amore e sesso 'ad alto voltaggio', fortune finanziarie crollate o consolidate in un batter d'occhi. Forse H. è simbolo dell'idea novecentesca di Babilonia, coagulo di ogni disparità, sintesi di impossibili convergenze, e conseguenti esplosioni nella moda, nel costume sociale ordinario. Come Babilonia l'ha illustrata con dovizia di dettagli e stile sprezzante un suo storico postmoderno, Kenneth Anger, anche testimone diretto, attore e regista d'avanguardia, il quale si è proposto di cogliere della vita del luogo, nella spuma evanescente del pettegolezzo, il trascurabile dato materiale da cui dedurre la generalità dei fatti. Così, un mito dai connotati glamour si rivela marchiato di nero, dai rilievi apocalittici. Nel testo di Anger, Hollywood Babylon (1959 e 1984), ci si imbatte in affermazioni che spalancano oltre la patina della seduttività prevedibile segni acri di verità: "Hollywood è un bizzarro posto in cui rivali che si odiano a morte sono costretti a scambiarsi baci appassionati sotto rosolanti riflettori, mentre una schiera di individui indifferenti li osserva con singolare intensità" (trad. it. Hollywood Babilonia II, 2000², p. 149). Si legge qui il doppio registro di senso che il cinema instaura comunque: il dato effettuale, il bacio così come appare sullo schermo, e il possibile dato ipertestuale di pettegolezzo che accompagna sempre il farsi di un film, dal primo ciak al lancio preparatorio e al debutto nelle sale. H. è il nome della cassa di risonanza che dà una cifra all'insieme. E il modo in cui la risonanza si è articolata nel tempo e ha fatto storia.La H. del muto è un luogo di peccato. L'esplosione del suo successo, che è quello del cinema di per sé, accompagna con tinte da melodramma l'esplosione erotica che seguì la Prima guerra mondiale e il tempo successivo. H. non era solo il luogo dove si giravano i film con Roscoe 'Fatty' Arbuckle, ma il luogo dove, fuori set, si consumavano delitti veri a opera di attori. I sopravvissuti, condannati, usciti poi di galera, avrebbero continuato a fare cinema. Cinema, galera e delitto, in quel tempo di eccessi, erano fortemente intrecciati, così da riflettersi non solo sulle pagine dei giornali, ma nel cinema stesso. Un film di James Ivory, The wild party (1975; Party selvaggio) esemplificò, a distanza, in modo esplicito le irregolarità maledette che incorniciavano la vita degli attori del muto in uno schema drammaturgico che incrocia la vicenda di Fatty e alla lontana il noto racconto di A. Moravia Delitto al circolo del tennis (1928).
Di quei set in bilico fra arte e cronaca nera furono celebri sia Charlie Chaplin sia Eric von Stroheim sia Tod Slaughter, e non solo loro, anche secondo un'idealità del tutto decadente, per cui l'arte non può negarsi alle derive morali e dove la vita, in un estremo sacrifi-cio propiziante, non può che spegnere sé stessa. Billy Wilder, con Sunset Boulevard (1950; Viale del tramonto), coinvolgendo alcuni protagonisti del tempo, Gloria Swanson, von Stroheim e DeMille, rappresentò di quel tempo l'impossibile nostalgia iscrivendola in una necessaria cornice di tragedia. Erano anni spietati, dove la fortuna di una star era sottoposta a capricciose violenze produttive, come accadde, per es., a John Gilbert, che, con l'avvento del sonoro, dalla Metro Goldwyn Mayer fu condannato all'anonimia. Della vicenda la stessa H. si occupò tempestivamente in due film: What price Hollywood? (1932; A che prezzo Hollywood?) diretto da George Cukor, e A star is born (1937; È nata una stella) di William A. Wellman.Con la legislazione Hays che regolamentò l'esplicitezza delle allusioni erotiche sullo schermo, applicata dal 1933, e quindi con la guerra degli anni Quaranta, con l'emblematico cinema di Frank Capra (tra i suoi film, uno per tutti, Mr. Smith goes to Washington, 1939, Mr Smith va a Washington), lo stile H. parve cambiare di segno. Già la rivoluzione rooseveltiana aveva portato sullo schermo più evidenti i problemi della società, con scontri dove il melodramma era assorbito nei contorni affettuosi della vita familiare, o con temi il cui sfondo pote-va essere persino l'identità nazionale, come in Grapes of wrath (1940; Furore) di John Ford. H. rappresentò allora lo strumento per affermazioni di vitalità collettiva, strumento di propaganda democratica per il mondo, ma veicolo anche di idiosincrasie piccolo-borghesi. Venne il tempo dei 'bravi ragazzi', che vanno in guerra e magari tornano eroi, e delle ragazze perbene, delle tante 'fidanzate d'America' (da Betty Grable a Deanna Durbin), il cui modello H. aveva già proposto negli anni Venti con Mary Pickford. È il tempo di Mrs. Miniver (1942; La signora Miniver) di William Wyler con il volto malinconico e irreprensibile di Greer Garson.
Ma il tempo sviluppò altrimenti questa visione. Nelle immagini delle brave e dei bravi ragazzi si insinuò un ramo d'ombra pesante. Fra anni Cinquanta e anni Sessanta si aprirono prospettive diverse. James Dean e Marlon Brando, Judy Garland e Marilyn Monroe, nei film, nella vita, nella decadenza fisica, nella morte diventarono emblemi di un maledettismo più radicale, in cui si insinuavano in modo dirompente gli stessi meccanismi produttivi del cinema, la stritolante pressione di un successo per il quale l'esistenza, la più intima, non poteva che essere prefabbricata manifestazione di una impossibile felicità. Ulteriore lato in ombra della fabbrica dei sogni hollywoodiana fu negli anni Cinquanta l'inchiesta dell'HUAC (House Un-American Activities Committee) sulle 'infiltrazioni' comuniste nel mondo del cinema. Una 'caccia alle streghe' delatoria e persecutoria, fedelmente raccontata in Guilty by suspicion (1991; Indiziato di reato) di Irwin Winkler.
Venne il tempo in cui l'immagine, la visione 'cinema' fu ritagliata come un emblema a stretto cortocircuito fra bellezza e tragedia, tra foto da rotocalco patinato e cimitero. L'interprete geniale di tutto questo fu un pittore e cineasta sperimentale, Andy Warhol, con l'immagine replicata di Elizabeth Taylor e di altre dive, siglando nei colori pop ciò che il pubblico già conosceva attraverso i giornali. Warhol è stato indubbiamente l'interprete fecondo di un sentimento latente, non solo americano, per quel che riguardava H. come fabbrica di sogni e illusioni, di bellezza e sciagura. La factory di Warhol era attiva a Manhattan: guardava a H. dalla East Coast con occhio critico e insieme incantato. In questa ambivalenza venne centrato il senso di un mito inesauribile quanto ad ambiguità.Il cinema stesso proseguì poi nel raccontarsi quella vicenda drammatica dove i più disparati elementi andavano a corrodere la vernice splendente del successo e del sogno. Ci aveva provato Francis Scott Fitzgerald, la cui fallimentare esperienza a H. come sceneggiatore era stata materia del romanzo che lasciò postumo e che, incompiuto, fu pubblicato nel 1941, The last tycoon (trad. it. Gli ultimi fuochi, 1959: nel 1976 Elia Kazan, ne ricavò, con il medesimo titolo, un film sceneggiato da H. Pinter). Su quella scia, che individuava il duro conflitto fra apparato produttivo e ispirazione artistica sempre latente negli studios, e che esplose virulento negli anni Settanta e quindi negli Ottanta, va iscritto un film come The player (1992; I protagonisti) di Robert Altman di una ferocia e di una perfidia rare nell'inscenare la commedia umana che si muove dietro le quinte della fabbrica delle illusioni, di una H. al tramonto il cui mito risulta appannato e intristito nelle ansie di successo, nel cinismo mercantile, nelle miserie dei giochi di potere, nell'inane spettacolo delle finzioni.
Proprio sperimentando quanto accadeva, K. Anger poté guardare allora all'intera storia del mito, la cui dominante tragica divorava ogni altro aspetto. Ed ecco anche film come S.O.B. (1981) di Blake Edwards, che compone un ritratto acido e sarcastico, e non teme l'evidenza della volgarità, del sottobosco hollywoodiano all'alba dei cinici ed edonisti anni Ottanta; o come Gods and monsters (1998; Demoni e dei) di Bill Condon, con la rievocazione degli ultimi anni di vita di James Whale, il regista di Frankenstein, nell'atmosfera nevrotica e crepuscolare della H. della fine degli anni Cinquanta. Opere dove si torna a inscenare l'effimero della bellezza e la determinante connotazione di merce che l'infesta in modo peculiare sotto il cielo del cinema. In tempi più vicini un altro volto di H. ha preso il campo: H. come industria del porno, della compravendita del corpo e della infelicità conseguente, scrutata per es. con una camera impostata su biblici colori dal cinema di Paul Thomas Anderson, in Boogie nights (1997; Boogie nights ‒ L'altra Hollywood); oppure luogo di specchi e incubi, allucinazione intrisa di pulsioni di morte e angoscia erotica nelle inquietanti e ambigue visioni di Mulholland drive (2001) di David Lynch. H., mito proteiforme, non conosce il blocco del fotogramma o l'arresto del tempo.