idealismo
Il termine idealismo (o anche ideismo) cominciò a essere usato dai filosofi propriamente tra la fine del sec. 17° e il principio del 18°, con significato analogo a quello che allora aveva assunto, in forza delle dottrine empiristiche inglesi e particolarmente poi di quelle di Berkeley, il termine originario idea (➔). «Idealisti» furono perciò detti gli gnoseologi soggettivisti, che risolvevano l’esse delle cose nel percipi sensibile: «idealistae dicuntur qui nonnisi idealem corporum in animis nostris existentiam concedunt adeoque realem mundi et corporum existentiam negant», asseriva Wolff. E tale rimase sempre il senso più immediato posseduto dal termine, sul terreno propriamente filosofico. Ma come il significato di cui era passibile l’originario termine idea era assai più vasto e molteplice di quello, singolarmente determinato in una manifestazione storica da cui era derivato il termine i., anche questo raggiunse a poco a poco un’analoga ampiezza di significato, giungendo a connotare qualsiasi filosofia che ponesse il fondamento del tutto in una realtà ideale, comunque considerata e comunque messa in rapporto con la realtà non ideale, o senz’altro posta come realtà unica. Si è così potuto, e si può, parlare di un i. greco, per es. di Protagora e degli scettici, in un senso, e di Socrate e di Platone e dei neoplatonici, in un altro senso, e studiare come questo i. abbia contrastato, con fortuna alterna, l’opposto realismo, nell’antichità stessa e poi, attraverso il Medioevo, fino ai primi tempi dell’età moderna. Ma è chiaro che, in tutti questi casi, s’intende segnalare, in quei tempi e in quei sistemi, il vario esistere e atteggiarsi di motivi che oggi definiremmo idealistici, e non già di ricostruire una tradizione, onde gli antichi stessi designassero in tal modo le loro dottrine e le proseguissero o modificassero in funzione di tale categoria di giudizio: come del resto appare evidente anche soltanto considerando la formazione linguistica del termine, che se è esteriormente greco nel suo suffisso finale, nell’aggettivo che tale suffisso sorregge tradisce la sua posteriorità a quel Medioevo latino che coniò l’attributo idealis sull’assorbito termine greco di idea.
La storia vera e propria del termine comincia dunque nel sec. 18°. Kant non poteva ammettere l’«i. soggettivo» di Berkeley: ma gli oppose a sua volta un «i. trascendentale», che giustificava la posizione d’una sfera dell’idealità a fianco di quella della realtà, mostrando come il contenuto oggettivo, noumenico, costituito dalla «cosa in sé» si conformasse di fronte al pensiero in funzione delle forme e categorie ideali, senza cui la stessa esperienza conoscitiva non sarebbe stata possibile. Un carattere anche più singolare aveva poi l’i. kantiano in quanto dottrina delle «idee» o degli «ideali», considerati come concetti della ragione non costitutivi ma regolativi dell’esperienza intellettuale, termini ultimi che non si sarebbero mai potuti raggiungere ma a cui si doveva tuttavia sempre mirare. E fu principalmente quest’uso kantiano che provocò la fortuna del termine nel senso di massimo fine della conoscenza, del vagheggiamento estetico e dell’azione pratica e morale: senso che veniva così, del resto, a continuare e integrare quello già compreso nell’originario termine platonico di «idea», come perfetto modello dell’empirico.
Questo parziale idealismo di Kant fu reso totale dai suoi grandi successori, Fichte, Schelling e Hegel, che insieme con i molti seguaci ed epigoni giunsero in vario modo a risolvere l’intera realtà nell’ideale sfera del pensiero, che la generava nella sua stessa evoluzione dialettica, e così condussero all’i. assoluto (perché appunto assumeva di non ammettere più in sé alcun residuo di realismo) od oggettivo (perché non più riferente l’intuizione del tutto all’attività conoscitiva del singolo soggetto, preso in considerazione dall’i. soggettivo). E anche il maggiore dei pensatori che alla scuola dell’i. postkantiano acerbamente si opposero, Schopenhauer, era nella sostanza un idealista, che tutta la realtà risolveva nella rappresentazione conoscitiva della originaria e universale volontà. D’altra parte, caratteristico fu che proprio dagli ultimi sviluppi di questo i. assoluto derivasse quell’inversione della dottrina, che da essa generò il materialismo (o, in forma più tenue e cauta, il positivismo): giacché dalla sinistra hegeliana muovevano quei pensatori che, come Marx, Engels e Lassalle, tradussero il dialettismo genetico dell’i. in un evoluzionismo naturalistico, condannando ogni spiegazione delle cose che non si riferisse nudamente alle ferree leggi della natura.