Idealismo
di Vittorio Mathieu
Idealismo
sommario: 1. Introduzione. 2. Il trascendentalismo. 3. Lo ‛gnoseologismo'. 4. L'apporto romantico. 5. L'idealismo rovesciato. 6. Il ‛significato interno' delle idee. 7. L'idealismo personalistico. 8. L'idealismo storicistico. 9. L'idealismo gnostico. 10. Idealismo cristiano e ontologismo critico. 11. La mente come esempio di unità concreta. 12. L'antitesi tra idealismo e meccanicismo. 13. L'idealismo nella nuova scienza. 14. Fondamento antropomorfico dell'idealismo e del meccanicismo. 15. L'idealismo in fisica e in matematica. 16. L'idealismo in psicologia, in sociologia, nell'informatica. 17. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Sulle dottrine che si qualificavano espressamente come ‛idealistiche' all'inizio del nostro secolo gravava una pesante ipoteca: la fortuna che, nel corso dell'Ottocento, aveva avuto l'idealismo classico tedesco della linea Fichte-Schelling-Hegel; più esattamente, la fortuna che aveva avuto l'interpretazione hegeliana di tale vicenda, da cui tanta parte della filosofia, non solo dell'ultimo Schelling, ma anche del secondo Fichte restava esclusa. Dell'idealismo Hegel era, se non l'unico maestro, certo il punto di riferimento obbligato. Altre dottrine, di tutt'altro stampo, si erano professate idealiste nel corso dell'Ottocento, a cominciare da quella di Schopenhauer che, rimasta oscura al tempo del suo apparire, era divenuta una guida spirituale (più o meno correttamente interpretata) per tanta parte del pubblico europeo anche non specializzato nella seconda metà del secolo. ‛Idealista teologico' si era qualificato anche R. H. Lotze (1817-1881) che, riconoscendo la necessità di un'impostazione essenzialmente meccanicistica per la scienza, aveva tuttavia combattuto la positivistica ‟deificazione della verità scientifica", ancorando l'intero meccanismo del mondo a un principio originario non meccanico. E il Lotze influì a sua volta profondamente sull'idealismo del Novecento, soprattutto anglosassone, anche se la sua influenza rimase ristretta agli specialisti. Ma, nonostante queste e altre forme non hegeliane di idealismo, dirsi ‛idealista' al principio del secolo significava, quasi dappertutto, riferirsi a Hegel, pur con ogni libertà d'interpretazione.
Oltre a ciò, il rinnovato idealismo novecentesco riceveva una determinazione particolare dal fatto di contrapporsi al positivismo: essere hegeliani significava, infatti, prendere posizione contro il positivismo che dominava in quel momento la scena filosofica. Questa intenzione rischiava di restringere il senso dell'idealismo professato a una funzione storica contingente, destinata a esaurirsi quando il termine di riferimento polemico avesse perso importanza. Di conseguenza, se ci limitassimo a esaminare l'idealismo nell'ambito della filosofia tecnica e, per di più, dall'interno della sua stessa problematica, otterremmo una visione sfocata del suo significato e un concetto mutilo della sua importanza. E saremmo portati a concludere che l'idealismo del nostro secolo ha un'importanza esclusivamente storica, di cui, nella filosofia militante d'oggi, non si sente quasi più la presenza.
La situazione appare diversa se, in primo luogo, delle dottrine idealistiche si cercano i motivi profondi, anche non dichiarati, che danno ad esse un senso che non coincide necessariamente con quello in cui erano intese all'interno del dibattito con i contemporanei; e se, in secondo luogo, non ci si limita a considerare la filosofia tecnica che si professa idealista, ma si va in cerca dell'idealismo in tutte le sue forme, anche all'infuori della filosofia: nella scienza, per esempio. Allora diviene possibile liberare l'idealismo novecentesco dal suo condizionamento storico e trovargli un significato che va al di là della funzione che ebbe nel clima culturale in cui operava: diviene possibile cercare, insomma, attraverso l'idealismo novecentesco, i tratti di una posizione di pensiero che ha una propria ragion d'essere in qualsiasi epoca e qualunque sia l'etichetta sotto cui si presenta. A tal fine, che la parabola dell'idealismo novecentesco oggi possa considerarsi conclusa rappresenta un vantaggio: il significato può essere visto, ormai, al di sopra della vicenda contingente a cui si lega.
L'esposizione si articolerà, quindi, in due parti: nella prima (v. capp. 2-10), si analizzerà la genesi e lo sviluppo delle filosofie che nel Novecento hanno assunto la qualifica di idealistiche, e se ne rintracceranno i motivi profondi, anche se non del tutto dichiarati; nella seconda (v. capp. 11-17) si cercheranno le ragioni costanti di una posizione idealistica non ristretta alla filosofia tecnica e a ciò che di essa si qualifica ufficialmente come idealismo, e si tenterà di riconoscere l'essenza dell'idealismo come tale.
2. Il trascendentalismo
La fortuna del termine ‛idealismo' nella filosofia contemporanea è legata a Kant e all'uso che Kant aveva fatto della parola. Egli aveva qualificato come ‛idealismo trascendentale' la dottrina da lui professata nel periodo ‛critico', e anche dopo di lui tale locuzione fu usata più d'una volta - sebbene in sensi molto variabili - per distinguere le nuove dottrine idealistiche da forme d'idealismo precedenti: non tanto dall'idealismo platonico, la cui tradizione persisteva bensì, ma trasformata e trasfusa, quanto piuttosto dall'idealismo berkeleiano o pseudoberkeleiano, che aveva quasi monopolizzato il significato di ‛idealismo' nel Settecento. Ciò non toglie che l'aggettivo ‛trascendentale' servisse a specificare, in coloro che se lo attribuivano, idealismi diversissimi (per esempio, in Kant e in Schelling), e che altri, principalmente lo Hegel, considerasse come idealismo genuino solo una dottrina addirittura antitetica all'idealismo trascendentale di Kant. Come si spiega, allora, che una linea di pensiero idealistico che si rifà a Kant si prolunghi ancora nel nostro secolo, e che questa linea passi attraverso Hegel, che del trascendentalismo kantiano era stato un fiero nemico? La ragione è duplice. In primo luogo persisteva il bisogno di distinguersi da un idealismo ‛empirico' come quello, in un primo tempo, di Berkeley, Collier, Lichtenberg, e poi da varie forme di idealismo semplicemente psicologico: tale, cioè, che riduce la realtà oggettiva delle cose a una rappresentazione o stato di coscienza del soggetto singolo. Questa difesa contro l'idealismo empirico, anche se condotta per vie diverse e perfino contrastanti, accomuna tutti gli idealisti della linea ‛trascendentale', compreso lo Hegel. In secondo luogo - appunto perché l'impostazione storiografica di Hegel era accettata anche da coloro che non condividevano il suo pensiero su nessun altro punto - riusciva spontaneo vedere nella storia della filosofia uno sviluppo continuo e dialettico insieme, cioè fatto di tesi e antitesi successive: sicché, da un lato non si aveva difficoltà a identificare la linea dell'idealismo trascendentale con lo sviluppo necessario della filosofia, dall'altro a far passare questa linea attraverso posizioni dialetticamente contrastanti tra loro.
Vi è, poi, un carattere formale, ma non per questo meno profondo, che accomuna tutte queste forme di idealismo: l'intera corrente è legata da un comune ‛modo di far filosofia' che possiamo qualificare come ‛scolastico', nel significato letterale della parola: di una filosofia professata nelle scuole o, in altri termini, nelle università. Questo carattere professionale condiziona il modo di esprimersi dell'intera corrente e, quindi, anche il suo modo di pensare, di contro a qualsiasi filosofia non professionale. Schopenhauer, per esempio, nonostante che per parte sua si richiamasse non solo a Platone, ma anche a Kant, si sentiva escluso per mentalità, ancor prima che per le vicende biografiche, da un tal tipo di filosofia, e con molta acutezza ne colse l'incompatibilità contrapponendo al proprio l'idealismo ufficiale come ‛filosofia delle università'. Il modo scolastico di costruire la filosofia non è legato a nessun contenuto, tanto che travalica i secoli, connettendo le filosofie ‛scolastiche' sette-ottocentesche, che hanno il loro centro di diffusione nelle università tedesche, addirittura alla scolastica medievale. Il conservarsi di termini medievali, nonostante che il loro significato muti radicalmente, ne è un indizio caratteristico. Lo stesso termine ‛trascendentale' può servire da esempio, pur nel mutare continuo dei suoi significati. Senza dubbio, se è arduo trovare un'affinità di significato tra il trascendentale di Kant e quello di Schelling, per legare il significato kantiano della parola all'originale scolastico occorrono quasi dei virtuosismi. Ma non è tanto questo ciò che conta, quanto il ‛modo di adoperare' la parola: un modo tutto tecnico, gergale, che, a chi non è addentro, sembra slegato dalla concretezza dell'esperienza. Questo linguaggio chiuso non si trova nei filosofi non scolastici neppure quando questi (come Schopenhauer) adoperino occasionalmente questo o quel termine della filosofia universitaria.
L'idealismo del Novecento dunque - almeno l'idealismo ‛ufficiale' - si lega a una tradizione filosofica universitaria che ne condiziona il modo di esprimersi e di pensare. Ciò avviene perfino in uno scrittore come il Croce che pure, professionalmente, vive lontano dall'università: avviene, cioè, per il solo fatto di appartenere a quella corrente. E questo legame linguistico con la scolastica settecentesca è il segno esteriore, ma non estrinseco, di quanto tale corrente sia condizionata da Kant. Questi, pur attestandosi su posizioni ben diverse da quelle dei suoi colleghi, aveva speso tutta la vita insegnando ex cathedra e adoperando come testi da commentare le opere di Baumgarten, di Crusius, di Tetens e anche di Wolff: cioè appunto dei filosofi che, in contrapposto al contemporaneo ‛illuminismo mondano', formano quello che si suol chiamare l'‛illuminismo scolastico'. Il suo pensiero si era modellato su quel modo di espressione, e il suo successo lo trasmise ai posteri, anche se questi battevano altre strade. L'uso stesso del latino avvicinava alle antiche forme codesti professori, anche se novatori nei contenuti, e lo stile scolastico non fu più sradicato neppure quando, col romanticismo, si cessò di pensare (oltre che di scrivere) in latino e di ricalcare sul latino la terminologia germanica.
Conseguenza di ciò è che, al lettore non iniziato, le opere degli idealisti contemporanei appaiono scritte in un linguaggio cifrato. A volte esse restano incomprese perfino dagli addetti ai lavori e, in ogni caso, sono molto più difficili di quelle dei classici prewolffiani. La filosofia moderna, che era nata fuori delle scuole e contro di esse - e su questa linea aveva proseguito, in Inghilterra e in Francia, anche nel Settecento - con l'illuminismo scolastico tedesco era ridiventata filosofia universitaria, e l'idealismo contemporaneo risente ancora di tale restaurazione. Poiché, per di più, là dove l'idealismo domina la scena, prevale la tendenza a identificarlo con l'intera filosofia, nei paesi dove l'idealismo ebbe più larga fortuna (quali la Germania e l'Italia) il gergo scolastico assunse una sorta di esemplarità anche presso coloro che non riconoscevano all'idealismo una preminenza speculativa, col risultato di estraniare a queste ricerche coloro che non sono disposti a penetrarne il cifrario. Ciò accresce la necessità di un'esegesi che renda accessibile l'idealismo novecentesco al di sotto della sua veste professionale.
3. Lo ‛gnoseologismo'
Un'altra caratteristica dell'idealismo contemporaneo è il suo ‛gnoseologismo', che consiste nel ricondurre i problemi essenziali della filosofia al problema del conoscere. L'idealismo è una dottrina della realtà, non una teoria di come si giunga a conoscerla: ma il modo in cui esso affronta il problema della realtà è egualmente ‛gnoseologistico', sia per ragioni positive, sia per ragioni polemiche. L'origine kantiana, anche in ciò, è determinante. Kant aveva fondato la possibilità di un conoscere avente valore di scienza, universale e necessaria, sull'ipotesi che l'oggetto conosciuto sia condizionato dal nostro modo di conoscerlo: non dal modo dell'individuo singolo, ma da quello della mente finita in generale. In ciò consiste appunto il suo ‛trascendentalismo'. Di conseguenza la realtà - non la realtà in sé, ma la realtà quale ci risulta nell'esperienza - viene ad essere un ‛fenomeno', un ‛apparire': dotato di caratteri oggettivi, bensì, cioè validi per tutti, ma non indipendenti dal modo di pensare della mente finita in generale. Questa dipendenza dell'essere dal pensare rimane in tutto l'idealismo, pur trasponendosi su un piano tutto diverso: perché nell'idealismo essa condiziona una realtà non più fenomenica soltanto, ma assoluta. Per Kant l'oggetto dipende dal ‛modo' di pensare, dunque è condizionato solo nel ‛modo' del suo apparire, cioè per la ‛forma': nell'idealismo successivo, al contrario, il pensiero condiziona non più l'apparire, ma l'essere in quanto essere; e non ne condiziona solo la forma, ma la realtà. Hegel portò all'estremo, anche su questo punto, la polemica contro Kant e contro la sua distinzione tra il ‛vero' essere e l'‛essere per noi' dell'esperienza; e anche l'idealismo successivo conserva una portata metafisica, non solo gnoseologica. Poiché, tuttavia, l'essere rimane dipendente dal pensiero, e non viceversa (sia pure dal pensiero in generale, non da quello del singolo), la metafisica tradizionale, per cui il pensiero deve, al contrario, riconoscere l'essere, rimane esclusa una volta di più. Conoscere e pensare, pur assumendo un significato ben lontano da quello che avevano in Kant, rimangono un primum rispetto a ogni considerazione dell'essere, e la via per affrontare il problema ultimo della filosofia rimane pur sempre ‛gnoseologistica', sebbene quel problema non sia punto il problema gnoseologico: un diverso accostamento, ‛ontologico', al problema ultimo ci riporterebbe alle impasses della metafisica tradizionale.
Salvo che negativamente, per l'esclusione della metafisica (tradizionale), l'interesse fondamentale dell'idealismo non coincide, dunque, con quello di Kant. Del resto perfino in Kant la riflessione sul conoscere voleva semplicemente servire di strumento alla fondazione di una nuova metafisica dell'esperienza, esente dalle difficoltà della metafisica tradizionale. Fare della filosofia, essenzialmente, una teoria del conoscere era una tradizione soprattutto britannica: la mentalità tedesca inclinava, per contro, alla metafisica, e l'idealismo, anche se di metafisica non vuol più sentir parlare, non si accontenta di sapere come conosciamo: vuol sapere come sia fatto l'Assoluto. E, anche se nel nuovo idealismo angloamericano, conformemente alla tradizione britannica, gli interessi gnoseologici torneranno in primo piano, pure, anche lì, saran presenti sempre in funzione del problema di ‛come sia l'Assoluto'.
4. L'apporto romantico
La rivelazione dell'Assoluto è l'aspirazione di tutto l'idealismo postkantiano, in contrasto con Kant; ed è un'aspirazione tipica del romanticismo. L'Inghilterra, che diviene la patria del nuovo idealismo, già nel corso dell'Ottocento aveva associato l'interesse per l'idealismo a quello per il germanesimo in generale, e per quell'espressione tipica del germanesimo che era il romanticismo. Il centro d'irradiamento dell'idealismo anglosassone fu il Balliol College di Oxford, dove l'interesse per le dottrine idealistiche (spregiate come fantasticherie dal positivismo) fu importato da un professore di letteratura greca, B. Jowett: e anche questo è caratteristico, perché la Germania era la patria del culto ‛romantico' per la classicità. Classica, per il romantico, è la forma immediatamente rivelativa dell'Assoluto; e questa forma può consistere così nella bellezza sensibile come nella verità di un pensiero. La Grecia ci aveva dato la prima di queste ‛rivelazioni', Hegel s'incaricò di darci la seconda. Non c'inganni il fatto che Hegel si presentava come antiromantico, come oppositore di ogni filosofia del sentimento e dell'immediatezza: egli faceva ciò solo per essere romantico su un piano più profondo. Nel sistema totale delle mediazioni razionali, che il sistema hegeliano ci presenta, l'Assoluto si manifesta pur sempre, infatti, ‛immediatamente'. L'interesse per il romanticismo e per una visione romantica della classicità si associava, dunque, al rinnovato interesse per Hegel.
Se, però, si scende ai problemi tecnici e ai particolari, la fedeltà a Hegel appare tutt'altro che grande, anche in quegli idealisti anglosassoni (e poi italiani) che si sogliono chiamare ‛neohegeliani'. In Inghilterra l'avvio fu dato da un non-universitario, lo Stirling, con The secret of Hegel (1865). Egli voleva riportare Hegel a Kant, e rivelava in modo caratteristico quegli interessi gnoseologici che erano sempre stati tipici del pensiero britannico. Poi vi furono, su Hegel, i lavori esegetici di W. Wallace (1874), di E. Caird (1883), di A. Seth (1887). Ma l'opera che sullo spirare dell'Ottocento (1893) ripropose l'idealismo al nuovo secolo fu un'opera originale e geniale, Appearance and reality, di F. H. Bradley (1846-1924), dove di hegeliano c'è ben poco, tranne l'idea dell'Assoluto.
Anzitutto il Bradley dichiara di non essere in grado di presentare una filosofia sistematica (v. Bradley, 18972, p. IX, p. 553 e passim), mentre per Hegel solo il sistema è filosofia. In secondo luogo egli afferma ripetutamente di non riuscire a capire bene lo Hegel: e questo è un modo molto inglese per respingerne le asserzioni. La verità è che il Bradley può, semmai, dirsi uno hegeliano a rovescio, poiché il suo idealismo consiste nel dirci che la mediazione razionale non può rappresentare il modo in cui l'Assoluto è: essa rappresenta un'apparenza di Assoluto, che non è certamente la sua realtà. La mediazione si svilupperebbe, infatti, attraverso relazioni; ma il Bradley mostra con zenoniana pertinacia che tutte le relazioni, di qualsiasi specie e comunque pensate, sono inconsistent, nel doppio significato inglese della parola: cioè appartengono al mondo dell'‛apparenza' e non della realtà, perché sono ‛contraddittorie'. Ciò esclude che l'Assoluto possa rivelarsi nel sistema delle relazioni e che la dialettica costituisca il veicolo ditale rivelazione. Come si vede, la contraddizione è interpretata da Bradley come un segno di apparenza, non di realtà, sicché il suo pensiero non può essere né dialettico, né sistematico (visto che tutte le relazioni sono ‛apparenza'): in altri termini, non può essere ‛razionale', nel senso hegeliano della parola.
5. L'idealismo rovesciato
Ma in Bradley vi è pur sempre uno hegelismo a rovescio, perché l'insieme delle relazioni, dicendoci come l'Assoluto non può essere, ci dice indirettamente come l'Assoluto è: un Tutto ‛non' relazionale, in cui l'intera realtà è compresa. Quanto più una forma è unitaria e comprensiva senza essere relazionale, tanto più essa si avvicina al modo d'essere dell'Assoluto. Questa dottrina bradleiana dei ‛gradi di verità' (o di ‛realtà': per lui è lo stesso) non regge, se si guarda attentamente alle critiche che le furono mosse: ma ciò non toglie che l'idealismo ‛scettico' del Bradley (dove tutto è rovesciato rispetto a un idealismo positivo, al punto che ‛idealità' qui significa separazione del what dal that, cioè dell'essenza dall'esistenza, e quindi l'inverso della ‛realtà', dove that e what coincidono) sia pur sempre la romantica ricerca di una rivelazione immediata dell'Assoluto, condotta per via negativa. Negativa, quanto meno, rispetto all'attività del ‛ragionare' e quindi del ‛giudicare' che è un mettere in relazione. I suggerimenti positivi in direzione dell'Assoluto sono cercati, per contro, nell'esperienza etica o estetica, che ci offre esempi di realtà unitarie sempre più ricche e comprensive. B. Bosanquet (1848-1923), particolarmente nella sua estetica (v. Bosanquet, 1915), svilupperà questi suggerimenti.
Nei primi anni del secolo l'idealismo segue la traccia segnata dal Bradley: vuoi per consentire, come fa H. H. Joachim (1868-1938) in The nature of truth (1906), vuoi per cercar di sfuggire alle sue implacabili critiche contro la pensabilità di ogni relazione, come fa in America J. Royce. Il corollario che il Joachim trae dalla concezione bradleiana della realtà è il seguente: è impossibile che tra due termini qualsiasi corra una relazione puramente ‛esterna', tale cioè che, presupponendo i termini relati, li lasci tali quali erano prima di entrare in relazione. Questo basta a escludere che la verità sia ‛corrispondenza' a una realtà data: perché, allora, la realtà sarebbe appunto identica dentro e fuori della relazione conoscitiva. Fedele allo ‛scetticismo' del maestro, il Joachim accumula difficoltà anche sull'altro concetto di verità, da lui preferito, la verità come ‛coerenza'. Ma, in sostanza, è chiaro che per lui, come per Bradley e per Hegel, la verità è ‛l'intero', cioè l'Assoluto nella sua totalità: appunto perciò la verità non può essere guardata dall'esterno, come oggetto della relazione cognitiva. Sintomatiche le discussioni in cui il Joachim si trovò coinvolto con alcuni filosofi di opposta tendenza circa la concepibilità di relazioni esterne: il realismo non trova difficoltà nell'ammettere che due cose, ciascuna ben definita per conto suo, entrino in relazione tra loro senza che nulla muti perciò al loro interno, o almeno che esse siano così pensate dalla mente. In verità, come vedremo, su questo punto entrano direttamente in contrasto le supposizioni fondamentali dell'idealismo e della dottrina che a esso direttamente si contrappone.
6. Il ‛significato interno' delle idee
J. Royce (1855-1916) rispose alle difficoltà sollevate dal Bradley in un saggio ‛complementare' a The world and the individual (1900-1901), intitolato The one, the many and the infinite. Per mostrare l'‛inconsistenza' delle relazioni, Bradley aveva osservato come, per pensarle, si fosse costretti a entrare in un processo all'infinito: ciò che stabilisce la relazione tra due termini dev'essere, a sua volta, posto in relazione con ciascuno dei due, ecc. Royce risponde che il processo all'infinito, ‛interno' al pensiero, è il carattere stesso dell'Assoluto; e che, quindi, quella che il Bradley scambia per una difficoltà è una caratteristica positiva. Per esemplificare, Royce ricorre al ‛sistema autorappresentativo', di cui il matematico J. W. R. Dedekind si era servito, appunto, per definire positivamente l'infinito. Autorappresentativo è un sistema che contiene, all'interno di sé, la rappresentazione di se stesso, come accadrebbe se si disegnasse una carta geografica perfetta del paese in cui la carta si trova: essa conterrebbe, nel punto esatto, un'immagine di sé con un'altra rappresentazione del paese, e così via, all'infinito. Royce ammette, tuttavia, che questo esempio, e gli altri fatti sui numeri, non offrono che ‟le aride ossa di un museo dell'ordine": la vera realtà dell'Assoluto è piuttosto quella di un ‟Io ideale", di cui il sistema autorappresentativo astratto non è che ‟il nudo scheletro". E anche in ciò Royce contrasta lo scetticismo di Bradley: per Bradley, infatti, la persona non offre un'immagine soddisfacente dell'Assoluto, perché è necessariamente finita, ed ‛esclude' da sé qualcosa. Ma Royce oppone che la persona esclude da sé ciò che ‛taglia via' da sé, con libera decisione; e questo non la limita, poiché le possibilità respinte o ‛tagliate via' sono concrete solo all'interno della volontà cosciente che le esclude: fuori, non sono che un'astrazione (altrimenti dovremmo pensare, ad esempio, che Dio sia limitato solo perché non crea tutto il possibile che, pure, pensa).
Queste analisi sono utili per mostrarci in che senso l'idealismo si serva del modello della ‛mente': si serve, per forza di cose, della mente umana, l'unica che conosciamo, tuttavia tenta di prescindere dai suoi limiti, per considerarla in ciò che ha d'infinito. Il modello serve da esempio, è come un vettore che ci indica, sia pure con certe riserve, la direzione in cui cercare la realtà come Assoluto. L'idealismo non sostiene, almeno in queste forme che andiamo esaminando, l'inerenza degli oggetti reali alla mente particolare che li conosce: sostiene l'inerenza di ‛ogni' molteplicità esistente all'unica realtà assoluta. Se, a volte, esso concepisce la realtà dell'Assoluto sul modello di una mente pensante, ciò accade perché solo nella mente pensante si trova un'infinità di particolari tutti ‛interni' all'unità concreta, senza che la loro varietà sia annullata, ma anche senza che sia dispersa, come è dispersa la varietà delle determinazioni reali nello spazio.
Un'applicazione importante di ciò è offerta dal Royce nel campo della ‛semantica', con la dottrina del ‛significato interno' delle idee, fondamento del loro significato esterno. Questa dottrina si può sintetizzare dicendo che il significato (meaning) di un'idea è la sua intenzione: e ciò si spiega assai bene tenendo presenti sia il significato dell'inglese to mean, sia quello scolastico di intentio. Ciò che l'idea significa può essere bensì, da ultimo, un fatto, un oggetto esterno a cui l'idea corrisponde: ma l'idea ‟va in cerca del suo fatto", non si modella passivamente su di esso. La prova della corrispondenza di un'idea al suo oggetto non può essere cercata, invero, se non in rapporto allo scopo che l'idea stessa contiene: noi non potremmo giudicarla falsa o sbagliata se non commisurandola a ciò di cui va in cerca, a ciò che ‛vuol dire'. Ora, cercando il proprio oggetto, l'idea non cerca altro che la propria determinazione esplicita come ‛intenzione consapevole' (come quando cerchiamo, per esempio, di esplicitare un determinato motivo musicale, che ‛abbiamo in mente'): quindi essa trova il proprio significato nella misura in cui si realizza.
Con ciò, di nuovo, il Royce risponde allo scetticismo del Bradley, secondo cui, come abbiamo visto, l'‛ideale' è esattamente il contrario della realtà: è la perenne inadeguatezza del what al that, dell'essenza all'esistenza. Il disaccordo, tuttavia, è più apparente che effettivo: al limite, per entrambi gli idealisti l'Idea è l'Idea assoluta, che coincide con la realtà. La differenza è che verso questo limite il Royce muove positivamente, mentre il Bradley preferisce indicarcelo per via indiretta. Più tardi, il Royce cercherà ancora altri sostegni alla sua speranza di trovare un immagine umana dell'Assoluto: per esempio nel rapporto tra assicuratore, assicurato e beneficiario, e simili (v. Royce, 1914 e 1916).
7. L'idealismo personalistico
Per altri idealisti anglosassoni la persona, anche umana, è qualcosa di più che un modello finito dell'Assoluto: è una realtà irriducibile essa stessa. Questo assunto è rivendicato da alcuni ‛contro' lo Hegel - per esempio da A. Seth (1856-1931) - da altri, come J. E. McTaggart (1866-1925), attraverso una reinterpretazione di Hegel medesimo la quale, però, ne inflette molto diversamente i concetti (v. Seth, 1887; v. McTaggart, 1901). Contro l'idealismo monistico il McTaggart sostiene che ‟la realtà è costituita da centri immediati, legati mediatamente da relazioni" (ibid., È 299): due aspetti di una medesima realtà, non due realtà diverse, anche se il linguaggio ci obbliga a esprimerci come se lo fossero. E l'immagine di una siffatta unità è cercata dal McTaggart nell'amore: una relazione che coincide con le volontà che unisce, pur conservandole nella loro indipendenza (ibid., È 310).
Il manifesto dell'idealismo inglese antimonistico è rappresentato dal volume collettivo Personal idealism, edito nel 1902 da H. C. Sturt (1863-1943): un autore che scese poi personalmente in campo contro la scuola di Oxford in Idola theatri (1906), e cercò di ricondurre la gnoseologia a un'indagine dei concreti processi conoscitivi della persona in The principles of understanding (1915). Da ultimo, l'interesse dei pensatori di questa corrente, compreso lo Sturt, si manifesta come un interesse etico. W. R. Sorley (1855-1935) cerca un'armonizzazione dell'ordine della natura con l'ordine morale concependo l'universo non come un ordine impersonale, bensì come una suprema Mens (v. Sorley, 1918). H. Rashdall (1858-1924) per salvare le persone finite giunge a sacrificare l'infinità di Dio (v. Rashdall, 1902 e 1907). Per lui l'idealismo consiste essenzialmente, come per Berkeley, nel negare l'esistenza di una materia indipendente dagli spiriti. Né si scosta molto da ciò il moralista J. S. Mackenzie (1860-1935), secondo cui il male si spiega con la natura spirituale e progressiva dell'universo, che avanza bensì verso un'assoluta unità, ma è un processo non ancora del tutto compiuto (v. Mackenzie, 1902). J. B. Baillie (1872-1940), uscendo dall'idealismo monistico passò all'idealismo personalistico (v. Baillie, 1906 e 1921) sotto l'urto della prima guerra mondiale: il soggetto dell'esperienza diviene ora l'uomo singolo, che ‛realizza' il mondo nel senso inglese di ‛realizzare': concretare e rendersi conto.
Un analogo movimento dallo gnoseologismo verso i problemi della persona si nota nell'idealismo francese. Questo aveva con Hegel un rapporto ben più vago di quello dell'idealismo anglosassone. La sua radice tedesca, se pur c'era, era piuttosto Kant, filtrato attraverso il fenomenismo di C. B. Renouvier (1815-1903) e lo studio sul fondamento dell'induzione di J. Lachelier (1834-1918). Lo scolaro del Renouvier, O. Hamelin (1856-1907), anche se si richiama a Hegel nel tentativo di ricostruire il processo di autoposizione dell'Assoluto (v. Hamelin, 1907), si mostra tutt'altro che hegeliano nel presentare il proprio saggio come ‟una semplice illustrazione del metodo proposto, anziché come l'autocoscienza dell'Assoluto medesimo". In realtà il ‛metodo sintetico' dell'Hamelin ha lo scopo di mostrare che, conoscendo il determinismo cosmico - fondato sulla ‛correlazione' logica, non su una necessità meccanica - l'uomo può divenirne padrone e raggiungere il proprio fine, che è ‟il pieno e intero dispiegamento della persona umana". Nel maggiore scolaro dell'Hamelin, R. Le Senne (1882-1954), il personalismo diviene esplicito: l'uomo è legato, bensì, all'unico Assoluto, il ‛valore', ma vive in una sfera esistenziale dove, insieme con la particolarità, si manifesta l'imperfezione e l'ostacolo (v. Le Senne, 1934).
8. L'idealismo storicistico
Se per l'aspetto etico tende a divenire, in Francia e in Inghilterra, una filosofia dei valori, nelle sue radici metafisiche l'idealismo novecentesco continua ad aderire al problema del Parmenide di Platone: come conciliare in una veduta unitaria la prospettiva (parmenidea) dell‛Uno' con quella (impostaci dall'esperienza) dei ‛molti'. L'originalità dell'idealismo italiano sta nel ricondurre questo problema al problema della ‛storia'. Una storia c'è, infatti, solo se gli avvenimenti sono legati in una qualche unità; ma, d'altro canto, l'unità pura (l'uno-uno del Parmenide) di per sé non dà luogo a storia. La storia è dunque la vera manifestazione dell'uno-molti platonico, il distendersi del Principio in una pluralità articolata, pur rimanendo unito a se stesso. Che a questa conclusione si giunga nella patria di Giambattista Vico, non meraviglia; tuttavia l'idealismo di Croce e di Gentile, anche se muove dal caratteristico platonismo della storia che aveva costituito l'originalità di Vico (la storia come manifestazione temporale delle idee e cioè, per Vico, delle intenzioni provvidenziali), va ben al di là: in Croce nega ogni trascendenza del disegno provvidenziale, in Gentile giunge a negare addirittura il platonismo delle idee, anche nel senso delle intenzioni provvidenziali vichiane, e diviene, paradossalmente, un idealismo senza le idee.
La ‛filosofia dello spirito' di Benedetto Croce (1866-1952), presentata nei tre volumi tra l'Estetica (1902) e la Filosofia della pratica (1909) - il quarto volume del ciclo, Teoria e storia della storiografia (1915), è uno sviluppo della Logica del 1909 - conserva all'Idea un contenuto proprio, irriducibile al contenuto della storia: ammette, infatti, quattro forme dell'attività spirituale, distinte secondo le quattro ‛categorie' dell'arte, della conoscenza concettuale, della volizione economica e della volizione etica. Tra queste quattro forme corre una ‛dialettica dei distinti' che dal Croce è chiamata col nome vichiano di ‟storia ideale eterna". La storia che corre nel tempo si svolge ‛secondo' questa dialettica, senza esserne la pura e semplice estrinsecazione, sicché il sistema delle forme conserva, apparentemente, una certa trascendenza essenziale (non esistenziale) rispetto agli eventi. Senonché a questa trascendenza dell'Idea rispetto alla storia l'idealismo del Croce, per un altro verso, resiste. Croce infatti nega che vi sia una filosofia (o conoscenza concettuale di forme) distinta dalla storiografia, e dice che l'unica vera filosofia è la conoscenza dell'universale concretamente individuato negli eventi particolari dell'arte, del sapere, della vita politica e morale, cioè della storia concreta. Attraverso successive precisazioni che il Croce fornisce al proprio pensiero e anche attraverso il modo in cui lo mette in pratica come critico (o, ciò che per lui è lo stesso, come storico), noi vediamo infatti che il suo interesse si appunta precisamente sulle ‛individuazioni' dell'universale, e che la stessa dialettica delle quattro forme, più che il sistema dell'Assoluto, è una ‛sistemazione' che il Croce propone con l'intento d'investire direttamente dell'unità dello Spirito la molteplicità degli eventi storici, e di fare di questi i veri portatori dell'Idea. È vero che, contro Gentile e la sua scuola, Croce non acconsentì mai a riconoscere come astratta la quadruplicità delle forme (cfr. per es. Panlogismo, misticismo e distinzione, in appendice a Il carattere della filosofia moderna, 1941): tuttavia questa quadruplicità (tutta legata, a partir dalla Logica del 1909, nella ‛circolarità dello spirito') va intesa più come un simbolo o come una cifra del concreto che come una struttura assoluta in se stessa.
Per quanto presentato come idealistico, perciò, l'immanentismo crociano tende a trovare l'Assoluto sul piano stesso dei ‛fatti': su un piano non troppo distante da quello a cui mirava il positivismo, dal Croce combattuto. La diversità è che nell'idealismo crociano i fatti sono fatti ‛storici', cioè legati in unità dalla spiritualità della storia, anziché dalla legalità della natura. Tuttavia, poiché l'aspirazione di Croce è di investire dello spirito assoluto ‛ciascun' fatto nella sua individualità, senza far posto a differenze di valore, un immanentismo siffatto appare, a ben vedere, più vicino al naturalismo che all'idealismo, fatta salva la storicità degli eventi (fuori della quale la natura sarebbe un'astrazione). E come naturalismo - sia pure naturalismo della storia - esso trova i suoi ascendenti veri nell'immanentismo naturalistico del Rinascimento italiano. La sua vicinanza al positivismo diviene impressionante, del resto, se si pensa che il positivismo italiano di R. Ardigò aveva anch'esso origini rinascimentali, assai più che ottocentesche; e che l'affermazione del Croce secondo cui ‟tutti i fatti sono fatti storici" non differisce essenzialmente da quella dell'Ardigò, secondo cui ‟tutti i fatti sono divini", poiché per il Croce essere ‛storico' significa, precisamente, essere ‛divino'. Tendendo a investire ciascun particolare della totalità dello spirito, il Croce non riconosce, se non come empiriche, differenze di valore (per esempio, tra un'opera d'arte e l'altra) e dà valore assoluto a ciascuna individualità (che non è per lui, da ultimo, individualità della persona, bensì dell'opera: ‟il vero soggetto della storia è il predicato"). Per questo anche nella ricerca critico-storiografica si ferma non meno volentieri sui cosiddetti ‛minori' che sui ‛maggiori', dato che tra essi, in linea di principio non riconosce nessuna differenza: ‟Dell'universale è da ripetere, come per il Dio cercato invano per tutta la serie dei finiti e ritrovato in ogni punto di essa, und Du bist ganz vor mir!" (v. Croce, 1915, p. 49).
Opposta la via battuta da Giovanni Gentile (1875-1943), anche se certe conseguenze vengono a coincidere. Il suo idealismo costituisce il punto d'arrivo d'una tradizione idealistica bimillenaria, rovesciata rispetto al suo punto di partenza platonico. Nell'idealismo di Gentile, infatti, scompaiono le ‛idee', e non ci sono più neppure ‛categorie' nel senso hegeliano o crociano della parola: tutte le distinzioni di contenuto cadono nell'astratto, e di concreto non c'è che l'‛atto' del pensare, lo ‛spirito come atto puro', di cui Gentile, nel 1916, ci dà la Teoria generale. L'‛altro' dal pensare, e cioè il ‛pensato', è bensì posto di necessità dallo spirito, nel senso che l'atto non puo ‛farsi' concretamente come pensiero senza pensare un pensato: ma codesto pensato può essere un oggetto qualsiasi, visto che serve solo perché il pensiero vi passi per ritornare dialetticamente su di sé. Il Gentile presenta ciò come una Riforma della dialettica hegeliana (1913), ma è chiaro che si tratta, piuttosto, di una sua negazione: la dialettica hegeliana era una serie di passaggi necessari tra un contenuto e l'altro, e questo, per il Gentile, è una ‛dialettica del pensato', un'astrazione: l'unica necessità, e quindi l'unica dialettica sempre identica, sta nel passaggio del pensiero attraverso ‛un' pensato (qualsiasi). Supporre un legame necessario tra pensati fa parte di quel (platonico) ‛mito dell'apodissi' che Gentile vuole scalzare. Le idee, al plurale, divengono così per Gentile qualcosa di astratto, e perciò di empirico: di ideale non rimane che l'‛atto'. Per questo abbiamo detto: idealismo senza le idee.
Anche la storia, come storia dello spirito, è storia dell'atto puro che pone via via se stesso (autoctisi) attraverso sempre nuovi pensati, senza tuttavia mai uscire, in concreto, dall'identità con sé. Gentile chiama questo processo ‟storia eterna" (lasciando cadere il termine ‛ideale' dalla vichiana ‟storia ideale eterna") e, paradossalmente, identifica in tutto e per tutto con questa storia eterna la storia che corre nel tempo: non solo molto più radicalmente di quanto facesse il Croce, ma anche con un sottinteso opposto: nel Croce l'identificazione (ancora imperfetta) andava a beneficio dei singoli eventi storici, investiti ciascuno di tutto il valore universale, mentre nel Gentile va a beneficio dell'unico atto sempre identico, della cui storia gli eventi singoli sono momenti. Il finito non è altro, insomma, che un luogo di passaggio dell'infinito, che attraverso di esso ‟corre e si fa", come il Dio di Scoto Eriugena. Con ciò l'idealismo gentiliano rivela le sue vere radici ‛gnostiche' (laddove l'idealismo crociano rivelava le sue vere radici naturalistiche): il finito, il pensato, la ‛carne' (come anche Gentile la chiama, con parola di San Paolo) è l'eterna caduta di Dio che, in essa, prende coscienza di sé. Sicché la ‛carne' come tale è sempre il male, pur essendo un momento dialettico necessario dello spirito, che è sempre il bene. Anche qui, di conseguenza, il ‛modo' in cui la carne si configura è indifferente, purché essa serva di termine dialettico al farsi dello spirito. L'astratto è necessario al concreto solo perché ‟l'Io senza oggetto è anch'esso un'astrazione" (v. Gentile, 1917-1921, vol. II, È 7, p. 24). E di questa indifferenza per il modo in cui l'oggetto si configura vi sono in Gentile innumerevoli esempi: per la Pedagogia (1912) il contenuto insegnato è solo un pretesto perché il discente ‟ritrovi se stesso nell'oggetto conosciuto"; per la Filosofia del diritto (1916) ‟il bene è l'atto della volontà", mentre la legge ormai fissata che lo lega è il male, che c'è solo in quanto è ‟risoluto e annientato nel bene"; e così via.
9. L'idealismo gnostico
Questi motivi gnostici dell'idealismo gentiliano si fanno prevalenti nella filosofia di Ugo Spirito (n. 1896) che, per quanto variabile nei suoi mezzi d'espressione, e pur cadendo ormai fuori dell'idealismo, mantiene sempre una sostanziale fedeltà al gentilianesimo. Specialmente nell'‛onnicentrismo' di La vita come amore (1953), si vede che il problema centrale, per Spirito, è il problema della salvezza, e che la salvezza sta nel ‛riconoscersi' salvi nel Tutto. A questo punto quella dimensione gnoseologica dell'idealismo, che era ancora così appariscente agli inizi del secolo, si rivela sempre più un bagaglio ereditato attraverso Kant e la successiva filosofia tedesca, ma estraneo agli interessi più profondi degli idealisti maggiori. Anche in P. Martinetti (1872-1943), se in un primo tempo sono appariscenti le tracce della sua formazione tedesca (v. Martinetti, 1904) e l'influsso della ‛filosofia dell'immanenza' di W. Schuppe (1836-1913), tosto l'interesse religioso sale in primo piano nel volume La libertà (1928) e nei saggi raccolti in Ragione e fede (1942). L'Introduzione alla metafisica contiene, nella sua parte centrale, una discussione di tutte le forme dell'idealismo, inteso come uno sforzo per superare il ‛realismo ingenuo' di chi pensa la realtà in sé e la realtà percepita come due serie parallele. Da ultimo l'idealismo è prospettato come una dottrina per cui la rappresentazione non è un semplice rispecchiamento soggettivo della realtà, bensì la realtà stessa. Ma l'intento metafisico di questo idealismo, solo apparentemente gnoseologico, è subito rivelato dall'assunto che ‟la coscienza comprende, in un tutto indivisibile, Dio e il mondo" (v. Martinetti, 1904, p. 134). La coscienza è dunque un'indicazione verso l'unità del Tutto, e il nostro compito è realizzare ‟questa unità che è la vera vita, universale ed eterna" (ibid., p. 409), l'‟identità di natura tra Dio e il mondo" (ibid., p. 475). Quanto alla libertà, l'opera del 1928 ci dice che essa esiste nella misura in cui l'identità col Tutto si realizza: codesta misura è in noi sempre imperfetta, perché l'aspirazione a identificarsi con il Tutto si trova sempre a lottare contro tendenze pragmatiche, contro una ‟razionalità schiava dell'impulso"; tuttavia, almeno nelle personalità superiori, essa basta a rivelare la nostra affinità con la realtà divina, ‟come partecipazione iniziale di natura" (ibid., p. 345). ‟Il Regno degli spiriti - dice un testo del 1933 - è la vita perfetta dello spirito nella sua eterna unità. In questa vita risiede la realtà assoluta" (v. Martinetti, 1942, p. 407).
Questo idealismo si svela, dunque, come uno spiritualismo di tipo gnostico-manicheo: il riconoscimento della nostra unità con Dio attraverso il contrasto tra lo spirito e l'apparenza della ‛carne' e cio che ci ‛manifesta' salvi: uno ‛spiritualismo' ancor più evidente che nelle sue fonti tedesche (E. von Hartmann, A. Spir).
10. Idealismo cristiano e ontologismo critico
Più classica la trattazione del problema dell'uno e dei molti nell'idealismo di B. Varisco (1850-1933), che pubblicò la sua opera principale (I massimi problemi) nel 1910 e, contro l'idealismo monistico, difese un idealismo pluralistico dei ‛centri di coscienza', analogamente a quanto aveva fatto in Inghilterra, per esempio, un McTaggart contro la linea di Bradley e di Bosanquet. Vi era, del resto, una comune radice nel Lotze, e questa affinità di problemi fece sì che la filosofia del Varisco avesse una certa risonanza in Inghilterra. Dopo lunghe esitazioni, dovute a un'esigenza di rigore metodologico, l'idealismo varischiano mise capo al teismo di un Dio-persona, che trascende i soggetti singoli, mentre questi sono immanenti in lui, poiché ‟non ci può essere nulla che non sia anche ipso facto nella coscienza del soggetto universale".
Più netta la rivendicazione della personalità del singolo in Augusto Guzzo (n. 1894), secondo il programma tracciato da Idealismo e cristianesimo (1936): universale è la ragione come forma, ma chi ‛fa uso' della ragione è sempre un io singolo e personale, non un soggetto unico trascendentale (v. Guzzo, 1947). Anche qui l'indagine gnoseologica è il punto di partenza, ma l'interesse ultimo è diverso: un interesse, essenzialmente, morale.
Un posto a sé nell'idealismo del Novecento occupa infine la Critica del concreto (1921) di P. Carabellese (1877-1948). Anche per lui, come per Gentile, l'‛idea' è assolutamente non pluralizzabile: ma, per poter arrivare a questo risultato occorre fare dell'idea non già un ‛atto puro' soggettivo, bensì l'‛oggetto' puro: l'unità e identità è nell'oggetto, in cui tutte le vedute soggettive coincidono, non nei soggetti, che non possono non essere plurimi. L'idea di cui parla il Carabellese è dunque l'‛idea teologica', o l'‛idea Dio' (dove il fatto che non si debba dire l'idea ‛di' Dio caratterizza quella particolare posizione di pensiero che si chiama ‛ontologismo'). Quanto al ‛concreto', questo si trova solo nell'‛intrinsecità' dei soggetti con l'oggetto, la quale non va pensata come un rapporto di altro con altro, ma come un'unica ‛compattezza'. Così quell'immanenza che i seguaci di Gentile (Fazio-Allmayer, Saitta, Spirito) cercavano, in quegli anni, in una radicalizzazione della tesi attualistica del maestro era trovata, paradossalmente, dal Carabellese in un suo rovesciamento: l'uno è l'oggetto.
11. La mente come esempio di unità concreta
Da quanto si è detto risulta chiaro che l'idealismo novecentesco - come ogni altro, del resto - è qualcosa di molto più complesso di ciò che G. E. Moore si illuse di confutare, all'inizio del nostro secolo, nella celebre Refutation of idealism (‟Mind", New Series, 1903, XII, pp. 433-453, poi in Philosophical studies, 1922). Esso non si riduce, cioè, ad affermare che gli oggetti comunemente considerati come ‛esterni' non esistono indipendentemente dalla nostra coscienza.
Il Moore ha, naturalmente, buon gioco nell'osservare che i contenuti di coscienza non sono ‛parti' della coscienza, e che questa non è mai chiusa solipsisticamente in sé, perchè già il semplice ‛aver sensazione' di qualcosa è un uscire dal cerchio della coscienza. Nessun idealista non solipsista direbbe qualcosa di diverso. Ma se, ciononostante, l'idealismo mette in questione l'indipendenza dell'oggetto dal pensiero che lo pensa, ciò avviene per una ragione più profonda e più generale. Il fatto è che per l'idealismo ‛in nessun caso' (quindi, solo a titolo di conseguenza, neppure nel caso particolare del rapporto conoscitivo) le cose relate sono indipendenti dal rapporto che ‛in concreto' le lega. Le relazioni possono bensì essere considerate astrattamente dalle cose relate, che, in tal caso, divengono indifferenti ad esse: ma codesta astrazione - legittima e necessaria, per esempio, nelle scienze - presuppone quel rapporto concreto da cui la relazione viene astratta. Ora, in tale rapporto concreto l'indifferenza dei termini alla relazione che li lega non sussiste più. Preso nel suo significato più generale, il modo di vedere idealistico è dunque un rifiuto di pensare che vi siano ‛anzitutto' cose isolate, o termini, o elementi affatto indipendenti l'uno dall'altro, e ‛poi' una loro relazione pensata dalla mente, o stabilita da un accostamento nello spazio, o data comunque da un incontro tra una cosa e l'altra. Le relazioni ci sono perché la pluralità delle cose si costituisce, anzitutto, all'interno di una fondamentale ‛unità', da cui lo stabilirsi di relazioni dipende. Se, ora, la conoscenza si considera come un ‛rapporto' (poniamo: tra il soggetto e l'oggetto; ma non è detto che questo modo di considerarla sia soddisfacente), ne viene che anche in questo caso le due entità relate non possono essere considerate come indipendenti l'una dall'altra, se non per astrazione. Questo caso particolare, tuttavia, non costituisce punto, da solo, tutto il problema dell'idealismo; e se nella filosofia moderna questo aspetto del problema passa sovente in primo piano, ciò avviene soprattutto perché la mente conoscente rappresenta un esempio di unità che non sopravviene alle cose relate, ma ne fonda la relazione. Infatti la molteplicità dei pensieri, delle sensazioni, in genere degli atti mentali, non sussiste indipendentemente dall'unità della mente pensante. Perciò l'idealismo, da Kant in poi, si fa forte dell'impossibilità di concepire la mente come un insieme di contenuti che ‛anzitutto' ci siano per conto loro e poi siano raccolti in unità: è chiaro che nessuna unità raccogliticcia sarebbe capace di costituire ciò che chiamiamo ‛mente' o ‛coscienza'. Prendiamo gli atomi di Democrito: questi possono aggregarsi, agganciarsi, formare composti dotati di proprietà diverse da quelle dei singoli componenti, ma nessuna di queste proprietà è pensabile come mente, coscienza o simili. Le proprietà della mente non sono, dunque, funzione delle proprietà dei suoi contenuti elementari (ammesso che riusciamo a isolarveli). Ma, sebbene il pensiero quale lo conosciamo abbia questo privilegio, di rappresentare un caso evidente, e afferrabile dall'interno, in cui la relazione tra i contenuti non si ‛aggiunge' ad essi, è chiaro che il pensiero del soggetto singolo non soddisfa assolutamente ai requisiti di un'unità concreta totale, antecedente alla pluralità delle cose in relazione. Infatti, appunto perché ‛singolo', il soggetto è ancora una delle entità in relazione con altre: con altri soggetti, o anche con cose che non hanno carattere di soggetto. Esso stesso, quindi, esige di essere ricompreso in un unità più grande, totale.
Il nostro pensiero, per l'idealismo contemporaneo, è solo un esempio, un mezzo per risalire a un'unità originaria che non s'identifica punto con quell'esempio che ci aiuta a concepirla. Quell'unità può, a volte, essere intesa come una sorta di ‛Soggetto unico', come un Supersoggetto, superiore ai singoli e identificabile col Dio personale: ma più spesso (come in Bradley) è pensata come un'unità non soggettiva, fino a giungere al caso limite dell'Idea carabellesiana, che è oggetto puro. Anzi, i soggetti singoli sono in certo modo d'impaccio per l'idealismo, data la loro tendenziale irriducibilità, che impedisce di ricomprenderli in un'unità assoluta: e appunto lo sforzo di superare questa difficoltà dà luogo, come abbiamo visto, a peculiari forme di idealismo monadistico (McTaggart, Varisco), o personalistico (Guzzo, Le Senne).
Queste varie forme d'idealismo, particolarmente sollecite di salvare le personalità singole, si trovano in polemica con quella che è la tendenza dell'idealismo in generale a subordinare (fino, al limite, a obliterarle) le singolarità plurime all'unità ideale. Se, infatti, si traessero le ultime conseguenze dalla supposizione che i singoli sussistano nel Tutto in modo analogo a quello in cui i pensieri esistono nella mente, è chiaro che l'indipendenza dei singoli verrebbe cancellata.
12. L'antitesi tra idealismo e meccanicismo
Il problema più generale dell'idealismo è dunque quello, ancora platonico, dell'‛uno' e dei ‛molti'. L'unità del Tutto è postulata per dare un fondamento alle relazioni tra gli enti, e l'assunto veramente essenziale dell'idealismo può formularsi così: impossibilità di concepire, salvo che per astrazione, una relazione del tutto ‛esterna' tra due cose qualsiasi. Vediamo di qui come la discussione sulla natura non relazionale dell'Assoluto, impiantata dal Bradley in Appearance and reality, sia stata determinante. I suoi effetti si ritrovano nella polemica, sviluppatasi su ‟Mind" nei primi due decenni del secolo, tra il seguace del Bradley, H. H. Joachim, e pensatori di indirizzo diverso (Hoernlé, Stout, Rogers, Wadia, ma soprattutto Russell e Moore). Il punto su cui l'incomprensione tra le due parti è più totale, ma anche più significativa, è precisamente la possibilità o impossibilità di una relazione esterna. A un cultore di logica come il Russell riesce del tutto inconcepibile trovare una qualche difficoltà nell'ipotesi che ‟lo stesso uomo possa essere nel medesimo tempo figlio di uno e fratello di un altro" (v. Russell, 1906, p. 531), ossia che un ente, restando ‛identico' a sé, entri in diverse relazioni. Infatti, se si guarda alla possibilità di pensare ciò astrattamente, la difficoltà non esiste, più di quanto esista nell'ipotesi che a>b e a〈c, essendo a sempre identico ad a. Il ‛nuovo realismo' di Russell e Moore è un'applicazione di ciò, perché consiste nel dire: dunque, un medesimo color verde, restando identico, può sussistere, sia per conto suo, sia in relazione con altre qualità, sia in relazione con i vari percipienti. Se, però, la relazione è considerata come un legame ‛reale', e non astrattamente pensato, la difficoltà di pensarla come totalmente esterna ai termini tra cui intercorre - cioè, tale che nei termini non vi sia nulla di diverso per il fatto di essere o no in relazione - è una difficoltà tutt'altro che fittizia. L'unica concezione della realtà che rimanga coerente con quella veduta è, probabilmente, l'atomismo di Democrito: qui, infatti, il movimento degli atomi, a cui si riduce ogni possibile mutamento di relazione, non porta nessuna differenza in ciò che ciascun atomo è in sé.
Si vede di qui che la vera opposizione di fondo, in tutta la filosofia, non è tra idealismo e realismo, bensì tra idealismo ed empirismo meccanicistico. Tale opposizione verte sul modo di concepire l'‛unità' tra il molteplice, e può formularsi così: per il meccanicismo le proprietà di una realtà complessa, presa globalmente, sono ‛funzione' delle proprietà degli elementi semplici che la compongono (ossia: ne dipendono interamente, anche se non sempre sappiamo come). Per l'idealismo, al contrario, l'esistenza stessa degli elementi, che entrano in una realtà complessa, è funzione del modo globale in cui la realtà si costituisce e si configura: quindi il Tutto è logicamente e ontologicamente anteriore agli elementi che vi si possono isolare.
Nell'atomismo antico l'opposizione al postulato fondamentale dell'idealismo si coglie con evidenza, perché ogni relazione consiste in un semplice ‛accostamento' di unità indivisibili, affatto indifferenti ai rapporti in cui si trovano. Poiché queste unità indivisibili (atomi) hanno certe proprietà geometriche, quali l'essere tondeggianti o il possedere uncini, da tali proprietà dipendono interamente le proprietà dei composti: ad esempio la fluidità (propria di insiemi di particelle senza uncini) o la coesione (propria di insiemi di particelle con uncini). Ma la sola vera unità reale è quella dei singoli elementi (atomi), non dei loro insiemi, la cui unità è ‛apparente'. Questa dottrina, rimasta sostanzialmente immutata in tutto il meccanicismo posteriore, era una risposta alla sfida di Protagora circa l'impossibilità di distinguere tra ciò che ‛appare' e ciò che ‛è'. Per Democrito l'apparenza è funzione di certe realtà da essa distinte (atomi nel vuoto), al cui essere in sé è del tutto indifferente il collegarsi, e quindi l'apparire, o non apparire.
L'idealismo nacque, con Platone, come una diversa risposta alla medesima sfida. Anche qui la realtà dell'idea si distingue dall'immediata apparenza sensibile, ma non perché sia un insieme di materiali dati, semplicemente accostati, bensì come un mondo unitario di forme, secondo cui il sensibile si configura. Nella misura, sempre imperfetta, in cui risponde a quelle forme o ‛idee', il sensibile ‛esiste', è ‛conoscibile' ed è ‛buono' (unum, verum, bonum). Si noti che la parola ἰδέα nel senso di ‛forma', era usata tanto da Democrito (ἄτομος ἰδέα) quanto da Platone; senonché nel primo designava la figura geometrica dei singoli elementi ‛materiali', nel secondo la ‛conformazione' globale di una situazione, che la rende più o meno conforme all'idea del Bene. In altri termini, per l'idealismo l'idea è una forma del Tutto, in funzione della quale sussistono le parti; per il meccanicismo, al contrario, la forma appartiene alle parti, come proprietà di elementi materiali dati, che antecedono alla composizione e la determinano.
I termini dell'antitesi non mutano nel corso dei secoli, sebbene raramente si mantengano puri come all'origine. Il punto è sempre quello: se la realtà sia concepibile come una composizione di elementi ai quali è indifferente entrare o no in composizione, o se, invece, gli elementi sussistano solo in funzione di un loro modo globale di configurarsi. Secondaria, per contro, la questione se tali elementi siano materiali in senso fisico o no; e, del resto, il concetto di materia fisica non è oggi lo stesso che ai tempi di Democrito, mentre identico è il concetto di ‛elemento dato' che entra in una composizione. Tale elemento è ‛materiale' nel senso che è il materiale del composto. Non per nulla, nel luogo citato, il Russell lamentava che nel libro del Joachim ‟ogni pagina presuma che tutti i costituenti di un complesso debbano essere complessi": questo assunto è effettivamente essenziale all'idealismo, perché esclude che si possa ottenere il complesso a partire da elementi semplici.
13. L'idealismo nella nuova scienza
Dopo la nascita della nuova scienza, idealismo ed empirismo meccanicistico ricompaiono e s'intrecciano, condizionando tutta la visione del mondo. Il meccanicismo ha dalla sua il vantaggio di non presupporre ‛cause finali' e, fin dove le sue spiegazioni giocano, va preferito. Se, però, si guarda allo sviluppo della scienza, ci si accorge che essa non si fonda mai su un meccanicismo esclusivo. Non sempre la scienza muove da dati per ricostruire, in funzione di essi, le proprietà dei complessi: spesso una vena idealistica più o meno espressa la porta a condizionare l'esistenza stessa dei dati a strutture globali e, in questo senso, ideali (esempio tipico: il concetto di ‛campo'). Ciò non sarebbe accaduto se l'esperienza ci permettesse una qualche volta d'incontrare gli atomi di Democrito, poiché, allora, ogni forma complessa diverrebbe funzione di quella del ‛dato' materiale, della ἄτομος ἰδέα.
Ma ciò non avvenne; anzi, il ‛semplice' rimase esso stesso un'‛idea', mentre l'esperienza ci metteva sempre di fronte a strutture complesse, aventi una ‛loro' forma. E la scienza torna ad essere idealistica nella misura in cui è scienza di tali strutture (espresse, in genere, da funzioni matematiche), dalle quali dipende la stessa esistenza ed esperibilità della materia. L'impostazione pitagorico-platonica, e quindi idealistica, presente nella scienza fin da Galileo, non esclude la tendenza meccanicistica, ma si equilibra e si compone con essa. Idealistica è la stessa scienza cartesiana, nonostante il suo meccanicismo e la prescrizione di spiegare tutto con soli ‛numero, figura e movimento' (abbandonando le ‛forme sostanziali' di tipo aristotelico). Infatti il ‛numero' degli elementi che entrano nella spiegazione meccanica cartesiana non è mai un ‛dato' primitivo e assoluto, poiché è funzione delle figure ritagliate nel tutto indivisibile dell'estensione: cioè, in sostanza, di proprietà ideali. Per Cartesio, infatti, la sostanza estesa è una sola, e i corpi vi si distinguono soltanto in funzione del movimento tra le figure.
Nel dinamismo settecentesco (per es., in R. Boscovich) l'aspetto idealistico della scienza cerca di affermarsi da solo, su un piano fisico oltre che metafisico, sebbene senza successo. La realtà ed esperibilità della materia dovrebbero dipendere interamente dai rapporti tra le forze (mentre nel meccanicismo le forze stesse presuppongono gli elementi materiali che muovono e che si urtano): ma questo assunto non riesce a dar conto dei fenomeni. E anche in seguito, fino ai giorni nostri, nessuna teoria scientifica soddisfacente ha potuto fondarsi su una concezione esclusivamente idealistica o esclusivamente meccanicistica del reale: tutte sono costrette a valersi di ‛entrambe' queste prospettive.
14. Fondamento antropomorfico dell'idealismo e del meccanicismo
Questo fatto trova una spiegazione che può illuminarci sull'origine essenziale (e non solo storica) dell'opposizione tra idealismo e meccanicismo. Entrambi hanno la loro radice nella nostra costituzione originaria, da cui dipende il modo in cui possiamo agire nella realtà d'esperienza. Noi operiamo, per un verso, meccanicamente, muovendo elementi materiali per mezzo di altri elementi materiali (in ultima analisi, per mezzo del nostro corpo). Per un altro verso, però, operiamo idealmente, ‛progettando' l'intenzione globale della nostra azione: e codesto progetto è, appunto, uno dei significati che popolarmente assume la parola ‛idea'. Ora il meccanicismo identifica la realtà col primo aspetto del nostro modo di operare (e, quindi, anche di scoprire come la realtà sia fatta), l'idealismo col secondo. Per l'idealismo, la disposizione e il movimento degli elementi materiali sussistono solo in funzione di un configurarsi ‛unitario' della realtà; e questo può intendersi per analogia con un progetto umano. Si ricordi, a questo proposito, la parabola con cui Platone critica il meccanicismo fisico di Anassagora nel Fedone (97 b - 98 c): la ragione per cui Socrate si trova in carcere non sono i movimenti dei suoi tendini e delle sue ossa, bensì il non aver ‛voluto' fuggire. Il principio unitario della realtà totale è pensato appunto dall'idealismo per analogia con un progetto intenzionale, che coordina gli elementi materiali di cui si serve; e tale analogia è adombrata da Platone in forma di mito, nella figura del Demiurgo (o ‛artigiano'). L'idealismo di tipo neoplatonico (plotiniano), anche per influsso di Aristotele, si libera bensì dell'antropomorfismo del progetto, ma non di quello della ‛finalità', sia pure concepita come finalità ‛interna'. In ogni caso il tutto è logicamente anteriore alle parti, e non dipende dalle parti medesime, quasi fossero elementi primitivi ‛dati'.
Sia il meccanicismo, sia l'idealismo sono, dunque, concezioni antropomorfiche della realtà, tratte dal modo di operare dell'uomo; ma, come nel modello umano nessuno dei due aspetti può stare senza l'altro, così nella concezione della realtà nessuna delle due concezioni può affermarsi come esclusiva: separata da ogni intenzione unitaria, l'azione meccanica sarebbe un'astrazione; ma senza qualche dato materiale su cui agire il progetto resterebbe un'‛idea', nel senso frustrante che a volte assume questa parola. Ecco perché una dialettica ineluttabile lega, logicamente e storicamente, l'idealismo al suo opposto.
15. L'idealismo in fisica e in matematica
Dopo quanto si è detto, è chiaro che un esame dell'efficacia che l'idealismo ha avuto nel nostro secolo non può restringersi alle filosofie idealistiche ex professo. L'idealismo s'incontra ovunque si ammetta che forma dat esse rei (per usare l'antico detto), cioè gli elementi materiali sono concepiti in funzione della forma globale e non viceversa. E questo avviene in tutte le scienze, a partire dalle scienze fisiche e dalle matematiche, ma sempre in tensione con la tendenza opposta.
In fisica l'esempio più cospicuo e più noto d'interpretazione idealistica della realtà è la teoria einsteiniana della relatività generale, dove la presenza delle masse materiali diviene una funzione di certe variabili di natura geometrica. Ma, sia questa, sia, ancor più, la successiva teoria del ‛campo unificato' non fanno altro che portare al limite una tendenza caratteristica di tutta la fisica contemporanea: interpretare il ‛concetto di sostanza' per mezzo del ‛concetto di funzione' (per usare i termini di E. Cassirer, v., 1910). Se questa tendenza potesse giungere fino in fondo, si dovrebbe concludere che ‛la realtà è una formula', o ‛la realtà è una funzione'. Ma tale tendenza se ne trova costantemente di fronte un'altra: reinterpretare a loro volta i dati che entrano nella formula come dati fisici, almeno provvisoriamente primitivi. Ed ecco allora (per fare un esempio), in sede d'interpretazione delle equazioni di Maxwell, l'affermazione che ‟deve pur esserci un soggetto del verbo ‛oscillare'"; ecco la ricerca di ‛particelle', almeno per il momento, ‛elementari', dalle cui proprietà dovrebbero dipendere le leggi fisiche espresse nella formula, ecc. Ora, codesta irriducibilità delle due posizioni si spiega se si pensa al modo in cui la verità fisica si può far ‛risultare'. Per un verso, non c'è dato che si presenti nell'esperienza come ‛puro' dato, e che quindi risulti, da sé, come primitivo, indipendentemente da un nostro progetto sperimentale complesso che lo ‛fa' risultare. Perciò noi ‛facciamo' (idealisticamente) l'esperienza. Ma, per un altro verso, non c'è nessun nostro progetto operativo - e sperimentale in particolare - che possa fare a meno di appoggiarsi a ‛dati' da considerarsi come provvisoriamente immutabili nel corso dell'operazione. Quindi la concezione idealistica della realtà fisica non potrà mai mancare, ma neppure potrà mai restare sola.
L'interessante è che le due tendenze si fronteggiano perfino nella matematica pura. Se noi guardiamo alla ricerca novecentesca sui fondamenti, vi troviamo da un lato un'impostazione ‛insiemistica' che presuppone gli individui da raccogliere in insiemi, poi in insiemi di insiemi, ecc.; dall'altro un'impostazione ‛assiomatica' in cui si stabiliscono, anzitutto, certe regole per la manipolazione dei segni e, in base ad esse, si costituiscono le entità matematiche. La prima impostazione può dirsi materialistica, la seconda formalistica e idealistica. Spesso si parla anche in matematica di ‛platonismo', come di una concezione che riferisce le matematiche a un mondo di enti ideali dati (alla mente) e da riconoscere così come sono. In realtà, questo dovrebbe dirsi piuttosto un ‛empirismo ideale', ed è più una caricatura di certe espressioni metaforiche di Platone che un'interpretazione corretta del suo idealismo, in cui l'idea appartiene al ‛mondo invisibile', perché è la norma secondo cui l'oggetto si configura, non essa stessa l'oggetto di un'esperienza, sia pure mentale.
Fedele, per contro, a un diverso tipo d'idealismo, questa volta kantiano, è la concezione della matematica detta intuizionistica, dove l'ente matematico si genera a partire dall'atto mentale che isola nell'esperienza un'unità, aggiungibile via via ad altre unità, in cui si fa astrazione dalle differenze individuali. L'aspetto idealistico ditale dottrina sta nel fatto che l'‛esistenza' degli enti matematici viene a dipendere dalla possibilità di ‛costruirli', attraverso una serie finita di passaggi, dove l'intuizione ha un carattere operativo, e non di registrazione passiva.
16. L'idealismo in psicologia, in sociologia, nell'informatica
Passando al campo della psicologia, troviamo nel nostro secolo una scuola che può dirsi tipicamente idealistica nel senso sopra dichiarato: la ‛psicologia della forma' (M. Wertheimer, W. Köhler, ecc.) che, in polemica con l'associazionismo e l'atomismo psichico, mostra come le proprietà percettive di molte figure complesse non siano funzione di quelle degli elementi che le compongono. E, in genere, tutte le ‛psicologie della totalità' rivelano una tendenza antimeccanicistica, rivendicando il carattere globale delle manifestazioni della vita psichica. Taluni (K. Lewin) hanno cercato di applicare principi analoghi anche alla psicologia sociale. Su un piano più metafisico, del resto, l'interpretazione dialettica dei fatti sociali e storici, presente nel cosiddetto ‛idealismo menscevizzante' di A. M. Deborin (1881-1963: caduto in disgrazia sotto lo stalinismo nel 1931), vuol essere appunto una scienza delle leggi e delle forme generali del mondo - in cui rientrano anche le forme dei fenomeni sociali - in polemica contro un'interpretazione meccanicistica del mondo storico.
Anche in una scienza sviluppatasi negli ultimi decenni, quale l'informatica, è presente una vena idealistica, a cui generalmente non si fa caso. Infatti, perché un messaggio (per es., una successione dei segni 0 e 1 presi in un certo ordine) costituisca un'‛informazione' occorre che esso sia colto globalmente e che il suo senso (quand'anche si trattasse, al limite, di un segno solo, non seguito da altri) sia, per dir così, ‛totalizzato': e ciò non può essere l'effetto di un'azione puramente meccanica di ciascun componente elementare, sommata a quella degli altri. Un insieme di elementi (e ‛elementi' significava, in origine, precisamente ‛lettere dell'alfabeto') costituisce un'informazione a patto di non essere accostato ‛solo' meccanicamente. Tutto lo scibile o, subordinatamente, un lungo poema e simili, possono esser trasmessi da una successione di 0 e di 1, ma sempre a patto che ciascun segno sia preso insieme con gli altri, e questo ‛insieme' è un rapporto tipicamente ‛ideale', che l'accostamento grafico o cronologico dei segni può simboleggiare, ma non costituire.
Anche l'interpretazione, così fortunata, di molti fenomeni biologici per mezzo della teoria dell'informazione introduce in biologia una vena idealistica che sfugge all'attenzione di molti scienziati. Per un verso si meccanizza lo ‛strumento' con cui l'informazione si trasmette, per esempio da cellula a cellula, ma per un altro verso se ne idealizza il risultato, presupponendo una capacità totalizzante, e pertanto non meccanica, nella cellula o nel vivente in generale. Interpretare un fenomeno come risultato di un'informazione è esattamente l'opposto che interpretarlo meccanicamente; e, infatti, in un mondo costituito esclusivamente da atomi di Democrito non vi sarebbe nessuna possibilità d'informazione nella ‛realtà' (cioè nei singoli atomi, immodificabili), ma solo nell'‛apparenza' (cioè in una inspiegabile apprensione globale di un insieme di atomi). Se, per esempio, attribuiamo all'informazione l'effetto che un telegramma ha sul comportamento di chi lo riceve, ciò avviene perché non siamo in grado di spiegare tale effetto meccanicamente, ma solo idealmente, cioè con il senso globale del testo del telegramma. Ciò non esclude, naturalmente, che sia necessario un mezzo meccanico di trasmissione del testo, anzi, lo esige. L'interessante è che si possano costruire anche macchine capaci di totalizzare il senso globale di un'informazione: il cui comportamento, cioè, non sia determinato meccanicamente dall'azione di un singolo elemento di un messaggio sommantesi a quella degli altri, bensì dall'insieme del messaggio medesimo. Ciò avviene perché la macchina, pur essendo interconnessa (per definizione) meccanicamente, incorpora in sé un ‛progetto unitario' e, come tale, ideale. A fondamento dell'unità del progetto di una macchina, e quindi della macchina stessa, si trova l'intenzione o l'‛idea' del suo funzionamento, in rapporto alla quale soltanto la macchina è una macchina (e non un accozzo di atomi).
Nell'informazione coesistono, dunque, i due aspetti che abbiamo più su rilevato in ogni operazione umana: l'aspetto ideale del senso o dell'intenzione unitaria, e l'aspetto meccanico degli elementi che si collegano variamente. Fin dalle origini, l'alfabetizzazione del linguaggio fu un mezzo per porre il secondo aspetto al servizio del primo: attraverso una successione di segni o di suoni, accostati in un determinato ordine, è possibile trasmettere qualsiasi contenuto ideale, ogni senso, ogni sentimento, ogni nozione, ecc., purché vi sia la capacità di prendere quegli elementi insieme, globalmente e ordinatamente.
17. Conclusione
L'idealismo non si riduce alle dottrine filosofiche ufficialmente qualificate come idealistiche: più generalmente, esso è la tendenza a considerare come preminente, in tutti i campi, il ‛modo' complessivo e unitario in cui la realtà si presenta, in contrasto con la tendenza empiristica a considerare come primario e assoluto il ‛dato', e a far dipendere dal suo comporsi meccanico con altri dati l'insieme reale. L'analogia con l'intenzione umana dà all'unità idealistica del reale il senso di un fine intrinseco, di un ‛valore' che subordina a sé e organizza tutti gli elementi molteplici di cui si serve per la propria realizzazione: senso che si trova anche nell'accezione comune della parola ‛ideale'. In ultima analisi, l'idealismo fa dipendere la realtà dal ‛valore', mentre l'empirismo la fa dipendere dal ‛fatto' o dal ‛dato'. A cagione della costituzione ontologica dell'uomo, entrambe le posizioni hanno una loro ragione da far valere: ma, nelle sue forme filosoficamente più consapevoli, l'idealismo tende a presentarsi come l'interpretazione ultima della realtà, assegnando alla realtà intera una radice unitaria che è essenzialmente valore. La formula più appropriata per esprimere questa posizione è, dunque, quella proposta dal Lachelier al termine della sua tesi Du fondement de l'induction: ‟Le cose sono, perché lo vogliono e perché lo meritano a un tempo" (v. Lachelier, 1933, vol. I, p. 81).
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