Ideologia
(XVIII, p. 706)
Fine dell'ideologia o crisi dell'utopia?
Negli ultimi decenni del Novecento si è molto parlato di 'morte', 'fine' o 'tramonto' dell'i. (cfr., per es., Bell 1960; Dahrendorf 1967; Cottier 1970; Colletti 1980), intendendo con ciò, di norma, la scomparsa di dottrine illusorie e interessate a sostegno e giustificazione di regimi o partiti politici, per lo più non democratici. Tale presunto tramonto è stato spesso interpretato in maniera ingenua, come se fosse finalmente cominciata l'epoca del disincanto, ossia come se fosse finalmente possibile vedere la realtà senza veli e senza nebbie. La fine delle i. si è però mostrata come l'ennesima reincarnazione dell'ideologia. Gli uomini infatti - animali desideranti, oltre che razionali - una volta scomparse determinate i. ne creano altre. E forse la peggiore i. è proprio quella che finge di non esistere. L'opera di demolizione critica, iniziata negli anni Sessanta con la rivalutazione dei 'maestri del sospetto' (Marx, Nietzsche e Freud), ha dato i suoi frutti acritici. Invece di vedere nell'i., alla maniera di alcuni antropologi, le "matrici per la creazione della coscienza collettiva", che compaiono allorché la tradizione ha perduto la sua forza di convinzione e la sua immediata credibilità (Geertz 1964), si vede in essa solo il lato dell'errore e dell'autoinganno.
Le dichiarazioni di morte (presunta) delle i. rappresentano peraltro storicamente il contraccolpo alla scomparsa dell'ultimo grande totalitarismo che ancora dominava su metà dell'Europa: quello comunista. Dopo la sconfitta dei fascismi nel 1945, con il crollo del muro di Berlino, la dissoluzione dell'Unione Sovietica e lo scioglimento del Patto di Varsavia, è sembrato ad alcuni che, assieme alla fine dell'i., fosse giunta anche l'ora della 'fine della storia'. Il dibattito sulla crisi delle i. si è così strettamente intrecciato a quello sulla chiusura della storia.
Propugnatore e profeta di tale dottrina è F. Fukuyama, un politologo americano di origine giapponese. Nel suo fortunato pamphlet The end of history and the last man (1991), egli riprende, attualizzandola, una tesi che A. Kojève aveva attribuito a Hegel, e cioè che questi, ispirato da Napoleone, avrebbe prefigurato la nascita di uno 'Stato universale' destinato a chiudere la lunga fase della 'lotta per il riconoscimento' tra gli uomini. In tal modo sarebbero stati tendenzialmente bloccati i due principali motori della negatività trasformatrice, la lotta e il lavoro. La storia, quale conflitto globale di violenta subordinazione e di riscossa, di separazione tra godimento e lavoro, si concluderebbe: "La Storia ha termine quando l'uomo non agisce più nel pieno senso della parola: ossia, non nega più, non trasforma più il dato naturale e sociale con una Lotta cruenta e un Lavoro creatore" (Kojève 1947; trad. it. 1991, p. 63). Fukuyama ha trasportato questa problematica kojeviana sul terreno del duplice, irresistibile trionfo - su scala mondiale - della democrazia sui totalitarismi e dell'economia di mercato sulle altre forme di produzione. La 'liberaldemocrazia' non avrebbe più avversari e il pianeta risulterebbe virtualmente unificato sotto la sua egida. Sembra di capire che la violenza continuerà a esistere, ma non presenterà più carattere antisistemico, di antagonismo totale, poiché vittime e persecutori, 'servi' e 'signori', condivideranno implicitamente gli stessi valori e saranno integrati nella stessa rete di interdipendenza globale. Per Fukuyama e altri studiosi intervenuti nel dibattito sulla cosiddetta posthistoire, la storia 'finisce' nel momento in cui tutti riconoscono tacitamente l'assenza di alternative totali, con la scomparsa cioè del proletariato come protagonista politico e con il venir meno della fiducia nell'avanzare del corso storico verso una meta unica e appagante (la 'società senza classi' o 'il regno della libertà').
A ben guardare, tuttavia, ciò che è finito non è la storia, ma una particolare ibridazione di storia e di utopia, prima nettamente separate. Le utopie erano infatti ubicate in remoti ambiti geografici - generalmente delle isole - che ospitavano una società perfetta. Per definizione, tali società erano però 'intrasportabili' e irrealizzabili nel nostro mondo. Servivano al massimo da pietra di paragone per giudicarne l'imperfezione. È solo nel Settecento, col romanzo di L.-S. Mercier, L'an 2440, che l'utopia geografica diventa utopia temporale, situando la società perfetta non più nella lontananza spaziale ma nel futuro. L'impossibile diventa allora possibile, l'utopia entra nella storia e la storia, a sua volta, acquista il carattere di processo di avvicinamento al fine utopico. Si configura cioè come lo spazio di tempo tra l'imperfetto oggi e il perfetto domani, che le teorie rivoluzionarie (dal giacobinismo al leninismo) cercheranno di colmare attraverso un itinerario che conduce dalla schiavitù alla liberazione dell'uomo.
Ciò che alla fine del 20° secolo è entrato in crisi è, dunque, l'alleanza tra storia e utopia. Non trova più conforto l'idea che una logica intrinseca agli eventi - spiegabile secondo suoi propri ritmi e principi - percorra la 'storia civile' fatta dagli uomini. La concezione della storia sembra perciò attualmente scindersi e biforcarsi di nuovo in due tronconi: nel ritorno della storia sacra, riproposta dai cosiddetti fondamentalismi, che rifiutano il progetto moderno di una storia tutta immanente; nel 'postmoderno', che registra la fine delle illusioni emancipatorie e della spinta propulsiva della modernità.
Il 'postmoderno', appunto, è una delle i. più note di questi ultimi tempi. Introdotto alla fine degli anni Settanta da J.-F. Lyotard, combatte le i., soprattutto marxiste, quali méta-récits, schemi estrapolati da "grandi narrazioni", da miti di emancipazione degli oppressi, i quali, dopo aver duramente lottato, rovesciano alla fine la loro condizione iniziale. Alcune di queste favole per adulti sorgono in età moderna in vista della legittimazione di autorità che - non affondando più le loro radici nel passato della tradizione - hanno bisogno di eroi collettivi che la rappresentino (classe operaia, rivoluzione o democrazia). Oggi, però, nella "condizione post-moderna", questi méta-récits hanno perso di credibilità (Lyotard 1979, trad. it. 1981, pp. 56-57).
Alle precedenti illusioni di emancipazione dell'uomo per mezzo dell'uomo, le dottrine postmoderne ormai diffuse in molti paesi sostituiscono oggi, talvolta, i. e aspettative esoteriche, note con il nome di New Age. In questa galassia di posizioni, dove spiccano quelle del guru C. Castaneda, il messaggio di salvezza risulta imperniato sulla convinzione che l'entrata del nostro pianeta nella costellazione dell'Acquario condurrà uomini e donne a una rinascita spirituale, capace di riscattare anche la dimensione corporea dell'esistenza e di soddisfare i desideri di miglioramento (Ferguson 1987; Ankerberg, Weldon 1996; Rawlinson 1997).
Il concetto di ideologia nel marxismo
La recente avversione nei confronti dell'i. rappresenta la conclusione di una parabola che ebbe inizio quasi due secoli fa e che vale la pena ripercorrere con gli occhi del presente, anche per sfuggire alla sostanziale povertà della discussione odierna. Questa ripropone infatti - generalmente con minor vigore - quanto è stato già detto. Passiamo dunque a esaminare le vicissitudini di questo concetto.
Il termine è relativamente moderno. Fu coniato nel 1796 da A.-L.-C. Destutt de Tracy in una lezione e poi ripreso e teorizzato in maniera più ampia nel 1801 e nel 1804. In quanto science des idées o sapere qui traite des idées ou perceptions, l'i. si inserisce esplicitamente nella tradizione della psicologia filosofica che, da Locke a Condillac, partendo dalle sensazioni, giunge appunto alle facoltà di pensare, giudicare, volere (Destutt de Tracy 1804). Tale concezione ebbe un peso considerevole non solo nel campo filosofico, ma anche in quello letterario (si pensi a Stendhal e a Manzoni). Napoleone, dapprima legato ai circoli degli idéologues (tanto che pensava di istituire in Egitto, nel corso della sua spedizione, un Institut simile a quello di Parigi, di cui era membro), ruppe con questi quando si accorse che si opponevano alla sua politica. Chiuse così la seconda classe (scienze morali e politiche) dell'Institut e trattò da visionari, "metafisici e fanatici" gli ideologi, accusandoli di propalare teorie astratte, senza alcun legame con i fatti e con la storia. Per una sorta di ironia, egli capovolse il significato attribuito all'i. dai suoi esponenti: nata proprio come voluta aderenza alla realtà dei sensi, come concezione antimetafisica interamente basata sull'esperienza, l'i. veniva così degradata ad astrusa fantasticheria.
Questa accezione negativa e deteriore del concetto di i., come distanza dalla realtà, resterà da allora dominante e verrà ripresa da Marx (in Die deutsche Ideologie, 1845-46) che la collega al modo con cui gli uomini - inseriti in determinati rapporti di produzione - si rappresentano la loro vita a seconda degli interessi, delle illusioni e delle aspettative che li orientano. La coscienza riflette in maniera distorta e spesso rovesciata l'"essere sociale", ossia, fondamentalmente, le condizioni materiali stesse di esistenza: "La coscienza non può mai essere qualcosa di diverso dall'essere cosciente, e l'essere degli uomini è il processo della loro vita. Se nell'intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti nella retina deriva dal loro immediato processo fisico" (K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca, in K. Marx, Opere, Roma 1972, 5° vol., p. 22). Per quanto falsi, questi effetti sono il risultato inevitabile dello scarto tra le forze produttive e i rapporti di produzione e, più tardi - nelle formulazioni di Marx - del conflitto tra la "base reale" e la "sovrastruttura" (giuridica, politica, religiosa, artistica e filosofica). Tale discrepanza tra interessi particolari e forme universali costituisce la "falsa coscienza" dell'i., che scambia inoltre la storicità di certe situazioni con una loro presunta naturalità extratemporale. Sono soprattutto le classi dominanti a presentare i loro interessi particolari nelle vesti di interesse generale, cosicché le idee della classe dominante tendono a diventare idee dominanti e a venir condivise, in posizione subalterna, anche dai dominati. Le classi dominanti non possono rinunciare all'i. senza perdere il loro 'slancio' economico. Infatti, se la borghesia non considerasse eterne le leggi del mercato o della proprietà privata, verrebbe meno la spinta all'accumulazione e cesserebbe la "missione civilizzatrice" del capitale.
Feuerbach e gli esponenti della Sinistra hegeliana secondo Marx ed Engels hanno compiuto una scoperta, ossia che "finora gli uomini si sono fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi debbono essere. In base alle loro idee di Dio, dell'uomo normale, ecc., essi hanno regolato i loro rapporti" (Marx, Engels, L'ideologia tedesca, p. 11). Soltanto che questi pensatori credono, erroneamente, di poter modificare tali concezioni capovolte del mondo (in base alle quali, per esempio, Dio, creatura dell'uomo, ne diviene il creatore), mostrando alla coscienza quale sia la verità. Non si rendono conto che, senza modificare le condizioni di esistenza - caratterizzate da bisogno, paura e insicurezza -, gli uomini continueranno a credere in Dio e nessuna spiegazione filosofica, per quanto 'vera', riuscirà a farli recedere da una simile falsa credenza. Quando, dunque, questi esponenti dell'"ideologia tedesca", questi "pecoroni che si credono lupi", combattono "una simile guerra filosofica contro i fantasmi della realtà", compiono un'insufficiente operazione di smascheramento, perché non colgono alla radice il fenomeno dell'i. e lo riducono a mera illusione, senza capire che, date certe premesse, simili illusioni risultano necessarie. Le illusioni ideologiche retroagiscono bensì sulla realtà, ma non sono, come dirà A. Gramsci, "la molla della storia" (Gramsci 1975, 1° vol., p. 436).
Sul terreno filosofico, l'intero idealismo appare come i. che capovolge la realtà, facendo della coscienza una 'mosca cocchiera', che guida l'essere sociale ignorando quindi la sua dipendenza da forze che spingono 'alle spalle': "Esattamente all'opposto di quanto accadrebbe nella filosofia tedesca, che discende dal cielo alla terra, qui si sale dalla terra al cielo [...]. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza" (Marx, Engels, L'ideologia tedesca, p. 22). Sebbene il rapporto tra essere sociale e coscienza o tra struttura e sovrastruttura appaia talvolta meccanico, l'apporto di Marx al problema dell'i. deriva proprio dal fatto di aver reso visibili condizionamenti in precedenza nascosti.
Il marxismo del Novecento contribuirà a diffondere la nozione di i., la quale subisce però significative torsioni. Così Lenin assegna un significato positivo all'i. (parla infatti di "ideologia socialista"), facendone un insieme di principi, argomentati o semplicemente creduti, che spingono le classi sociali all'azione. Gramsci, invece, nei Quaderni del carcere, cerca di sottrarre il concetto marxiano di i. alla mera dimensione polemica, di uso cioè esclusivamente rivolto contro gli avversari. Egli mostra così che - sebbene non abbiano mai posto esplicitamente in questione le proprie teorie - Marx e Engels hanno tuttavia intimamente concepito il loro stesso pensiero come condizionato, almeno in parte, dalle situazioni concrete in cui è stato elaborato: "Che la filosofia della prassi concepisca se stessa storicisticamente, come cioè una fase transitoria del pensiero filosofico, oltre che implicitamente da tutto il sistema, appare esplicitamente dalla nota tesi che lo sviluppo storico sarà caratterizzato a un certo punto dal passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Tutte le filosofie (i sistemi filosofici) finora esistite sono state la manifestazione delle intime contraddizioni da cui la società è stata lacerata. Ma ogni sistema filosofico a sé preso non è stato l'espressione cosciente di queste contraddizioni, poiché tale espressione poteva essere data solo dall'insieme dei sistemi filosofici in lotta tra loro. Ogni filosofo è, e non può non essere, convinto di esprimere l'unità dello spirito umano, cioè l'unità della storia e della natura; infatti, se una tale convinzione non fosse, gli uomini non opererebbero, non creerebbero nuova storia, cioè le filosofie non potrebbero diventare 'ideologie', non potrebbero nella pratica assumere la granitica compattezza fanatica delle 'credenze popolari' che assumono la stessa energia delle 'forze materiali'" (Gramsci 1975, 2° vol., p. 1487). Per questo l'idealismo è falso durante il "regno della necessità", in quanto attribuisce alla progettualità umana un potere che non ha ancora, ma può diventare vero nel futuro, quando gli uomini saranno effettivamente in grado di progettare le loro esistenze. Per contro, il materialismo, vero durante la lunga fase del regno della necessità, potrà diventare falso con l'avvento del "regno della libertà". Più in generale, le i. cementano determinati "blocchi sociali" e rappresentano idee filosofiche in grado di diventare forza trainante nella coscienza di moltitudini, al prezzo di semplificarsi e di corazzarsi di un dogmatismo difensivo od offensivo per resistere ai dubbi di chi le professa e alle obiezioni di chi le attacca. In questo senso esse costituiscono la "fase intermedia tra la filosofia e la pratica quotidiana" (p. 1433) o "l'aspetto di massa di ogni concezione filosofica" (p. 1242).
Ideologia e sociologia della conoscenza
Con V. Pareto e K. Mannheim la nozione di ideologia entra nella sfera dell'analisi sociologica. Pareto, che si serve raramente di tale termine, ne esamina tuttavia a lungo la sostanza nel Trattato di sociologia generale, dove il fenomeno è collegato alla forza di persuasione posseduta da istinti e sentimenti e - più particolarmente - a forme di ragionamento non scientifico, che cioè risultano lontane tanto dal controllo empirico quanto dalla correttezza logica. I "residui" e le "derivazioni", ossia i sentimenti che spingono all'azione e le spiegazioni pseudologiche, sofistiche, inconcludenti, ma che vengono credute, costituiscono le armi proprie dell'i. (Pareto 1916; ed. 1964, 1° vol., §§ 76, 870 e segg.; 2° vol., §§ 1400 e segg.).
In Ideologie und Utopie, Mannheim, usando la nozione di i. in maniera avalutativa, la inserisce invece nel contesto di una nuova disciplina, la "sociologia del sapere" o della conoscenza. In questa prospettiva, "la sociologia del sapere è strettamente congiunta, anche se sempre più se ne distingue, alla teoria dell'ideologia, che è emersa e si è sviluppata nel nostro tempo. Lo studio delle ideologie ha fatto suo il compito di smascherare gli inganni e le mistificazioni, più o meno consapevoli, che sono presenti negli interessi dei gruppi, in particolare dei partiti politici. La sociologia del sapere non si occupa delle menzogne che nascono da un deliberato sforzo di ingannare, quanto dei differenti modi in cui la realtà si rivela al soggetto in conseguenza della sua diversa posizione sociale. Infatti, le strutture mentali sono inevitabilmente confermate in maniera differente, a seconda dei vari stati sociali e storici" (Mannheim 1929; trad. it. 1957, p. 268). La teoria dell'i. si interessa quindi delle manifestazioni della coscienza incapace di accogliere in sé il nuovo ed è perciò costretta a servirsi di categorie superate e a usare forme di pensiero scorretto o falso. La sociologia del sapere tratta invece di conoscenze parziali che non dipendono da un'intenzione consapevole.
Mannheim distingue il concetto particolare di i., che si riferisce sul piano psicologico ad asserzioni specifiche e che confina con la semplice bugia, consapevole o inconsapevole, dal concetto totale di i., in cui risulta compromessa la struttura mentale del soggetto nella sua globalità. Solo quest'ultima costituisce l'oggetto della sociologia della conoscenza, la quale - scostandosi da ogni implicazione morale collegata all'idea di inganno - considera i modi di concepire la realtà in quanto determinati dalla posizione storico-sociale che il gruppo o il singolo occupano in un determinato periodo. Il concetto particolare di i. pone quindi in discussione la verità degli enunciati di un nostro avversario, considerandoli come "l'insieme delle contraffazioni più o meno deliberate di una situazione reale, all'esatta conoscenza della quale contrastano gli interessi di chi sostiene l'ideologia stessa. Queste deformazioni si manifestano in ogni modo, sotto forma di menzogne consapevoli e semicoscienti, di inganni calcolati o di autoillusioni" (p. 56). Il concetto totale di i. riguarda invece la globale "visione del mondo" di un gruppo umano, come una classe o un popolo: "Quando noi attribuiamo a una certa epoca storica un mondo intellettuale differente dal nostro, quando osserviamo che un qualunque gruppo storicamente determinato procede nelle sue decisioni con categorie dissimili da quelle che noi impieghiamo, allora ci troviamo di fronte non già a casi isolati, ma a sistemi di pensiero fondamentalmente divergenti e a tipi d'esperienza del tutto diversi" (p. 57). In entrambi i casi non si può o non si vuole comprendere la realtà e non si ha alcuna consapevolezza della Seinsgebundenheit des Denkens (dell'"ancoraggio del pensiero all'essere").
L'ideologia come 'mito'
Se con Mannheim il concetto di i. si intreccia con la sociologia della conoscenza, nei sistemi totalitari, soprattutto in quelli fascisti, esso si collega invece direttamente - sino a sconfinarvi - con l'idea di mito. All'origine di tale apparentamento si trova G. Sorel, che diventerà uno dei principali punti di riferimento di Mussolini. Il mito rappresenta per Sorel la "nuova metafisica" dei tempi moderni, che sostituisce quella vecchia (basata sul modello di una mente che, simile a uno specchio, riflette la reale struttura del mondo e dice quindi la verità). La nuova metafisica rifiuta l'idea di verità, in quanto il mito non è né vero né falso. È semplicemente efficace, dato che, funzionando, produce effetti. Sin dal saggio pubblicato nel 1894, L'ancienne et la nouvelle métaphysique, ma soprattutto negli anni tra il 1903 e il 1908, Sorel sviluppa il concetto secondo cui il mito, nella "nuova metafisica" dell'età moderna, è come una macchina, che cattura e articola in combinazioni sempre nuove le energie inconsce e le emozioni degli uomini per produrre azioni o movimenti. Con terminologia attuale si potrebbe dire che il mito è una macchina (che funziona al livello delle trasformazioni dell'immaginazione) il cui input è rappresentato dalle energie psichiche collettive e il cui output è dato dalle azioni.
Compito del mito (come quello della violenza o dello sciopero generale) è per il Sorel del periodo anteriore al 1914 l'abbattimento del capitalismo. A differenza dell'utopia, che presuppone pur sempre un controllo a posteriori della sua realizzazione, il mito non è ancorato ad alcuna prova di realtà o di coerenza logica, ma solo alla coerenza fantastica, al rispetto dei desideri di riscatto, delle passioni, delle aspirazioni e delle lotte delle moltitudini: "Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si raffigurano la loro prossima azione sotto forma di battaglie, da cui uscirà il trionfo della propria causa. Io proponevo di chiamar "miti" tali costruzioni, la cui comprensione è di così alta importanza per lo storico: in questo senso, lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica di Marx sono miti" (Sorel 1908; trad. it. 1970, pp. 73-74). Il mito è una costruzione della volontà, non dell'intelletto, "un insieme di immagini", che punta sulla "volontà di credere", sul rifiuto del dubbio e sulla produzione di un atto di fede. I miti si sottraggono così, per principio, a qualsiasi critica e discussione sulla propria verità e attuabilità. Diventano i. 'blindate', imperscrutabili, creature effimere dei capi. Questi sembrano talvolta aver coscienza del loro carattere strumentale, come quando lo stesso Hitler (stando a una testimonianza su cui esiste qualche dubbio) dichiarava di non credere al mito del 20° secolo, alla razza: "So bene anch'io come i vostri intellettuali, i vostri pozzi di scienza, che non esistono razze nel significato scientifico della parola. Ma voi, che siete un agricoltore e un allevatore, voi certamente siete costretto a basarvi sulla nozione di razza, senza la quale ogni allevamento sarebbe impossibile. Ebbene, io che sono un uomo politico, ho necessità anch'io di una nozione che mi consenta di infrangere un ordine radicato nel mondo e di contrapporre alla storia la distruzione della storia. Capite quel che intendo dire? Bisogna che io liberi il mondo dal suo storico passato [...]. Con la nozione di razza il nazionalsocialismo spingerà la sua rivoluzione fino alla fissazione di un ordine nuovo nel mondo" (H. Rauschning, Gespräche mit Hitler, New York 1940; trad. it. Milano 1945, pp. 255-56).
Il concetto di ideologia nella Scuola di Francoforte
In genere, però, è l'autoinganno, e non solo l'inganno, a caratterizzare l'ideologia. Solo credendoci, l'i. funziona. In questo senso, la cultura del Novecento si è sforzata di capire quali siano le ragioni che spingono milioni e milioni di uomini a credere all'incredibile. Così già G. Lukács, in Geschichte und Klassenbewusstsein, cerca di scoprire la realtà che condiziona la falsa coscienza, la quale è un momento della totalità storica a cui appartiene, cosicché bisogna cambiare la totalità per togliere la falsa coscienza: finché il capitalismo non tramonterà, ogni forma di coscienza, compresa quella del proletariato, resterà ideologica.
All'interno della Scuola di Francoforte M. Horkheimer, Th.W. Adorno e H. Marcuse fanno dell'i. un tema ricorrente di indagine. Essa appare al primo come una forma di "astinenza dalla realtà" (Horkheimer 1956, p. 176), mentre in Adorno l'i. finisce per identificarsi con la società, per diventare indistinguibile da essa, in una falsa coincidenza di soggetto e oggetto (Adorno 1955 e 1965). Per Marcuse, a sua volta, nelle società di capitalismo avanzato l'i. produce la "coscienza felice", ossia una falsa coscienza conciliata con se stessa, che ben si integra nella realtà sociale. In essa non soltanto le idee, le rappresentazioni e i sentimenti sono normalizzati, ma anche gli istinti. Anzi, è a partire dagli strati più profondi della personalità che avviene l'adeguamento all'esistente. L'"uomo a una dimensione" è l'animale ideologico del presente che - appiattitosi su ciò che è - ha perduto di vista quel che potrebbe diventare (Marcuse 1961 e 1964). Per J. Habermas, infine, l'i. in quanto trasfigurazione degli interessi particolari in interessi generali può sorgere solo con la nascita dell'"opinione pubblica", allorché l'autorità assume le vesti della ragione (Habermas 1962).
bibliografia
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