Il destino
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A Roma il destino è definito fatum, ossia “parola”. Si tratta di un termine derivato dal verbo fari, il quale indica una modalità del dire che ricopre la sfera della parola potente, efficace, capace cioè di modificare la realtà. Il destino si configura dunque come la “parola potente” pronunziata dalla divinità, che come tale definisce lo spazio di vita assegnato a ciascuno.
Contrariamente a ciò che potremmo aspettarci, la parola che usiamo per indicare l’immutabile corso degli eventi, ossia “destino”, non è latina. O meglio, i Romani possedevano sì un verbo destinare, che significava però “fissare”, “bloccare”: con esso si poteva indicare sia l’atto concreto di fissare qualcosa a qualcos’altro (per esempio una fune all’albero della nave) sia quello più astratto di prendere una decisione ferma e irremovibile. Il nostro “destino”, sviluppo romanzo del destinare latino, si radica dunque originariamente nel campo metaforico del fermare, del fissare, del legare. Al contrario, il “destino” dei Romani prendeva corpo nel territorio della parola.
In latino, infatti, questa nozione è espressa dal sostantivo fatum, ossia “parola”. Si tratta di un participio passato del verbo fari, “dire”, solo che non si tratta di un “dire” qualunque. Questo verbo è riservato alla parola dell’augure, del pretore, dell’indovino – insomma la modalità del fari è prerogativa solo di chi disponga di una parola efficace, capace di modificare la realtà. Il destino romano è dunque qualcosa che viene “detto” nella forma di una parola potente: un fatum che, a un tempo, enuncia e decide la sorte individuale. Ma chi pronunziava questa parola/destino?
Varrone, il grande erudito romano del I secolo a.C., non ha dubbi. Il locutore, anzi le locutrici della parola determinante sono le Parche (De lingua latina, 6, 7, 52): “Dato che le Parche assegnano con la parola (fando) ai fanciulli il loro ammontare di tempo, da ciò hanno avuto origine i termini ‘fato’ (fatum) e ‘avvenimenti fatali’(fatalia)”. Dunque la parola/fari delle Parche, quella che assegna la durata della vita ai nuovi nati, ne determina automaticamente il fatum. Ma in quale momento queste divinità avranno aperto la bocca per esercitare il loro potente fari?
A Roma le tre Parche si chiamano rispettivamente Nona, Decuma e Parca. Nomi abbastanza enigmatici, almeno a prima vista, diversi da quelli che le divinità del destino, le Moire, portavano in Grecia: Lachesis “colei che dà in sorte”, Clotho “la filatrice”, Atropos. La spiegazione dei nomi delle Parche ce la fornisce ancora Varrone (in Aulo Gellio, Noctes Atticae, 3, 16): “Gli antichi […] ai Tre Destini (Tria fata) diedero dei nomi derivanti dal partorire e dal nono e decimo mese. Infatti Parca [...] deriva da partus con il mutamento di una lettera, Nona e Decuma derivano dal parto a tempo giusto”. Dunque le tre Parche sono strettamente legate al momento del parto e della nascita: le prime due, Nona e Decuma, perché il corso del nono e del decimo mese, rispettivamente, sono ritenuti i periodi più naturali per la conclusione di una gravidanza; la terza, Parca, perché il suo stesso nome contiene la radice di pario “partorisco”. Dato che tutte e tre le Parche, ovvero i Tria fata, come anche si chiamano a Roma, portano nomi così strettamente connessi al mondo del parto, è dunque molto verisimile che tali divinità proferiscano la loro parola/destino proprio nel periodo intorno alla nascita del piccolo. Ecco dunque il neonato ricevere il suo verdetto: “parlando” (fando) le tre dee definiscono l’ammontare di tempo che viene assegnato all’essere umano una volta espulso dal ventre materno. Ma in che modo questo fatum, attribuito al nuovo nato, può essere portato a conoscenza di genitori e parenti?
Solo nel mito della nascita di Meleagro o in una fiaba dell’Europa medievale – le cui “Fate” sono una derivazione dei Fata romani – può accadere che queste creature soprannaturali si presentino al capezzale della partoriente: e le rivelino per filo e per segno ciò che di bene o di male attende il nuovo nato.
Nella realtà, possiamo aspettarci che questi fata sanciti dalle Parche, o da divinità come le Carmentes (altre divinità profetiche che, per i Romani, sono presenti alla nascita), assumano la forma di messaggi a carattere divinatorio, ossia “segni”. Da questo punto di vista Svetonio è un testimone di grande interesse. Nelle sue biografie, infatti, egli è sempre molto attento nel riportare gli “eventi” che si sarebbero verificati in concomitanza con la nascita dei vari cesari: tali eventi, infatti, sono ritenuti capaci di far conoscere in anticipo il destino di ciascuno. Ecco per esempio come si esprime a riguardo di Augusto (Vita di Augusto, 94): “non sarà fuor di proposito aggiungere alla narrazione anche gli eventi che si verificarono prima che lui nascesse, il giorno della sua nascita e nei giorni seguenti, tali da far presagire e comprendere la sua futura grandezza”. Il destino del principe si gioca dunque fra gli “eventi” che si verificano prima, durante e dopo la nascita da un lato, e il “significato” divinatorio che da essi può essere estratto dall’altro. Si tratta di quel complesso di segni divinatori – involontari o deliberatamente procurati, come l’oroscopo – tramite cui si costituisce una vera e propria “mappatura” del destino del nuovo nato: ciò che porta il nome tecnico di genitura.
Nel vasto campionario degli eventi/segni che si verificano in occasione della nascita, compaiono fulmini, prodigi o altri eventi soprannaturali, sogni, “voci” pronunziate involontariamente da qualcuno (omina), e così via; oppure comportamenti del neonato, tipo l’atto di “ridere” rivolto ai genitori; o inversamente, comportamenti dei genitori verso il neonato. Vediamo anzi ciò che Svetonio scrive a proposito della genitura di Nerone. Vi si parla dei presagi che si manifestano sia al momento della sua nascita, sia al momento del dies lustricus, il giorno, di poco susseguente alla nascita, in cui viene assegnato il nome al bambino (Vita di Nerone, 6): “Dato che tanti fecero subito molti e paurosi pronostici riguardo alla sua genitura, costituirono un presagio anche le parole pronunziate dal padre Domizio, il quale, mentre gli amici si congratulavano, negò che ‘da lui e da Agrippina potesse nascere qualcosa che non fosse detestabile e destinato a costituire un pubblico male’. Ci fu poi un altro segno evidente della futura infelicità di Nerone nel giorno del dies lustricus. Infatti quando la sorella si rivolse a Caligola, suo fratello, esortandolo a dare al bambino il nome che volesse, costui guardò verso Claudio, suo zio paterno, dal quale, divenuto in seguito imperatore, Nerone fu adottato, e disse: ‘Voglio dargli il suo suo nome’. Ma lui non parlava sul serio, e Agrippina fu sdegnata da quest’idea, perché a quel tempo Claudio era ancora considerato uno zimbello nella corte imperiale”. Come si vede, il fatum decretato al bambino tramite la “parola” pronunziata dalla divinità, si manifesta nella forma di “parole profetiche” – omina come le chiamavano i Romani – che qualcuno pronunzia senza rendersi conto del fatto che, attraverso la sua bocca, in realtà sta parlando la divinità: enunciando così il fatum (parola e destino) del nuovo nato.
Particolarmente interessante, dal nostro punto di vista, si presenta poi il fatto che – sempre in occasione della nascita – analoghi procedimenti divinatori vengono utilizzati anche per assegnare il “nome” al bambino. Il nomen rappresenta, infatti, l’identità personale di ognuno, il suo essere lui e non un altro – proprio come il fatum. Non può essere dunque un caso che entrambe queste dimensioni dell’individuo, così strettamente connesse fra loro, vengano determinate tramite procedure analoghe. I Romani sanno bene che, come dice Quintiliano, esiste un tipo di nomina assegnati ex casu nascentium “sulla base di circostanze fortuite relative alla nascita” (Istituzione oratoria, 1, 4, 25). Di particolare interesse però si presenta per noi la testimonianza di un poeta del IV secolo, Decimo Magno Ausonio (Parentalia, 11), allorché ci racconta il motivo per cui suo nipote aveva ricevuto il nomen di Pastor, “Pastore”. Siamo di nuovo alle prese con il casus, la circostanza fortuita. Al momento della nascita del nipotino, ci viene detto, si era udito il suono di un “flauto pastorale”, la qual cosa aveva spinto i genitori a chiamare Pastor il piccolo. Ma questo evento, proseguiva Ausonio, avrebbe dovuto anche essere un segno di vita breve (“si era capito tardi che ciò era un segno di vita breve”), perché quando si suona il flauto lo spiritus – insieme “soffio” del suonatore e soffio vitale – viene espulso dalle canne rapidamente. Come si vede, nella percezione di Ausonio e della sua cultura, l’omen vocale produce, nello stesso tempo, un nome proprio per il bambino e un segno divinatorio (colto solo a cose fatte, ovviamente) per conoscere in anticipo il suo destino.