Il Vesuvio al British Museum
Un lancio pubblicitario massiccio per una mostra che prometteva di essere un’esperienza unica. Pregi e difetti di un’esposizione che consente di ammirare i capolavori provenienti da Pompei ed Ercolano, ma che alla fine si è rivelata più scontata e meno innovativa del previsto.
Sarà «la più grande mostra degli ultimi 40 anni», «la prima che il British Museum dedica alle città vesuviane». Vi sembrerà di «stare all’interno di una casa romana o passeggiare in una via romana; scoprirete come ci si sentiva, cosa accadeva». È un messaggio semplice, quello lanciato a gran voce dal museo londinese già mesi prima dell’apertura il 28 marzo 2013 della mostra Life and death in Pompeii and Herculaneum (fino al 29 settembre). Un messaggio che parla a tutti, promettendo di rivelare i segreti delle vite della gente comune di 2000 anni fa, «gente come voi». E la gente ha risposto: biglietti esauriti con settimane d’anticipo. Anche grazie a un allestimento superbo e a pezzi veramente unici che hanno trascinato nell’entusiasmo persino i critici più esigenti e molti archeologi, felici di ammirare finalmente nel modo giusto quel che a Napoli, Pompei ed Ercolano è poco valorizzato o chiuso nei magazzini, come le batterie di pentole da cucina o i mobili in legno carbonizzato ercolanensi. In mostra però la panchina o la culla a dondolo, con quelle linee moderne eppure cariche di secoli, miravano solo a provocare nel pubblico le emozioni empatiche più profonde. E tutto, dalla cucina al giardino alla sala da pranzo, voleva mostrare la solita idea, intramontabile garanzia di successo, che in fondo i romani non erano molto diversi da noi. Per concludere coi consueti calchi dei corpi delle vittime dell’eruzione, persino il gruppo familiare trovato all’interno della Casa del Bracciale d’oro: «guardate, fissati per sempre, gli spasmi involontari dei corpi» ha commentato con fare morboso il curatore Paul Roberts in un’intervista televisiva. L’emozione è alle stelle, nell’atmosfera cupa e buia che rievoca l’eruzione. È un vero gran finale, anche se banale e scontato. Le critiche non sono mancate: si è parlato di mostra ‘poco ambiziosa’ o di ‘occasione mancata’ di presentare qualcosa di veramente nuovo. E invero le didascalie non aggiungevano molto all’emozione puntando all’essenziale, nel solco della tradizione divulgativa anglosassone. C’era però qualche tentativo di andare al di là dell’ovvio, come l’accenno al dibattito sulla vera data dell’eruzione del Vesuvio. Tuttavia il messaggio finale risultava così
semplicistico e riduttivo, da essere a volte persino fuorviante. Uno degli highlight della mostra era il celebre affresco del panettiere Terentius Neo con la moglie, ritratti con tavoletta, stilo e documenti alla mano. «Affiancati perché erano alla pari, nel lavoro come nella vita», si spiegava. «Tra i due, anzi, lei è più in evidenza, perché forse era proprio lei a gestire l’attività», lasciando intuire che la donna romana poteva godere di grande considerazione. E si aggiungeva la storia della ricca Eumachia che fece costruire a proprie spese l’edificio più importante del foro di Pompei, sorvolando però sul fatto che le donne romane non godevano di dignità giuridica e non erano dunque padrone di sé stesse. Anche il tema della schiavitù era trattato in modo ambiguo, puntando sulla possibilità che i romani concedevano a tutti, anche agli schiavi, di scalare i gradini della scala sociale, senza menzionare invece che gli schiavi non erano neppure considerati delle vere persone. E l’emozione di ammirare in mostra quanto i romani fossero ‘come noi’ faceva completamente scordare tutto ciò che li rendeva invece profondamente diversi da noi. Tutti temi affrontati peraltro con garbo nel bel catalogo, insolitamente scritto tutto da una sola persona, il curatore Paul Roberts. Ma la mostra ha puntato chiaramente su altro, per catturare le folle. E sarebbe oltremodo riduttivo e ingenuo colpevolizzarla per questo. In realtà, ha saputo magistralmente avvicinare molto il mondo anglosassone alla conoscenza di Pompei e della romanità in generale. Ha usato ogni mezzo possibile: dalla pubblicità tradizionale alle conferenze, dalle proiezioni di film e documentari alle cene al museo. Ha realizzato anche il film della mostra, Pompeii Live, distribuendolo in centinaia di sale nel Regno Unito. E che dire della canzone Pompeii, nostro tormentone per mesi, che il gruppo Bastille ha cantato dal vivo all’inaugurazione? Se guardiamo alla quantità e qualità dei pezzi esposti o all’efficacia dell’allestimento, quello londinese non può dirsi superiore ad altri grandi eventi su Pompei del passato, ma mai una mostra di archeologia aveva goduto di un’organizzazione così imponente e pervasiva. È giunta anche in un momento in cui la latinità gode di particolare fortuna tra i britannici, tra un sindaco di Londra, Boris Johnson, che parla in latino e impone lo studio dell’antica lingua nelle scuole, e classicisti come Mary Beard che sanno portare il mondo antico nelle case di tutti gli inglesi con libri bestseller, documentari di enorme successo, partecipazioni costanti a dibattiti radio e tivù. E forse tale fervore britannico per la latinità e una mostra così importante hanno giovato anche all’Italia, rilanciando in tutto il mondo il mito di Pompei che negli ultimi anni, per le note vicende, era ampiamente appannato.
Il British al cinema
Il 19 giugno in tutta la Gran Bretagna è stato proiettato Pompeii Live in circa 300 cinema. E non era un ulteriore film sulle vicende dell’antica città – il primo peplum del neonato cinema italiano fu proprio Gli ultimi giorni di Pompei (1908) di Arturo Ambrosio e Luigi Maggi –, bensì un viaggio in diretta nella mostra del British Museum di Londra. Un modo nuovo di fruire gli eventi museali che, pur facendo impensierire i puristi, ha avuto il pregio di coinvolgere un altissimo numero di persone altrimenti difficilmente raggiungibile, e rappresentare un note- vole trampolino pubblicitario per gli stessi scavi in Campania. Evento che è stato poi replicato in più di 1000 sale in tutto il mondo.
La possibilità di trasmettere in diretta dai musei con le nuove tecnologie digitali in alta definizione era già stata percorsa dalla National Gallery il 16 febbraio 2012 con Leonardo Live, un viaggio attraverso la vita e le opere di Leonardo da Vinci. Il successo ottenuto ha aperto la strada ad altri eventi simili: l’11 aprile 2013 Manet, ritratti di vita, dalla Royal Academy di Londra, il 27 giugno Munch dal Munch Museum & National Museum di Oslo e Vermeer e la musica, dalla National Gallery di Londra il 10 ottobre.
oltre 400.000
i visitatori della mostra al British. È il terzo maggior evento nella storia delle esposizioni del museo, dopo quello dei tesori di Tutankhamen (1972) e dell’esercito di terracotta cinese (2007).